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prefazione xxi


Un antichissimo vaso greco dipinto del Museo di Bologna rappresenta appunto un corteo bacchico. Aprono la via due donne, segue un toro, e dietro al toro altre due persone. Viene poi un carro a foggia di barca, tratto da due sileni, che compiono la funzione di cavalli. Sovra il carro è seduto ed avvolto in un gran mantello il nume Diòniso, dinanzi e dietro a lui, altri due satiri suonano il doppio flauto. A poppa del carro è collocata una specie di cesta, che conteneva gli arredi pel sacrificio. Chiudono il corteo un fanciullo affaccendato a sostenere la cesta, una matrona, un altro giovinetto.

Ecco dunque la cerimonia dionisiaca, il ditirambo. Quando il corteo sarà giunto alla mèta, verisimilmente all’aia di Diòniso, il toro verrà sacrificato, e i satiri intoneranno i rozzi loro canti in onore del Nume. Da questi rozzi canti ebbe origine la tragedia.

I monumenti dell'antichissima tragedia mancano assolutamente, le notizie indirette sono scarsissime. Ma anche nella loro scarsità offrono il mezzo di ricostruire con sicura induzione i principali momenti dello sviluppo per cui da queste umili origini si giunge alla solenne tragedia di Eschilo.

In un primo stadio si die’ forma stabile al coro di satiri, e si affidò ad essi, invece delle solite improvvisazioni, un canto già scritto in versi, che fu detto ditirambo (Suida in Arione). Suida attribuisce questa novità ad Arione che perciò sarebbe stato salutato inventore della tragedia. Ma s’intende che i nomi importano poco.

Questi primi canti, d’indole lirica, erano composti, sull esempio della lirica corale che veniva fiorendo per