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prefazione xxxi

neppur l’ombra, esclameremo anche noi, come quell’antico spettatore deluso.

Ora, io ho le mie brave ragioni per non ammirare troppo queste famose scoperte. Ma anche i piú convinti loro zelatori devono ammettere che sono sempre ipotesi. E allora, per accogliere ipotesi, e supponiamole pure abbastanza ben fondate, converrà sbalzar di seggio la testimonianza d’un uomo di genio, che ebbe sott’occhio una copia immensa di documenti? Ma, si obietta, le nuove ipotesi spiegano alcuni caratteri della tragedia che rimangono inesplicati a chi segua la testimonianza aristotelica. Ah, no davvero, signori miei! Quando mi venite a dire che il carattere della tragedia «è determinato da un senso religioso, ma non da un senso religioso dioninisiaco», io vi accoppio con quell’eroe d’una favoletta tedesca che andava a sentir crescere l’erba. Il senso religioso dionisiaco — si obiettò pure,1 — avrebbe dato luogo a piú libere forme» — E chi lo dice? Le creature dell’arte, al pari degli uomini, nascono come possono, e arrivano dove meno si crede. Il tragico ditirambo originario rinchiudeva in sè due germi: uno tragico, l’altro comico, Il comico, a poco a poco, avvizzí, l’altro crebbe, divenne arbusto ed albero fronzuto. Non potrei giurare che avvenisse proprio cosí, ma non c’è nulla d’inverosimile. E finchè la inverisimiglianza non sia ben provata, non c’è proprio ragione di spengere, in tanta oscurità, l’unico raggio di luce: Aristotele.


  1. Camillo Cessi, Il dramma greco in «Rassegna Italiana di Scienze e letterature classiche», 1919, pag. 47 sg.