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510 | storia |
ghetti, un domestico del Rossi e gli addetti alla famiglia del cardinale. Sopraggiunge il dottor Pantaleoni, membro del Consiglio dei deputati, e cerca di assistere il moribondo. Fa ricercare di un sacerdote: questi viene, ma il Rossi era spirato.
Alle grida che perfin nella sala si udirono, prima che il ministro spirasse, allo sbigottimento di alcuni che entravano, al richiedersi in fretta di medici e di chirurghi, al vedere i professori Fabbri, Fusconi e Pantaleoni uscire immantinente dalla sala, si conturbò l’assemblea; finchè s’intese esser ferito il Rossi.
Fosse però timore, fosse mal intesa imperturbabilità, fosse prudenza o, come la chiamarono, calma imponente,1 il presidente senza sgomentarsi ordinò che si leggesse il processo verbale della seduta precedente. Il segretario volle incominciarne la lettura; ma niuno badandovi, e tutti pensando a mettersi in salvo, rimase vuota la sala. E tu orrore del delitto, ove stavi, che non facesti sentir la tremenda tua voce? Sì, una voce sentissi e tristamente sentissi, che diceva: «A che tanto affanno? È forse il re di Roma?» E questa voce era quella del Canino.
Il Farini racconta il fatto, ma non nomina la persona.2 Essa era ancora fra i viventi. Nel ristretto del processo mai non è nominata, se non come il personaggio distinto, il nobile contumace. E ciò per prudenziali e delicati riguardi. Ora il Canino non è più. Esistono è vero i suoi figli, esempi tutti di onore e di bontà, e modelli di virtù religiose e civili, ma la storia reclama che si dica il vero, e noi a malincuore dovemmo dirlo.
La catastrofe tremenda che si compiè in quel giorno al palazzo della Cancelleria mise la costernazione e il terrore nella città. Gli onesti e i pacifici, i quali (checchè si dica e si scriva in contrario) son sempre il maggior numero, ne rimasero atterriti: sì che tu li vedevi cupi e taciturni