Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo XVIII
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[Anno 1848]
L’annunzio del nuovo ministero piacque agli uomini di ordine. Noi non ne enumereremo tutte le frazioni siccome fece il Farini il quale ne moltiplicò per pompa di erudizione le categorie, e v’inserì pur quella dei sanfedisti, che nella sua immaginazione soltanto esisteva. Noi saremo più espliciti, e francamente diremo che tutti quelli che volevano un governo accompagnato dall’ordine, applaudirono alla scelta del Rossi. Chi non aspirava che al disordine e allo scompiglio, lo esecrava e lo malediva; e agglomerando in un fascio, uomo, dottrina, abilità e carattere, disapprovava la scelta e l’avversava rabbiosamente.
I papalini puri però, i moderati, i così detti oscurantisti non formavano un partito compatto, e se furon notevoli in qualche cosa, fu in quella di non essere stati buoni a nulla. Non buoni a fare, meno ancora a parlare, purché avessero le loro paghe e salva la persona, governasse poi o Recchi, o Mamiani, o Fabbri, o Rossi, obbedivano egualmente a tutti. Si univano anche senza convinzione alle grida del giorno, e in seguito obbedirono anehe a Mazzini. La nostra storia ci presenta ridondanza di puerilità, di pusillanimità, di sciocchezze: e come «rara avis in terris, nigroque simillima cycno,» gli esempi di fortezza d’animo e di coraggio civile, o non vi furono affatto, o furonvi in una proporzione assolutamente microscopica.
Non intendiamo con ciò di offendere veruno. I nostri discorsi si riferiscono alle generalità, e non alle specialità. Chi si sente immune dalla taccia di pusillanime, tanto meglio per esso. Avrà in sè la convinzione di avere adempiuto il proprio dovere.
Venendo agli atti del ministro Rossi rammenteremo come il primo fosse l’annullamento di quella disposizione di polizia colla quale s’interdiceva la esportazione del numerario per l’estero. Quell’atto venne promulgato il 18 di settembre.1
Lo stesso giorno venne pure soppresso il ministero di polizia e incorporato in quello dell’interno.2 La Gazzetta di Roma poi recava in un ben forbito articolo di fattura del Rossi, un cenno delle sue massime, e dei suoi principi sulla lega italiana, ove non mancava di rintuzzare quelle accuse che dal Piemonte venivan mosse contro la corte di Roma, quasi che da essa piuttosto che dallo stesso Piemonte fosse provenuta la sua non attuazione.
Intanto però quel vedere richiamata a se la polizia, allontanato l’avvocato Galletti, spedito a Parigi l’Accursi, rimandata nelle Romagne fin dal 23 settembre la legione romana, eran tali cose da indicare chiaramente che il Rossi voleva scomporre pian piano le fila della rivoluzione; e se i talenti e la capacità fosser bastati, forse vi sarebbe riuscito. Ma scoperto che fu il suo secreto divisamento, s’incominciò a cospirare contro di lui, e come meglio diremo in appresso, fu prima la rivoluzione a spegnere il Rossi, di quello che il Rossi a spegnere la rivoluzione.
Rivolte furon le prime cure del solerte ministro ad introdurre nello stato quei miglioramenti reali e materiali voluti dai tempi, e quindi con ordinanza ministeriale disponeva lo stabilimento di due linee telegrafiche;3 e sollecito del pari di rimunerare chi onorevolmente erasi condotto nella carriera delle armi, e di sollevare le famiglie di coloro che eran morti nelle battaglie, emise una circolare ministeriale ove davansiie disposizioni in proposito.4
Il 30 settembre creò una commissione per compilare i regolamenti per la educazione scientifica e militare dell’armata pontificia. Erano membri della medesima:
Il professore | Nicola Cavalieri San Bertolo | |
» | don | Barnaba Tortolini |
» | » | Domenico Chelini |
» | » | Ignazio Calandrelli |
Il principe di Roviano | ||
Il colonnello commendatore Carlo Steuart. | ||
Il tenente colonnello Alessandro Cialdi | ||
Il maggiore Carlo Rodolfo de Lentulus | ||
Il capitano professore Paolo Volpicelli. 5 |
Provvedeva con atto sottoscritto dal Consiglio dei ministri del 7 ottobre all’assicurazione, per mezzo degli uffici postali, tanto dei boni del tesoro, quanto dei biglietti di banca.6
[{nop}} Il maggior Lentulus veniva promosso lo stesso giorno al posto di sostituto al ministero delle armi.7
I provocatori di disordini riuscirono in quel tempo ad eccitare un conflitto fra civica e popolo contro gli Ebrei, raccolti nei elaustro israelitico. Non ne diamo i ragguagli che potranno leggersi in alcuni giornali di quel tempo.8
Ne parlò pure il Cassandrino del 24 di ottobre.9 E qui vuoisi avvertire che, ucciso l’abate Ximenes, quel giornaletto, conservando il nome, era passato in altre mani, i cui principi apertamente dissentivano da quelli del primitivo estensore. Non è quindi meraviglia se nell’articolo del Cassandrino, contrariamente ai principi della carità cristiana, si eccitasse l’odio contro gli Ebrei.
Dispiacque talmente ai Romani un articolo sì provocante e sì poco consonante colla loro indole generosa, che il numero quarantanove di quel giornale, ih cui era l’articolo provocante e anti-sociale, venne immediatamente sequestrato dall’autorità.10
II ministro Rossi ne fu altamente sdegnato, e con apposito proclama del 25 ottobre censurò acerbamente i disordini commessi nel ghetto, dei quali il Cassandrino si era fatto in certo modo l’apologista, ed annunciò la ferma deliberazione di reprimerli. Talmente bello parve quel proclama, che lo riportiamo per disteso:
Ministero dell’Interno.
«Una mano d’uomini traviati, tratto pretesto da una rissa, nella quale fu immediatamente arrestato l’ebreo feritore, si recò nel Ghetto e commise atti che non sapremmo con nome bastantemente severo indicare.
»Le violenze contro uomini che, nati nella comune società, hanno diritto alla comune protezione, sono indegne di un popolo colto e generoso, e ci degraderebbero al cospetto delle altre nazioni, ove non fossero da tutti i buoni altamente condannate e prontamente represse.
»Benchè non compromessa, alla sola minaccia di più gravi disordini, la causa della pubblica sicurezza ha tosto trovato, nel concorso volenteroso della guardia cittadina e in quello delle altre armi, aiuti e garanzie che debbono ispirare, sgomentando ogni sinistro pensiero, la più ferma fiducia nel presente e nell’avvenire.
»Il governo non lascerà impunemente insultare alle leggi e alla civiltà.
»E il popolo romano non cesserà di essere al mondo intero nobilissimo esempio di devozione al sovrano, e di amore alla vera ed onesta libertà, che mai non si scompagna dalla riverenza alle leggi.
»Roma, 25 ottobre 1848.
Il proclama anzidetto e le misure adottate produssero il loro effetto, e la pubblica quiete venne prontamente ristabilita.
Creavasi detto giorno direttore dell’ufficio centrale di statistica il giovane Ottavio Gigli, che lo stesso Pietro Giordani vuolsi che tenesse in conto di elegante scrittore. Era egli noto per quel giornaletto che da vari anni veniva pubblicando sotto il titolo dell’Artigianello, e per altre produzioni letterarie.12
11 2 di novembre il Rossi come ministro interino delle finanze emanò un avviso sul quantitativo dei boni del tesoro posti in circolazione.13
L’avvocato Giuseppe Giuliani avendo rinunciato all’ufficio di consigliere di stato, e sostituitogli l’avvocato Antonio Gherardi ch’era presidente del tribunale di appello di Macerata, rimase vacante quel posto. E il ministro Rossi, cui non piaceva in Roma il Galletti già direttore di polizia, lo destinò a rimpiazzare il Gherardi in Macerata.
Il tentato allontanamento del Galletti confermò sempre più chi già lo sospettava, ch’esistesse un piano preconcertato dal Rossi di voler distruggere il governo della piazza e la tirannia dei circoli ch’eran fomiti permanenti di cospirazioni e di vendette. Ma essi alla lor volta rinvigorivano le loro macchinazioni per perdere il Rossi.14 E mentre fervevano questi umori ostili all’onnipotente ministro, ricevevano nuovo alimento da un articolo che il 4 di novembre pubblicò nella Gazzetta di Roma sulla lega italiana ch’era il suo tema favorito.
In detto articolo l’ambizione del Piemonte e la sua cupidigia d’ingrandimento chiaramente insinuavansi, le sue esitazioni per accedere alla lega dal papa iniziata venivan designate ed in bel modo criticate. Il valore dei corpi franchi, di fronte alle truppe stanziali, riducevasi ironicamente quasi al grado di nullità. La incompatibilità finalmente delle proposte piemontesi veniva così maestrevolmente trattata, che si disse e si dirà sempre, essere quell’articolo un capo d’opera di politica capacità. Noi lo riporteremo in Sommario, sembrandoci troppo lungo per inserirlo in questo capitolo; ma i nostri lettori potranno rinvenirlo anche nel Farini.15
Ecco però la chiusa dell’articolo, che a noi sembra oltremodo significativa:
«Pio IX non è mosso nè da interessi particolari, nè da antivedente ambiziose; nulla chiede, nulla desidera, se non la felicità dell’Italia e il regolare sviluppamento delle istituzioni, che ei largiva ai suoi popoli.
»Ma non scorderà mai ad un tempo quel ch’ei debbe alta dignità della Santa Sede e alla gloria di Roma. Qualsiasi proposta, che fosse incompatibile con questo sacro debito, tornerebbe vana presso il sovrano di Roma e il capo della Chiesa. Il pontificato è la sola viva grandezza che resta all’Italia, e che le fa riverenti ed ossequiosi l’Europa, e l’intero orbe cattolico. Pio IX non fia mai per dimenticarlo, nè come supremo gerarca, nè come italiano.»
Queste così memorande parole non trovavano il loro riscontro con quei paroloni sesquipedali che leggevansi negli scritti dei tre ministri dell’interno che precedettero il Rossi. Questi s’inspirava dal senno e dall’esperienza, quelli dalla fantasia in istato d’entusiasmo. Il Rossi dichiarava apertamente di voler sostenere il papato: i Recchi, i Mamiani, i Fabbri meditavan di rovesciarlo. La dichiarazione del Rossi, che il pontificato fosse la sola viva grandezza d’Italia, era tal verità da dovere più che sul bronzo, restare scolpita nel cuore degl’italiani; e pure molti e molti credevano di dar prova d’italianismo disconoscendola, e facendo ogni lor possa per indebolirla ed abbatterla. E questi furono, che facendo un addebito al Rossi di aver pronunziato quelle parole, e di avere proclamato quella incontrastabile verità, venivano ingrossando le fila della trama infernale che a danno del Rossi, ma più a danno e scorno degl’italiani, e a detrimento delle libere istituzioni ottenute, andavasi maturando nell’ombra. Non dimentichiamo che il governo facevasi sempre in piazza, e che quindi qualunque grido o censura o giudizio assumendo l’aspetto di parola d’ordine, diffondevasi all’istante, e tu stesso sentivi ripetere da tutti la medesima cosa. Tanta era poi la uniformità dei discorsi, che finivano per trascinare ancor te e farti partecipare in certo modo alle altrui aberrazioni.
In allora si sentiron le prime grida contro l’altiero diplomatico gallonato, contro l’ammiratore pedissequo delle guisottiane mistificazioni. Si gridò contro il cittadino cosmopolitico, contro il liberale rinnegato, contro l’italiano fedifrago, e più fortemente gridavasi contro l’ambizioso di potere per cupidigia di oro e di grandezze; e con ciò volevasi accennare al concentramento sul suo capo stesso di due portafogli ad un tempo. Non andava al certo esente da difetti il Rossi, ma le accuse che a suo carico lanciavansi, quantunque non ingiuste del tutto, eran pel solo fine che temendo i talenti e l’astuzia di lui, volevasi screditarlo e perderlo.
E così mentre nelle aule dorate dei grandi, nei pacifici recessi dei claustrali, nelle pareti domestiche dei tranquilli cittadini sospiravasi pel ritorno dell’ordine manomesso e confìdavasi nell’uomo di mente e di polso qual era il Rossi, tu sentivi gridare al lupo nei ritrovi politici, nei caffè, nei circoli, nei quartieri civici e negli uffici dei giornalisti. Per senno più potenti i primi: per mezzi di diffusione e di unione, e per energia di azione infinitamente più forti i secondi. I primi erano elementi sparsi per tutta la città senza connessione fra loro: i secondi un corpo a forma di rete, dilatato, elastico e collegato siffattamente, che al moto di una estremità rispondeva il consenso dell’altra.
Ma se il governo della piazza venne insediato in Roma fin dai primordi del movimento romano, e venne gradatamente dilatandosi, converrà ognuno che quando il Rossi assunse il potere era già fatto gigante.
E questo ingigantimento trovava un appoggio nei fatti di Livorno, ove il popolo, discacciate le autorità, reggeva a suo nome la cosa pubblica. Ed affinchè le nostre parole non vengan tacciate come iperboliche, riporteremo in Sommario distesamente un proclama emanato dal medesimo r 8 di ottobre, e che incomincia «Noi popolo livornese. 16 Con quell’atto si accorda «amnistia e perdono a tutti quei membri delle Camere e de1 due ultimi ministeri di Toscana i quali ebbero parte alla violazione dello Statuto costituzionale a condizione però che sieno immediatamente deposti ed espulsi tutti quegli individui componenti l’attual ministero e le Camere, che si resero rei di lesa umanità.» Altro proclama del 20 trascriviamo per intero stante la sua singolarità.
Eccone le parole:
«Noi popolo livornese per la grazia di Dio, primo della rigenerazione Toscana ec. ec.
»Sentite le cause di accusa portate a nostra cognizione dalla voce pubblica la quale sdegnata, declama contro la formazione che è certo abbia avuto luogo del nuovo ministero, nelle persone a nostro danno prescelte
»Avvocato Salvagnoli |
»Considerando che l’opinione pubblica emessa unanimemente da questo popolo e da tutta la Toscana sul rapporto dei suddescritti soggetti, i quali hanno abbastanza manifestato in iscritto ed in parole di avere disertato la causa dei popoli per essere fedeli proseliti del dispotismo che ha fino ad ora tormentata la nostra povera Toscana, oggi reclama da noi che ci siamo fatti protettori della patria libertà, la più rigorosa giustizia onde mantenere inviolabili i nostri diritti, abbiamo decretato e decretiamo quanto appresso, cioè
» Condanniamo per le cause surriferite, che l’effigie delle persone summentovate e da noi ora ripetute,
» Avvocato Salvagnoli |
» Siano alla presenza di noi popolo date alle fiamme, con ciò manifestando la pubblica indignazioue per la elezione di quei soggetti a membri del ministero, che a dispetto di tutte le istanze e reclami avanzati da noi fino al giorno di ieri, sono stati nominati.
» Fatto in Livorno oggi alle ore dodici meridiane, venerdì 20 ottobre 1848. .
» Il Popolo.» |
È bene avvertire che mentre queste cose accadevano, il Montanelli era già divenuto governatore di Livorno, ed aveva proclamato la costituente.17
Ai moti poi di Livorno facevano eco quei di Lucca, ove i perturbatori in sulla metà di ottobre irruppero contro lo stabilimento del giornale la Riforma, e vi fecer dei guasti.18
Aggiungasi poi per soprassello che in Roma gli animi erano grandemente esaltati per le notizie della nuova rivoluzione scoppiata in Vienna il giorno 6, e che sulla metà di ottobre conobbesi precisamente.19 A queste vere notizie sulle cose di Vienna si aggiungevano le false sugli avvenimenti di Milano; e già divulgavasi che il 18 fosse scoppiata una nuova rivoluzione, e se ne pubblicavano i bullettini, e per di più facevasi giungere un proclama di Garibaldi del 18 da Genova, col quale in seguito della rivoluzione di Vienna, chiamava di nuovo gl’Italiani alle armi. 20
Riportiamo queste notizie quantunque su cose a Roma estranee, perchè in essa producevano il loro contraccolpo, ed affinchè si possa misurare da ciò la temperie degli spiriti, e considerare in quali momenti difficili venne assunto il potere dal Rossi. Quanto poi al contraccolpo, ricordiamoci della rete che copriva Roma, e non perdiamo di vista che le stesse reti erano dappertutto e che avevan cordoni tali, da essere tutte ad un cenno poste in comunicazione fra loro.
Ritornando al Rossi e alle sue disposizioni pel riordinamento dello stato, troviamo che sotto la data del 6 di novembre venne pubblicato un atto del 20 di ottobre, col quale annunziavasi di aver creato una commissione per richiamare ad esame le leggi, gli usi ed i regolamenti relativi all’ordinamento, all’amministrazione, e al servizio del corpo dei carabinieri.
Ne erano i membri:
- Il principe di Palestrina (dell’Alto Consiglio)
- Il conte Giuseppe Mastai
- Il colonnello Steuart
- Il conte Saverio Malatesta
- Il colonnello Naselli
- Il tenente colonnello Calderari
- Il colonnello Farina
- Il tenente Fornioni
- Il capitano Calvani segretario.21
Altro atto riportò la gazzetta di detto giorno, ma come emanato fin dal 31 di ottobre, e fu la istituzione di una commissione presso il ministro delle finanze all’effetto di preparare la soluzione delle questioni generali e particolari proposte dal ministro interino delle finanze per una più regolare amministrazione delle medesime.
I membri eletti a tal uopo furono i seguenti:
Principe di Roviano presidente |
Conte Pasolini (vice presidente dell’Alto Consiglio) |
Dottor Fusconi (vice presid. del Consig. dei dep.) |
Monsignor Savelli |
Principe Simonetti (deputato) |
Marchese Bevilacqua (deputato) |
Monsignor della Porta |
Marco Minghetti (deputato) |
Avvocato Delfini (deputato) |
Antonio Neri segretario.22 |
Altra commissione venne creata il 4 dal Rossi, per proporre tutte quelle modificazioni e riforme nell’amministrazione economica e nei processi chimici, meccanici ed artistici delle zecche pontificie.
La commissione si componeva come appresso:
Conte Gaetano Recchi presidente | |
Don Baldassare dei principi Boncompagni | |
Professor | Ratti |
» | Volpicelli |
» | Chelini |
Fortunato Pio Castellani | |
Commendatore Agostino Feoli | |
Cavalier Pietro Righetti | |
Giuseppe Mazio direttore della zecca.23 |
Il giorno 7 il professore Carlo Luigi Farini venne nominato direttore per la sanità, gli spedali, e le carceri.24
Tutte queste disposizioni indicano chiaramente che il Rossi aveva una volontà determinata di riordinare lo stato. Dalla scelta delle persone poi si venne pure a conoscere ch’esso cercava le capacità sociali là ove trovavano, e non consultava soltanto il colore delle opinioni politiche; e se chiamò il Recchi, il Minghetti, il Delfini, il Farini ch’erano capacità liberali, ne chiamò molti altri che avean la capacità scevra affatto da passione politica, ovvero d’indole essenzialmente conservatrice. In una parola il Rossi cercava gli uomini sperti nel maneggio degli affari, e poco calevagli se dovesse cercarli fra i progressisti, fra quelli dello statu quo, o fra i più pronunziati retrivi.
Per ora ci arrestiamo quanto alle cose del Rossi, e diremo della nomina importantissima del generale Zucchi a ministro delle armi, aggiungendo un breve epilogo delle cose operate dal medesimo, ed alcuni cenni biografici sul suo conto, preso per punto di fermata il 15 di novembre. .
Imparammo dalla Gazzetta di Roma del 22 settembre, ch’era partita persona per recare al general Zucchi il dispaccio col quale Sua Santità lo chiamava al carico di ministro delle armi.
Fummo informati dal giornale del 7 novembre che la sua nomina ebbe luogo fin dal 19 settembre, cioè tre giorni dopo la formazione del ministero Rossi. Con tale nomina inoltre venivagli confermato il titolo di tenente generale che già possedeva.
Nacque il generale Carlo Zucchi in Reggio di Modena nell’anno 1776.
Dopo aver servito gloriosamente prima la repubblica francese e quindi l’impero, trovossi alla suà caduta generale nell’armata italiana. Ed essendosi convenuto che i reduci dall’armata d’Italia dovessero essere provvisti di una pensione, l’ottenne, e servì l’Austria per qualche tempo col grado di tenente maresciallo, al quale il governo austriaco avealo innalzato. Fu il Zucchi uno dei generali che il gran capitano teneva in maggior conto, e verso il quale professava una stima ed un affetto speciale.
Dopo aver servito per qualche tempo, siccome dicemmo, l’impero austriaco, domandò ed ottenne il suo ritiro, e si ridusse nei paese natio, ove vuolsi che subisse qualche persecuzione.
Nel 1821 fu messo in prigione dagli Austriaci, e rimase nelle carceri di Milano per quattro anni circa.
Nel 1831 avendo preso parte ai movimenti politici che venner sedati per l’intervento austriaco, fu costretto di emigrare in compagnia di molti altri; s’imbarcò in Ancona per Francia; fu arrestato da un legno austriaco in sull’Adriatico; e condotto prima nelle carceri di Venezia, quindi nel carcere duro di Gratz, venne condannato a morte. Questa pena però, ad intercessione della regina de’ Francesi, gli fu commutata colla prigionia per venti anni nella fortezza di Palmanova. La rivoluzione lombarda lo liberò nel marzo 1848 innalzandolo al grado di governatore di quella fortezza e comandante generale del Friuli. 25 Ristorate più tardi le sorti austriache, Palmanova dovette cedere, e il Zucchi ritirossi di nuovo a Reggio di Modena; ma dopo la capitolazione di Milano del 9 di agosto erasi riparato nella Svizzera, d’onde fu fatto chiamare come abbiam detto di sopra nel settembre dell’anno 1848. 26
È inutile il ripetere le dicerie e le calunnie contro l’onore del Zucchi, che il partito esagerato divulgò per oscurarne la fama. Senza parlare delle pubblicazioni manoscritte ne troviamo fra le stampate alcune coi seguenti titoli:
Brevi cenni biografici intorno la vita del generale Zucchi.27
Discorso contro il generale Zucchi, e prove del suo tradimento.28
Requiem eternam del generale Zucchi.29
Scoperta della congiura tentata dal generale Zucchi.30
Il generale Zucchi a Palmanova.31
La resistenza di Comacchio alle truppe del generale Zucchi.32
Questi scritti circolarono nel novembre. Altri molti se ne pubblicarono più tardi, e tutti più o meno offensivi all’onore del Zucchi.
E perchè tanto accanimento contro due personaggi così ragguardevoli e rispettabili, quali erano il Rossi e il Zucchi? Perchè presero entrambi servizio col papa, e ne vollero sostenere i diritti, quando la rivoluzione fatta già matura, intendeva di rovesciarli.
Intanto, accettato dai Zucchi l’incarico conferitogli dal Santo Padre col consentimento del Rossi, egli giungeva in Civitavecchia il 25 di ottobre, e trovava i detenuti in quella darsena, in istato di rivolta.
Non indugiò un istante il prode generale, adottanda ed eseguendo misure tali, che l’ordine venne prontamente ristabilito.33 Il 26 giunse in Roma.34
Diramò subito il giorno seguente una circolare colla quale inculcava ai militari tutti di unirsi ad esso con sincerità e raccomandava stretta disciplina ed esatta obbedienza, promettendo dal canto suo imparziale giustizia. 35
Il giorno 30 fece la sua rivista sulla piazza di san Pietro. Si disse aver manifestato il desiderio, che i soldati si radessero la barba. Come era bene ad attendersi in quei tempi di anarchia morale, si ebber clamori infiniti contro il generale, risate, scherni e caricature. Più tardi uno di quegli spudorati giornaletti che insozzavano la nostra Roma, intitolato il Pappagallo, pubblicò perfino una vignetta nella quale i soldati sono rappresentati sotto la forma di cocuzze, ed il general Zucchi (cocuzza ancor esso) radente loro la barba.36
Dalla Gazzetta di Roma del 7 novembre fummo informati che il Zucchi aveva ricevuto la naturalizzazione negii stati della Chiesa fin dal 19 settembre, che se gli conservava, come dicemmo sopra, il titolo che già aveva di tenente generale, e che partendo, restava interinalmente incaricato del portafoglio delle armi il duca di Rignano.37
Basteranno questi cenni per potersi formare una idea dei tempi che correvano. Appena si crederà un giorno che così venisse accolta in Roma una delle celebrità t militari dell’impero, una delle glorie dell’armata italiana, ed uno dei campioni dell’italica indipendenza alla quale aveva consecrato la vita incontrando disagi, pericoli, fughe, persecuzioni, prigionie, e scampando la morte soltanto per potentissima intercessione.
Ma così andavan le cose in quei tempi in che da un cieco fanatismo venivano tutti esaltati. Il Rossi, il Zucchi, l’Orioli, il generale Armandi, campioni tutti del movimento italiano, eran gittati nel fango da una gioventù irrequieta, ciarliera, irriverente pel vero merito; la quale ignara affatto di ciò che fosse libertà legale, scambiava colla libertà la licenza e gli oltraggi, e vedeva il summum jus nello stato costante di sedizione e scompiglio. Proveranno vergogna essi stessi, fatti maturi dalla esperienza, per queste loro prodezze, e inorridiranno nel rammentarsi cfie un uomo qual si fu il Zucchi, venisse due mesi dopo da un conte Campello ministro delle armi trattato come un vecchio imbecille, e disfidato a duello.
Ora ci resta a parlare di un altro politico episodio che venne ad aumentare gli elementi di discordia in Italia.
Caduto il Gioberti dai seggi ministeriali in Piemonte, concepì l’idea di convocare nella capitale del regno Sabaudo un’assemblea, o congresso federativo, pel 10 di ottobre; ed a tal effetto diramò una circolare a tutti i suoi amici, ed ai circoli d’Italia.38
Qual fosse lo scopo reale o il razionale divisamente del Gioberti, non vogliamo per ora esaminare. Designamo semplicemente il fatto, e solo ci permettiamo di aggiungere alcune osservazioni che il Farini ci ha strappato dalla penna.
Per intelligenza però delle nostre osservazioni sottomettiamo ai nostri lettori i nomi dei personaggi politici che partiron da Roma per recarsi al congresso federativo, e che furono:
Il conte Terenzio Mamiani pel circolo romano.
Il dottor Pietro Sterbini pel circolo popolare.
Michelangelo Pinto pel casino dei commercianti.
Leopoldo Spini, che nel 1849 fu sostituto del Triumvirato.
Il principe di Canino, in compagnia di Giovanni Andrea Romeo calabrese, il quale fu uno dei capi dell’insurrezione calabra.
Pier Silvestro Leopardi, napolitani, rappresentante del governo di Napoli presso Carlo Alberto, e autore di alcune memorie storiche.
Silvio Spaventa, uno dei deputati che preser parte ai moti di Napoli del 15 maggio.
Giuseppe Massari napolitano, amicissimo del Gioberti, e (secondo il Montanelli) corriere della Giovane Italia.
Egli è osservabile che fra tutti questi non vi fosse che un solo Romano, il Pinto.
Convien credere che Farini, il quale per tanti rispetti conosceva assai bene tutti i personaggi politici che presero parte alla romana rivoluzione, e che non risparmiò, quando l’occasione lo richiedeva, di censurarne i procedimenti, abbia scambiato il principe di Canino e il poeta Sterbini con Titiro e Melibeo delle Bucoliche di Virgilio, e Giovanni Andrea Romeo coll’amoroso pastore Coridone menzionato ancor esso dal Mantovano poeta; oppure, che a’ suoi occhi fossero a parificarsi col Crescimbeni, col Zappi col Filicaia, modulatori beati delle lire di Arcadia: altrimenti come poteva venirci a dire che il congresso di Torino fu per se medesimo di arcadica innocenza?
Certamente che la ridente cultura dei campi, o le soavi dolcezze della italiana poesia erano associate ai pastori ed ai poeti per noi rammemorati; ma al seguito di un Canino, di uno Sterbini, o di un Romeo null’altro si vide che in vettive, calunnie, scompigli, sedizioni e rivolture cruente: nè sappiamo comprendere come offensivi ed infesti costoro sulle rive del Tebro e del Sebeto, divenissero innocui soltanto sulle rive della Dora.
Comunque si voglia il congresso si riunì, ed il Mamiani vi pronunziò il suo discorso nella qualifica di presidente: e questo discorso può leggersi fra i nostri documenti. 39
Terminata però la loro missione, tutti o quasi tutti ritornarono in Roma, e rimase sempre un mistero qual fosse lo scopo reale del congresso federativo di Torino. Questo sì vedemmo, che gli avvenimenti precipitarono subito dopo, c la rivoluzione, accelerando il suo corso, riportò un completo trionfo sulle rive del Tevere.
In seguito di ciò dobbiamo aggiungere alcune osservazioni.
Si è sempre sentito parlare della unione d’Italia, ma sempre ancora si è veduta la disunione degli Italiani, nè sappiam concepire come dalle parti disgregate e sconnesse possa formarsi un centro di unità. Concretiamo le nostre idee.
Ci racconta il Leopardi che in Napoli dopo i fatti del 5 settembre 1848, due giovani deputati de’ più caldi avvisaronsi di poter mettere a profitto l’amore di libertà, istituendo un’associazione tendente a promuovere l’unione italiana40 .
In pari tempo il presidente Manin e il generale Pepe scrivevano da Venezia al Leopardi affinchè si recasse colà, unica città libera, per convocarvi il tanto bramato parlamento italiano, cercando così di buttar giù il congresso federativo che proponeva il Gioberti.41 Venezia dunque non istava con Torino, e cercava di trascinare Napoli nelle sue viste.
Il Gioberti intanto attuava il suo piano, riuniva il suo congresso, ed a quello affluivano le sommità politiche, o i capi della rivoluzione italiana, come abbiamo già esposto. Ma non perdiamo di vista che lo schema giobertiano consisteva nella convocazione di una Costituente da esso immaginata.
E mentre queste cose venivansi svolgendo in tre punti diversi della penisola italiana, eccoti il Montanelli farsi avanti col progetto di una Costituente foggiata sopra altre basi, prendere il sopravvento su tutti gli altri, e terminare col farla proclamare in Roma, come meglio racconteremo nel mese di dicembre.
Preghiamo i nostri lettori di volere per pochi istanti fissare la loro attenzione su queste considerazioni che un cittadino italiano, quale io pure mi vanto di essere, sottopone sommessamente al loro discernimento.
Ora, proseguendo la enumerazione degli atti del Rossi, diremo che fra i provvedimenti ai quali credette di dare opera, sia per amore di equità, sia per contentare gli esagerati e ridurli al silenzio, sia in fine perchè trattavasi di sostenere il governo dei clericali, in un momento più che anti-clericale, pareva a tutti provvido espediente che anche la chieresia portar ne dovesse il peso, e che, mentre gridavasi contro il clero e le sue ricchezze, il clero solo andar non dovesse immune da straordinari gravami in circostanze straordinarie.
Otteneva pertanto il Rossi, ben inteso col consenso del papa, che il clero il quale aveva già dato ipoteca per due milioni di scudi in guarentigia dei boni del tesoro, si assoggettasse a sacrifici maggiori.
In seguito di ciò, già fin dal 9 di ottobre, si era letto nella Gazzetta ufficiale che il Cardinal vicario aveva con notificazione del 6 assoggettato il clero allo sborso di 200,000 scudi per far fronte alla prima rata dei boni del tesoro, scadente col 1° di gennaio prossimo; in mancanza di che una parte dei beni ipotecati sarebbesi dovuta vendere all’asta pubblica.42 Ma il giorno 27 dello stesso mese il clero tanto secolare quanto regolare avanzava istanza al Santo Padre per mezzo del cardinale Orioli prefetto della congregazione dei vescovi e regolari, per offerire quattro milioni di scudi pagabili in rate annuali a sovvenimento dell’erario pubblico, purchè per altro si ottenesse lo svincolo immediato dei due milioni df beni ipotecati.
Assentiva il pontefice alla richiesta con suo chirografo del 28, che il giorno 30 per gli atti dell’Appolloni segretario di Camera veniva esibito.43
Trattandosi di una cosa di sì grave momento crediamo di riportare una parte della istanza del clero, e la prima parte del chirografo pontificio, tanto più che non ne rinvenimmo traccia veruna nella Gazzetta ufficiale. Eccole:
- «Beatissimo Padre,
»I vescovi ed i superiori degli ordini religiosi esistenti nello Stato pontificio, nei desiderio di concorrere a sollevare il credito finanziero dello Stato per le attuali vicende decaduto, ed a liberare la Santità Vostra dai-. l’amarezza che dovrebbe provare nel vedere esposti a vendita i beni ecclesiastici ipotecati in garanzia dei due milioni di boni del tesoro, gratuitamente offrono alla Santità Vostra per lo Stato, a nome dell’uno e dell’altro clero, e degli amministratori dei luoghi pii, la somma fu quattro milioni di scudi da pagarsi in quindici rate annuali nel mese di decembre di ciascun anno incominciando dal 1849, cioè dieci di scudi trecento mila all’anno, e cinque di duecento mila per gli ultimi cinque anni, compresa nella prima rata del 1849 quella di scudi duecento mila già imposta con circolare della sagra Congregazione dei vescovi e regolari del 23 settembre 1848, all’oggetto di ammortizzare la prima rata, dei boni dei tesoro nel gennaio 1849.
»Tale offerta si fa dal clero secolare e regolare, a condizione di ottenere l’immediato svincolo dei beni già ipotecati a garanzia dei boni del tesoro, e di non essere in alcun modo ritenuti responsabili per l’ammortizzazione de’ boni stessi.»
E il Santo Padre rispondeva:
«Reverendissimo Cardinale Orioli
prefetto della sagra Congregazione dei vescovi e regolari.
»Quantunque per le regole immutabili della giustizia sanzionate dalle leggi di tutti i tempi, e di tutti i luoghi, e confermate recentemente dall’articolo VIII dello Statuto fondamentale, gl’istituti pii, e le corporazioni ecclesiastiche o religiose, non debbano concorrere ai pubblici pesi, che nella stessa misura colla quale vi concorrono gli altri possidenti; nondimeno il benemerito clero secolare e regolare, dando una prova oltre ogni credere luminosa di patria carità, si è mostrato sollecito di sovvenire con un sussidio straordinario agli urgenti e straordinari bisogni dello Stato. Imperocché, siccome voi ci avete riferito cón grande compiacenza dell’animo nostro, ha dichiarato di voler fare gratuita offerta al pubblico erario della somma di quattro milioni di scudi, somministrandoli in quindici rate annuali da pagarsi nel mese di decembre di ciascun anno, e da aver principio nel 1849; cioè le prime dieci rate di scudi trecentomila, e le ultime cinque di duecentomila scudi, compresa nella prima rata pel 1849 quella di scudi duecentomila già imposta con la vostra circolare del 28 settembre 1848 all’oggetto dr ammortizzare la prima rata dei boni del tesoro; e ciò con lo scopo, e colla condizione che sia tolto il vincolo dei beni ecclesiastici sottoposti alla ipoteca per l’importo di due milioni a garanzia degli stessi boni, e di non essere in alcun modo responsabile per la loro ammortizzazione prescritta dalla ordinanza ministeriale del 29 aprile del medesimo anno.
»Avendo voi in nome del suddetto clero richiesto il nostro beneplacito, onde rendere valida, efficace, ed obbligatoria tale offerta secondo il disposto nelle leggi della Chiesa; Noi, presso gli esempi di vari pontefici nostri predecessori e segnatamente di Pio VI che in simili circostanze non dubitò di permettere col suo breve del 31 luglio 1797, che l’uno e l’altro clero si obbligasse ad un generoso sussidio verso lo Stato, abbiamo considerato ciò che appunto Egli saggiamente considerava, nel grave pericolo della cosa pubblica, essere conforme alla equità ed alla giustizia che la Chiesa presti alla civile società uno straordinario soccorso. Quindi, col presente nostro chirografo nel quale vogliamo che ai abbia per espresso e testualmente inserito il tenore della enunciata offerta, della ordinanza ministeriale del 29 aprile 1848, e quanto altro sia o potesse essere in qualunque modo e per qualunque motivo necessario ad esprimersi, di nostro moto proprio, certa scienza, e con la pienezza della nostra apostolica potestà diamo e concediamo a voi tutte le facoltà necessarie ed opportune, affinchè possiate, in nome nostro, accettare ed approvare la offerta di quattro milioni di scudi romani, ec.»
In proseguimento della narrazione delle cose operate dal Rossi rammenteremo ciò che di volo accennammo più sopra, cioè che avea fatto partire da Roma per le Romagne la prima legione romana fin dal 23 settembre.44 Ora dobbiamo aggiungere che quei pochi i quali rimasero in Roma, e che il Farini computa essere stati un centoquaranta circa, collegaronsi in battaglione che si chiamò dei reduci, e si poser sotto il comando di un Luigi Grandoni, il quale si vedrà figurare in primo grado, ed insieme co’ suoi militi, nella cospirazione contro il Rossi.45
Esistevano in quel tempo alcuni germi di mal umore in Trastevere (o almeno così si faceva apparire) contro il maggiore di quel battaglione Giuseppe Forti, perchè troppo papalino, e di modi troppo aspri e severi. Il Rossi a fare sparire questi germi di perturbazione, affidava il comando di quel battaglione all’abile agronomo e ricco possidente Vincenzo Cortesi, ch’era in voce di uomo conciliativo, prudente e di temperate opinioni. Piaceva inoltre nel medesimo la disinvoltura di modi, congiunta a larghezza di animo; in prova di che ne fu solennizzata l’ammissione con luminaria al quartiere civico di Trastevere la sera del 24 settembre, e le cose di quel quartiere procedettero in seguito regolarmente.46
Anche il Santo Padre venne festeggiato in Trastevere, mediante un arco trionfale, il giorno 29 di settembre, nella occasione che recavasi a san Michele, per solennizzarvi secondo il solito la festa.47
Il 14 di ottobre il ministro interino delle armi duca di Rignano emetteva una notificazione per l’ammissione dei cadetti nel corpo del genio militare;48 ed il 23 con due ordinanze che pubblicava, davansi alcune disposizioni disciplinari, e si annunziavano le accordate promozioni.49
Il 27 fu decretata la cessazione del commissariato straordinario per le quattro legazioni, riconfermato a legato di Bologna il cardinale Amat, ed in sua assenza destinato a farne le veci il conte Alessandro Spada.50
Il primo di novembre veniva da Sua Santità conferito al cardinale Antonelli il carico di prefetto dei sacri palazzi apostolici.51
Mentre per altro il ministro Rossi faceva ogni sua possa per ricondurre l’ordine nello stato, la regolarità nelle finanze, la disciplina nell’armata, sforzavasi pure di reintegrare la gerarchia negl’impieghi civili, e la quiete sempre incerta nella città: tutte le quali cose costituiscono quei beni pe’ quali gli uomini sospirano, e pel cui conseguimento fomentansi le rivoluzioni. E mentre il clero stesso concorreva per ottenere uno scopo sì salutare, qual era l’ordine, la pace e la tranquillità che dar si volevano allo stato; mentre la classe eletta dei cittadini, stanca ornai per le patite perturbazioni di oltre a due anni, prometteva il suo valido appoggio alle idee del Rossi, che cosa faceva la stampa?
Censurava, screditava, vituperava il Rossi ed il Zucchi nel modo il più maligno ed acerbo, e abbandonavali entrambi a tutte le passioni malevole che contro di essi suscitavansi.
Già il n. 11 del Casotto dei burattini ti dava il Rossi guidante una biga, con entrovi il cardinale Soglia ed un vecchio (senza dubbio il Zucchi). Il carro era tirato da cinque persone (ch’erano i ministri) e stava per entrare sotto un arco sul quale era scritto: «Per me si va nella città dolente.» Sulla vignetta leggevasi: «Scultura romana,» e sotto la medesima: «Basso rilievo in marmo di Carrara,» alludendo al Rossi che nella città di Carrara era nato.52
Una caricatura pure pubblicavasi in foglio che ti presentava il Cardinal Soglia e il Rossi, protagonisti del quadro, i quali sforzavansi congiuntamente dì far sollevare un globo aereostatico simboleggiante il ministero; sotto vi era scritto: «Spingi qua, tira là, si alzerà? cascherà? Dio lo sa! 53
Il Don Pirlone dava il Rossi in gran tenuta, che si presenta al cardinale Soglia, facendo riverenza alla francese; e sotto vi era scritto: «Un ministro cosmopolita.» 54 Egli è da rammentare che il Rossi, italiano, aveva ricevuto la naturalizzazione prima nella Svizzera e poi in Francia.
Nel numero 27 del detto giornale vedevi il Rossi giocare a scacchi coi Cardinal Soglia. Il cardinale diceva: «Scacco al re,» il Rossi rispondeva: «Gare à la revanche.»55
Il numero 36 mostrava il Rossi facendo il salto mortale nell’atto di sfondare, a foggia degli acrobati, una botte cartacea, presenti tutti gli altri ministri inclusive il Cardinal Soglia evidentemente messo in caricatura.56
Il numero 41 finalmente del 20 ottobre rappresentava il Don Pirlone che fa le fiche al Rossi, il quale gli misura un colpo di bastone. Sotto vi era scritto: «Badate al fiasco.» 57
Quanto alla stampa di genere serio basterebbe rammentare quell’articolo veementissimo che sotto il titolo «Ingannare e corrompere,» compilò lo Sterbini, e che inserì nel Contemporaneo 58 Si disse che quell’articolo avesse aguzzato il pugnale che doveva uccidere il Rossi. Altro ne pubblicò il giorno 15, che non la cedeva in veemenza al primo.59
L’Epoca ancora ne pubblicò uno il giorno 11 non meno violento,60 col quale il Rossi veniva qualificato da retrogrado che nulla fece, e nulla accennava voler fare. Un ministro creato per paralizzare il movimento italiano, per contraporre un argine lentamente alla possanza nazionale, per ridurre il governo alle tristissime condizioni nelle quali involse per quindici anni la Francia la corte immorale e corruttrice di Luigi Filippo. E con altro articolo del 1261 difendeva il Don Pirlone, e sosteneva che se il ministero ha trionfato nel fatto, non è però in sua mano di uccidere la forza del diritto; i suoi sforzi saranno impotenti, quanto ingiuriosi alla libertà.
Ma intanto, come ci narra il Farini, lo Sterbini e il Canino reduci dal congresso di Torino, eransi trattenuti in Firenze in un segreto conciliabolo, ove si volle da alcuni, che fossero adottate terribili determinazioni. Il Farini così prudentemente si esprime: «Convennero a Firenze, reduci da Torino, il Canino e lo Sterbini (cioè quei due semplici pastorelli da noi menzionati qualche pagina indietro), e furono co’ democratici del governo, de’ circoli e della piazza. Quel che si dicessero, quel che si facessero a Firenze, io non so; e siccome io non affermo cosa che non sappia di sicuro, e che non possa documentare, mi tengo dal narrare ciò che allora e poi si mormorò intorno ai discorsi ed ai, proponimenti loro.
Questo sì affermo, perchè il so, che ed il Canino,e lo Sterbini non appena furono in Roma, incominciarono l’uno e l’altro, ognuno secondo suoi peculiari modi, a far romore; e qual si-diede a celebrare il ministero democratico di Toscana, e a profetar’miracoli della Costituente; qual si diede a condannare e vituperare Pellegrino Rossi, il ministero romano, il governo de’ preti.62»
Difatti, ritornato appena lo Sterbini a Roma, rese conto al circolo popolare di ciò ch’erasi deciso in Torino.
Presentò il progetto di confederazione italiana, e propose un comitato centrale romano composto da tutti i circoli. 63
Intanto il Garibaldi reduce dall’alta Italia e dalla valle d’Intelvi, d’onde il 20 di ottobre aveva diramato ai Lombardi un proclama,64 fece la mostra di voler colla sua legione (ch’era un’accozzaglia di gente di ogni paese) entrare nel Bolognese. Giunto però colà in tempo il Zucchi, che probabilmente v’era stato mandato a disegno per impedirlo, riuscigli di procurare al Garibaldi un imbarco a Ravenna per Venezia.
Altro bene segnalato procurò il Zucchi ai Bolognesi, disarmando nella notte del 13 novembre tutti coloro che non erano inscritti nei ruoli civici. E ladri, e sicari, e malandrini di ogni specie vidersi così privati di quelle armi che non a difesa, ma ad offesa degli onesti cittadini in loro mani esistevano; sicchè al terrore successe la calma, all’incertezza la sicurtà65.
Ma se calmavansi gli spiriti in Bologna, esasperavansi in Roma ove i non Romani ch’eran molti, avevan piantato il loro quartier generale. Ad accrescerla vie maggiormente poi si aggiunse il 13 la condanna del Don Pirlone, per aver posto in caricatura il Rossi.66 Si aggiunse pure la passeggiata di alcune centinaia di carabinieri pel Corso, ch’egli poi passò in rivista nel cortile di Belvedere.
Inoltre rincrebbe al partito democratico l’esilio e la partenza per Civitavecchia di due rifugiati napolitani, uno dei quali Vincenzo Carbonelli era stato di certo condannato a morte da quel governo. Il suo compagno chiamavasi Gennaro Bomba.67 E per ultimo fu trovato derisorio un po’ troppo, e per quei tempi sconsigliatamente provocante, il suo articolo del giorno 14 nella Gazzetta di Roma. 68
Quanto però ai due Napolitani esiliati, non erano al certo nè l’uno nè l’altro fiori di virtù politica: imperocchè risulta dal processò che sulla uccisione del Rossi vide la luce nell’anno 1854, che avevano cospirato entrambi contro di lui; che anzi eran designati fra i capi di quella malaugurata congiura.69
Essendoci diffusi fin qui nell’enumerare i sintomi, e designare qualcuno degli elementi che prepararono la catastrofe del Rossi, è tempo ormai che parliamo della cospirazione ordita contro di lui pel giorno 15, destinato all’apertura dei Consigli legislativi. Il governo per verità era già in sugli avvisi e conosceva il giorno destinato per tanto misfatto, in grazia delle informazioni avutene dalla vicina Toscana.
Fin dal giorno 14 però la eruzione del vulcano mise fuori le prime fiamme, perchè in quel giorno quantunque gli associati tutti al Don Pirlone ricevesser la loro solita distribuzione, che in quel giorno portava una vignetta in cui vedevasi il re Carlo Alberto che insieme al Gioberti coll’aiuto di un telescopio, scandagliavano la opportunità della guerra simboleggiata da una tartaruga; pur tuttavia agli iniziati ne’misteri tenebrosi di quell’epoca infausta distribuì ssene anche un’altra esprimente il conte Rossi (ritratto perfetto quanto alla figura e alla fisonomia) vestito alla don Quichotte, che siede sopra un sasso accanto al suo fido Sancho Pancha, ch’era l’avvocato Ciccognani. Portano entrambi un cartello, in uno dei quali vi è la cifra 300, nell’altro il 500, allusivi al quantitativo degli scudi romani che ritraeva il Rossi dai portafogli ministeriali: tolti però i zeri e fatta la moltiplica, alcuni credettero che il n. 15 che ne risultava non fosse casuale, ma fatto a disegno, per esprimer cioè il numero fatale del giorno destinato alla perpetrazione del misfatto.
Sotto la vignetta vi era la seguente iscrizione:
- «Qui studet optatam cursu contingere metam
- » Multa tulit fedtque puer, sudavit et alsit.»
Nel fondo della scena poi vedevansi chiaramente dei papaveri, che sono il simbolo del sonno eterno o della morte.70 Parve dunque che colla diffusione parziale di questa stampa volesse preludersi alla esecuzione del delitto, e prevenirne gl’iniziati al segreto. Noi facciamo menzione di ciò per nulla tacere di quello che si è pensato, o si è scritto; ma ripetiamo che il numero 15, risultanza naturale dei due numeri moltiplicati l’un per l’altro, fu forse una combinazione e nulla più.
Giunto il giorno 15 si osservò fin dal mattino un insolito movimento ed un affaccendarsi di molti individui con faccie torve. Ciò indicava che qualche cosa di tristo andavasi preparando.
Trattandosi di un giorno così solenne, stante la riapertura dei due Consigli legislativi, non aveva mancato il Rossi di dare le opportune disposizioni pei carabinieri al colonpello Calderari, non tanto a tutela della sua persona, quanto per assicurare l’ordine pubblico. Ricusò costantemente una scorta,71 e non pensò a ordinare che almeno un distaccamento di carabinieri gli facesse ala quando sarebbe sceso dal legno, per salir la scala del palazzo della Cancelleria. Carabinieri non vidersi; e se ve ne fu taluno qua e là disseminato, non si conobbe affatto che prendesser parte attiva, neppure per il mantenimento dell’ordine. Parve insomma che l’arma dei carabinieri in quel giorno non esistesse.
Fu avvertito il Rossi del pericolo che sovrastavagli dalla duchessa di Rignano, con apposito biglietto; 72 ne fu avvertito pure da un monsignor Morini; 73 e vuolsi ancora che ricevesse altro biglietto dalla contessa di Menou,74 nel quale gli si diceva: «guardatevi dallo andare al palazzo legistativo, la morte vi ci attende.» Si disse comunemente che rispondesse: «la causa del papa è la causa di Dio.» 75
Rammenteranno i nostri lettori aver noi già detto che ripartita la prima legione per le Romagne il giorno 23 settembre , una porzione (centoquaranta circa) rimase in Roma sotto il comando di un Luigi Grandoni, componendo un battaglione separato che fu detto dei reduci. Il Grandoni figurò poi nel processo come uno dei capi, ed i militi sotto i suoi ordini come i complici ed i cospiratori principali per consumare il delitto.
Di questi pertanto una porzione composta di cinquanta o sessanta individui circa, era sulla piazza della Cancelleria con una lor tunichetta particolare, chiamata volgarmente la panuntella. Costoro secondo le deposizioni processuali facevan delle riunioni sotto la direzione del Grandoni nel teatro Capranica, e vuolsi pure che colà si facesse l’esperimento sopra un cadavere per addestrarsi nella meditata uccisione dei Rossi, affinchè il colpo non andasse fallito.76
Lo Sterbini e il Canino77 mostraronsi operosissimi in quella occasione, e figuravan fra i capi del complotto. L’antagonismo che aveva sempre esistito fra loro sparì: parve, e comunemente si disse, che sotto gli auspici di un comune delitto gli animi loro si fosser riconciliati.78
Fra gli orditori principali poi della trama esecranda figurarono quei due rifugiati napolitani Vincenzo Carbonelli e Gennaro Bomba, che abbiamo nominato più sopra e che il Rossi mandava in esilio il giorno 13.79
Lo stesso Leopardi, che fu ministro costituzionale di Napoli presso Carlo Alberto, ed uno dei capi del movimento italiano, pone il Carbonelli alla testa dei liberali più avventati.80
Vi figurò ancora un tal Ruggero Colonnello rifugiato napolitano, e complice coll’avvocato Galletti nella cospirazione del 1844.81
Il Galletti stesso poi era designato siccome uno degli iniziati nel segreto.82 Figurarono inoltre fra i capi due fratelli Facciotti di Palestrina, ed in loro casa tennersi delle riunioni preparatorie. Così almeno risulta dal processo. 83
Fra i Romani ve ne furon pur troppo alcuni, e fra questi, Ciceruacchio padre e figlio.84 Il figlio fu quello al quale lord Minto consegnò i versi laudatori della sua frigida Musa, che poi il d’Azeglio. voltò nella italica favella. Riandandovi ora col pensiero, non si può non esser compresi da rossore per entrambi; ma finalmente nè lord Minto rappresentava la nobilissima nazione britannica, nè il d’Azeglio la non men nobile italiana. Presero dei granciporri ambedue, e non furon soli!... Poveri noi, se i fatti isolati di pochi individui tornar dovessero in onta delle rispettive nazioni. Degli altri capi-popolo, o compartecipi di cosiffatte iniquità ci rifugge l’animo di tenere più lungo proposito. Chi si sente la voglia di conoscerne i nomi legga il processo. È cosa avverata però che se vi furon fra i complici alcuni Romani, i capi e gli istigatori principali furono il Carbonelli, il Bomba, il Colonnello, i fratelli Facciotti, l’avvocato Galletti, il Canino, e lo Sterbini, che non erano Romani.
Ritornando al Rossi egli è innegabile che ad onta degli avvisi ricevuti, volle coraggiosamente, o imprudentemente, affrontare il pericolo, fece visita al papa e se ne congedò. Ahimè! fu quella l’ultima volta! Ascende nel legno, si reca a prendere con sè il cavalier Pietro Righetti, ed arriva sulla piazza della Cancelleria circa un’ora dopo il mezzogiorno. Ma qual differenza! Al giungervi dello Sterbini poco prima, applausi immensi!85 All’apparir del Rossi, sibili e fischi! Discende dal cocchio, alcuni ex legionari se gli fanno d’appresso, e formano due ali compatte a piedi della scala: sente percuotersi in una gamba, si volta, ed una mano omicida vibra risolutamente un colpo di pugnale sul suo collo e fende la carotide.86
Ferito appena, sente mancarsi. Lo sorregge il Righetti, e fa della sua persona sostegno e riparo allo spirante ministro, immerso nell’angoscia, intriso nel proprio sangue. Quindi è posto sopra una sedia e trasportato negli appartamenti dei Cardinal Gazzoli, assistendolo sempre il Righetti, un domestico del Rossi e gli addetti alla famiglia del cardinale. Sopraggiunge il dottor Pantaleoni, membro del Consiglio dei deputati, e cerca di assistere il moribondo. Fa ricercare di un sacerdote: questi viene, ma il Rossi era spirato.
Alle grida che perfin nella sala si udirono, prima che il ministro spirasse, allo sbigottimento di alcuni che entravano, al richiedersi in fretta di medici e di chirurghi, al vedere i professori Fabbri, Fusconi e Pantaleoni uscire immantinente dalla sala, si conturbò l’assemblea; finchè s’intese esser ferito il Rossi.
Fosse però timore, fosse mal intesa imperturbabilità, fosse prudenza o, come la chiamarono, calma imponente,87 il presidente senza sgomentarsi ordinò che si leggesse il processo verbale della seduta precedente. Il segretario volle incominciarne la lettura; ma niuno badandovi, e tutti pensando a mettersi in salvo, rimase vuota la sala. E tu orrore del delitto, ove stavi, che non facesti sentir la tremenda tua voce? Sì, una voce sentissi e tristamente sentissi, che diceva: «A che tanto affanno? È forse il re di Roma?» E questa voce era quella del Canino.
Il Farini racconta il fatto, ma non nomina la persona.88 Essa era ancora fra i viventi. Nel ristretto del processo mai non è nominata, se non come il personaggio distinto, il nobile contumace. E ciò per prudenziali e delicati riguardi. Ora il Canino non è più. Esistono è vero i suoi figli, esempi tutti di onore e di bontà, e modelli di virtù religiose e civili, ma la storia reclama che si dica il vero, e noi a malincuore dovemmo dirlo.
La catastrofe tremenda che si compiè in quel giorno al palazzo della Cancelleria mise la costernazione e il terrore nella città. Gli onesti e i pacifici, i quali (checchè si dica e si scriva in contrario) son sempre il maggior numero, ne rimasero atterriti: sì che tu li vedevi cupi e taciturni aggirarsi per la città quasi ti dicessero che se l’oggi era male, il domani si prenunziava peggio. T’incontravi pure con individui di truce aspetto, i cui lineamenti appari van contratti per gioia feroce, e quale vantavasi di aver cooperato, quale di avere incitato gli altri all’azione gloriosa, che parificava la Roma dei papi a quella dei Bruti e degli Scevola. E come gli antichi gloriavansi di avere spento in Cesare il tiranno di Roma, glorificavansi i Bruti moderni di avere spento in Rossi il nemico del popolo romano.
Compresi gli animi da cupo terrore, non già nelle vie e nei pubblici ritrovi disfogavano il loro cordoglio, o manifestavano i lor timori, ma appena, appena fra le domestiche pareti.
Il papa fu colpito come da fulmine al triste annunzio. Deserto il Quirinale, perchè pochi o niuno in tanto scompiglio, o sotto l’impero del timore, furono a tributare al sovrano atti d’ossequio o proteste di sostegno.
Si rivolse allora il Santo Padre al Minghetti, al Montanari, al Pasolini, affinchè vedesser di reggere temporaneamente la cosa pubblica. Cercassero se possibil fosse, di costituire un nuovo ministero. — Essi però non credettero di sobbarcarsi a sostenere tanto peso, e così Roma restò una nave senza timone.
Non reggendo l’animo al duca di Rignano amico intimo del Rossi di sostenere il comando della guardia cittadina, venne esso conferito all’onorato giovane Giuseppe Gallieno; ed il Rignano, temendo anche pe’suoi giorni, sen fuggì da Roma all’istante.89
Si ricorse per notizie e provvedimenti al colonnello Calderari, ma i suoi detti tronchi ed ambigui, il suo procedere incerto, peritante e misterioso, eccitaron gravi sospetti, se pur non vogliasi di complicità, di colpevole o inescusabile inettezza per fermo. Pubblicò il Calderari un opuscolo in difesa del proprio operato.
Meno pertanto che alla civica preposto un Gallieno, alla linea un Lentulus, che fungeva come pro-ministro delle armi, Roma non ebbe nè governo nè autorità per guidarla.
Restava però il circolo popolare. E la sera del 15 di fatti vi si tenne una riunione quanto numerosa, altrettanto tumultuaria. Noi non vi eravamo, chè giammai volemmo frequentare circoli. Bensì abitando di prospetto al circolo popolare, avemmo agio di vedere e di udire quel che ora diremo.
Prima però di raccontare ciò che si passò in quella fucina di cospirazioni, dobbiam premettere la narrazione di uno dei più turpi e obbrobriosi episodi, che nella stessa sera ebbe luogo.
Vedevansi (e inorridiamo nel raccontarlo) turbe di giovani plaudenti, con faci, e cartelli, e bandiere tricolori vagare pel Corso canterellando, ed estollendo l’assassinio del Rossi. Sì fu vero pur troppo che andavasi gridando: «Benedetta quella mano che il Rossi pugnalò,» e che rivaleggiavano i membri di quelle orgie infernali per ascriverne ciascuno a sè il merito. Erano orgie briache di sangue, e gavazzanti per colpe e per vendette, che scorrazzavan tripudianti per le vie di Roma, e a tanto spinsero la inumana ferocia, che là ove discioglievasi in pianto la famiglia dell’estinto, incontro il palazzo Doria, arrestaronsi per glorificare quella mano che alla vedova tolse lo sposo, ai figli il padre, al sovrano il fido ministro, a Roma la sua sicurezza e le sue nascenti speranze.
E tu o vessillo tricolore, che fosti bene spesso testimonio di tante nefandità che sotto i tuoi auspici si commisero, incomincia dal farti ribenedire, se vuoi che sotto la tua ombra onorata possano gl’italiani fondare un giorno il regno della libertà. Finora assistesti alle orgie schifose di plebe insensata e proterva, e all’ombra tua perpetraronsi atti molteplici che disonorano l’umanità. Della libertà non parliamo: essa fu sempre in sulla bocca dei mestatori, ma calpestata poi e profanata, rimase una parola vuota di senso.
Ritornando alla riunione del circolo popolare nella sera del 15 novembre, diremo che dopo una lunga ed animata discussione, si videro aprire le finestre del circolo ch’era nel palazzo Fiano, e chiaramente scorgevansi da noi ch’eravamo dirimpetto alcuni civici, carabinieri e dragoni frammisti ai borghesi; quando si vide un popolano spingersi in mezzo alla sala, e si udì gridare in questo modo: «Noi volemo un ministero democratico, come quello de Montanelli, Sterbini ministro, Cammello ministro. Zitti, lasciate parlà el nostro Sterbini.» Lo Sterbini pronunziò alcune parole che non s’inteser da noi. Dissero alcuni che si proclamasse ministro anche il Galletti avvocato. Dopo di ciò udironsi applausi, cui successe un confuso mormorio di voci, e pochi minuti dopo la riunione si sciolse.90 E così, come il ministero Mamiani uscì dalla riunione dei circoli nel palazzo Theodoli, il ministero democratico dei Galletti, Sterbini e Campello emanò dagl’incomposti elementi del circolo popolare, eccitati dal discorso di un uomo della plebe. E se si riflette che l’indomani il ministero preconizzato incominciò a riunirsi, e che qualche giorno dopo assunse effettivamente il potere; se si considera che desso fu che favorì poi e proclamò la Costituente, e che da questa rampollò la repubblica, dovrà pur convenirsi da ognuno quanto i circoli in tempo di rivoluzione sian potenti e perniciosi.
Discioltosi il circolo popolare, alcuni membri appartenenti al medesimo e dei più influenti recaronsi alla caserma dei carabinieri sulla piazza del Popolo, affinchè si associassero al movimento del giorno, o meglio affinchè si affratellassero cogli uomini della rivoluzione. Su questo fatto, che chiamarono l’affratellamento dei carabinieri, pubblicossi un foglietto; ed affinchè i nostri lettori possan farsi una idea dello spirito di vertigine che invadeva i sommovitori, riportiamo il brano seguente:
«Il 15 novembre 1848.
»Roma, quella Roma che da lungo tempo pareva ma che non fu nè sarà mai in letale sonno giacente, oggi si è vista alla primiera gioia ridesta, e gettando improvvisamente da sè con mano forte e risoluta il manto sepolcrale che la ricopriva, si è mostra di nuovo col crine inghirlandato di rose, e si è udito per le sue vie ribenedire quel nome che sempre glorioso si sentì echeggiare.
»Per essa adunque in un giorno sì bello dispiegò Roma le sue bandiere, e sventolanti fra una immensa folla di popolo plaudente al nome di Roma e del popolo romano, furon portate fra torchi accesi, alla caserma dei carabinieri invitandoli a fare parte di quella dimostrazione con un indirizzo che li chiamava fratelli, intendendo così di stringere vieppiù quell’unione che la forza delle circostanze e il bene dell’Italia aveva stretti ad un patto.
»Non indugiarono le grandi porte di quel vasto quartiere a spalancarsi, e lasciare libera l’uscita a que’ bravi militi, che si gittaron precipitosi fra le braccia di un popolo, da cui più assai di prima allontanare si volevano. »91
Dopo di ciò recaronsi tutti nelle altre caserme collo stesso intendimento di affratellarsi co’ militi, e per ultimo andarono a festeggiare l’avvocato Galletti, giunto di fresco alla locanda della Minerva.92
E così fra lo squallore, la sorpresa, lo spavento da una parte, le cospirazioni, i delitti, i tripudi dall’altra, si passò il giorno 15 di novembre.
Questo giorno sarà mai sempre nefasto per Roma perchè prescindendo dalla macchia di un enorme delitto che si compiè fra le sue mura, colla vita del Rossi si spense anco quel germe solo che avrebbe fatto conoscere se fosse possibile nella Roma dei papi un governo a forme rappresentative. Sebbene sia opinione di molti assennati uomini esser desso del tutto incompatibile col libero esercizio della sovranità spirituale e temporale del pontefice, ed essere quindi da rilegarsi nel regno delle utopie.
Pur tuttavia anche sotto questo punto di vista fu d’immenso danno il recidere la sua vita, in quanto che non se ne potè formare lo esperimento, che se non altro avrebbe servito a disinganno dei presenti e de’posteri.
Alfonso Balleydier più da poeta che da storico, fa del Rossi un martire quasi della religione e del papa. Vorremmo ancor noi persuadercene, ma gli elementi ci mancano per convalidarne la opinione.93
Non finiron già col di 15 le sventure di Roma: chè altre e più terribili preparavansi pel giorno 16, delle quali e delle conseguenze che ne risultarono faremo soggetto nel capitolo seguente.
Intanto per semplice curiosità dei nostri lettori aggiungiamo la indicazione di quattro foglietti in istampa, che dopo la morte del Rossi furono divulgati in Roma, e portavano i titoli seguenti:
- «Istoria della vita di Rossi.
- »La morte del ministro Rossi.
- »Miserere al ministro Rossi.
- »Il dies iræ dies illa al ministro Rossi.94»
In questi scritti il nome e le gesta del Rossi erano vituperati acerbamente. E con ciò dieder saggio i nostri di allora di non rispettare neppure il parce sepulto.
Note
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 18 settembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 18 settembre 1848, pag. 749.
- ↑ Vedi Atti ufficiali, n. 103, e Gazzetta di Roma del 30 settembre 1848.
- ↑ Vedi Atti ufficiali, n. 104, e Gazzetta di Roma del detto giorno.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 30 settembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 9 ottobre 1848, non che Atti ufficiali n. 106.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 7 detto.
- ↑ Vedi l’Epoca del 26 detto, ed il Giornale Romano di detto giorno.
- ↑ Vedi il Cassandrino del 24 detto, n. 49.
- ↑ Vedi il VII Vol. Documenti, n. 23 e 24, e vedi il Contemporaneo del 26 ottobre.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 25 ottobre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 25 ottobre 1848.
- ↑ Vedi Atti ufficiali, n. 109.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 4 novembre 1848.
- ↑ Vedi il Sommario n. 38. — Vedi Farini vol. II, pag. 343.
- ↑ Vedi Sommario, n. 39. — Vedi Appendice ai Documenti n. 22. — Vedi il Contemporaneo del 14 ottobre. — Vedi l'Epoca di detto giorno. — Vedi Montanelli, II vol., pag. 309.
- ↑ Vedi Appendice ai Documenti, n. 23, e vedi il Contemporaneo del 12 e 24 ottobre 1848.
- ↑ Vedi il VII vol. Documenti, n. 17.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 17 ottobre, e vedi il VII Vol. Documenti, n. 7 e 9.
- ↑ Vedi il VII Vol. Documenti, n. 19.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 6 novembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 6 novembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma di detto giorno.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 7 novembre 1848
- ↑ Vedi Brevi cenni biografici intorno la vita del generale Zucchi, n. 155 in fine del Vol. XIV Documenti, II dei Documenti senza data.
- ↑ Vedi n. 155 e 159 del Vol. XIV Documenti, II dei Documenti senza data.
- ↑ Vedi il XIV Vol. Documenti, II dei Documenti senza data, n. 155.
- ↑ Vedi il detto Vol., n. 156.
- ↑ Vedi il detto Vol., n. 158.
- ↑ Vedi il detto Vol., n. 159.
- ↑ Vedi il detto Vol., n, 160.
- ↑ Vedi il detto Vol., n. 161.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 26 ottobre 1848.
- ↑ Vedi la detta Gazzetta del 27.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 30 ottobre 1848, alla pag. 891.
- ↑ Vedi il Pappagallo del 15 novembre 1848, n. 3.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 7 novembre 1848.
- ↑ Vedi le Narrazioni storiche ec. del Leopardi, pag. 344.
- ↑ Vedi il VII Vol. Documenti, n. 12.
- ↑ Vedi Leopardi, pag. 342.
- ↑ Vedi Leopardi, pag. 344.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 9 ottobre 1848.
- ↑ Vedi il I Vol. intitolato Motu-propri, n. 62.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 24 settembre, e la Pallade del 25 detto.
- ↑ Vedi il Ristretto del processo, pag. 139.
- ↑ Vedi il Cassandrino, n. 37.
- ↑ Vedi il Cassandrino, n. 39.
- ↑ Vedi Atti ufficiali n. 107.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 24 ottobre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 28 detto.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 4 novembre.
- ↑ Vedi il n. 11 del Casotto dei burattini.
- ↑ Vedi il Vol. Stampe e litografie n. 72 A
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 14.
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 27.
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 36.
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 41.
- ↑ Vedi l’articolo dello Sterbini nel Contemporaneo del 12 novembre. — Vedilo pure nel nostro Sommario, n. 40.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 15 novembre.
- ↑ Vedi l’Epoca, n. 196.
- ↑ 5 Vedi l’Epoca, n. 197.
- ↑ Vedi Farini, Vol. II, pag. 357 e 358.
- ↑ Vedi l’Epoca del 14 novembre.
- ↑ Vedi il VII Vol. Documenti, n. 26.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Bologna del 14 novembre 1848, non che il Sommario, n. 41.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 14 novembre.
- ↑ Vedi il suddetto del 15 detto. — Vedi l’Epoca del 15. — Vedi la Gazzetta di Roma del 14.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 14 novembre 1848.
- ↑ Vedi il Ristretto del processo Rossi, pag. 91, 103, 200 e 217.
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 61.
- ↑ Vedi Ristretto del processo Rossi, pag. 373.
- ↑ Vedi Ristretto del processo, pag. 369.
- ↑ Vedi il detto.
- ↑ Vedi Lubiensky, pag. 249.
- ↑ Vedi il suddetto pag. idem.
- ↑ Vedi Ristretto del processo Rossi, pag. 262 e 271.
- ↑ Ristretto come sopra, pag. 427.
- ↑ Vedi il VI Vol. Documenti, n. 90.
- ↑ Vedi il Ristretto del processo Rossi, pag. 267.
- ↑ Vedi Leopardi, Narrazioni storiche ec. pag. 445.
- ↑ Vedi Ristretto del processo Rossi, pag. 273 e 609.
- ↑ Vedi il detto Ristretto, pag. 41.
- ↑ Vedi il detto Ristretto, pag. 14, 16, 17 e 46.
- ↑ Vedi il detto Ristretto, pag. 261 e 265.
- ↑ Vedi il detto Ristretto, pag. 301, 303, 313, 327, 342.
- ↑ Vedi il detto Ristretto, pag. 328, 330, 333, 336, 337, 340, 341, 342, 344 e 353. — Vedi Balleydier, Vol. I, pag. 199.
- ↑ Vedi il Contemporaneo del 16 novembre 1848, n. 200, pag. prima.
- ↑ Vedi Farini, Vol. II, pag. 370.
- ↑ Vedi Lubiensky, pag. 252.
- ↑ Vedi Lubiensky, pag. 253.
- ↑ Vedi il VII vol. Documenti n. 31 ½.
- ↑ Vedi la Pallade, n. 396. — Vedi Lubiensky, pag. 253. — Vedi il Ristretto del processo Rossi, pag. 413.
- ↑ Vedi Balleydier I vol. pag. 235.
- ↑ Vedi il VII vol. Documenti, n. 31, 32, 33 e 34.