Storia della rivoluzione di Roma (vol. II)/Capitolo XVII
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[Anno 1848]
La chiusura delle Camere legislative venne opportunamente a sollevare i deputati che quasi tutti appartenendo alle provincie dello stato, ebbero agio di recarsi a rivedere le loro famiglie nella stagione propizia per gli ozi campestri.
Siccome però nella parte dispositiva del decreto di proroga delle Camere era prescritto che la commissione di finanza dovesse rimanere, così essa proseguì ad occuparsi di studi amministrativi, ed a lode del vero, lofecer tutti con coscienza ed abilità. Un Delfini, un Manzoni, un principe Annibale Simonetti ed un avvocato Lunati rifulgevano in quella eletta di uomini valenti in materia finanziaria, ed i loro lavori rimasero e rimarranno pei posteri, e, se consultati, servir potranno di scorta, di lume e di ammaestramento.
L’assenza delle sedute dei corpi legislativi e la mancanza della lettura! delle discussioni lasciarono un vuoto notevole, sicchè da un lato cessata la guerra nel campo, cessate le battaglie parlamentarie dall’altro, l’epoca che percorremmo fino alla formazione del ministero Rossi, presentò un periodo di quiete apparente, quantunque gli umori ribelli fermentasser nascostamente.
Riconcentravansi però le speranze nella Venezia, e da quell’ultimo rifugio pronosticavasi la salvezza d’Italia. E come in passato e specialmente dal mese di marzo, il primato del movimento e l’àncora della speranza eran riposti nel Piemonte, accadde, che venuto in voce di traditore Carlo Alberto, quegli sguardi che prima si volgevano alla regione subalpina, dirigevansi invece alla regina dell’Adria. Ma la prima regione rappresentava la monarchia, la seconda la repubblica, e con ciò abbiam detto tutto.
Mentre si era in queste disposizioni di spirito, giunse in Roma un indirizzo del general Pepe ai comitati di guerra ed a’ circoli nazionali chiedendo soccorsi per Venezia, che qualificava come l’ultima rappresentanza armata della nazione ed il propugnacolo rimasto alla italiana indipendenza. L’indirizzo era del 28 agosto e fu conosciuto in Roma in sui primi di settembre.1
Rispondeva generosamente il comitato di guerra romano all’appello fraterno, ordinando una colletta di danaro, di oggetti di valore e di vestiario.
Sottoscrissero l’ordine del comitato di guerra il conte Curzio Corboli presidente, Cesare Beretta, Ignazio Palazzi, Sisto Vinciguerra, Lorenzo Cremonesi, Pietro Sterbini, e Filippo Meucci segretario.2 E da quel giorno alcune gentili signore della città adoperaronsi in raccogliere il danaro, che poi venne inviato al suo destino.
In Livorno intanto incominciavano a germogliare i primi virgulti della rivoluzione. Il Cipriani faceva chiudere con notificazione del 2 il circolo politico di quella città. In seguito di che si appiccò una zuffa fra il popolo e le soldatesche, e dopo tre ore di fuoco il popolo vinse.
Il gran duca pubblicò un proclama ai Toscani sui casi di Livorno, che qualificò come frutti di passioni violenti e istigazioni perverse che agitano le moltitudini, aggiungendo ch’esisteva una macchinazione tendente a fare della Toscana centro ad un rovesciamento d’Italia, e mettere in pericolo colle istituzioni toscane la quiete, l’ordine e l’avvenire.3
Volgendo ora lo sguardo al reame di Napoli troviamo che quattro giorni dopo il proclama del gran duca annunciante i fatti tristissimi della Toscana, altro sangue italiano versavasi abbondantemente in Messina, la quale dopo un feroce combattimento cadeva di nuovo in poter de’ regî.4
E questo sangue che versavasi a Messina e quello che si spargeva a Livorno, non era già per difendere il patrio suolo dal nemico d’Italia il Tedesco, no, spargevasi con insensato consiglio: perchè una parte degl’Italiani intolleranti di freno insorgevano qua e là contro i lor governi, e preferivano di obbedire alla esacrabile discordia piuttosto che ai consigli temperati della concordia fraterna.
E così i pretesi tradimenti del re Sabaudo, le speranze di Venezia, i moti incomposti e feroci di Livorno, i trionfi cruenti del Borbone di Napoli, e gl’imbarazzi della corte di Roma tenevan gli animi sempre più incerti, e più ad irritazione che a composizione proclivi.
Ma la chiusura delle Camere legislative e la scarsezza dei fogli volanti che nella prima quindicina di settembre pubblicaronsi, dettero un aspetto di quiete alla città, al che non poco contribuì pure e la partenza dei deputati e le vacanze del foro. Solo vi rimase il giornalismo serio, e quei giornaletti che per un turpe beneficio vendevansi pubblicamente. La varietà però e la singolarità dei loro titoli parve che assumesse l’officio di distrarre e di baloccare i Romani e d’impedire che cadessero in uno stato di sonnolenza.
Fra i giornaletti nuovi della prima quindicina di settembre sono da annoverare i seguenti:
- Il Biricchino
- La Commedia
- Il Diavolo Zoppo
- La Frusta
- Il Lanternino del diavolo
- Il Mentore
- Il Rugantino
- Il Tedesco.
Ma il Don Pirlone intanto colle sue quanto spiritose altrettanto maligne caricature era surto per ecclissare tutto il resto; e col porre in ridicolo e papi e sovrani e ministri e diplomatici e le capacità e le incapacità, veniva disponendo assai tristamente lo spirito pubblico e spianando la via a que’ mutamenti, che avvennero in progresso di tempo. La pubblicazione del Don Pirlone persuase i più increduli che se nella Roma dei papi un giornale di quella natura non poteva impedirsi, il governo era divenuto uno scheletro vestito, e la rivoluzione aveva trionfato completamente. In una parola ad onta dei puntelli, l’edificio secolare e venerando delle somme chiavi se non veniva rovinando del tutto, riceveva tali percosse da rimanere per lunga pezza intronato. I governi è vero che poi si rialzano; ma rialzati che siano, si rialza pur ella, dopo tante ferite, la morale pubblica?
Rammentiamo però sempre che il giornalismo, serio o burlesco, venne alimentato quasi tutto da penne non romane che fecer di Roma mercato turpe e infame bordello.
Intanto il 7 di settembre il ministro delle finanze Lauri emetteva una ordinanza sull’affrancazione dei canoni, per la quale si accordava una proroga di sei mesi.5
Ed il 13 altra se ne pubblicò dallo stesso ministro in data del 12 colla quale per facilitare le minute, contrattazioni, disponevasi che la decima serie dei boni del tesoro distinta con la lettera L, ammontante alla somma di scudi duecentocinquantamila, che rimaneva tuttora ad emettersi, fosse ripartita così:
l.ª | categoria | di scudi | 50 | N.° | 1200 | scudi | 60,000 | |
2.ª | » | » | 20 | » | 3800 | » | 76,000 | |
3.ª | » | » | 10 | » | 1800 | » | 18,000 | |
4.ª | » | » | 5 | » | 6800 | » | 34,000 | |
5.ª | » | » | 2 | » | 15000 | » | 30,000 | |
6.ª | » | » | 1 | » | 32000 | » | 32,000 | |
Scudi | 250,000 |
Sui boni di scudi due e di scudo uno erano esclusi i frutti. Si prometteva la coniazione di pezzi da due baiocchi nell’intento sempre di agevolare le minute contrattazioni.6
Lo stesso giorno 12 per il ministro di polizia assente l’assessore Accursi proibiva l’asportazione fuori dello stato di ogni moneta di oro o di argento.7
Pochi giorni prima (il giorno 8) erasi recato il Santo Padre colla sua corte alla chiesa della Madonna del Popolo per assistervi alla cappella papale secondo il consueto. Qual differenza però dai due anni decorsi! Nel 1846 furore; nel 1847 semi furore; nel 1848 un freddo agghiacciante, perchè sic voluere priores.
Mentre il Santo Padre ritornava dalla funzione colla Bua corte, al caffè delle Belle Arti venner fischiate alcune carrozze di cardinali, e fuvvi per fino qualche bello spirito che volle far pompa di alterezza d’animo e indipendenza di carattere, non togliendosi il cappello al passare del Santo Padre. Le guardie nobili avrebber voluto dare una lezione a que’ ridicoli ostentatori di libertà, ma ebbero per consegna di usare prudenza ed evitare qualunque scandalo.
Si disse inoltre essere preparato per quel giorno un movimento o dimostrazione repubblicana. Il Costituzionale ed il Labaro insinuarono questi sospetti, ed un foglietto pubblicato il 10 poneva in ridicolo Don Labaro e Don Costituzionale, e sosteneva che la temuta cospirazione esisteva pur troppo, ma si era scoperta alla così detta palazzina ossia all’ospedal dei pazzi. Il Don Pirlone non si ristette, e pubblicò subito la sua caricatura contro il Costituzionale ed il Labaro.8 E così i repubblicani col mettere in ridicolo la repubblica e col distogliere dalla medesima i sospetti dell’autorità, ne favorivano il progresso, finchè poi venne nell’anno seguente a farci la sua visita.
Il dì 11 di settembre il Santo Padre tenne concistoro, nel quale creò il patriarca dei Caldei, provvide alla chiesa arcivescovile di Parigi, ed a tre vescovati. Pronunziò l’allocuzione che incomincia Cum illustris metropolitanae Parisiensis ecclesiae, ed altamente encomiò monsignore Affre arcivescovo di Parigi, morto sulle barricate di quella dominante nel giugno decorso.9
Il 15 settembre l’avvocato Zannolini venne creato delegato della città e provincia di Ancona.10
Le pratiche intavolate dal pontefice col conte Pellegrino Rossi per indurlo ad accettare la direzione del ministero se andaron fallite nel luglio decorso, essendo state riassunte, ebbero un felice successo nel settembre; e il Rossi accettato l’incarico, cercò, brigò, rinvenne gli elementi che lo coadiuvassero a tanto carico; e fatto rimpasto ministeriale, il pubblico venne avvertito dei risultati mediante un articolo inserito il 16 nella Gazzetta di Roma.
Ecco i nomi del nuovo ministero:
Eminentissimo Soglia segretario di stato, ministro degli affari esteri e presidente del Consiglio dei ministri.
Conte Pellegrino Rossi ministro dell’interno e per interim delle finanze.
Eminentissimo Vizzardelli ministro dell’istruzione pubblica.
Avvocato Felice Ciccognani ministro di grazia e giustizia.
Professore Antonio Montanari ministro del commercio.
Duca di Rignano ministro dei lavori pubblici.
Conte Pietro Guarini ministro senza portafoglio.
Cavalier Pietro Righetti sostituto per le finanze.11
(Fin qui il nuovo ministero eletto).
Il cavalier Camillo Gaggiotti che fungeva come ministro interino delle armi, venne nominato intendente generale delle truppe pontificie.12
In merito poi al Rossi ch’era il principal personaggio di questa combinazione ministeriale, affinchè si possano meglio intendere tanto le cose che operò, quanto quelle che aveva in animo di operare, come pure i clamori contro di lui suscitati dagli uni e le speranze nutrite dagli altri, ed il tragico fine cui andò incontro, premetteremo alcune biografiche notizie intorno al medesimo, le quali per maggior sicurezza e tranquillità sottoposte da noi al giudizio di ragguardevoli personaggi addetti alla Francia ed alla nazione elvetica, riportarono la pienissima loro approvazione.
Nacque Pellegrino Rossi in Carrara nel luglio del 1787.
Si segnalò pei suoi talenti fin dalla giovinezza. Di 27 anni, insegnava già in Bologna la procedura civile e il diritto criminale.
Allorquando nel 1815 balenò alla mente di Gioachino Murat la speranza della unione d’Italia, il Rossi ne sposò fervorosamente le parti; ma riuscitagli a mal fine l’impresa, videsi costretto ad esulare. Vuoisi che prima si recasse in Francia, ma che di là, dopo il disastro di Waterloo, si ricoverasse nella Svizzera e precisamente a Ginevra, ove guari non andò che, resosi chiaro per i suoi lumi e pel suo non ordinario ingegno, ottenne la cattedra insegnando non solo il diritto romano, ma il diritto penale e la economia politica. Mantenne però corrispondenza cogli uomini della rivoluzione Italiana, ed a tale effetto scriveva articoli pel Conciliatore di Milano.13
Tutti volevano assistere alle sue lezioni. Non era chi non lo ammirasse e lo ricercasse, e quindi se gli porse agevolmente il destro nel 1820 di congiungersi in matrimonio con una ricca signorina protestante per nome Melly.
Nel 1829 pubblicò il suo trattato sul diritto penale.
Il movimento italiano del 1831 lo colse nella Svizzera, ed esso non solo non gli fu estraneo, ma come abbiamo accennato in altre pagine, vuolsi che in quel tempo si stringesse colà in lunghe e secrete confabulazioni colla principessa di Belgioioso per dirigerne il procedimento.
Tale fu poi la stima, la fiducia e l’ammirazione ch’erasi saputo conciliare, che ottenuta la naturalizzazione elvetica, vennegli nel 1832 affidato il carico di elaborare un piano di costituzione per la Svizzera, o revisione del patto federale. Compiuta la sua opera, venne chiamata il Patto Bossi. La dieta venne in parte adottandolo, ma poi, per opera specialmente dei comuni rurali, fu rigettato. Comunque si voglia, seppure non venisse respinto come cosa immeritevole, lo non si credette adattato per quei tempi, e solo la rivoluzione svizzera del 1848 ne abbracciò in parte le idee e i divisamenti.
Indignatosi il Rossi del non essere stato adottato il suo piano o patto federale, se ne partì dalla Svizzera, e rifugiossi in Parigi, ove il suo ingegno e le sue cognizioni non tardarono a farlo conoscere per quell’uomo ch’egli era, e gli procurarono l’amicizia e la protezione del duca di Broglio e del ministro Guizot (il quale per verità avealo già conosciuto personalmente nella Svizzera, avendo assistito ai suoi corsi), e gli aprirono il varco alle distinzioni e agli onori.
Difatti nel 1834 venne ascritto alla cittadinanza francese, ottenendo niente meno che la grande naturalizzazione.
Nel 1835 fu creato cavaliere della legion di onore.
Nel 1836 venne fatto membro dell’accademia delle scienze morali e politiche in sostituzione del celebre Sieyès.
Nel 1838 pubblicò il suo corso di economia politica.
Nel 1840 fu creato membro del consiglio reale della istruzione pubblica.
Nel 1841 ottenne il grado di officiale della legione di onore.
E nel 1843 fu dichiarato decano della società di diritto.
Posteriormente poi, fu creato pari di Francia da Luigi Filippo che lo teneva in gran conto.
Dalla camera scientifica e cattedratica essendo entrato in quella diplomatica e politica, venne nel 1845 spedito in Roma come inviato straordinario e ministro plenipotenziario del re dei Francesi, avendogli deferito specialmente il carico di comporre la vertenza coi Gesuiti in Francia, nella quale negoziazione diè saggio di prudenza e di avvedutezza, e confermò le idee vantaggiose che sul suo conto si aveano.
Ciò gli valse il titolo è la rappresentanza di ambasciatore del re dei Francesi presso la Santa Sede. E difatti nel 1846, accaduta la morte di Gregorio XVI, si adoperò attivamente nella sua qualifica, e in nome del suo governo, in consigliare miglioramenti e riforme ai cardinali riuniti in conclave. E questa circostanza gli dà un titolo per essere considerato come uno dei primi che contribuirono in qualche modo al movimento romano, e quindi per naturale conseguenza alla italiana rivoluzione.
Chi volesse conoscere fino a qual punto si fosse compromesso il Rossi nella impresa murattiana per la riunione e indipendenza d’Italia, non avrà che a leggere il suo manifesto rivoluzionario, che crediamo di riportare nel nostro Sommario.14 Il medesimo venne emesso dal Rossi nella sua qualifica di commissario civile di sua maestà il re Gioachino Napoleone nei dipartimenti del Reno, Rubicone, basso Po, e Pineta, diretto agli Italiani il 4 aprile 1815 per eccitarli ad insorgere; e lo abbiamo estratto tanto dall’originale stampato che possediamo, quanto dall’opera di monsignor Gazola.15 Vedranno i nostri lettori che il linguaggio che teneva il giovane Rossi in Bologna nel 1815, di poco‘differiva da quello ch’era solito usare il demagogo Sterbini in Roma nel 1848.
Non credasi però che se il Rossi aveva i suoi ammiratori, non avesse ancora i suoi detrattori, fra i quali crediamo di potere annoverare i veri cattolici di Francia, i quali non vedevano nel Rossi che un vecchio carbonaro, freddo calcolatore bensì delle cose possibili, ma non pertanto vagheggiatore dell’idea d’infrenare l’arbitrio del governo clericale, e quindi venirgli pian piano tarpando le ali, e poi forse venirgli strappando del tutto il poter dalle mani. Consideravasi come poco e nulla amico degli ordini monastici, e chi accusavalo apertamente di razionalismo, e chi perfino di panteismo o di ateismo. Queste le idee che di lui si avevano da taluni, e che noi senza dividerle o avversarle, per semplice dovere di storici riportiamo.16
Quanto alla sua dottrina, non è chi non conosca i suoi aurei trattati sul diritto penale e sull’economia politica.
Sono qeste due opere che, a detto di tutti, rifulgono per vastità di sapere e per lucidezza d’idee. Ed è inoltre a riflettere, che sulla lettura di dette opere, belle quali e sopra tutto nella prima difendonsi i sacri diritti della umanità, s’informò in gran parte lo spirito della gioventù italiana.
Egli è poi incontestabile che quest’uomo singolare riunisse ad un vasto sapere una giustezza di vedute straordinarie, e un sangue freddo vantaggiosissimo per timoneggiar gli affari. Tutte le quali cose ben di rado si accolgono in un solo individuo, ma nel Rossi tutte riunivansi sommamente.
Se non che, volendo essere imparziali, diremo che mancavagli per natura l’amabilità del tratto. Non già che egli non sapesse usare dell’amabilità a tempo e luogo, ma per progetto e per necessità di posizione, più o meno piegandola secondo l’esigenze della diplomazia. Vi si vedeva in somma quel non so che di calcolato e fittizio, ma non naturale e spontaneo. Era duro, orgoglioso, taciturno. Sentiva troppo di se, e mal sapeva dissimularlo. Non era espansivo, e non incoraggiava gli altri ad esserlo con lui. Era in somma quasi generalmente impopolare e antipatico; e questa non è piccola cosa.
Ciò è bene che noi diciamo, affinchè i nostri lettori sappiano tutto quello che era, e che in lode o in biasimo di cotant’uomo si disse. Nel crogiuolo del tempo poi, che tutto analizza e purifica, rinverrannosi un giorno gli elementi per più maturi giudizi.
A noi però sembra che il Rossi, oltre ai difetti sopraccitati, altro ne avesse, comune ancora al suo amico e protettore Guizot, ed è quel non conoscere abbastanza i tempi che correvano, navigando in un mare, e credendo di essere in un altro. Credevano in somma entrambi di passeggiare sul dorso di un vulcano, e non si avvedevano ch’eran già nel cratere. Entrambi avevano o ostentavano di avere troppa fidanza nei loro mezzi, più adatti forse ai tempi tranquilli che a quei procellosi. La caduta del Guizot, e la fine del Rossi, di che avremo a parlare in seguito, vengono a convalidare la nostra opinione che questi due uomini eminenti fossero più adattati a dominare la rivoluzione nelle assemblee legislative, di quel che sulla piazza; e quelli eran tempi in cui la piazza dominava e tiranneggiava l’andamento delle cose umane.
Quanto alla, politica del Rossi, ci pare che fosse decisivamente per la monarchia costituzionale o temperata. Ciò si ricava lucidamente da alcuni brani di lettere politiche che aveva in animo di pubblicare e che rimasero inedite, ma delle quali il Farini ci ha comunicato, per le stampe, una parte importantissima.17
Ma circa il poter attuare nello stato della Santa Sede il sistema costituzionale, il Rossi non se ne dissimulava le difficoltà. Egli difatti su tale oggetto esce in questi termini:
«Non v’ha in Italia che lo stato pontificio che per le sue peculiari condizioni sembra opporre ostacoli di qualche rilievo al sincero stabilimento del governo costituzionale.18»
Sulla forma di governo in genere ecco come si esprime:
«Se la monarchia è utile altrove, all’Italia è necessaria. Monarchia è unità, è possanza. E di questi rimedi non può privar l’Italia chi ne ha cara la salute, l’indipendenza, la gloria. Unità, rimedio ai pericoli interni, possanza agli esterni. Nè il secondo può star senza il primo. Chi il primo niega, niega il secondo, e vuol l’Italia serva dei forestieri.»19
Quanto all’ordinamento migliore per l’indipendenza d’Italia il pensiero prediletto del Rossi era la Lega, ed a convalidare il nostro asserto, riportiamo un brano delle memorie di Pier Silvestro Leopardi il quale ebbe col Rossi un colloquio precisamente sii questo proposito. Ecco come passaronsi le cose.
Pier Silvestro Leopardi, inviato straordinario e ministro plenipotenziario del governo di Napoli presso Carlo Alberto, giunse in Roma il 22 di agosto, dopo la conclusione dell’armistizio Salasco, ed il 28 si abboccò col Rossi, ed ebbe agio di ammirare la sua alta intelligenza che (com’esso dice) sapeva d’un guardo scandagliare le piaghe non che d’Italia, d’Europa e del mondo, e con una parola indicarne il rimedio. Venuti nel discorso delle cose d’Italia: «La Lega — ei diceva — Enorme fu lo sbaglio dei ministri piemontesi, che non afferrarono subito, e di gran cuore, le proposte della Lega italiana, fatte dal papa e dal re delle due Sicilie. La Lega avrebbe salvato l’Italia. E di presente, la Lega fra il Piemonte, la Toscana e Roma, può sola ricondurre Napoli sulla buona via, e salvarla ancora; senza la Lega, la mediazione anglo-francese non farà frutto alcuno.»
E siccome il pontefice era per la lega, come lo attesta anche il Leopardi che lo vide e gli parlò in proposito,20 e perchè il pontefice stesso ne parlò e la raccomandò, dopo fatta la risposta al discorso del Consiglio dei deputati del 20 luglio passato,21 così è chiaro chiarissimo, e viene spiegato lucidamente come avendo il Santo Padre rinvenuto nel Rossi un ministro di polso, che alla lega mostravasi favorevolissimo (prescindendo ancora da tutti gli altri suoi meriti personali), simpatizzasse cotanto col medesimo c gli affidasse 1*assestamento delle cose dello scombuiato stato pontificio.
Ma poichè siamo in sul parlar della lega, aggiungeremo che appunto per meglio stringerla e rannodarla l’abate Rosmini venne in Roma, mandatovi o spintovi o pregatone dal Gioberti. 22
Esso giunse in Roma come abbiamo già dichiarato, il 15 di agosto, e secondo il Leopardi, consenziente il pontefice, veniva distendendo il seguente progetto:23
«Fin da quando, i tre governi di Roma, Torino e Firenze formarono la Lega doganale fu loro pensiero di addivenire ad una Lega politica, che fosse come il nucleo cooperatore della nazionalità italiana, e potesse darò all’Italia quell’unità di forza che è necessaria alla difesa interna ed esterna ed alio sviluppo regolare e progressivo della prosperità nazionale. Il quale intento non potendosi ottenere in modo compiuto e permanente, se la indicata Lega non prende la forma di una Confederazione di stati, i tre governi suddetti costanti nel proposito di ridurre a pieno effetto il loro divisamento, e proclamare in faccia all’Italia e all’Europa che esiste fra loro la predetta Confederazione, come altresì per istabilire le prime basi della medesima, deputarono a loro plenipotenziari:
- »Sua Santità ecc.
- »S. M. il re di Sardegna, ecc.
- »S. A. imperiale e reale il gran duca di Toscana, ecc.
»I quali scambiati i loro pieni poteri, ecc.
»Convennero fra di loro nei seguenti articoli, che riceveranno valore di formale trattato dopo la ratifica delle alte parti contraenti:
»Articolo I. Fra gli stati della Chiesa, del re di Sardegna e del gran duca di Toscana è stabilita perfetta Confederazione, colla quale, mediante l’unità di forze e d’azione, sieno guarentiti i territori degli stati medesimi, e sia protetto lo sviluppo progressivo e pacifico delle libertà accordate e della prosperità nazionale.
»Articolo II. L’augusto ed immortale pontefice Pio IX, mediatore ed iniziatore della Lega e della Confederazione, ed i suoi successori ne saranno i presidenti perpetui.
»Articolo III. Entro lo spazio di un mese dalle ratifiche della presente Convenzione, si raccoglierà in Roma una rappresentanza dei tre stati confederati, ciascuno de’quali ne invierà tre, e verranno eletti dal potere legislativo, i quali saranno autorizzati a discutere e stabilire la Costituzione federale.
»Articolo IV. La Costituzione federale avrà per iscopo di organizzare un potere centrale che dovrà essere esercitato da una Dieta permanente in Roma, i cui uffici principali saranno i seguenti:
»1.° Dichiarare la guerra e la pace; e tanto pel caso di guerra, quanto in tempo di pace ordinare i contingenti de’ singoli stati necessari tanto all’esterna indipendenza, quanto alla tranquillità interna.
»2.° Regolare il sistema delle dogane della confederazione, e far l’equo comparto delle relative spese ed entrate fra gli stati.
»3.° Dirigere e stipulare trattati commerciali e di navigazione con estere nazioni.
»4.° Vegliare alla concordia e buona intelligenza fra gli stati confederati e proteggere la loro uguaglianza politica; esistendo nel seno della Dieta una perenne mediazione per tutte le controversie che potessero insorgere fra di essi.
»5.° Provvedere all’uniformità del sistema monetario, de’pesi e delle misure, della disciplina militare, delle leggi commerciali; e concertarsi cogli stati singoli per arrivare gradatamente alla maggiore uniformità possibile anche rispetto alle altre parti della legislazione politica, civile, penale e di procedura.
»6.° Ordinare e dirigere, col concorso e di concerto coi singoli stati, le imprese di universale vantaggio della nazione.
»Articolo V, Rimarrà libero a tutti gli altri stati italiani di accedere alla presente Confederazione.
»Articolo VI. Il presente trattato sarà ratificato dalle alte parti contraenti entro lo spazio di un mese e più presto se sarà possibile.»
Il tenore di questo schema o progetto di confederazione dice chiaro che non fu compilato per capriccio dell’abate Rosmini, sibbene per comando ricevutone. Laonde che il Rosmini avesse ricevuto un mandato ad hoc, ed istruzione speciale per combinare siffatta lega o confederazione, lo desumiamo dal proemio del Massari, ch’era l’intimo amico del Gioberti, alle Operette politiche del medesimo pubblicate in Capolago e Torino nel 1851.24 Ecco come si esprime il Massari:
«Nel proporre (il Gioberti ch’era ministro in Torino nel 1848) a’ suoi colleghi d’inviare a Roma un negoziatore straordinario per intavolare le opportune trattative intorno alla lega ed alla dieta italica, suggerì di prescegliere a tal uopo Antonio Rosmini: la duplice proposta venne sanzionata dalle deliberazioni del Consiglio; ed il Rosmini, che accorse in Torino colla stessa premura colla quale vi fu chiamato, accettò senza difficoltà l’onorevole mandato, ed ebbe le sue istruzioni diplomatiche dal Gioberti medesimo.»
Che il Rosmini si ponesse all’opera lo dice il Leopardi, lo dice il Farini, e lo dice il Rosmini stesso nella lettera che il Farini riporta,25 raccontandosi in essa ch’erasi posto in comunicazione a tal effetto col marchese Pareto per la Sardegna, col marchese Bargagli per la Toscana, e con monsignor Corboli Bussi per lo stato pontificio.
Su di ciò dunque non cade dubbio veruno: che il pontefice poi facesse buon viso al Rosmini in sui primi momenti della sua venuta in Roma, sembra incontestabile. Pare anzi che il cappello cardinalizio gli fosse per lo meno fatto sperare, poichè è certo che il Rosmini vi si era preparato, ed aveva già fatto le spese. Quanto poi fosse accetto ai cardinali noi sappiamo. Noi crediamo, poco: secondo però l’opinione generale, pochissimo.
Ma in merito al progetto della lega, che fu lo scopo precipuo della sua venuta in Roma, fosse che il cambiamento di ministero accaduto nel frattempo in Piemonte per la caduta del Gioberti, avesse portato cambiamenti nelle idee, o che il progetto rosminiano che il suo autore inviò in Torino non fosse piaciuto, egli sembra indubitato che dopo un mese d’aspettazione, il Rosmini ricevette per risposta che quel ministero maturamente considerata ogni cosa, non credeva tempo opportuno d’intavolare negoziati per una confederazione italiana, e quindi gl’inviava un progetto di semplice lega, ossia di un’alleanza offensiva e difensiva da negoziare col governo romano. 26
E questo progetto ministeriale non piaciuto affatto al Rosmini, fece sì che egli si scusasse dall’iniziar le trattative e pregasse il ministero di affidare ad altri un simile incarico. Fu in allora che il governo del Piemonte mandò a Roma il consigliere De Ferrari, sostituito al Rosmini, e che il Rossi elaborò il suo progetto o schema di lega che può leggersi nel secondo volume del Farini. 27
Con questi brevi cenni abbiamo voluto soltanto dare un’idea di quel progetto di lega che pareva essere eminentemente a cuore del Rossi, e provare benanco che la rottura dei negoziati non dal pontificio governo, ma sì bene da quel di Piemonte provenisse. Su di ciò peraltro avremo occasione di ritornare in seguito.
Coll’aver dato, siccome facemmo con quanto precede, alcuni cenni biografici sul Rossi, sul suo carattere personale, sui suoi principi politici ed in ispecie sulla sua propensione per la monarchia costituzionale in genere e sulla necessità che un cosiffatto reggimento venisse preservato in Italia; e coll’avere finalmente esposto le sue simpatie per la lega o confederazione italiana, speriamo di aver preparato i nostri lettori a conoscere con qualche fondamento quest’uomo eminente, affinchè gli atti che segnalarono poi il suo ministero e provocarono la sua tragica fine, possano trovare una spiegazione conforme al quadro che ne abbiam tracciato.
Le disposizioni dunque ch’egli adottò allorquando si trovò al potere, non che la catastrofe malaugurata e tremenda che vi pose fine, e che fece entrare la rivoluzione in uno stadio novello, formeranno il soggetto principale del capitolo seguente.
Note
- ↑ Vedi la Pallade del 4 settembre, n. 336.
- ↑ Vedi la Pallade del 4 settembre, n. 336.
- ↑ Vedi Documenti, vol. VI, n. 167.
- ↑ Vedi Relazione delle operazioni militari di Messina, nel settembre 1848 nel vol. XL. Miscellanee, n. 7.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 9 settembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 13 settembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma di detto giorno.
- ↑ Vedi il Don Pirlone, n. 9 del 12 settembre 1848.
- ↑ Vedi il vol. intitolato Appendice ai Motu-propri ec. n. 27.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 15 settembre 1848.
- ↑ Vedi la Gazzetta di Roma del 16 settembre 1848.
- ↑ Idem del 23 settembre 1848.
- ↑ Vedi le Addizioni di Piero Maroncelli alle Mie prigioni di Silvio Pellico, edizione di Torino del 1859, pagina 204.
- ↑ Vedi il Sommario, n. 37.
- ↑ Vedi il nostro volume di Documenti sull’impresa murattiana, n. 205, non che l’opera di monsignor Gazola intitolata: Il prelato italiano monsignor Carlo Gazola ed il vicariato di Roma sotto papa Rio IX, 1849-1850 ec. Torino, 1850, in-12. pag. 38.
- ↑ Vedi la lettera dei cattolici di Francia pubblicata nel 1847 e sottoscritta dal conte Regnon, nel vol. II, Documenti, n. 26.
- ↑ Vedi Farini vol. II, pag. 253.
- ↑ Vedi Farini vol. II, pag. 257.
- ↑ Vedi Farini vol. II, pag. 261.
- ↑ Vedi Piersilvestro Leopardi, Narrazioni storiche ec., pag. 327.
- ↑ Vedi Massari proemio alle Operette politiche del Gioberti vol. I, pagine 132.
- ↑ Vedi Massari proemio alle Operette politiche del Gioberti, vol. I, pagine n. 132.
- ↑ Vedi Leopardi Op. cit. pag. 328.
- ↑ Vedi Gioberti Operette politiche, vol. I, pag. 132.
- ↑ Vedi Farini lo Stato romano, vol. II, pag. 340.
- ↑ Vedi Farini op. cit. vol. II, pag. 341.
- ↑ Vedi Farini op. cit. vol. II, pag. 342.