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xii | prefazione |
bito ammaliassero gli occhi e i cuori degli spettatori, per la ricchezza, per la novità, per l’originalità.
Le vesti egizie, smaglianti, versicolori, delle Danaidi. I manti persiani anch’essi ricchi e fulgenti, dei vecchioni di Susa. I pepli svolazzanti delle supplici fanciulle di Tebe. Gli aerei veli delle Oceanine. Le lunghe tuniche elleniche dei vecchioni d’Argo, poggiati ai lunghi bastoni, quasi come favolosi animali di tre gambe. I bruni pepli delle Coefore. I vestiti delle Eumènidi, tanto orridi a vedere, che la leggenda favoleggiò di luttuose paure suscitate fra gli spettatori. Dunque un vivo, ricchissimo fregio. E un mobile fregio, che con le continue evoluzioni ritmiche, conteneva, separandoli dal pubblico, gli episodî scenici, come i rabeschi perenni che i flutti innumerabili compongono e scompongono al limite estremo della spiaggia, fra la terra e il mare infinito.
Questi coreuti entravano dunque, cantando e sfilando, lentissimi, su una melodia di ritmo anapestico, cioè di marcia. La sfilata era in genere lunga. Nell’Agamènnone, per esempio, di 63 versi, quasi tutti tetrametri trocaici — corrispondenti ciascuno a 4 battute di tempo 2/4. Siccome erano, dicemmo, di movimento lentissimo, anche supponendo che non fossero interrotti mai da pause occupate da semplici movimenti o da interludî strumentali, non potevano durare meno di 10 minuti.
Compiuta questa evoluzione — si chiamava pàrodos — che dunque doveva percorrere piú volte l’orchestra, i coreuti si aggruppavano d’intorno all’ara di Diòniso. E qui, compiendo una nuova serie di evoluzioni, di ritmo piú vario e piú ricco, cantavano una serie di strofe e di