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xxxviii prefazione

forma, col puro suono, all’infuori del contenuto. Ma aveva poi uno svantaggio assai maggiore. Un contrasto condotto secondo quella aderenza alla realtà che deve pure ritrovarsi a base di ogni forma d’arte, non comporta una serie di battute uguali rigorosamente l’una all’altra: ma le richiede ora uguali, ora disuguali, ora lunghe, ora brevi, ora brevissime e monosillabiche. Ma nella sticomitía, dovendo invece dare la medesima lunghezza a ciascuna botta e ciascuna risposta, i drammaturgi erano costretti a ricorrere a riempitivi che rimangono come inutile ripieno intorno alla effettiva ossatura del contrasto. Talvolta un personaggio dovrebbe rispondere solamente un monosillabo affermativo o negativo, levare solo un grido o un gemito. Ma con un grido o un gemito si occupa appena mezzo piede o un piede dei sei del trimetro giambico. Tutti gli altri il poeta deve quindi occuparli con parole superflue, con divagazioni che stemperano e snervano. E cosí avviene che il lettore moderno non iniziato, che legga una tragedia in una delle solite traduzioni, nelle quali la sticomitia è sparita, non si rende conto di tanti inciampi e di tante incongruità nella condotta del dialogo, e prova tedio, e biasima la minore accortezza del drammaturgo. Il tedio è sovente legittimo e ineliminabile. Il biasimo va temperato in questo senso, che il tragediografo era ben conscio anche lui di quegli inciampi e di quelle incongruità, e cercava anzi di appianarli e di temperarli. Modificarli radicalmente, non osava.

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E a questo punto, credo di poter abbandonare il lettore. Ché se poi alcuno, prima di accingersi alla lettura