Storia di Torino (vol 2)/Libro IV/Capo III
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Capo Terzo
La seconda isola a sinistra è occupala tutta intera dalla R. Università degli studi. Vittorio Amedeo ii, il quale mentre conosceva al pari di qualsivoglia mercatante il valor delle cose e il governo del danaro, non avea poi nelle opere che imprendeva niun concetto che regio veramente non fosse, e sapeva che bene speso è il danaro che ne’ pubblici monumenti s’impiega, costrusse all’insegnamento questa nuova splendida sede, togliendolo alle strettezze ed alla oscurità del portone che è di fronte a San Rocco. In marzo del 1715 si cominciò a demolire la fabbrica imperfetta che apparteneva al misuratore Martinotlo; e addì 29 di maggio fu posta la prima pietra del novello edifìzio all’angolo verso casa Castelli, nella via di Po, celebrando il santo sacrificio della messa il curato di San Giovanni (era sede vacante). Poco di poi si costrusse, sui disegni dell’architetto Ricca, il vasto palazzo con ampio cortile cinto lutto all’intorno di portici e di logge a due piani.
Non la sola sede materiale dell’insegnamento, ma il corpo insegnante rinnovò quel savio principe. Le varie provincie d’Italia e la Francia spedirongli lettori degni dell’antica fama dello studio torinese.
L’abate Francesco Rencini di Malta, già da trent’anni professore di teologia nel collegio urbano di Propaganda in Roma, ebbe la scuola di Dogmatica; il canonico Giuseppe Pasini di Padova, quella di Sacra Scrittura e lingua ebraica; il padre Pietro Severac di Tolosa, de’ predicatori, quella di Storia teologica. In medicina era famoso il torinese Giovanni Fantoni; egli ebbe dunque la prima cattedra; ne meno famoso fu il professore di chirurgia Pietro Simone Rohault di Parigi, notissimo pel suo Trattato delle ferite al capo. La cattedra di matematica ebbe l’abate Ercole Corazzi di Bologna, monaco Olivetano. Rettorica, ossia eloquenza e lingua greca, insegnò Bernardo Lama, napolitano. Dopo questi primi restauratori delle scienze appresso a noi, che con ottimo consiglio andò Vittorio Amedeo cercando anche fra gli stranieri, se tali possono dirsi gli alti intelletti che, creati da Dio per beneficio universale, sono cittadini del mondo, lunga serie di chiari uomini illustrò le cattedre della nostra Università; fra i quali basterà ricordare Sigismondo Giacinto Gerdil, Casto Innocenzo Ansaldi, Mario Campiani, Giuseppe Cridis, Vitaliano Donati, Gianfrancesco Cigna, Ambrogio Bertrandi, Carlo Allione, Giambattista Balbis, Ludovico Rolando, Lorenzo Martini, Giambattista Beccaria, Giovanni Antonio Giobert, Francesco Domenico Michelolti, Giorgio Bidone, Girolamo Tagliazucchi, Giuseppe Bartoli, Tommaso Valperga di Caluso, Giuseppe Vernazza, Carlo Denina, Giuseppe Biamonti, Carlo Boucheron.
Il commendatore e mastro auditore D. Giovanni Antonio Rogero avea legato alla città di Torino ducatoni 2ꞁm. onde fondare una biblioteca pubblica. La città comprava la biblioteca dell’avvocalo Giovanni Michele Perrini, e la collocava in una delle sale dello studio avanti San Rocco, e ne affidò la cura nell’anno 1714 al padre Pietro Paolo Quaglino, agostiniano. Crebbe negli anni seguenti per doni e per compre, finche nel 1723 il Re, desiderando che nell’edifìcio della nuova università si fondasse una pubblica biblioteca, donò diecimila volumi della sua privata libreria, e vi fe’ trasferir quelli della città. Tali furono le prime origini della biblioteca della Regia Università, or tanto ricca e di libri rari, e di preziosi manoscritti, dove bel nome di se lasciarono i prefetti abate Pasini, barone Vernazza, e quel Giuseppe Bessone, uomo di vasta erudizione, di pronto ingegno, di puri e dolci costumi, di cuore ad ogni bisogno del suo simile largamente e rapidamente soccorrevole, la cui virtuosa memoria non può essere oscurata nò con accuse palesi, ne con reticenze fallaci.
Inestimabile è l’amore con cui la Maestà del Re Carlo Alberto promuove l’aumento di questa Università, prezioso deposito dell’umano sapere; e lunga narrazione sarebbe il discorrere lutto ciò che si è fatto e si fa. Dio lo serbi lungamente in questa santa intenzione, poichè se s’instituisce paragone fra le nostre università d’Italia ed alcuna delle più famose di Germania, è lieve lo scorgere il molto che resta da fare; e conviene assolutamente che questa terra, in cui viva e gagliarda si conserva l’impronta della nazionalità italiana, la possa e l’onor dell’armi cittadine, Paura che feconda e nudrisce la sacra favilla degli ingegni, la preminenza degli studi più virili e più generosi, il forte sentire e ’I forte operare, la volontà che s’innerva fra gli ostacoli, e sa infrenarsi e durarla per vincere, conviene, dico assolutamente, che questa terra divenga esempio all’Italia, così di civili ordinamenti, come d’ottima educazione religiosa, civile e letteraria.
Scendendo questa strada, la prima chiesa che si incontra è quella di San Francesco di Paola, e che fu de’ Minimi, coll’annesso convento.
Questi frati erano già introdotti a Torino nel 1627, e si trattava d’edificare loro una chiesa al Valentino.1 Cinque anni dopo la chiesa era costrutta nel sito in cui ora si vede per munificenza di Maria Cristina.2 Accadde allora un caso che trafisse il cuore di tutti i buoni. Levavasi innanzi alla chiesa una gran croce. Una mattina trovossi per mani scellerate abbattuta, ed appeso il titolo della medesima alle colonne della forca.3 La città gareggiò coi principi in divole espiazioni per quell’oltraggio.
Se la fabbrica della chiesa era a un dipresso compiuta nel 1634, assai tempo e danaro fu ancora impiegato nello abbellirla ed arricchirla, e dotarla di ricche suppellettili, nel che instancabile veramente fu la liberalità di Madama Reale e di Carlo Emmamiele ii. Anzi, quest’ultimo nel 1651 essendo caduto nel fiume Po, e correndo gran rischio d’annegarsi, fe’ voto di donare al convento di San Francesco di Paola mille ducatoni, se campava la vita. E così fu.4
Continuava la fabbrica negli anni 1675, 1676, e quattr’anni dopo s’ampliava il noviziato.
Questa chiesa è graziosa, e di marmi finissimi ingentilita. La tavola dell’altare maggiore col santo in gloria, e nel piano Francesco Giacinto di Savoia e Carlo Emmanuele n sono di mano del cavaliere Delfino, che dipinse ancora i due laterali, nell’uno de’ quali vedesi Luigia di Savoia, duchessa d’Angoulème a’ piedi di S. Francesco, pregandolo d’ottenerle da Dio grazia di prole mascolina. È noto che fu poi madre di Francesco i.
La prima cappella che segue dal lato del Vangelo, colla statua in marmo di Nostra Signora ausiliatrice fu eretta dal principe Maurizio di Savoia. Il cuor del medesimo, e le interiora di Ludovica di Savoia, sua moglie, sono sepolti sotto al gradino dell’altare. Sulle due porte laterali sono scolpiti in bassorilievo i loro ritratti. La terza cappella intitolata a Sta Genoveffa venne fondata dalla regina Anna d’Orleans, moglie di Vittorio Amedeo ii. La tavola è del cavaliere Daniele Seyter di Vienna, pittor di corte, morto in Torino nel 1710, e sepolto a San Dalmazzo. Egli fu, come varii tra’ più celebri suoi predecessori e successori, decorato della croce di S. Maurizio. Glie ne fu dato l’abito il 9 d’aprile 1697. A Giovanni Miele di Bolduc era stato dato il 10 marzo 1665. Aveano avuto il medesimo onore lo storico Samuele Guichenon a’ 6 di gennaio 1657, il poeta Fulvio Testi il 10 d’agosto 1619.5 Nella cappella della Trinità, di patronato dei Morozzi, la tavola è di Sebastiano Taricco da Cherasco; hannovi inoltre due monumenti sepolcrali, del marchese Francesco Morozzo, ambasciadore in Francia, e del marchese Carlo Filippo Morozzo, gran cancelliere.
La cappella di San Michele, propria de’ marchesi Graneri della Roccia, fu terminata nel 1699, per cura di Marc’Antonio Graneri, abate d’Entremont, che di quell’anno comandava, per suo testamento, si dipingesse il quadro che doveva esservi collocato. Lo dipinse Stefano Maria Legnani. Apparteneva ai marchesi Graneri anche la tribuna allato all’altar maggiore. La cappella della Concezione era di patronato dei marchesi Carron di S. Tommaso, dai quali passò teste nei marchesi Bensi di Cavorre. Il quadro è del cavaliere Giovanni Peruzzini di Pesaro, che dipingeva nello stile caraccesco. Nel coro i due ovali del divin Salvatore e della Beata Vergine, e gli Apostoli che si vedono nella sagrestia, furono dipinti da Bartolomeo Guidoboni da Savona; di sua mano sono anche gli affreschi che ancor si vedono nei chiostri del convento, tranne la Crocifissione sul pianerottolo dello scalone, dipinta bensì dal Guidoboni, ma rifatta modernamente.
Fra le iscrizioni sepolcrali rammenteremo in primo luogo quella di Tommaso Carloni, al cui scalpello sono dovute le statue, il pulpito e le altre scolture di questa chiesa, morto il 1° aprile 1667; quella del conte Orazio Provana, ministro al congresso di Nimega, ambasciadore a Roma e a Parigi, morto nel 1697; quella del marchese Tommaso Graneri, presidente delle Finanze, ministro di Stato, morto nel 1698; quella di Maurizio Guibert di Nizza, famoso ingegnere, il quale si segnalò in Francia, nel Belgio, e neirisola di Creta e di Malta, morto nel 1688;6 finalmente quella onoraria del celebre matematico Giorgio Bidone, il cui corpo è sepolto al Campo Santo.
Fra le tombe de’ religiosi sotto al coro, si vede quella del sacerdote Gian Francesco Marchini, vercellese, professore di Sacra Scrittura e di lingue orientali nell’Università di Torino, morto nel 1774.
In questa chiesa il professore d’eloquenza latina Gian Bernardo Vigo, addì 2 luglio 1758, fe’ tenere da’ suoi scolari un esercizio accademico in versi latini: De Bethulia per Judith liberata.7 I Minimi non sono stati ristabiliti. La chiesa è dal 1801 parrocchiale. Nel convento sono le scuole, ed i laboratorii di chimica, e l’accademia di Belle Arti. Uno de’ Minimi che fiorivano al tempo della soppressione, il padre Lazzaro Piano, scrisse due volumi di eruditi Commentarli sopra la Santissima Sindone.
Lo Spedale di Carità che s’incontra nella terza isola a sinistra, in un sito ov’era ai tempi d’Emmanuele Filiberto la posta de’ cavalli, ed ove poi fu una casa di delizia di D. Amedeo di Savoia, richiama una questione molto agitata intorno alla giustizia e convenienza d’abolire la mendicità. La società civile non essendo veramente che una ordinata distribuzione di lavoro, è dunque principio sociale che tutti debbano lavorare. Ed è ciò tanto vero, che quelli che chiamansi ricchi, e vivono talvolta oziosi del provento delle loro possessioni, non campano d’altro che del prodotto di lavori anteriori, di cui si sono renduti consolidatarii.
I mendicanti non lavorano e non hanno credito di lavori anteriori con cui campare.
Essi dividonsi in tre classi: quei che non possono lavorare; quelli che possono e vogliono, ma non trovano lavoro, e quei che possono e non vogliono lavorare.
In quanto ai poveri delle due prime classi, è debito della società di soccorrerli. E ciò che più monta, è caro precetto della carità cristiana, le cui sante massime sono sempre, a considerarle anche solo dal lato umano, le più prudenti, le più sicure, le più eminentemente sociali.
Nel soccorrerli la società ha la scelta de’ mezzi più acconci, può ordinare soccorsi individuali, e soccorsi collettivi, aiutarli nelle loro case od albergarli in un ospizio con certe regole, sì veramente che ad ogni cosa presieda la carila, e l’ospizio non si muti in prigione.
In quanto ai mendicanti validi, sono essi in islato permanente di rivolta verso la società; essi vogliono godere de’ benefizii sociali, senza sentirne i pesi; ciò che strappano di mano ai benefattori, che non hanno tempo o modo di considerare a cui son corlesi, è vera truffa. Contro questi tali dagli imperatori romani fino a noi, la società si è armata di qualche rigore per costringerli a lavorare. E ciò ha fatto e fa giustamente; e non è che per fallacia d’argomentazioni, per confusione de’ poveri validi, coi veri poveri; dei poveri per mestiere, coi poveri per necessità; dell’obbligo d’amare e di nudrire i poveri, con quello d’alimentar l’ozio e la mendicità; che taluno si sforza d’arrivare a conclusioni contrarie, immemore di quello che scrive S. Paolo ai Tessalonicensi: «Imu perocché voi sapete, scrive il grande Apostolo, in qual modo vi convenga imitar noi: i quali non siamo stati in mezzo a voi d’alcun disturbo; nè abbiam mangiato oziosamente il pane d’alcuna persona; ma sì lavorando, e faticando giorno e notte onde non esser d’aggravio a nissuno: e quando eravamo in mezzo a voi, sempre v’abbiam protestato: che chi non vuol lavorare non mangi (Hoc denunciabamus vobis: quoniam si quis non vult operavi, nec manducet).»
Diffatto, i nostri vecchi si pensarono di obbedire al Vangelo, e d’esercitare ad un tempo un diritto ed un dovere sociale, procurando l’abolizione, non della povertà (che impossibile sarebbe), ma della mendicità, collo instituire ospizii, dove i poveri che possono lavorare, lavorino; e quei che non possono, sieno caritatevolmente nudriti.
Negli ultimi anni del regno d’Emmanuele Filiberto alcuni uomini principali della tanto benemerita, e tanto sapientemente e cristianamente operativa Compagnia di S. Paolo, congiuntisi con altri virtuosi cittadini, formarono una pia unione che intitolarono della Carità, e costr ussero una casa nel borgo di Po, presso al sito ove ora son le Rosine, che chiamarono Albergo di Carità, dove i mendichi inabili al lavoro fossero ospitati e pasciuti, e gli altri apprendesser quell’arte che meglio a ciascuno tornava. Quest’ultima parte fu per altro la sola che poterono per allora avviare, e si distinse poi col nome di Albergo di Virtù, e l’ospizio de’ non abili al lavoro, lo Spedale di Carità, rimase per qualche tempo nella condizione di desiderio e di progetto. Molte agiate ed industri famiglie milanesi erano venute ad abitar Torino, trattevi dal prudente e regolato governo di Emmanuele Filiberto,8 le quali avendo nella mente l’idea del vasto spedai di Milano, procuravano a tutto potere d’introdurre un simile stabilimento a Torino. Questo pensiero sorrideva pure a Carlo Emmanuele i, il quale fin dal 1583 dichiarava di voler fondare uno spedale sotto al titolo dell’Annunziata pel ricovero dei mendicanti; ma perchè sopravvennero di poi casi di guerra e pestilenze che intorbidarono quel pio disegno, non potè il medesimo avere esecuzione fino all’anno 1628. Frattanto non mancò il principe ad istanza della città di provvedere a raffrenar la turba de’ mendicanti che invadeva le chiese e disturbava i divini uffici; sicchè fu mestieri di cacciarli a gran colpi di frusta, e con minacce di più severo gastigo.
Ma nell’anno 1628 si provvide di rimedio più opportuno. Il duca eresse lo Spedale della Carità, lo unì con quello dell’ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro, e lo collocò nello spedai di S. Lazzaro al di là della Dora. Comandò poi a tutti i mendicanti di radunarsi il 2 d’aprile, quarta domenica di quaresima, innanzi al duomo, ond’essere a quello spedale accompagnati. Predicava allora nel duomo la parola di Dio un insigne oratore gesuita, il padre Luigi Albrici; ed egli, pigliato dal Vangelo il testo appropriato, orò con tanta facondia, che infiammò tutto il popolo a quella pia opera; onde terminati i divini ufficii, incamminossi il clero e il popolo col duca e co’principi suoi figliuoli, e condusse processionalmente que’ mendichi a S. Lazzaro, dove i veri poveri recavansi con aria allegra, fatti sicuri ornai di campar la vita, i mendicanti di professione, col volto ingrugnato d’uomini a cui si ricide un’industria quanto più colpevole, tanto più lucrativa.
Poco dopo, essendo il luogo fuor di mano, ed insalubre, furono trasferiti nello spedale de’ frati di S. Giovanni di Dio. Ma non potè rimaner lungo tempo in fiore lo Spedale della Carità, perchè di nuovo la pestilenza e la guerra lo ridussero al nulla. Riordinato per cura della Compagnia di S. Paolo, e principalmente del presidente Bellezia, cogli aiuti di Madama Reale, venne riaperto il 15 maggio 1650 in un gran casamento de’ signori Tarini, in via di Po, donde venne poscia trasferito nell’isola ora occupata dal Ghetto. Di nuovo si vietò sotto pene severe il mendicare. Ma sempre questa vivace gramigna si riprodusse. Fosse il vitto dell’ospedale troppo tenue, fosse il reggimento del medesimo non abbastanza mite, o l’irrequieta bramosia d’indipendenza, di moto, d’aria, di luce, d’orizzonte non circoscritto, o l’abbonamento ad ogni fatica, da quella in fuori di barare il prossimo, molti fuggivano dallo spedale; e nel 1651, 1654, 1657 si stabilirono e si rinnovarono pene contro ai fuggiaschi. I mendicanti validi doveano essere presi e condotti allo spedale; e molti per una carità tutta di nervi e non di mente abbominavano quella apparente durezza; onde fu necessario comminar pene a chi impedisse la cattura de’ mendicanti.
Nel 1679 Maria Giovanna Battista, temendo, da tanti poveri radunati in un sito angusto, pericolo di infezione, li traslocò alla vigna di Madama Reale Cristina, in faccia al Valentino. Ma in breve conosciutosi che il consiglio non era prudente, perchè scemavano le limosine e la sorveglianza de’ direttori rendeasi meno sollecita, si pensò di destinare allo Spedale di Carità la casa occupata dall’Albergo di Virtù, in via di Po, assegnando allo stesso Albergo nuovo sito sulla piazza Carlina, in cui la carità dei cittadini alzò la fabbrica, la quale di presente si vede.9
Così questi due instituti, frutto d’uno stesso concetto, ed uniti nell’intenzione de’ fondatori, costituironsi l’uno dall’altro separati, e crebbero a maggiori progressi.
Ma nel 1716 le vie e le piazze erano di nuovo invase dai mendichi; effetto in parte delle guerre, che disertando le campagne aumentano il numero degli infelici; in parte del continuo aumentarsi della popolazione nella capitale, e massimamente del trasferirvisi che fanno le famiglie facoltose dalle Provincie, onde scemano fuori della capitale i lavori ed i soccorsi.10 Allora si pensò nuovamente a sbandir la mendicità, e per buona sorte venne in aiuto al re Vittorio Amedeo ii un gesuita potente d’ingegno, di cuore e di volontà, che ordinò, non nella sola Torino, ma in tutto Io Stato, l’opera che ancora si mantiene. Era questi il padre Andrea Guevarre, della diocesi di Vence, nato nel 1645. Egli, coll’aiuto de’ padri S. Giorgio, Boschis, Reynaudi e Govone infiammò la carità de’ cittadini, predicando nel duomo in francese, in Sta Croce, all’Annunziata, alla Misericordia, ai Ss. Martiri in italiano, affinchè tutti concorressero alla santa impresa di sbandir la mendicità, con mantenere i poveri nello Spedale di Carità, ed instituire in ogni terra de’ Regii Stati una congregazione di carità che avesse cura de’ poveri.
Anche allora vi furono contrasti che mai non mancano ad ogni opera buona.11 Anche allora si dipinse il Guevara come un uomo che, volendo farsi un nome, privava dei consueti sussidii de’ fedeli tutti gli altri instituti per arricchirne il suo spedale; anche allora, confondendo i poveri coi mendicanti, si disse che lo sbandirli era contrario al Vangelo. Il Guevara dovette scrivere lettere di giustificazione al generale intorno ad un’opera, sulla quale avea meditato e lavorato quarant’anni. Ma che cosa sono queste voci invide, o sciocche, o maligne innanzi al buon senso pubblico, il quale può essere momentaneamente offuscato, ma non traviato lungamente? Fiato di vento che or vieni quinci ed or vien quindi, pronto a soffiare, secondo la passione, anche da due lati opposti ad un tempo.
Addì 7 d’aprile 1717 i questuanti furono tutti raccolti, in numero d’ottocento e più; e dopo una procession generale, seduti a lieto banchetto in piazza Castello, vennero serviti dai paggi di corte e dalle figlie d’onore, non che da cavalieri e dame destinate dal re, dalla regina e da Madama Reale.12 Il numero dei ricoverati nello Spedale di Carità è d’oltre a 3,500; poichè col volger d’un secolo moltiplicaronsi co’ bisogni anche i benefattori, dei quali fanno memoria, e gli stemmi, e i busti, e le iscrizioni che nobilitano il vasto edifìzio. Negli ultimi anni dell’Impero francese lo Spedale di Carità era minacciato di soppressione, quando accorse a salvarlo uno di quei cuori che Dio crea per pubblico benefìzio, il conte Adami di Bergolo, il quale ne pigliò sopra di se tutta la cura, e quella numerosa famiglia tenne in conto di propria, e molte industrie v’introdusse, molte ne migliorò, e fra gli altri studi, quello vi recò della musica; e in ogni tempo, e sino al termine della sua mortai carriera, anche dappoichè racquistatasi per noi l’indipendenza nazionale, più non mancava allo Spedale di Carità efficacia di protezione, il conte Giuseppe Adami perseverò a promuovere con ogni cura gli interessi morali e fisici dei ricoverati con tale abbondanza d’affetto, che ora, dopo molti anni che riposa nella quiete del Campo Santo, se vedi un tumulo cui faccian corona le figlie dello Spedale inginocchiate, una delle quali spazzi la polvere che ricopre la pietra del sepolcro, l’altra su vi deponga una modesta corona, la terza s’inchini a baciarla, mormorando sommessamente il dolce nome di padre, puoi conoscere da ciò che quello è il sepolcro di Giuseppe Adami.
Ma la gigantesca ampliazione di Torino, e il moltiplicarsi delle varie cause da noi sovra accennate, aumentò senza fine il numero degli accattoni. Omai lo Spedale più non bastava. Ma Torino, in materia di beneficenza, è la città de’ miracoli. Il re ne presentì e ne infervorò il vigoroso impulso, e, date con patenti del 29 novembre 1856 utili norme a’ nuovi stabilimenti, vide, e qui e nelle provincie, per effetto di carità privata, crearsi Ricoveri di mendicità, e fiorire. L’ampio Ricovero torinese, frutto di pia e savia beneficenza, è nel borgo di Po, in sulla via che mette alla Madonna del Pilone.
L’edifìzio dello Spedale di Carità è vasto, e notabilissimo. La chiesa fu restaurata sui disegni del conte Dellala di Beinasco, che v’aggiunse la facciata. Il soffitto d’essa chiesa era stato dipinto dal cavaliere Daniele Seyter.
Unito a questo Spedale è quello delle malattie incurabili ed appiccaticcie, e specialmente de’ sifilitici, fondato nel 1734 dal banchiere Ludovico Boggetto, che in molti altri modi esercitò la sua carità, legando a varie parrocchie annui soccorsi pei poveri.
Seguitando il nostro cammino lungo la via di Po, troviamo nell’ultima isola a sinistra la chiesa della Annunziata. Nell’anno 1580 molti confratelli della compagnia del Santo nome di Gesù, abitanti lungo il Po, non avendo comodità di recarsi alle radunanze ed alle uftiziature in San Martiniano, supplicarono la confraternita a permetter loro di far corpo da se, ritenendo, come divota colonia, il nome e l’abito antico. Furono compiaciuti, e dalla confraternita di San Martiniano accompagnali processionalmente al Duomo, e poscia a San Marco, presso al ponte di Po, dove il curato li ricevette, e loro die’ facoltà di celebrare i divini ufficii. Nel 1648 comprarono quei confratelli un sito nella via di Po, e costrussero la chiesa dell’Annunziata. Nel 1668 la confraternita recossi pellegrinando a visitare il sacro chiodo in Milano, in seguito ad un voto fatto per la salute del principe di Piemonte. De’ viaggi della confraternita dello Spirito Santo abbiam già parlato. Rammenteremo qui opportunamente che anche la confraternita della Trinità si recò a Loreto ed a Roma nell’anno santo 1650, e che ricevette in Rologna cortese e divota ospitalità dall’infanta donna Maria di Savoia. Nel 1776 i confratelli dell’Annunziata abbellirono la chiesa e v’aggiunsero la facciata sui disegni dell’architetto Francesco Marlinez, messinese. Il che viene ricordato da una iscrizione latina dettata dal Vernazza.
L’altar maggiore, tutto di marmi, è disegno dell’architetto Bernardo Vittone.
Nel primo altare a destra, la tavola di S. Giuseppe e S. Biagio colla Vergine in gloria fu dipinta nel 1656 da Giovanni Andrea Casella da Lugano, di cui pur sono i freschi della cappella. La tavola di Sant’Anna in altra cappella è di Giovanni di Zamora, di Siviglia, più valente nella pittura dei paesi, che nella figura. Il gran quadro dell’Annunziata è del Mari, torinese, che dipinse pure le tre cappelle dal lato del Vangelo. Le pitture a fresco scompartite in due ordini nel coro, in cui sono raffigurati i fatti più memorandi della vita di Gesù e di Maria Vergine, sono stati dipinti nel 1700 da Giovanni Battista Pozzi, milanese. Nella cappella interna dal lato del Vangelo le belle statue in legno di Maria Vergine a pie’ della croce, di S. Giovanni, della Veronica, ecc., sono di Stefano Maria Clemente.
Nella cappella sotterranea della Madonna delle Grazie è sepolto Giambalista Bianchi, protomedico e professor d’anatomia, chiamato con frase troppo ambiziosa celeberrimo per tutta L’Europa, vi giace pure un Giovanni Altare, morto nel 1763, chiamato similmente celeberrimo per tutta L’Europa. Io non so chi sia, e dubito che la celebrità europea sia stata un dono cortese dell’artefice marmorario, cosa non molto rara. Finalmente vi è sepolto l’architetto Francesco Marlinez, messinese, morto il 7 maggio 1777. L’iscrizione non dice che fosse famoso, ma non toglie che abbia lasciato nome onorato.
Dopochè i padri di Sant’Antonio abbandonarono ai Barnabiti la chiesa di San Dalmazzo, si erano murati pe’ medesimi una nuova chiesa ed un convento in fine dell’isola dell’Annunziata, in una casa che Gian Domenico Tarino avea venduta al presidente Pergamo. Nel 1626 la chiesa era già edificala. Nel secolo scorso era stata nobilitala con facciata e cupola sui disegni di Bernardo Vittone. Giovanni Paolo Recchi, di Como, allievo del Morazzone, v’avea dipinto nel 1671 la tavola del Crocifìsso. Vedeansi in quella chiesa altri dipinti del cav. Delfino, del Trono, del Milocco; ma non v’era cosa di gran pregio.
I canonici regolari di Sant’Antonio non furono appresso a noi tra i più segnalati ne per merito di dottrina, né per merito di santità. La disciplina fin dai primi anni del secolo xvii andava molto scadendo, nò bastarono gli sforzi d’alcuno degli abati generali a ristorarla solidamente. Erano già in poco buona vista presso a Carlo Emmanuele iii ma li sostenne la propensione che il marchese d’Ormea nudriva per l’abate generale Gasparini. Possedevano, come è noto, anche il celebre ed antico monastero di Sant’Antonio di Ranverso, presso a Rivoli. Ma colà ed a Torino il maggior numero dei canonici era francese, epperò vi fu costante opposizione a formare, come si praticò per gli altri ordini, una provincia nazionale.
In dicembre del 1776 una bolla pontifìcia unì l’ordine regolare di Sant’Antonio all’ordine di Malta; ma il convento di Torino fu dismesso all’ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro.
Questa chiesa, che fu ridotta di poi ad usi profani, è memorabile per aver accolta nascente la bella opera della mendicità istruita.
Felice Fontana, torinese, laico della congregazione dell’Oratorio, cominciò a radunare nei corridoi di San Filippo i ragazzi cenciosi e seminudi che giocavano, mendicavano, birboneggiavano, pericolavano per le vie; ad ammaestrarli nelle cose della fede; a procurar loro qualche soccorso ad imitazione di S. Giuseppe Calasanzio, di Giambattista De la Salle, ed altri santi. Quella pietosa cura fu gradita al pubblico, il quale l’aiutò coll’inesauribile sua beneficenza, al re Vittorio Amedeo iii, da cui venne approvata con R. patenti de’ 5 marzo 1776, ed allogata in giugno del 1778 nella chiesa di Sant’Antonio, donde si trasferì più lardi a Sta Pelagia. Il Fontana era un semplice mastro da muro che lavorava attorno alla fabbrica del convento di San Filippo. Entrato nella congregazione dell’Oratorio in qualità di fratello, si mostrò dotato di singoiar ingegno, di molto giudicio, e s’avanzò tanto nella pietà, che i primi dello Stato, e fra gli altri il venerabile cardinal delle Lanze, andavano spesso a trovarlo e a conversare con lui. Morì il 17 d’aprile del 1787.13
La chiesa di Sant’Antonio era situata nel sodo di mura che si vede a sinistra, entrando nel cortile della casa che ha sulla porta l’insegna della croce mauriziana. Nel giardino degli Antoniani fu eretto dal conte Dellala il quartiere delle Guardie del Corpo.
In essa chiesa fu sepolto nel 1728 Giovanni Smith, professore di diritto nell’università di Torino.
Siccome la chiesa di San Dalmazzo assegnata nel 1271 ai frati di Sant’Antonio, apparteneva al capitolo della cattedrale, s’era il medesimo mantenuto nel diritto di venire il giorno della festa del santo ad uffiziare solennemente nella loro chiesa.14
La piazza Vittorio Emmanuele, che d’ampiezza e di magnificenza agguaglia le più famose, e nella bellezza degli aspetti le vince, aspetta due fontane monumentali che ne coronino i pregi. Già parecchie volte nel secolo scorso s’esaminò il livello delle acque di Trana e di Millefonti, coll’intento di condurle ad ornare di belli e freschi zampilli la piazza di San Carlo. Ora che a quella piazza si è largamente provveduto colla statua equestre d’Emmanuele Filiberto, rimane a darsi a questa la perfezion necessaria con monumenti che riposino e rallegrino, e non interrompan la vista del ponte, del tempio della Gran Madre, e del colle ombroso e ridente che fa sponda al regal fiume. Il disegno di questa piazza (notabile anche per Tartifizioso digradar delle case che dissimula il declivio) è dell’architetto Giuseppe Frizzi.
L’antico ponte di Po, di tredici archi, dieci grandi e tre piccoli, era situalo alquanto a sinistra di quello che ora si vede. Costrutto nei primi anni del secolo xv, durò quattrocent’anni. Nel 1810 si cominciarono i lavori del nuovo ponte sui disegni dell’ingegnere Pertinchamp, e sotto la direzione del cavaliere Mallet.15 Prigionieri di guerra spagnuoli, e di altre nazioni, furono adoperati a palificare il fondo del fiume. Di questo bel ponte Napoleone tanto si compiaceva, che non mancava di citarlo fra i monumenti notabili del suo regno. Dopo la restaurazione i lavori ne furono condotti a compimento, e vennero aggiunti i due argini laterali a sinistra.
Al di la del ponte sorge sopra un alto basamento la rotonda della Gran Madre di Dio; voto del Corpo Decurionale pel fausto ritorno del Re. Vittorio Emmanuele ne pose la prima pietra addì 25 di luglio del 1818. Fu costrutto e quasi condotto a compimento durante il regno, e mercè la liberalità di Carlo Felice.
Costò circa due milioni e mezzo. Il cavaliere Ferdinando Bonsignore che ne die’ il disegno, imitò il Panteone, e lasciò in Torino un esempio di classico e puro stile. Se non che le rotonde quando non sono di gran dimensione, o non s’addotta il partito di collocare l’ara maggiore nel centro, convengono assai poco alla maestà del rito cattolico.
Sotto a questo tempio s’espongono i cadaveri abbandonati, che prima si esponeano in un sito attiguo al Palazzo di città, dov’era molto maggior concorso di popolo, e dove poteansi riconoscere più facilmente. La chiesa della Gran Madre di Dio è parrocchia suburbana.
Nel 1669 era ordinata la costruzione della strada della Zecca e dell’Accademia Reale; di questa fu architetto Amedeo di Castellamonte. Nel sito compreso tra l’angolo della nuova strada ed il teatro delle feste in piazza Castello, ebbe dono di sito il mastro auditore Gio. Battista Quadro, coll’obbligo di fabbricarvi un trincotto o pallamaglio, secondo il disegno, per comodo della corte e degli Accademici. Ma per ragioni indipendenti dalla volontà del Quadro il trincotto non potè farsi. L’Accademia Reale divenne scuola famosa di studii cavallereschi; e ad essa accorrevano anche da lontane regioni giovani di nobil sangue ond’esservi educati. Con lettera del 22 marzo 1688 il principe Eugenio raccomandava al duca suo cugino il conte Massimiliano figliuolo del tenente maresciallo conte di Eberstein, e nipote del signor principe di Diechtristein, cameriere maggiore dell’Imperatore, il quale ad apprendere gli esercizii cavallereschi se ne passa a cotesta Reale Accademia.
Due anni dopo passava il medesimo ufficio in favore del conte Palfì.
Chiusa dipoi alcun tempo per cagion della guerra, fu riaperta il 1 di maggio 1713.
Ordinata a’ tempi dell’impero a scuola militare sotto nome di Liceo, ricevette nel 1815 novella organizzazione, col nome d’Accademia Militare. Nuove riforme v’introdusse teste il re Carlo Alberto.
Avanzando per questa via, troviamo a destra la porta dell’Università, ornata da Carlo Felice di colonne di marmo, quando chiuse l’ingresso che prima s’avea per la strada di Po; a sinistra la Zecca che dà nome alla strada; dopo la Zecca dalla stessa parte era anticamente la scuola di scultura de’ fratelli Collini. Alquanto più in giù sempre dal lato stesso in fondo alla via traversa è il teatro dell’Accademia filodrammatica. Questa società privata, la quale ebbe principio nel 1828, crebbe a lieti risultamene, sicchè nel 1840 edificò l’ampia e bella sala di cui parliamo, disegno dell’architetto Leoni. È direttrice delle rappresentazioni di questo teatro la rarissima attrice Carlotta Marchionni. S’incontra finalmente, continuando il cammino, ultimo edifìzio a mano sinistra, la Stamperia Reale.
Fu stabilita nel 1740 dal re Carlo Emmanuel iii, a petizione del conte Ignazio Favetti di Bosses a nome di una società e ad imitazione di quelle già stabilite a Milano ed a Firenze. Ebbe sede, prima nell’isola dell’Università, poi sotto alle segreterie di Stato presso al teatro; quindi nel palazzo del Collegio de’ Nobili (Accademia delle Scienze). Ora dagli ultimi anni del regno di Carlo Felice ha sede in quest’edilìzio per essa appositamente costrutto.
Una delle cause della grandezza di Roma fu l’imitar che faceva con discernimento e prudenza i buoni inslituli delle altre nazioni.
Quest’arte medesima ha giovato e potrà giovar non poco alla nostra italiana grandezza.
Chi sa la storia nostra, conosce che una parie della sapienza legislatrice fu sempre riposta nello scegliere tra le vicine nazioni quelle istituzioni, quegli ordini che, elaborati nei grandi centri di civiltà francese, germanico, britannico, sono dalla prova di molti anni autenticati per buoni. A dieci, a trenta, al più a cinquantanni di distanza, molti di tali ordini, varcate le Alpi e il Ticino, ebbero cittadinanza sulle rive del Po e della Dora; profittando noi per tutti i modi; e col non esser costretti a patire i sussulti delle prime sperienze e dei subiti passaggi, che ci travagliano quando si tratta di dar esecuzione a pensieri, che messi in carta paion divini, ridotti in opera provano male, o per occulta magagna, o per difetto di metodo; e per potere sicuramente, adottando un buon ordine già trovato da altri, migliorarlo, appropriarlo ai nostri bisogni, dargli virtù e slancio maggiore; e per potere ancora, quando si vede che il passaggio sarebbe troppo forte, pigliarne sol quella parte che conviene; non tuttavia in modo da render eunuca l’istituzione, sicchè s’importi un’epigrafe, e non altro. Dio distribuisce qua e là, come gli piace, a tutte le nazioni gli alti intelletti, vogliosi e capaci di utili riforme in materia di Stato. Quello ch’essi trovano, non è patrimonio di quella sola nazione, è patrimonio comune; perchè son patrimonio comune il vero, il buono e il bello. È debito di chi governa cercarlo dove si trova, introdurlo dove non è. L’ordinamento sociale non ha altro fine.
Note
- ↑ [p. 550 modifica]Registro Controllo, num. xciv, fol. 15. Archivio camerale.
- ↑ [p. 550 modifica]Dicesi nella Guida di Torino, architettura del Pellegrini. Del Pellegrino Tibaldi non può essere, morto ventisette anni prima. D’altri di quel nome non so.
- ↑ [p. 550 modifica]Arpio, op. cit., pag.200.
- ↑ [p. 550 modifica]Registro Controllo, num. cxxx, fol. 88. V. ancora i Registri clviii, 200; clxviii, 180; clxix, 180, ecc.
- ↑ [p. 550 modifica]Dai ruoli dell’Archivio Mauriziano.
- ↑ [p. 550 modifica]Di tre ingegneri ducali della famiglia Ghibert o Guibert abbiam trovato
memoria; d’Apollonio nel 1668; di Ludovico Maurizio, primo ingegnere
nel 1686; di Ludovico Andrea, primo ingegnere nel 1693; senza parlare di
Onorato, che nel 1686 depulavasi ingegnere nella contea di Nizza. E postoche
è caduto qui il discorso degli ingegneri ducali, e molti ne abbiam già
ricordato de’ più famosi; diremo che Ascanio Vittozzi, d’Orvieto, fu deputato
architetto ed ingegnere di Carlo Emmanuele i con patenti del 18 d’ottobre
1584; che il primo settembre del 1592, quando quel principe fe’ l’impresa
di Provenza, costituì il Vittozzi sovra intendente generale delle fortezze della
provincia conquistata; che nel 1595 fu dato in aiuto, al capitano Ascanio,
l’ingegnere Viltozzo Vittozzi, suo nipote, morto in luglio del 1615, prima
dello zio; che fin dal 1606 era ingegnere ducale Carlo di Castellamonte; che
addì 4 dicembre 1637 venne assegnato nella medesima qualità al conte
Amedeo di Castellamonte Io stipendio goduto dal conte Carlo suo padre; e
che il 2 d’aprile 1639 esso conte Amedeo veniva deputato sovr’intendente
generale delle fabbriche e fortificazioni; che fin dal 1626 era ingegnere aiutante,
sotto al conte Carlo di Castellamontc, Maurizio Valperga; che fu poi [p. 551 modifica]nel 1634 ingegnere, e nel 1667 primo ingegnere; Andrea Valperga, figliuolo di lui, fu eletto ingegnere ordinano nell’anno medesimo.
D. Filippo Juvara finalmente fu eletto primo ingegnere civile per lettere patenti del 15 dicembre 1714 coll’annuo stipendio di lire 3ꞁm. d’argento.— Archivio camerale. - ↑ [p. 551 modifica]Si ha stampato.
- ↑ [p. 551 modifica]Fontanella, Polliago, ecc.
- ↑ [p. 551 modifica]Tesauro, Storia della Compagnia di S. Paolo.— Guida di Torino. — Iscrizioni patrie, ms. degli Archivi di corte.— Torchi, Memorie dell’Archivio arcivescovile di Torino, ms. d’esso archivio.
- ↑ [p. 551 modifica]Perciò non è giusto il far ricondurre i mendicanti non torinesi alle patrie loro, impoverite dai rapidi aumenti della capitale. Quando una parte notabile della ricchezza della provincia si consuma nella capitale, conviene che la capitale sopporti nella stessa proporzione i pesi della provincia.
- ↑ [p. 551 modifica]Lettere degli Archivi del preposito generale de’ Gesuiti a Roma.
- ↑ [p. 551 modifica]Editto 6 agosto 1716; 11 maggio 1717— Istruzioni e regole per le congregazioni di carità. — Soleri, Diaria.— Sacchi (Defendente), Instituti di beneficenza a Torino.— V. pure l’opera intitolata: La mendicità sbandita (del Guevarra).
- ↑ [p. 551 modifica]Memorie dell’Archivio de’ Filippini.
- ↑ [p. 551 modifica]Chiesa di Sant’Antonio di Torino. Archivio dell’ordine de’ Ss. Maurizio e Lazzaro.
- ↑ [p. 551 modifica]Paroletti, Turin et ses curiositès.