Storia della letteratura italiana (Tiraboschi, 1822-1826)/Tomo II/Libro I/Capo V

Capo V - Filosofia e Matematica

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Capo V.

Filosofia e Matematica.

I. Lo scoprimento e la pubblicazione de’ libri di Aristotele che era seguito verso gli ultimi anni della repubblica, gli onori che Augusto avea renduti a parecchi illustri filosofi, e i molti Greci che da ciò invitati eran venuti a fissare in Roma la lor dimora, aveano risvegliato nell’animo de’ Romani un grande ardore nel coltivamento de’ filosofici studi. E se Tiberio e gli altri imperadori che venner dopo, l’avessero in alcun modo fomentato, avrebbono probabilmente i Romani fatti in essi non ordinarii progressi. Ma pare che i primi Cesari usassero anzi di ogni sforzo per distoglierli da tali studi: poichè non solo non onorarono del [p. 248 modifica]II. In rs.sa atv cor s’introduce il rnU tivù gusto. 248 I.IBRO lor favore coloro che in essi aveano più chiara fama, ma molti al contrario, per ciò solo che eran filosofi, o cacciarono in esilio, o condannarono a morte. Quindi non è maraviglia se la filosofia si giacesse per alcun tempo (fi. monticata; o se quella parte soltanto se ne coltivasse che poteva sembrar necessaria a soffrir con costanza le pubbliche e le private sventure. Vedremo in fatti che la più parte de’ filosofi che sotto il regno di Tiberio, di Caligola, di Claudio , di Nerone furon celebri in Roma, seguiron la setta degli Stoici , la quale colle austere sue massime pareva più opportuna ad armar l’animo d’invincibil costanza contro la perversità degli uomini e de’ tempi. Ma prima di parlare in particolare di ciascheduno di essi, ci convien vedere qual fosse in generale lo stato della filosofia all’epoca di cui trattiamo. II. Di Tiberio non sappiamo che a’ filosofi singolarmente movesse guerra 5 e solo gli astrologi che col troppo onorevole nome di matematici allor si chiamavano, furono a suo tempo cacciati di Roma, benchè pur egli continuasse a valersene, come poscia vedremo. Ma la crudeltà di cui contro ogni genere di persone egli usava, senza riguardo alcuno al sapere e all’erudizion loro , bastava , perchè ognuno intendesse che ad ottenere la protezione e il favor di Tiberio era inutile qualunque studio. Questa crudeltà medesima nondimeno giovò, come sopra si è accennato, ad accendere negli animi di molti Romani il desiderio della sto ca filosofia, i cui seguaci singolarmente davansi: il vanto o di sofferir con costanza, o di darsi [p. 249 modifica]con coraggio la morte. E abbiam già veduto ,di sopra quanti per sottrarsi alla crudeltà di Tiberio amaron meglio di finire con volontaria morte una vita che sembrava loro troppo spiacevole e travagliosa. Lo stesso dee dirsi del regno ancor di Caligola e di quello di Claudio; poichè il primo in crudeltà andò innanzi a Tiberio medesimo, e niun riguardo ebbe mai agli uomini celebri per sapere; il secondo, coltivatore di una leggera letteratura, non ebbe nè maturità nè talento pe’ gravi e severi studj. Quindi, come lo spirito di adulazione comune allor tra’ Romani faceva che il genio e l’inclinazione degli imperadori desse, per così dire, la legge al genio e all’inclinazione del popolo, videsi allora singolarmente introdursi in Roma uno studio di cose frivole e puerili, e di niun vantaggio alla società e allo Stato. Ecco, dice Seneca in un libro da lui scritto nel regno di Claudio (De brev. vit. c. 13), che tra Romani ancora si è sparso un inutile impegno (di sapere cose futili e da nulla; e ne reca parecchi esempj. E forse a questi tempi medesimi allude lo stesso Seneca, quando descrive (ep. 48) i ridicoli e sciocchi sofismi che a far pompa d’ingegno da alcuni filosofi allor si usavano: Mus syllaba est: mus autem caseum rodit Syllaba ergo caseum rodit... Mus syllaba est: syllaba autem caseum non rodit. Mus ergo caseum non rodit. Oh le fanciullesche inezie! esclama Seneca; a questo fine adunque noi ci accigliamo? per questo portiamo al mento prolissa barba? per questo ci struggiamo e ci consumiamo insegnando? Ma lo stesso Seneca [p. 250 modifica]nondimeno non si sdegnò egli pure di trattar certe quistioni che non posson leggersi senza risa; come allor quando ei cerca.se il bene sia corpo (ep. 106), e se le virtù siano animali (ep. 113); sulle quali importantissime quistioni non si sdegna il severo Seneca di disputare con un’ammirabile serietà. Così il cattivo gusto si sparge per ogni parte, e si comunica spesso a quegli ancora i quali sembra che più degli altri dovrebbono preservarsene m. f inora però non troviamo che a’ filosofi si movesse guerra, e ch’essi fosser costretti a partirsene da Roma. Il primo di cui ciò si narra da alcuni, si è Nerone. E qui è ove prima volta ci si fa innanzi il celebre Apollonio Tianeo, la cui Vita scritta da Filostrato è il solo monumento che di questa persecuzione da Nerone eccitata contro de’ filosofi ci sia rimasto. Veggiamo prima ciò che in essa ci si racconta , e poscia esamineremo qual fede si debba a questo scrittore. Io non debbo qui trattenermi a riferire ciò che appartiene alla vita di Apollonio , cosa troppo lontana dal mio argomento, e che da moltissimi scrittori è stata già con somma diligenza trattata, tra’ quali meritano singolarmente di esser letti il Tillemont (Hist. des Emper. t. 2 , p 120, ec. edit. ven.) e il Bruckero (Hist. crit. Philos. t. 2, p 98, ec.). I soli viaggi da lui fatti in Italia, e le sole vicende accadutegli in Roma debbono qui aver luogo. Di lui dunque narra Filostrato (l. , c. 35, ec.) che dopo avere corso viaggiando, e riempito della fama de’ suoi prodigi l’Oriente e la Grecia, si rivolse a Roma. Sapeva egli per la Apollo[p. 251 modifica]jjlie Nerone vietati avea i filosofici studj, perchè credeva che con tale pretesto si studiassero e si esercitassero lei arti magiche, e perciò molti illustri filosofi erano stati imprigionati, e molti altri eransi per timore dileguati da Roma. Ma nulla perciò atterrito Apollonio intraprese il viaggio, e già non era lungi da Roma che circa cento venti stadi, quando eccogli venire incontro un cotal Filolao, che fuggendo per timore di Nerone avvisava tutti i filosofi , in cui si avveniva, che fuggisser seco, se voleano esser salvi. Udì da lui Apollonio in quale stato eran le cose , e i compagni che lo seguivano , da tal terrore furori compresi, che di trentaquattro eli’ essi erano, otto gli rimaser fedeli, tutti gli altri se ne fuggirono. Apollonio ciò non ostante, esortando que’ pochi a prender coraggio, e ad incontrare ancora per difesa della filosofia la morte, proseguì il suo cammino, ed entrossene in Roma. Condotto innanzi al console Telesino, seppe per tal maniera guadagnarsene l’animo, che ottenne di metter il piede in tutti i tempj di Roma, e di favellarvi al popolo liberamente: il che fece Apollonio con sì felice successo, che vedeva si crescere ogni giorno il popolar fervore nel culto degl’Iddii , e farsi sempre maggiore l’affollamento ad udirlo. Ma venuto poscia a Roma un cotal Demetrio Cinico amico di Apollonio , e poco appresso cacciato in esilio da Tigellino prefetto del pretorio, perchè colf imprudenza del suo favellare avea offeso Nerone, Apollonio ancora fu preso di mira dal medesimo Tigellino , e si cominciò ad osservare attentamente [p. 252 modifica]IV. Jv nc mostra P incussimienza. 252 LIBRO ogni suo andamento ed ogni suo detto. Or avvenne che avendo Apollonio predetta un ecclissi del sole, ed avendo aggiunto ch’essa sarebbe stata seguita da un gran prodigio, tre giorni dopo in fatti, mentre Nerone si stava assiso alla mensa, caduto un fulmine traforò una tazza ch’ei teneva tra le mani. Questo avvenimento fece rimirare Apollonio come uom portentoso. Ma non molto dopo ei venne accusato a Tigellino di aver con ingiuriose parole deriso Nerone.. Chiamato dunque al pretorio, mentre Tigellino svolge il foglio su cui era scritta l’accusa, eccone apparire interamente svanita ogni sillaba. Di che fu egli così attonito , che non si ardì a toccare Apollonio, e lasciollo andar libero e salvo. Continuò egli dunque a starsene in Roma, finchè avendo Nerone pubblicato un editto, in cui comandava che tutti i filosofi ne partissero prontamente , egli ancora se n’andò, e recossi fino all’estremità della Spagna. Tutto ciò, e assai più lungamente, Filostrato. IV. Or di tutto questo racconto che dobbiam noi credere? Tutta la storia di Apollonio deesi ella avere in conto di vera, o deesi riputare un favoloso romanzo? Io confesso che assai volentieri mi appiglierei a questa seconda opinione. Perciocchè quai sono eglino i fondamenti a cui Filostrato appoggia tutto il lungo racconto ch’egli ci fa delle imprese, de’ viaggi, de’ prodigi di Apollonio? Egli visse a’ tempi dell’imperador Settimio Severo che salì sul trono l’anno 193 , cioè a dire presso a cento anni dopo la morte di Apollonio 3 e fu perciò [p. 253 modifica]troppo lungi dal suo eroe, perchè la sua narrazione possa avere autorità bastevole a persuaderci. Ma ei dice di avere avute tra le mani le Memorie della Vita di Apollonio scritte da Damide che gli fu indivisibile compagno in tutti i viaggi, e testimonio di tutte le maraviglie da lui operate; le quali Memorie venute essendo in mano di Giulia moglie di Severo, questa aveagli comandato di formare su esse una compita edesatta storia di questo uom portentoso. Aggiugne inoltre di aver letto un libro di un certo Massimo Egiense, che narrate avea le cose da Apollonio fatte nella patria; e nomina ancor quattro libri della Vita di Apollonio scritti da Meragene; benchè di essi ei dica di non volersi valere, perchè moltissime cose di Apollonio egli avea ignorate. Ma questi libri da chi altri mai prima che da Filostrato si veggon citati? Non potrebbe per avventura temersi che i libri de’ detti autori altro non fossero che un’impostura dello stesso Filostrato, il quale, come sappiamo essersi fatto da altri, gli avesse ei medesimo scritti e divolgati sotto i lor nomi, fingendo poscia di appoggiare ad essi i suoi favolosi racconti? Ma a dir vero, non pare che di una tale impostura possa Filostrato a ragione essere accusato. Che sia stato al mondo un Apollonio di Tiana, e ch’ei fosse avuto in conto di mago, ne abbiamo il testimonio di due scrittori anteriori a Filostrato, cioè di Luciano (in Pseudomante) e di Apuleio (in Apolog.); e che Meragene ne scrivesse la Vita, lo afferma Origene, il quale citandone un passo mostra di averla letta [p. 254 modifica]254 nano (Conira Cels. l. 6). Innoltre Eusebio di Cesarea, che lungamente ha trattato di Apollonio, ri. spondendo a Jerocle che un empio paragone tra lui e Cristo avea formato (l. cantra llic~ roclein), non rivoca in dubbio che siavi stato quest uomo di cui Filostrato ed alil i aveano scritta la Vita. Non si può dunque muovere ragionevole dubbio contro l’esistenza di Apollonio, e sembra certo e incontrastabile che un uomo di tal nome vi sia già stato , che celebre si rendesse per arte magica, o per (l’imposture da lui usate. Ma ciò non ostante si può con ugual certezza affermare che la più parte de’ prodigiosi racconti che troviamo in Filostrato, son favolosi. Leggasi il citato Bruckero che chiaramente dimostra gli errori, gli anacronismi, le inverosimiglianze di cui tutta quella storia è ripiena. A me basterà il riflettere brevemente su ciò che abbiam veduto narrarsi di Apollonio in Roma. E in primo luogo Filostrato ci rappresenta Nerone come persecutore de’ filosofi , di che non abbiamo alcun cenno in tutti gli antichi, i quali pure sì minutamente ci han raccontate le azioni tutte o tutti i pazzi capricci di questo imperadore y anzi da essi abbiamo che Nerone fu favoreggiatore de’ maghi , e dell’opera loro si valse (Svet. in Ner. c. 34; Plin. Hist. l. 30, c. 2). Inoltre da ciò che narra Filostrato , si raccoglie che Apollonio dovette venire a Roma l’anno 62. Or Telesino non fu già console in quell’anno ,.come dice Filostrato, ma solo quattro anni appresso. L’ecclissi ancora che, secondo Filostrato, allor si vide, non potè [p. 255 modifica]accadere in quell’anno, ma l’anno 59), o l’anno 64. Ma assai più che tutti questi argomenti che si posson vedere più ampiamente svolti dal Bruckero, e più che molte altre ragioni che da altri autori dallo stesso Bruckero allegati si arrecano a provare quanto menzognera e favolosa sia la storia di Filostrato; più assai, dico, a me pare che giovi a mostrarcene l’impostura il riflettere all’alto silenzio che tengono intorno ad Apollonio tutti gli scrittori di questa età. Se Apollonio fosse veramente venuto a Roma nel regno di Nerone, e vi avesse operato que’ portentosi prodigj che racconta Filostrato, e molto più quegli altri ancora più strani che a’ tempi di Domiziano vedremo di lui narrarsi, sarebbe egli stato possibile che di tanti scrittori che abbiam della storia di questo secolo , niuno ne facesse parola? Con quanta esattezza ci hanno esposta la vita di Nerone Tacito e Svetonio; e questi singolarmente quanto è minuto ne’ suoi racconti? E nondimeno di Apollonio non vi si trova menzione alcuna. Plinio impiega tutto il libro 30 della sua Storia a parlare della magia; ei dovea certo aver conosciuto Apollonio , quando venne a Roma sotto Nerone; e pur di Apollonio ei non fa motto. Plinio il Giovane era in Roma a’ tempi di Domiziano, quando si dice che Apollonio vi fece ritorno , e vi operò cose sì prodigiose; e nondimeno in niuna delle tante sue Lettere non vedesi nominato un uom sì famoso. E di tanti poeti che scrissero a questa età, è egli possibile che niuno toccasse un argomento in cui la poetica fantasia dovea sì [p. 256 modifica]a56 • LIBRO facilmente trovare di che accendersi ed occuparsi 1 Io so che l’argomento negativo non è troppo valevole a combattere la verità di un fatto; ma in questa occasione, ove si tratta di cose sì maravigliose, il vederle taciute da tutti quegli autori che avrebbon dovuto , direi quasi , necessariamente trattarne, il vederle narrate solo da un autore troppo posteriore di età a’ tempi di cui ragiona, e il vederle narrate con tante contradizioni e inverisomiglianze, a me par che abbia tal forza che possa bastarci a rigettar francamente tutto questo racconto, e a riputar favolosa la venuta di Apollonio a Roma, e tutto ciò che si pretende esservi da lui stato operato. V. Non è dunque appoggiata a bastevole fondamento la persecuzione mossa contro a’ filosofi, di cui Filostrato incolpa Nerone. Anzi il Bruckero vorrebbe persuaderci che questo imperadore fosse lor favorevole (t. 2, p. 467 , 544)j perciocché egli dice che per ordine di Agrippina sua madre egli ebbe a suoi maestri non solo Seneca, di che non vi ha luogo a dubbio, ma ancora Cheremone stoico e Alessandro Egeo peripatetico. Ma egli noi pruova che colf autorità di Snida scrittor troppo recente, perchè gli si debba dar fede, se i più antichi gli son contrarj. Ora Svetonio chiaramente racconta (in Ner. c. 52) che Agrippina distolse Nerone da’ filosofici studi, facendogli credere che ad uom destinato a regnare essi non erano opportuni. E Seneca sembra che dato fosse a Nerone per maestro di eloquenza anzichè di filosofia; perciocchè lo stesso Svetonio sogghigno [p. 257 modifica]che Seneca per farsi più lungamente ammirar da Nerone non gli permise il leggere gli antichi oratori; e Tacito ancora parla di Seneca come di precettor d’eloquenza (l. 13 Ann. c. 2). Non par dunque probabile che Agrippina desse a Nerone maestri di quella scienza cui ella non giudicava a un imperador conveniente. Ma se Nerone non fu nè coltivatore della filosofia , nè protettor de’ filosofi, non troviamo nemmeno, come si è detto, ch’egli contro di essi particolarmente volgesse il suo sdegno; e se alcuni di loro furono per suo ordine uccisi, come fra gli altri avvenne a Seneca, ciò non fu perchè essi fosser filosofi, ma perchè Nerone contro di ogni ordine incrudeliva senza riguardo.

VI. Il primo tra gli imperadori che a’ filosofi si mostrasse nimico, fu quegli da cui meno essi avrebbon dovuto aspettarlo, cioè Vespasiano, ottimo principe, e, come altrove abbiam detto, fomentator degli studj e protettore de’ dotti. Ma della severità contro di essi usata da Vespasiano i filosofi stessi furono in colpa. Costoro per una cotal filosofica alterigia avvezzi a mordere e a riprender pubblicamente i vizj de’ precedenti imperadori, usavano del medesimo stile per riguardo a Vespasiano che pur tanto era da essi diverso. Egli, come narra Svetonio (in Vesp. c. 13), soffrì pazientemente la loro audacia, e singolarmente dissimulò per lungo tempo l’insoffribile tracotanza dello stoico Elvidio Prisco , che anche essendo pretore non cessava in ogni maniera di mordere e d’insultar Vespasiano; e costretto finalmente a proferire Tiraboschx, Voi. II. 17 vi. Vespavijr.o li CtfCCUL lÌJ Ito tua. [p. 258 modifica]VII. Picslo vi fanno li torno. a58 libro contro ili lui sentenza di morte, ne ebbe poi pentimento, e mandò ordine che si soprassedesse dall’eseguirla i ina inutilmente, poichè se gli fece credere che fosse già stato ucciso, e la sentenza frattanto fu prontamente eseguita (ib. c. 15; Dio l, 66). Questo esempio di necessaria severità non fu bastevole a raffrenare l’ardire de’ Superbi filosofi, e molti fra essi, e singolarmente Demetrio soprannominato Cinico, non cessavano di lacerare indegnamente la fama e il nome di Vespasiano, il qual finalmente ordinò che tutti, trattone Mausonio, uscisser di Roma, e in isole abbandonate rilegò i due tra essi più rei, Demetrio e Ostilio (Dio ib.). E perchè Demetrio vantavasi di non voler ubbidire, T imperadore mandò chi in suo nome così gli dicesse: Tu usi pur di ogni arte per costringermi a darti morte; ma io non uccido un cane che abbaia (Dio ib.; Svet. c. 13). Non vuolsi dunque incolpar Vespasiano per l’esilio a cui dannò i filosofi, i quali anzi sarebbono da lui stati onorati e protetti, se non ne avessero coll’eccessiva loro alterigia provocato lo sdegno. VII. Presto nondimeno si rividero in Roma i filosofi, o perchè Vespasiano contento di averne domato l’orgoglio loro il permettesse, o perchè, lui morto, essi credessero che niuno dovesse loro impedirlo. Certo molti ve n’avea in Roma sotto l’impero di Domiziano. Ma questi che contro ogni ordine di persone si mostrava crudele, non risparmiò punto i filosofi, e molti di essi, solo perchè attendevano a’ filosofici studj, furon dannati a morte (Dio 1.67), [p. 259 modifica]e tutti poscia cacciati non da Roma solo, ma da tutta l’Italia (Dio ib.) Svet. in Domit. c. 10), e tra essi furono singolarmente Dione Grisostomo ed Epitteto, de’ quali a suo luogo ragioneremo. A questa occasione Filostrato ci riconduce sulla scena Apollonio Tianeo, e con una tediosa prolissità ci racconta che quest’uom di prodigi , dopo avere corse le provincie del romano impero per sollevarle contro di Domiziano, citato finalmente e tratto a Roma a rendervi ragione della sua condotta, chiuso in carcere, poscia venuto innanzi all’imperadore, con tanta fermezza ribattè le accuse a lui date, e con sì grande e sovrumana costanza parlò a DomizianoJ, che questi ne fu sorpreso, anzi atterrito; e che Apollonio, dopo aver protestato che invano si sarebbe tentato di tenerlo prigione, scomparve improvvisamente, e quasi al tempo medesimo trovossi in Pozzuoli. Ma non giova il trattenersi più oltre a confutare cotai romanzeschi prodigi; poichè già abbiam poc’anzi mostrato qual fede si debba alla narrazion di Filostrato. VIII. Alla morte di Domiziano probabilmente fecero i filosofi ritorno a Roma, e convien dire che o Nerva, o Traiano rivocasser l’editto che contro di essi da Domiziano erasi pubblicato. In fatti Plinio il Giovane tra le lodi che dà a Traiano, non tace quella della degnazione con cui ei riceveva i maestri della sapienza (Pan. c. 47), col qual nome sembra ch’egli intenda i filosofi. Questi dunque dovetter vivere tranquilli e onorati, finchè visse Traiano; e il lor numero dovette quindi accrescersi molto. Non [p. 260 modifica]2t)U LIBRO così regnando Adriano, di cui già abbiam ve. dillo qual capriccioso contegno tenesse verso de’ dotti; perciocchè, mentre voleva pure mostrarsi protettor delle scienze, geloso al medesimo tempo di non essere superato in sapere, cercava invidiosamente di opprimer coloro co’ quali temeva di non poter reggere al paragone. Già ne abbiam recato alcuni esempj nel primo capo di questo libro, e più chiaramente il vedremo parlando de’ filosofi che sotto il suo impero fiorirono in Roma. Molti nondimeno allora se ne contavano celebri pel lor sapere; i quali molto più furono poscia onorati al tempo di Antonino Pio successor di Adriano, e grande protettor de’ filosofi, come nel seguente libro dovrem vedere. IX. Or venendo a parlare di ciascheduno de’ più illustri filosofi di questa età, e di quelli singolarmente che si renderono celebri co’ loro scritti, il primo che ci si fa innanzi, è Seneca, intorno a cui dovrem trattenerci alquanto a lungo, perchè e la vita e i costumi e le opere ci offrirono molte questioni che voglionsi diligentemente esaminare. Lucio Anneo Seneca nacque in Cordova da Marco Seneca il retore, di cui già abiam parlato, e daElvia, a cui poscia egli dal suo esilio scrisse un libro di Consolazione. E poichè egli stesso racconti che la sua gioventù cadde ne’ tempi di Tiberio (ep. 108), raccogliesi ch’ei nacque nel regno d’Augusto, e come conghiettura di Lipsio (Vita. Sen. c. 2), quindici anni in circa innanzi la morte di questo imperadore. Egli era ancora bambino , quando fu portato a Roma (Consol. ad Ilelv. [p. 261 modifica]c. 17); ni* noi troviamo che poscia ei più ne partisse, se non per l’esilio, o per qualche viaggio che intraprese; onde possiam noi pure a ragione annoverarlo tra’ nostri scrittori, poiche’ visse sempre tra noi, come a ragione lo annoverano gli Spagnuoli, perchè nacque tra loro (27). Dopo i primi studj dell’eloquenza, ne’ quali probabilmente ebbe a maestro lo stesso suo padre, egli interamente si volse alla filosofia, benchè il padre ne fosse nimico, e cercasse di distoglierlo da tale studio (ep. 108). I Pittagorici e gli Stoici piacquero a Seneca sopra tutti, ed ebbe per suoi maestri Sozione tra’ primi, Attalo tra’ secondi (ib.); e racconta egli stesso a qual maniera di vivere sobria e dura si soggettasse per qualche tempo (ib.). Ciò non ostante, ei non lasciò di trattar le cause nel Foro; nel che essendo salito a gran fama, poco mancò che essa non gli fosse fatale; perciocchè Caligola, solo perchè egli avea in sua presenza perorato con sommo valore in una causa in senato, già avealo dannato a morte; e solo si astenne dal fare eseguir la sentenza, perchè una donna a cui egli solea prestar fede, assicurolla che Seneca già consumavasi di etisia, e che non poteva sopravvivere (a) Molti hanno scritto che Seneca il Filosofo nascesse l’anno decimoterzo dell’era cristiana clic combina col penultimo di Augusto. Ma ei racconta di aver veduta uua cometa verso il tempo della morte di esso (Naturai. Quaest. I. 1), e perciò ilovea già allora avere un’età ragionevole. \ eggasi intorno a ciò l’opera piti volte citata di M. Goulin (Meni, pour servir à t’TIis!. de la Médec. ari. 1775, p. 349, ec-)• [p. 262 modifica]2Ó2 ’ LIBRO lungo tempo (Dio l. 59)). La sua eloquenza gli aprì la strada a’ pubblici onori, ed era egli già stato questore (Consol. ad Helv, c. 17), quando la sorte, statagli finallor favorevole, se gli volse in contraria. Nel primo anno di Claudio ei fu rilegato nell’isola di Corsica , perchè da Messalina fu accusato allo imperadore qual complice delle disonestà di Giulia di lui nipote (Dio l. 60; Tillem t. 1.1, />.:>o5’, 61 o). Ma Seneca fu egli reo veramente di tal delitto? Gli storici antichi non ci han lasciato alcun monumento che possa o assolverlo, o condannarlo. Se Seneca fu quell’onestissimo e, direi quasi, santissimo uomo, quale da alcuni ei vien dipinto, non è probabile ch’ei si macchiasse di tal bruttezza. Se la virtù di Seneca non fu, come taluno ha osato di sospettare, che una ingannevole ipocrisia , non vi ha delitto che in lui non si possa temere. Ma del carattere di Seneca non è ancor tempo di ragionare. Otto anni visse in esilio; nel qual tempo oltre alcuni libri egli scrisse i celebri Epigrammi in cui di quell’isola fa una sì orrida e funesta pittura (V. t. 1, ejus Op. p. 161, ed. Elvez. 1672), che convien ben dire ch’ella fosse allora diversa da quella che è al presente. Richiamatone finalmente per opera di Agrippina, e fatto tosto pretore, fu da lei dato per maestro al suo figliuolo Nerone (Tac. l. 12 Ann. c. 8); ed egli unito insieme col celebre Afranio Burro fu per alcun tempo felice nel tenerlo lontano da’ vizi a cui la pessima sua indole lo inclinava (ib.l. 13, c. 2). Ma poscia Nerone ruppe ogni argine, e ù a bandoni» alla crudeltà, alla dissolutezza e? [p. 263 modifica]a più pazzi capricci. Che Seneca fosse ancora innalzato alla dignità consolare, non è cosa del tutta certa, e si può vedere ciò che ha scritto su questo punto il gran panegirista di Seneca Giusto Lipsio (Vita Sen. c. 4)- Ma se egli ottenne f onore del consolato, questo non gli fu bastevole scudo contro la crudeltà di Nerone , che sdegnato contro di Seneca, divenutogli troppo importuno ed odioso, cercava ogni maniera di opprimerlo. Era già egli stato accusato a Nerone di aver radunate immense ricchezze; di che essendosi Seneca discolpato presso di lui, questi che forse non credeva ancor giunto il tempo di sfogare contro di esso il suo sdegno, dissimulò accortamente e se gli finse amico e favorevole più che mai per f addietro (Tac. l. 14 Ann. c. 52, ec.). Seneca però, che ben ne conosceva il reo animo , diedesi allora per sottrarsi all’invidia a un tenor di vita più solitario , sfuggendo di essere corteggiato, e sotto pretesto or di infermità, or di studio, assai di rado facendosi veder per Roma. Ma tutto invano a calmar l’odio di Nerone, a cui finalmente si presentò un’opportuna occasione di dannarlo a morte. Nella celebre congiura di Pisone, Seneca fa nominato tra’ rei. Tacito ci lascia in dubbio (l. 15,c. 56 66) se egli se ne facesse complice veramente, o se da Natale, uno de’ congiurati, fosse calunniosamente accusato a Nerone per acquistarsene il favore, poichè si sapea quanto dall1 imperadore ei fosse odiato. Comunque fosse > Seneca ancora fu avvolto nella procella che tanti de’ principali Romani trasse in rovina. Udiamone [p. 264 modifica]

l64 LIBRO

il racconto da Tacito, che è ben degno d’essere a questo luogo inserito. X. Siegue ora, dic’egli (l. 15, c. 60, ec.)} la morte di Anneo Seneca, di cui fu Nerone lietissimo , non già ch’egli l’avesse convinto reo della congiura, ma perchè potè finalmente, liberarsi col ferro da un uomo cui avea inutilmente cercalo d avvelenare. Il solo Natale avea contro lui deposto che egli da Pisone (capo della congiura) era stato inviato a Seneca allora infermo a dolersi con lui, perchè gli vietava l’entrargli in casa, e a mostrargli che più opportuno sarebbe il coltivare con famigliari ragionamenti una vicendevole amicizia; e che Seneca avea risposto cotali ragionamenti essere ad amendue pericolosi, la sua salvezza nondimeno dipender da quella di Pisone. A Granio Silvano prefetto di una delle corti pretorie si diè l’incarico di andarne a Seneca, e chiedergli se Natale, avesse parlato così , ed egli così risposto. Seneca in quel giorno medesimo, fosse arte o caso, era partito dalla Terra di Lavoro , e fermatosi in una sua villa a quattro miglia dalla città. Vennevi sulla sera il tribuno, e la circondò di soldati; e mentre Seneca con Pompea Paolina sua moglie e con due amici si stava cenando, recogli l’ordine di Nerone. Rispose Seneca che Pisone avea mandato Natale a far doglianza con lui che non gli permettesse il venirgli in casa ,• eh egli erasene scusato col pretesto della sua infermità e del suo amore per la solitudine; di’ egli non avea mai avuta ragione alcuna per anteporre la salvezza di un privato alla sua propria; eh’egli [p. 265 modifica]non era solito ad adulare: ben saperlo Nerone I stesso che ave a avute più frequenti prove della libertà che non della schiavitù di Seneca. Poichè il tribuno ebbe ciò riportato a Nerone in presenza di Poppea e di Ti gellino i più fuli I consiglieri della sua crudeltà, egli chiede al 1 tribuno medesimo se Seneca pensi a darsi volontaria morte; a cui quegli risponde che niun segno di timore e niuna tristezza aveagli potuto scorgere in volto. Gli comanda dunque di ritornarsene , e d’intimargli che muoja. Fabio Rustico scrive ch’ei non rifece la via medesima , ma che andossene al prefetto Fenio, e narratogli l’ordine di Nerone, gli domandò se dovesse eseguirlo; e che fu da lui consigliato ad ubbidire; tanto eran tutti compresi da una fatal codardia , perciocchè Silvano stesso era uno de’ congiurati; e ciò non ostante accresceva sempre più i delitti di Nerone, dei quali egli ave a voluto fare venditi a. Non ebbe cuor nondimeno il tribuno di veder Seneca, e di parlargli; ma mandò un centurione a dirgli che conveniva morire. Seneca senza punto turbarsi chiede di far testamento; e vietandoglielo il centurione, si volge agli amici, e dice loro che poichè non poteva ad essi mostrarsi grato, lasciava loro ciò che solo gli rimaneva, ma che più d’ogni altra cosa era a pregiarsi, cioè l’immagine della sua vita; di cui se essi si ricordassero , eterna sarebbe stata la fama della costante loro amicizia. E perchè tutti frattanto scioglievansi in lagrime, egli or colle parole, or colla gravità del sembiante cercava di animarli, chiedendo loro ove fossero ora le massime [p. 266 modifica]n66 libro della filosofia, e la fermezza con cui già da tant’anni apparecchiavansi a sostener le sventure.? Esser ben nota la crudeltà di Nerone; e dopo avere uccisi la madre e il fratello, altro non rimanergli che l’uccidere ancora il suo aio e maestro. Poichè a tutti ebbe così favellato , abbraccia la moglie, e. inteneritosi alquanto la prega e la scongiura a moderare e raffrenare il dolore, e a consolarsi della perdita del marito colla memoria della virtuosa vita da lui menata. Ma ella si dichiara risoluta a morire, e chiede un carnefice che la uccida. Seneca allora e per brama ch’ella si acquistasse tal gloria, e per timore di lasciarla esposta al furor de’ malvagj, io vi avea mostrato, le dice, come addolcire la vita; ma voi preferite alla vita un onorevole morte; io non vel divieto: moriamo amendue con uguale coraggio, e Voi con gloria ancora maggiore. Ciò detto, si fanno al medesimo tempo aprire le vene. Seneca era per la vecchiezza e per la sobrietà del vivere stenuato al sommo; e uscendogli perciò il sangue assai lentamente , alle gambe ancora e a’ garretti si fece aprire le vene. Crescendogli allora i dolori, e temendo che la presenza della moglie e la vicendevole vista de’ lor tormenti potesse fiaccare il coraggio di amendue, la persuase a ritirarsi in altra stanza. Ed egli, eloquente ancora in quell’estremo , chiamati alcuni copisti, dettò loro quelle parole che a tutti son note, e ch’io perciò tralascio di qui recare. Ma Nerone, sì perchè non avea alcun odio contro Paolina , si per non rendersi più odioso colla sua crudeltà, comanda [p. 267 modifica]che a ìei si vieti il morire. Perciò i liberti e gli schiavi a istanza de’ soldati le stringo ri le braccia, e le fermano il sangue. Non ben si sa che ella se ne avvedesse; ma alcuni pensarono (poichè il volgo sempre crede il peggio) che finchè ella fu persuasa che Nerone fosse implacabile, volesse morir col marito; ma che avendo concepite migliori speranze, volentieri s’inducesse a conservare la vita. Pochi anni però ella ne ebbe; nel qual tempo e non dimenticossi mai dello sposo, e col pallor del volto e delle membra tutte mostrava quanto di sangue avesse allora perduto. Seneca frattanto accostandosi lentamente alla morte chiede a Stazio Anneo suo fido amico e medico illustre, che diagli a bere il veleno da lui provveduto molti anni addietro, con cui uccidevansi i rei in Atene. Gli fu recato, e il bevve; ma avendo già fredde le membra, gliJu inutile. Entrò poscia in un caldo bagno , e spruzzando it acqua i vicini schiavi disse ch’egli sacrificava a Giove Liberatore. Finalmente fu recato entro una stufa, il cui vapor soffocollo. Il cadavero fu arso senza pompa alcuna, come egli stesso avea già prescritto in un codicillo, pensando alla sua morte nel tempo ancora della più lieta fortuna. XI. Cosi finì di vivere Seneca, uomo a cui la singolarità del carattere morale non meno che letterario ha assicurata presso a’ posteri tutti un’eterna memoria; ma che al medesimo tempo, se gli ha acquistati ammiratori e lodatori grandissimi, non meno ancora ha contro di lui risvegliati nimici e riprensori in gran XI. Diversi rii; diti in torri" ul roor ilr di.Seneca. [p. 268 modifica]aG 8 libro numero. Cominciam dall1 esaminare ciò che appartiene al suo carattere morale (28). Giusto Lipsio ne dice tal lodi, che se da lui dipendesse , per poco io credo, nol vedremmo collocato sopra gli altari. Egli ci rappresenta Seneca come uomo di una sobrietà e frugalità senza esempio , che sta nella Corte senza contrarne alcun vizio , che è a fianco de’ principi senza adularli, che veglia continuamente sopra se stesso, che ogni sera esamina scrupolosamente la sua coscienza, che pieno è di rispetto e di sommission verso Dio, che è povero fra le ricchezze, umile fra gli onori; che tutte ha in somma e nel grado più eccelso non sol le morali, ma quasi ancora le cristiane virtù (V. I. Manu duci., ad stoic. philos. diss. 18, et Vit. Sen. c. 7). Altri al contrario ci parlan di Seneca come di un furbo , d’ 1111 ipocrita , d1 un impostore che sotto l’ingannevole apparenza d’un’austera virtù celasse i più infami e ahi bominevoli vizi. Fin da quando egli viveaj Suilio accusollo d’invidia contro coloro che celebri si rendevano per la loro eloquenza, di adulterio commesso con Giulia figlia di Germanico , di enormi usure, e d’immense ricchezze da lui ammassate col volgere a suo prò (’) Il sig. ab. Lampillas dalla pagina 137 fino alla pagina 214 del primo suo tomo si occupa iu fare l’apologià del carattere morale di Seneca, e in ribalterei ciò che ne ho scritto, lo non impiegherò pure una linea in difendere la mia opinione. In questo tratto della mia Storia i giudici hanno le accuse; iu quello dell’ab. Lampillas bau le difese. Essi decidano , e diari»’ lo sentenza. [p. 269 modifica]i testamenti e i beni de’ pupilli (Tac. l. 13 Ann. c. 42). Ma poco conto è a fare delle accuse che si veggon date a que’ tempi, in cui i rei ugualmente che gli innocenti venivan tratti in giudizio. Dione è il primo fra gli storici antichi che ci abbia parlato di Seneca come di uno de’ peggiori uomini che mai vivessero. Seneca, dic’egli (l. 61), fu accusato, come di altri delitti, così singolarmente di adulterio con Agrippina. Perciocchè non contento di aver commesso lo stesso delitto con Giulia, nè fatto punto più cauto dal suo esilio, ardì di rinnovarlo ancora con una tal donna, e madre di un tal figlio. Nè in ciò solo, ma quasi in ogni altra cosa ci sembrò operare in maniera del tutto opposta alla filosofia ch’egli insegnava. Perciocchè, mentre biasimava la tirannia, egli era istruttor d’un tiranno; inveiva contro coloro che stavano a fianco de’ principi, ed egli non mai partivasi dalla Corte; scherniva gli adulatori, ed egli adulava talmente Messalina e i liberti di Claudio, che nell’isola di Corsica un intero libro scrisse in lor lode, cui poscia cancellò per vergogna. Riprendeva i ricchi egli, che avea un capitale di trenta milioni di sesterzj (ossia di settecento cinquantamila scudi romani), e condannava l’altrui lusso egli, che avea cinquecento treppiedi di cedro co’ piè di avorio somiglianti e uguali tra loro, de’ quali usava alla mensa. Delle quali cose gli altri delitti di tal natura di lui commessi si possono intendere facilmente, ec. Così continua Dione ad accennare altri infami doliti i di Seneca, ch’io stimo meglio di passare [p. 270 modifica]2 JO LIBRO sotto silenzio. Ma Dione, dicono i difensori di Seneca, è uno storico prevenuto contro di questo illustre filosofo, e che usa ogni mezzo per oscurarne la fama. Io nol niego, e perciò dell’autorità di Dione non farò alcun uso, e ad esaminare il carattere di Seneca non mi varrò che di Tacito, a cui non si può certo rimproverare un animo a lui avverso, come è manifesto dalla maniera con cui ne narra la morte; e più ancora varrommi delle opere stesse di Seneca , a cui in questa parte niuno, io credo, negherà fede. XII. E per ciò che appartiene a’ delitti commessi da Seneca con Agrippina e con Giulia , non vi è certo argomento che basti a provarnelo reo. Ma non è ugualmente facile il discolparlo di avere avuto parte nel più orrendo misfatto del crudele Nerone, cioè nell’uccision di Agrippina sua madre. Dione apertamente dice che a ciò fare fu esortato da Seneca (l. 61); ma non si creda a Dione. Tacito stesso racconta (l. 14 Ann. c. 7) che Nerone avendo su ciò richiesto del lor parere Seneca e Burro, quegli che fin allora era stato il più pronto nel consigliare, si volse tacendo a Burro, come se gli chiedesse se dovesse comandarsi a’ soldati di ucciderla; e poichè Nerone ebbe dato il fatale comando , Seneca non disse motto a distoglierlo da si barbaro attentato. Nè pago di avere col suo silenzio almeno approvato un sì nero delitto, scrisse in nome di Nerone una lettera al senato, in cui per giustificarne la morte si rimproveravano ad Agrippina i più gravi misfatti, e a lei singolarmente si [p. 271 modifica]attribuivano tutti i disordini dell’impero di Claudio , conchiudendo che la buona sorte della repubblica aveala tratta a morte (ib. c. 11). Che Seneca fosse l’autore di questa lettera, non solo Tacito , ma Quintiliano ancora affermalo chiaramente (l. 8, c. 5). Or questo proceder di Seneca non ci offre, per vero dire, una troppo vantaggiosa idea del suo carattere, Egli che della gratitudine a’ beneficj scrisse sette libri pregiati assai, dovea egli così bruttamente dimenticare che ad Agrippina era debitore e del richiamo dall’esilio, e della dignità di pretore, e degli onori di cui godeva in Corte, e delle ricchezze perciò radunate? Egli, censor sì severo de’ delitti altrui , dovea egli approvare e difendere un parricidio? Innoltre io crederò, se così si vuole, che Dione sia calunniatole, allorquando racconta (l. cit.) che mentre Nerone indegnamente prostituendo l’imperial dignità saliva sulle scene, Burro e Seneca gli stessero al fianco, gli suggerissero ciò che dovea cantare , e poscia battendo le mani e scuotendo le vesti esortassero il popolo a fargli plauso. Ma come discolpar Seneca dalla più vile e sordida adulazione che ne’ suoi libri egli ha usata sì spesso? Leggasi la Consolazione da lui scritta, mentre era rilegato in Corsica, a Polibio, uno dei liberti di Claudio, che per morte avea perduto un fratello, e veggasi come parla di Claudio non altrimenti che di un dio dal ciel disceso a salvamento di Roma , come ne esalta la maravigliosa clemenza, come in somma ne forma un tal panegirico, che del più saggio , del più valoroso, del più giusto principe non [p. 272 modifica]3^2 LtBllO si potrebbe dire più oltre (Consol. ad Polyb. c. 31, 32, 33). Ma che? Muore Claudio, e questo imperadore sì clemente, sì amabile questo dio riparatore delle comuni sciagure, vien lacerato da Seneca con una delle più sanguinose e pungenti satire che si leggano negli antichi autori (Lud. in morte Claud.). È ella dunque questa l’austera filosofia di Seneca? E un uomo che ci vorrebbe persuadere che ogni sera ei chiedeva conto a se stesso di tutti i suoi fatti e di tutti i suoi detti della giornata < /. 3 de Ira, c. 36), dovea egli lasciarsi trasportare ad adular prima si bassamente, e poscia a mordere si crudelmente lo stesso imperadore? Bella cosa , per vero dire, veder Seneca che con severo ciglio riprende gli adulatori (praef. ad l. 4 Natural. Quaest.), e che scrive a Nerone, che egli ama meglio offendere colla verità, che piacer coll’adulazione (l. 2 De clem., c. 2) , e che poscia, dopo avere adulato Claudio, come abbiamo veduto, si dà a vedere adulatore nulla meno sfrontato dello stesso Nerone: principe come di tutte V altre virtù, così singolarmente della verità amantissimo (l. 6 Natural Quaest. , c. 8); principe che potea vantare un pregio di cui a niun altro imperadore era lecito gloriarsi, cioè l’innocenza, e che faceva dimenticare perfino i tempi d Augusto; principe sopra ogni cosa dotato di un ammirabil clemenza (De Clem. l. 1 , c. 1): ecco gli elogi che il sincero Seneca fa di Nerone , il cui principato , anche dacchè egli si era bruttate le mani nel sangue di tanti Romani e della stessa sua madre, egli chiama [p. 273 modifica]lietissimo (l. 7 Natural. Quaest. c. 21). A un oratore, a un poeta, e anche a uno storico io perdonerò in qualche modo un1 adulazion sì servile: ma in un severo filosofo che mostra d’inorridire al solo nome di adulazione, si può ella soffirire? XIII. Le grandi ricchezze sono un altro delitto che si rimprovera a Seneca, come se egli avessele con ingiuste estorsioni ammassate. Già abbiam veduto a qual somma esse giugnessero, secondo Dione; e Tacito ancora racconta (l. 13 Ann., c. 42) che questa somma medesima gli fu da Suilio rinfacciata, e le usure insieme e ogni altro genere di rapace guadagno. E grande prova dell’insaziabile ingordigia di Seneca sarebbe ciò che narra Dione (l. 61), cioe che una delle cagioni per cui la Brettagna sollevossi contro di Nerone, e ottantamila Romani vi furono trucidati , fosse che Seneca avendo prestata con grandissima usura a que’ popoli una gran somma di denaro, tutta ad un tempo la volesse riscuotere, e usasse a tal fine anche di violenza. Ma all’autorità di Dione abbiam già stabilito di non fidarci. Seneca stesso però sembra che non ardisca negare di aver capitali nelle provincie oltramarine; perciocché oi e egli riferisce le accuse che a lui venivano date, questa ancora sì fa opporre da’ suoi nimici: Cur trans mare possides (De Vita beata c. 17)? La qual accusa non ribatte già egli negandone la verità, ma confessando ch’ei non è ancora uomo perfetto e lontano da ogni colpa. Delle sue immense ricchezze parimente egli non si discolpa se non dicendo che è ugualmente Tiraboscui, Voi. II. 18 [p. 274 modifica]2^4 LIBRO pronto a vivere in povertà (ib. c. 25): protesta facile a farsi da chi si vede troppo lontan dal pericolo di doverla condurre ad effetto. Ma questi tesori erano essi giustamente acquistati? Ei ci assicura che nulla vi aveva che fosse altrui (ib. c. 23); e nella parlata che presso Tacito ei fa in difesa sua a Nerone, dice che le innumerabili ricchezze e le ampie ville e i deliziosi orti ch’ei possedeva, tutti erano dono dello stesso Nerone (l. 14 Ann. c. 55). Io non saprei accertare se Seneca dicesse il vero} e non mi sembra, probabile che Nerone fosse cotanto prodigo verso di un uomo da lui temuto anzi che amato. Ma checchesia di ciò, io crederei facilmente a Seneca, allor quando egli si vanti del suo distacco dalle ricchezze e del suo amore sulla povertà, se vedessi che delle sue ricchezze egli avesse fatto uso lodevole e vantaggioso ad altrui. Io veggo, per fare un confronto, in Plinio il Giovane un uomo che sembra non esser ricco che ad altrui giovamento: apre una pubblica biblioteca in Como; assegna in gran parte lo stipendio a un maestro che vi tenga scuola; fa un ricco donativo alla figlia di Quintiliano per agevolarle le nozze; somministra denaro a Marziale per aiutarlo nel suo ritorno in Ispagna; si mostra in somma splendido protettore delle lettere e generoso ristoratore dell’altrui povertà. Nulla di tutto ciò io ritrovo nel ricchissimo Seneca. Gli storici contemporanei non mi raccontano di’ egli impiegasse a sollievo delle pubbliche o delle private sciagure alcuna parte di sì enormi ricchezze; ed egli stesso fa di continuo [p. 275 modifica]grandissimi encomii della liberalità, ma non mi dà alcuna prova ch’egli l’esercitasse. XIV. Ma ciò che più d’ogni cosa spiacemi in Seneca, si è un cotal fasto che in tutti i suoi libri s’incontra, per cui sembra che se stesso egli voglia proporre a norma e ad esemplare perfetto d’ogni virtù. Quintiliano gli rimprovera (l. 10, c. 1) il parlare ch’ei facea con disprezzo degli antichi illustri scrittori, affinchè la sua maniera di scrivere fosse tenuta in maggior pregio; e Svetonio racconta (in Ner. c. 5a) eli egli tenne lontano Nerone dal leggere i più celebri oratori, perchè a lui solo ei volgesse tutta l’ammirazione; ambizione degna veramente di un uomo che sì spesso ci raccomanda di combattere i propri affetti, e di soggiogare le ribellanti passioni. In tutti poi i suoi libri e nelle stesse sue Lettere a me par di vedere un uomo che, persuaso di esser nato riformatore dell’uman genere, prescrive imperiosamente le leggi, disprezza, deride, riprende, sempre in un cotal suo tuono altiero e orgoglioso che non è troppo opportuno ad insinuarsi nell’animo de’ leggitori. Aggiungasi il parlare ch’ei fa sovente di se medesimo, e il proporsi ad esempio degno d’essere imitato, talchè tutte le virtù eroiche che Giusto Lipsio ha trovate in Seneca, tutte le ha egli tratte dalla bocca di lui medesimo, cioè dalle cose che di se medesimo ei dice ne’ suoi scritti; e questo non è certo il più autentico testimonio che a prova delle virtù di alcuno si possa recare. La stessa sua morte ci somministra un nuovo argomento della sua alterigia; poichè se degna sembra di t [p. 276 modifica]XV. Quanto sica prc^e> oli le sue opere inorali. ¿76 IIIìRO lode la costanza con cui la sofferse, altrettanto parmi indegno di un modesto filosofo quel rivolgersi agli amici, e il lasciar loro quasi per testamento la memoria delle sue virtù. Tutte queste riflessioni non mi permettono di entrar nel numero de’ panegiristi di Seneca; e mi fan sospettare, e parmi non senza qualche ragione, che e1 fosse un impostore che sotto il velo di apparenti virtù nascondesse non pochi vizj. Io so bene che non è a stupire che fosse vizioso un uomo idolatra , e che viveva a tempi così corrotti. Ma eli’ ei cercasse di coprir con inganno i suoi vizj medesimi, e che volesse farsi censore de’ difetti altrui, egli che al par d’ogni altro era meritevole di censura , questo è ciò che, a mio parere, non potrassi mai abbastanza scusare. XV. Qualunque fosse però P animo e il costume di Seneca, egli è certo che le opere morali che di lui abbiamo, son piene di savissimi ed utilissimi ammaestramenti, e tali in gran parte, che anche a cristiano scrittore non mal converrebbero, benchè altri ve n’abbia proprj della pagana filosofia, e della stoica singolarmente, a cui Seneca più che alle altre sette era inclinato. Quindi nel parlare dell’ 0pere di questo filosofo hanno oltrepassato di troppo i confini della giusta moderazione e Giusto Lipsio da una parte, che afferma dopo la Sacra Scrittura esser questi i migliori e i più utili libri (Cent. 1, adBelgas, ep. 42), ed alcuni scrittori dal Bruckero allegati (t. 2.p. 560) dall’altra parte, che pongon Seneca nel numero degli atei. Non giova eli’ io mi trattenga a [p. 277 modifica]parlare delle Lettere vicendevoli tra S. Paolo e Seneca, che dopo altre edizioni sono state ristampate dal Fabricio (Cod. apocr. N. Test t. 1, p. 880). L’autorità di S. Girolamo (Cat. Script, eccles.) e di S. Agostino (ep. 153, edit. bened. , ad Macedon.), che hanno scritto che queste Lettere si leggevan da molti, ma non hanno affermato ch’esse fosser sincere, ha tratto molti in errore, e ha fatto lor credere che tra l’apostolo e il filosofo fosse veramente stato amichevol commercio di lettere, e eh’esse fossero quelle appunto che ora abbiamo. Al presente però non vi ha chi non le creda supposte, ed io ripeterò qui con piacere l’osservazion del Tenzelio (in not. ad Cat. Script, eccles.) che riflette, e pruova colf autorità di Angelo Decembrio (De politica liter. l. 1, p. 57; l. 2, p. 121), il primo a scoprirne la falsità, essere stato Leonello d’Este signor di Ferrara, uno de’ più splendidi protettori delle lettere e dei letterati del secolo xv. E certo basta il leggerle per ravvisare quanto sia il loro stile diverso da quello degli autori a cui si attribuiscono. Veggansi le Note con cui le ha illustrate il Fabricio, che sempre più chiaramente dimostrano la loro supposizione. Ma deesi almen credere che fosse tra essi qualche commercio di lettere? La stoica alterigia di Seneca me lo rende quasi incredibile; e se egli alcuna conoscenza ebbe, come non è inverisimile, di S. Paolo, non giovossene certamente a salute, come dalle sue opere stesse, ed anche dal sagrificio ch’egli nell’atto di morire fece, come abbiam detto, a Giove, è troppo manifesto. [p. 278 modifica]XVI. Cognizioni (fisiche che si incontrano nelle sue opere. 2~8 IIBKO XVT. Nè la morale soltanto, ma la fisica ancora dee molto a Seneca. In molte quistioni veggiamo ch’egli col penetrante ingegno, di cui fu certamente dotato, e col lungo studio era giunto a vedere, direi quasi, da lungi quelle verità medesime che i moderni filosofi hanno poscia più chiaramente scoperte, e confermate colle sperienze. Così egli ragiona della gravità dell’aria, e della forza, che noi or diciamo elastica, con cui essa or si addensa, ed or si dirada: Ex his gravitatem aeris fieri.. habet ergo aliquam vim talem aer, et ideo modo spissat se, modo expandit et purgat, alias contrahit , alias diducit, ac differt (Natural. Quaest. l. 5, c. 5, 6). Così parimenti egli reca la cagion fisica de’ tremuoti, cioè i fuochi sotterranei che accendonsi, e facendo forza a dilatarsi, se trovan contrasto, urtano impetuosamente e scuotono ogni cosa (ib. l. 6, c. i i). Così ancora egli spiega per qual maniera L’acqua del mare insinuandosi per occulte vie sotterra si purga e si raddolcisce, e forma i fonti ed i fiumi (ib. l 3, c. 5, 15). Così molte altre quistioni di fisica e di astronomia si veggon da Seneca, se non rischiarate, adombrate almeno per tal maniera, che si conosce ch’egli fin d’allora in più cose o conobbe, o fu poco lungi dal conoscere il vero. Ma bello è singolarmente l’udir Seneca, ove ragiona delle comete, e stabilisce chiaramente eli’ esse hanno un certo e determinato corso, e che a tempi fissi si fanno vedere in cielo, e svaniscono, e ritornan poscia con infallibili leggi; e predire insieme che verrà un tempo in cui queste cose medesime [p. 279 modifica]eli’egli non può che oscuramente accennare, si porranno in più chiara luce; e che i posteri si stupiranno che i lor maggiori non abbian conosciute cose tanto evidenti (ìb. ¿7, c. 13, 15). Sulle quali fisiche cognizioni di Seneca veggasi singolarmente l’opera da noi altre volte lodata di M. Dutens (Recherches sur l’origine (des découvertes, ec. t.2, p. 216; l 2, p. 10, 22,36 (29). XVII. Qualche cosa è a dire per ultimo dello stile di Seneca. Quale esso sia, il vede ognuno che ne legge le opere. Conciso, pretto, vibrato, non mai scioglie le vele a una facile e copiosa eloquenza. Ma ciò non basta.. In ogni cosa ei fa pompa d’ingegno; e qualunque sentimento ci debba esporre comunque usato e triviale, cerca di rivestirlo di un’aria nuova e maravigli osa. Quindi le sentenze, i concetti, le antitesi, i giuochi talvolta ancor di parole, che ad (n) IVI. flailly lin avuto il coraggio di sminuir di molto la lode die si è data finora a Seneca per le cose da lui dette intorno alle comete: ed lia affermato che, rendendo a.Seneca la giustizia che gli è dovuta si puh d re di’ egli ha indovinato, come gli asti ologi, dopo il fatto (H st. rie P/larun. mod. t. i , p i lo , ec.). Egli osserva, come avea anche altrove avvertito (Hist. de l’Astron. anc. p. 14-7 s eC-. 3l)t. ec.), che questa era già stata l’opinion ile’ Caldei, la quale però a’ tempi di Seneca era abbandonata, e che ripetendo ciò che di essi avea scritto fìiodoro. fortunatamente e senza prevedevo ha colpito nel veio. Mondi meno egli poscia confessa che le opere filosofiche di Seneca contengono più cognizioni astronomiche che non si trovino in tutti gli altri scrittori da Ippareo fino a lui, e die solo è a dolersi eh’ei siasi lascialo sedurre nel dar fede all asti’ nlogia giudiciaria (ìlist. de l’Astron. moti. t. 1 ,p. 5o3 ’. XVII. # Suo stilr. [p. 280 modifica]280 libro ogni passo s’incontrano. Seneca ne va in cerca, e spesso sembra che anteponga il parlar con ingegno al parlar con giustezza. I suoi libri sono anzi una raccolta di sentimenti sulla materia di cui ragiona, che un ben concepito e ben diviso trattato di essa. Or che avviene leggendo questo scrittol e? A me par di vedere un impostor gioielliere che pone in vista le sue merci. Al primo aspetto tutte appaion preziose perchè tutte sono lucenti e belle. Un semplice fanciullo, un uomo rozzo e inesperto se ne invaghisce, ne fa acquisto , e sen va lieto di sì pregevol tesoro. Ma un saggio discernitore conosce che in sì bella apparenza vi ha molto d’inganno5 e rigettate le molte false, a quelle poche gioie solamente si appiglia, ch’ei conosce per vere. Non altrimenti avvenne a’ Romani. Il concettoso e fiorito parlar di Seneca trasse molti in inganno; credettero puro e finissimo oro tutto ciò che vider brillare; vollero rivestirsi essi ancora di somiglianti ornamenti; vollero scriver con ingegno. Ma non tutti avean P ingegno di Seneca; e non potendo giugnere ad imitarne i pregi, solo ne espressero, e in sè ne ritrassero i difetti. Già abbiam veduto che questo era appunto il giudizio che formava di Seneca il savissimo Quintiliano, e che questi usò d’ogni sforzo perchè i Romani non ne fossero ammiratori troppo ciechi , e troppo servili imitatori (l. 10, c. 1). Altri ancora tra gli antichi furono che parlaron di Seneca con disprezzo, forse più ancora che non convenisse, come narra Gellio (l. 12, c. 2); e fin da quando egli vivea, Caligola, uomo nimico di [p. 281 modifica]ogni studio, ma fornito nondimeno di acuto ingegno, soleva dire che Seneca altro non faceva che ammassare sentenze, e che era come un’arena senza calce (Svet. in Calig. c. 53). Ma nondimeno ei piaceva, come dice Quintiliano, appunto pe’ suoi vizj medesimi, e questi ebbero allora, ed hanno poscia anche in altri tempi avuto, ed hanno forse ancora al presente in qualche parte d’Europa non pochi imitatori. Ma di Seneca basti fin qui, la serie delle cui opere e i titoli di alcune di esse che si sono smarrite, si potranno vedere presso il Fabricio (Bibl. lat. l. 2, c. 9) e presso Niccolò Antonio (Bibl. vet. hisp. l. 1, c. 7, 8), il quale di tutto ciò ancora che appartiene a Seneca, diligentemente ha trattato. Veggasi inoltre il Bruckero, che della vita, de’ costumi, de’ sentimenti di Seneca parla coll’usata sua erudizione ed esattezza (t. 2, p. 545, ec.). E intorno allo stile di Seneca son degne singolarmente d’esser lette le osservazioni di M. Jortin inserite nel Giornale britannico, che i difetti e i pregi tutti rilevane con giusto esame (l. 17-/2 81). XVIII. Assai diverso fu il carattere e il tenor della vita di Caio Plinio Secondo, detto il Vecchio a distinzione del giovane di lui nipote, di cui già abbiamo parlato. La Storia Naturale da lui descritta, fa che a questo più che a qualunque altro luogo si debba di lui parlare. Non abbiamo ad affaticarci molto nel rinvenire le notizie che a lui appartengono, poichè Plinio il Giovane ne ha parlato assai. Il punto più difficile a trattarsi si è, s ei fosse veronese, o comasco. Queste due città già da [p. 282 modifica]a82 LIBRO gran tempo son tra loro in contesa, e ognuna pretende di aver tali ragioni a cui l’altra non possa opporne le uguali. Noi ci siam già protestali più volte di non voler entrare in somiglianti quistioni, poichè il trattarne, e molto più il deciderne, è cosa molto pericolosa al pari che inutile. I Veronesi allegano in lor favore l’autorità dello stesso Plinio che nella prefazione alla sua Storia parlando di Catullo il chiama conterraneum meum. I Comaschi allegano l’autorità di Svetonio, il quale nella breve Vita che ne scrisse, il dice comasco. Ma i Comaschi rispondono a’ Veronesi, che la parola conterraneo può avere più ampio senso, e che inoltre in altri codici leggesi congerronem, o congerraneum) e i Veronesi rispondono a’ Comaschi, che quella Vita non è già di Svetonio, ma di altro assai posteriore scrittore, e che la parola novocomensis in altri codici non si legge. I Comaschi allegano ancora l’autorità della Cronaca Eusebiana, nella quale a’ tempi di Traiano si fa menzione di Plinio con queste parole: Plinius Secundus novocomensis orator et historicus insignis habetur, cujus plurima ingenii moni menta extant. Periit dum invisit Vesuvium. Ma i Veronesi rispondono che qui si parla di Plinio il Giovane, che visse in fatti sotto Traiano, e che per errore a lui si attribuisce la morte che incontrò il vecchio; e anzi quelle parole, periit dum invisit Z7"esuvium, ne’ migliori codici e nelle più pregiate edizioni non si trovano (V. Vallarsii not. ad Chron. Euseb.). Così quegli argomenti che da una parte si considerano come i più [p. 283 modifica]convincenti, si rimiran dall’altra come deboli e rovinosi. In tale stato di cose quale speranza di poter conciliare insieme sì opposti partiti, o di appoggiar per tal modo le ragioni di uno, che l’altro si confessi vinto? Io lascerò dunque che gli uni e gli altri si tengan fermi nell’opinion loro: e che quelli che in tal qui« ione non hanno interesse, seguano chi più lor piace. E a giudicarne con cognizione di causa, potranno essi leggere gli scrittori che per 1‘ una e per l’altra parte hanno su ciò disputato; i quali tutti sono stati diligentemente annoverati dal ch. conte. Anlongiuseppe della Torre di Rezzonico (Disquis. plin. l. 1 , p. 32, ec.). Questo è l’ultimo autore che abbia scritto in favor di Como sua patria; ed egli certamente, benchè sembri che un’altra più copiosa dissertazione ci faccia sperare su questo argomento (ib. p. 5), tanto nondimeno ne ha già detto (ib. p. 4> oc.’7 l. 2, p. 35, ec.; l. 8, p. 247, ec.), e con tal corredo di autorità, di ragioni, di erudizione ha sostenuta la sua causa, che sembra non possa andarsi più oltre. Io non so se i Veronesi vorranno ancor replicare. Ove essi nol facciano, potranno almen vantarsi i Comaschi di essere stati gli ultimi a discendere in campo, e di non avere avuto chi lor si opponesse (a).

(a) Dopo il co. Rezzonico, il co. Giiunbatista Giovio di Ini nipote per parte di madre con nuove armi lai 1 on Patullo ingegnosamente per l’onor della pania contro de’ Veronesi (Gli Uomini ill. Comaschi, p. 179, ec., 429, ec.); e se (juesli continuano nel loro silenzio, parrà sempre più assiemila la vittoria a Comaschi. [p. 284 modifica]XIX. Sua viu, infelice »u morte. 384 LIBRO Ma della patria di Plinio basti il detto fin qui; poichè io penso che appena meriti d1 essere confutala l’opinione del P. Arduino, il quale veggendo che Plinio chiama spesso i Romani col nome di nostri e col nome di nostra la città di Roma, afferma che Plinio fu romano, come se un suddito non possa usare di tale espressione parlando della sua capitale, molto più se ne abbia la cittadinanza, e del popolo che a tutta la nazione dà il nome; e come se non avessimo esempj di somigliante parlare in altri autori che non furon certo romani. XIX. La vita di Plinio è stata ultimamente a dopo altri scrittori esaminata diligentemente e descritta dal soprallodato conte. Antongiuseppe della Torre di Rezzonico (Disquis. plin. l. 4, 5). Ed io perciò non farò che toccarne brevemente le cose e l1 epoche principali. Ei nacque l’an 13 dell’era volgare, come evidentemente raccogliesi dal sapere che egli morì, come Plinio il Giovane attesta, in età di 56 anni, al tempo dell’eruzione del Vesuvio, che per consentimento de’ migliori autori (V. Tillem. note 4 sur Tite) avvenne l’anno 79, e dopo aver coltivati gli studi militò per alcuni anni nella Germania, ed ebbe la condotta di uno squadrone di cavai* leria. Tornato a Roma, esercitossi talvolta, ma raramente, nel trattar cause nel Foro. Quindi mandato da Nerone in Ispagna col titolo di Procuratore, vi sostenne il medesimo impiego fin circa il secondo anno di Vespasiano; da cui richiamato, ebbe poscia o da lui, o, come altri vogliono, da Tito il comando dell’armata navale che era presso il promontorio di Miseuo. [p. 285 modifica]Ma questa nuova carica gli fu fatale. Era egli sulle sue navi, quando il Vesuvio non molto da esse lontano cominciò a gittar denso fumo. Avvisatone da sua sorella madre di Plinio il Giovane, che amendue eran con lui, ed accertatosi di ciò che fosse, fa allestire alcuni legni per recare aiuto a que’ che fossero in pericolo. Fuggivan tutti da’ luoghi circonvicini, ed egli senza timore alcuno volge le prore verso il Vesuvio con tal coraggio, che osservando attentamente ciò che avveniva sul monte, ne descriveva dettando tutte le circostanze. Era già si vicino, che sulle navi incominciavano a cadere e calda cenere e sassi infocati; e al medesimo tempo ritiratosi il mare, non era possibile l’innoltrarsi. Ma egli non perciò atterrito, comanda che volgasi a Stabie, ora Castellamare, ove era un cotal Pomponiano suo stretto amico. Giuntovi con favorevol vento, trovollo costernato e tremante; poichè comunque il pericolo fosse ancora lontano, vedeasi nondimeno farsi ognora più appresso. Egli avea già posta sulle navi ogni sua cosa; ma il vento era contrario, ed impediva il fuggire. Plinio il conforta, e per accrescergli col suo esempio nuovo coraggio, come se nulla vi avesse a temere, entra nel bagno, cena, e abbandonasi a un placido sonno. Frattanto la cenere e i sassi infocati sempre più avanzandosi avean talmente riempita l’area che era innanzi alla sua camera, che se più oltre avesse indugiato, non era possibile l’uscirne. Riscosso dunque sen torna a Pomponiano e agli altri che per timore avean vegliato; e perchè la casa crollando e [p. 286 modifica]286 LIBRO scuotendosi minacciava rovina, avvoltisi il capo entro a’ cuscini per difendersi da’ sassi, sen vanno verso del mare, per vedere in quale stato fosse; ma il vento era ancora contrario. Ivi Plinio sdraiato su un lenzuolo sul lido chiese due volte a bere. Quand1 ecco sentirsi un grave odore di zolfo, e le fiamme vedersi ormai vicinissime: tutti sen fuggono: egli scuole, e appoggialo a due servi si alza; ma tosto ricade a terra soffocato, per quanto sembra, dalla fiamma e dal fumo. Così finì di vivere Plinio in età di soli cinqnantasei anni l’anno 79 dell’era cristiana, sul principio dell’impero di Tito, secondo la narrazione che Plinio il Giovane ne mandò a Cornelio Tacito (l. 6, ep. 17) che gliel’avea richiesta. XX. In un’altra lettera lo stesso Plinio descrive (l. 3, ep. 5), quanto avido dello studio fosse il suo zio; e per meglio mostrarlo rammenta prima le opere ch’egli avea composte. Un libro intorno alla maniera di lanciar dardi combattendo a cavallo, due della Vita di Pomponio Secondo, venti libri in cui tutte raccontava le guerre dai Romani sostenute in Germania, tre libri intorno all’arte oratoria, otto di grammatica, trentun libri delle storie de’ suoi tempi, e finalmente la grand’opera della Storia Naturale. Egli è a stupire, soggiugne il nipote, che un uomo solo abbia potuto scrivere tante e sì grandi cose; ma molto più è a stupire che abbiale scritte un uomo che si esercitò ancora talvolta nel trattare le cause, che molto tempo dovette impiegare nel soddisfare o a’ doveri dell’amicizia, o a’ comandi de’ principi, [p. 287 modifica]e che morì in e’ .à di 5l> anni. Ma ii buon uso ilei tempo gli rende facile ciò che ad altri non sembrerebbe possibile. Parchissimo di cibo ugualmente che di sonno, poco dopo la mezza notte cominciava i suoi studj, e ad essi consacrava tutto quel tempo che dalle altre occupazioni gli rimaneva libero. Anche mentre cenava, e mentre era in viaggio, e mentre stava nel bagno , voleva che gli si leggesse un libro , e scriveva, o dettava ad altri ciò che trovava degno di riflessione 5 perciocché non mai prese libro alcun tra le mani su cui non facesse qualche annotazione; In fatti egli lasciò al nipote cento ottanta volumi di tali memorie scritti in ogni parte e di carattere minutissimo. Era per tal maniera sollecito che inutile non gli rimanesse qualunque ancor menoma particella di tempo, che un giorno avendo il suo lettore sbagliato nel leggere alcune cose di un cotal libro, e perciò ripetendo egli quel passo, Plinio a lui rivolto, e non l’avevi dunque inteso? gli disse; e rispostogli che si: perchè dunque ripeterlo? replicò; potevansi frattanto leggere dieci altre linee. E veduto una volta il nipote che sta vasi passeggiando, potresti pure, gli disse, non gittar questo tempo. Col qual tenore di vita intendesi più facilmente, come egli dotato di pronto e vivace ingegno potesse al lavoro di tante opere trovar tempo. XXI. E certo i xxxvi libri di Storia Naturale, che è la sola opera che ci sia rimasta di Plinio, ci mostrano un uomo di profondo ingegno e di vastissima erudizione. Io so che alcuni molto han trovato a riprendervi , e ?■ XXL Pr«*#» e difetti (Iella stia Storia Naturale. [p. 288 modifica]288 LIBRO taluno ancora ne ha parlato con quel disprezzo che è proprio di chi vuol acquistarsi fama coll’oscurare l’altrui; e il Blount rammenta (Censura celebr. auct. p. 119) le villane ingiurie con cui taluno oltraggiò Plinio, dicendo ch’egli fasciculariam facit, cuncta olfaciens, nihil degustati s , omnia glutiens, nihil decoquens, le ma mendacioriun, errorum oceanus; espressioni che appena da un colto scrittore si userebbero parlando di un cerretano che mettesse in iscritto le fole che dal suo palco suol vendere a’ grossolani uditori. Nè è già che in Plinio non trovinsi degli errori e delle puerili e popolari, opinioni da lui troppo facilmente credute ed adottate. Ma in sì vasta opera, in cui necessariamente ei dovette giovarsi degli occhi e delle mani di molti, era egli possibile che accadesse altrimenti? E i difetti di essa non son compensati per avventura da pregi troppo maggiori? Io non voglio giudicarne da me medesimo: ma penso che 11111110 ricuserà di attenersi al parere del più ingegnoso conoscitore e del più elegante interprete della natura che oggi viva, dico del celebre M. Buffon, uomo che assai più d’ogni altro dee conoscere i difetti e gli errori di Plinio. Or odasi corn ei nc ragiona (Stor. Natur. rag. 1): Plinio ha travagliato sopra un piano assai più grande, e per avventura troppo vasto: ha voluto abbracciar tutto, e pare ch’egli abbia misurata la natura, e trovatala ancor troppo piccola per la stesa del suo ingegno: la sua Storia Naturale comprende, oltre la storia degli animali, delle piante e de’ minerali, la storia dei cielo [p. 289 modifica]e ilrlla terra, la medicina , il commercio , la navigazione, la storia delle arti liberali e meccano he, l’origine delle costumanze; tutte in fine le scienze naturali e tutte le umane arti; e ciò che v ha di più sorprendente, si è che in ciascuna parte Plinio si mostra egualmente grande; la sublimità deli idee, la nobiltà di llo stile danno rissalto alla profonda erudizione; non solamente egli sapeva quanto si potea sapere a’ suoi tempi, ma possedeva quella facilità di pensare in grande che moltiplica la scienza; avea quella finezza di riflessione, da cui di penile l’eleganza e il gusto; ed egli comunica a’ suoi lettori una certa libertà ii ing gno, un ardir di pensare, eli e il germe della filosofia. L’opera di lui tutta varietà, siccome è la natura, la dipinge sempre a bei colori; ella è, se si vuole, una compilazione di tutto ciò che era stato scritto avanti a lui, una copia di quanto era stato fatto di eccellente e di utile a sapersi; ma questa copia ha in sè. de’ tratti così maestosi, questa compilazione contiene cose raccolte in una foggia sì nuova, ch’ella è preferibile alle maggior parte deli opere originali che trattano degli stessi argomenti. Così egli} e finchè non sorga un altro più di lui versato nello studio della natura, che ne giudichi altrimenti , ci atterremo noi pure a questo parere. Per ciò che appartiene allo stile di Plinio, esso non ha la purezza nè l’eleganza de’ più antichi scrittori, ma è di una precisione e di una forza non ordinaria. Questa nondimeno va spesso più oltre che non converrebbe, e sparge nel discorso uno stento Tiraboschi, Voi. Jf. ly [p. 290 modifica]_7Q0 LIBRO e una oscurità clic stanca i lettori; e inoltre i sentimenti di cui egli adorna il suo racconto, sovente sono ingegnosi e leggiadri, ma talvolta ancora son raffinati di troppo e sforzati. Convien però confessare che l’oscurità nasce in gran parte da’ codici guasti e pieni di errori che son poi passati ancor nelle stampe. Un’opera così vasta, e di un argomento di cui assai poco dovean naturalmente sapere coloro che ne facevano copie, non poteva non essere contraffatta e adulterata; e la diligenza de’ commentatori nel confrontarne i diversi codici non ha ancor potuto , nè potrà forse per avventura giammai riparare abbastanza un tal danno (-}•). (■fi Dopo nverc sfritto (in qui della.Storia Naturale di Plinio,,mi son venuti finalmente alle mani i tre primi tomi della nuova edizione che l’anno scorso 1771 se n’ è pubblicata in Parigi, colla traduzion francese di rincontro al testo , e con copiose ed erudite annotazioni. Ilo veduto con piacere che il dotto editore conviene meco nel giudizio eh’io ho recato così dell’opera di Plinio, come de’ conienti del P. Harduinu. La traduzione è esatta comunemente e fedele, il che, trattandosi di tal libro, non c piccolo pregio. Le note sono in gran parte prese da quelle del mentovato. Hardnino: ma ve ne ha ancor molte aggiunte di nuovo, e sarebbe forse stato opportuno consiglio il distinguer le «ine dalle altre. ¡Ma come mai è avvenuto che le due prime note dell" editore contengano due non leggieri errori? Sulla M ita di I’Imio attribuita a Svetonio egli dice in primo luogo: L’ Hardnino pretende, ma senza prudve, che il libro delle Uite defili Uomini Illustri non sia di Svetonio. Non è ciò ebe nega il P. flarduino; ma sì che da Svetonio sia stata scritta la Vita di Plinio clic a lui si attribuisce; nel che appena vi ha tra’ moderni esalti scrittori chi non sia di tal parere. L’altra nota [p. 291 modifica]XXII. Gianfrancesco Buddeo, seguendo ancora l’autorità di altri scrittori, ha annoverato Plinio tra gli atei (De Atheismo l. 1, § 22). Nè si può negare che più volte egli parli in maniera che dia luogo a tale accusa. Ei nega, anzi deride, la provvidenza con cui Dio veglia sopra le umane cose (l. 2, c. 7); e nega ancora e combatte l’immortalità dell1 anima (l. 7, c. 55). Altrove nondimeno ei sembra adottare il sistema degli Stoici, e afferma il mondo essere sacro, eterno, immenso, che non ha avuto

sì è alla vore Nnvocomcnsìs usata nella medesima Vita Svetonio, die" egli, è il solo che faccia menzione di Noruu-Covum E come mai? Catullo non dice egli espressamente: iVovi reltnqurns Comi maenìa (Carni. 35)? e Strabone noi nomina egli pure collo stesso nome (l. 5 Geogr.)? lo non posso pur convenire coll’editore nel sentimento del P. Harduino da lui seguito , che la prelazione della Storia Naturale sta supposta a Plinio, lo non dirò col march. Maffei che in mito Plinio non vi sia nulla di più pliniano (Derona illn.str. par. 1, l. 1); ma dirò bene che non vi riconosco quella sì grande diversità di stile che vi ravvisano alcuni; e che panni difficile che un impostore abbia potuto contrattare in tal modo non tanto lo stile, quanto i sentimenti di Plinio. Ma benché e nelle note e nella traduzione medesima sian corsi alcuni errori, questa è opera nondimeno da aversi in gran pregio. A poco a poco si lavorerà tanto intorno a questo sì difficile autore , che si giugnerà finalmente ad averlo assai più chiaro e più utile che non è stato per P addietro. Sarebbe a bramare che una società di valorosi Italiani, geografi, naturalisti, filosofi , astronomi, medici e professori delle belle arti si unisse insieme a darci lina bella versione italiana , corredata con ampie e dotte annotazioni , di un sì grande autore. ¡Non è possibile che mi uomo solo possa giugnere a tanto.

XXTI. fi»* et duhlu

  • n noverarsi

lugli il in. [p. 292 modifica]292 LIBRO principio, nè avrà fine, in somma il mondo stesso essere Dio (l. 2, c. 1). Da’anali e da altri diversi passi di Plinio, che sembrano contraddirsi l’ 011 l’altro, saggiamente raccoglie il Bruckero (t. 2, p. 613) ch’ei non può dirsi ateo dichiarato e sicuro, ma che dubbioso in mezzo a sì diversi pareri, e lontano dal decidere cosa alcuna su un punto che non apparteneva al suo intento, egli in diverse occasioni adottò diversi sistemi senza preferire l’uno all’altro. XXIII. Benchè non sia nostro costume il parlare delle edizioni degli autori di cui trattiamo, quella nondimeno di Plinio fatta dal P. Arduino è così celebre pel gran bene non meno che pel gran male che se n’ è detto, che parmi opportuno il dirne qui alcuna cosa. Egli la intraprese in età ancor giovanile, e non avendo per anche compito lo studio della teologia (V. Il ibi. frane, t 30, p. 186, e Chauf. Dit i. art. “ Hardovin »), e ne fece la prima edizione l’anno 1685 in cinque tomi in quarto; poscia ne diè la seconda con più mutazioni ed aggiunte l’anno 1723 in tre tomi in foglio. I giornalisti comunemente ne disser gran lodi. Io recherò qui solamente l’elogio che ne fecero gli autori del Journal des Savans, il giudizio de’ quali non penso che si avrà da alcuno in conto di parziale ed interessato: Si può affermare, dicon essi (Journ. des Sav. 1724, p. 322), che il Plinio del P. Harduino, che f u pubblicato la prima volta I mino 1685, è come il capo d’opera delle edizioni fatte ad uso del Delfino, o si consideri il prodigioso numero [p. 293 modifica]di correzioni ch’egli ha fatte nel testo di questo famoso naturalista, o si abbia riguardo a’ nuovi lumi ch’egli offre per l’intelligenza d’infiniti passi non intesi finora da’ più dotti interpreti. Per giudicare della grandezza di un tal lavoro riguardo al primo articolo, basti scorrere il catalogo delle correzioni eh’egli ha fatto stampare al fine di ciascun volume. Esse son frutto del confronto de’ migliori manoscritti di Plinio, e di tutte le edizioni, e dell’ingegno del commentatore, ec. Ma altri ne parlarono diversamente. E il primo, ch’io sappia, a levarsi contra (questa edizione, fu Giovanni le Clerc, il quale si dolse singolarmente (li ibi. univ. t. 5, p. 3, ec.) del poco favorevol giudizio che il P. Arduino avea dato intorno all’osservazioni del Salmasio sopra Plinio, delle quali per altro, dic’egli, il P. Arduino si è giovato non poco, ma senza citarle: e ove ha voluto combatterle, spesso è caduto in errore. Il P. Arduino in una sua opera intitolata Antirrheticus de Nummis antiquis (p. 138) fece qualche risposta al le Clerc; ma questi non avvezzo a ritirarsi il primo dal campo di battaglia, di nuovo se gli volse contro (li ibi. univ. t. 15, p. 246) a difesa del suo Salmasio. Ma una critica ancora più rigorosa, perchè più universale, fu pubblicata contro la seconda edizione di quest’opera. Il sig. Crevier professore nell’Università di Parigi, e celebre per molte erudite opere date alla luce, due lettere diè alle stampe, la prima nel 1725, la seconda nel 1726, in cui riprese il P. Arduino di molti errori in molti punti d’antichità e di storia da lui Tiraboschi , Val. II. 19 * [p. 294 modifica]jg4 LIBRO commessi (V. Journ. des Sav. 1726, p. 4, e 583, Hist. litt. de F Europe, t. 1, p. a3i; 4} p. 191). Il P. Arduino inserì a sua difesa nelle Memorie di Trevoux (ann. 1726, oct. p. 1904) una breve risposta, in cui con una cert’aria di superiorità, che ben si può perdonare a un vecchio ottogenario, qual egli era allora, che risponde ad un giovane e nuovo autore, come era allora M. Crevier, dopo aver detto qualche cosa di due errori attribuitigli dal suo avversario , mostrò di non curarsi delle altre accuse, come non meritevoli di risposta. Ma il Crevier non si tacque, e una terza lettera diè alla luce l’anno 1727 (V. Joum. desSav. 1727, p. 616), in cui e ribattè le ragioni del P. Arduino arrecate in sua difesa, e nuovi errori scoperse ne’ commenti di Plinio. E a parlare sinceramente, non si può negare che ve n’abbia molti. Ne abbiamo noi pure notati alcuni in questo tomo, e nel precedente ancora, per tacere di molti altri de’ quali lo ha di recente accusato il ch. conte. Antongiuseppe della Torre di Rezzonico nelle sue Esercitazioni Pliniane. In un’opera di sì gran mole, e in cui si tratta, per così dire, di quanto havvi al mondo, è egli a stupire che un uomo, benchè dottissimo, sia inciampato più volte? Ma questi errori da quanti pregi non son compensati? Io voglio ancora concedere che tutti i falli che al P. Arduino sono stati opposti, gli siano stati rinfacciati a ragione. Ma che sono essi finalmente in confronto di tanti vantaggi che questa edizione ci ha arrecati? Se egli ha guasti e contraffatti a capriccio alcuni passi, se altri ne ha spiegati fuor [p. 295 modifica]d’ ogni verisoraiglianza, se ha affermate alcune cose false e improbabili, e se perciò merita biasimo, non deesegli ancora gran lode per tanti altri passi da lui prima d’ogni altro felicemente ristabiliti, per tanti chiaramente spiegati, e per l’immenso corredo di erudizione con cui ha illustrato questo per f addietro sì oscuro autore / lo non cederò ad alcuno nel condannare gli stranissimi paradossi che in molte sue opere , tutte però posteriori alla prima edizione di Plinio , ha sparsi e sostenuti, troppo abusando del suo ingegno e del suo sapere, il P. Arduino. Ma non parmi convenire a giusto e imparziale estimator delle cose il volere che, perchè uno talvolta meritò riprensione, la meriti sempre; e il biasimare tutte l’opere di un autore, perchè alcune sono a ragion biasimate. XXIV. Degli altri filosofi di questa età ci spediremo più facilmente, perchè o nulla abbiamo de’ loro scritti , o furono stranieri, e solo per qualche tempo vissero in Roma. Alcuni di essi dieder saggio della loro filosofia più colla generosa lor morte, che co’ loro studj. Seneca esalta con somme lodi (De tranq. animi c. 14) la costanza di Canio Giulo, o, come altri leggono, Cano Giulio , il quale dal crudele Caligola dannato a morte, ne’" dieci giorni che dopo la condanna ancor sopravvisse, fu tranquillo e lieto per modo , che quando gli venne intimato di andare al supplicio, essendo egli attualmente seduto al giuoco, eh guardati, disse ridendo al suo avversario, dal vantarti di avermi vinto, quando io non potrò più XXIV. Altri filosofi in Koala. [p. 296 modifica]parlare in mia difesa. Maggiori ancora sono gli elogi con cui parla di Trasea Peto lo storico Tacito, che una gran parte del libro xvi de’ suoi Annali ha impiegato in rammentarne le singolari virtù e la costanza con cui sostenne la morte, alla quale da Nerone fu condannato. Egli è a dolersi che questa narrazione nel più bello rimanga tronca e imperfetta, essendosi smarrita l’ultima parte del mentovato libro; ma una sola espressione di Tacito basta a farci comprendere in quale stima egli fosse; perciocchè ei dice (l. 16 Ann. c. 20) che Nerone, dopo aver trucidati molti de’ più saggi Romani, pensò finalmente di distruggere la virtù stessa, uccidendo Trasea Peto. Celebre parimente fu a questi tempi Elvidio Prisco, genero di Trasea, il quale all’occasione della morte del suocero dal furibondo Nerone cacciato in esilio, poscia tornato a Roma nell’impero di Galba, coll’eloquenza non meno che colla filosofica sua libertà vi si rendette illustre. Di lui parla assai lungamente Tacito (l. 4 "Hist. c. 4, ec.). Ma la virtù degli Stoici avea una non so qual rozza e indomabil fortezza che spesso degenerava in ardire e in impudenza. E così avvenne ad Elvidio , il quale, come altrove abbiamo accennato (V. sup. n. 6), così altiero mostrossi con un de’ migliori imperadori, cioè con Vespasiano, che questi dopo averlo lungamente sofferto, costretto fu finalmente ad ordinarne la morte. Di simil tempra dovea esser Musonio Rufo, stoico egli pure; poichè Tacito piacevolmente deride l’importuno e pedantesco suo filosofar tra’ soldati, i quali non [p. 297 modifica]poteron farlo tacere se non cogli urti e co’ calci (l. 3 Hist. c. 81). Ei però doveva essere in maggiore stima che non gli altri, poichè, come narra Dione (l. (66), quando per ordine di Vespasiano tutti i filosofi cacciati furon d’Italia, al solo Musonio fu permesso di arrestarsi in Roma. Di questi quattro filosofi veggasi ciò che più ampiamente narra il Bruckero (t. 1, p. 83, 84, 540, ec.), e intorno a Musonio particolarmente si possono consultare le Ricerche di M. Burigny che ha raccolto i passi degli antichi scrittori a lui appartenenti (Hist. de l’Acad. des Inscr. t. 31 , p. 131). Un Papirio Fabiano filosofo, che scritto avea libri a Politica appartenenti, lodasi molto da Seneca (ep. 100); ed altri pure ne veggiamo qua e là nominati, cui troppo lungo s.uebbe il voler rammentare distintamente. XXV. Ma assai maggiore fu il numero degli stranieri filosofi vissuti a questo tempo in Roma, che non de’ romani. Io non parlo qui delf impostore Apollonio, perchè già ho dimostrato quali ragioni mi sforzino a dubitare s’egli abbia mai posto piede in Roma. Ma in Roma furono certamente e Sozione Alessandrino maestro del filosofo Seneca, che di lui parla con lode (ep. 49? 108), e un altro Musonio cinico di professione, di cui parla lungamente il Bruckero mostrando (t. 2, p. 5oi) che ei fu diverso dall’altro Musonio mentovato di sopra, e Demetrio cinico egli pure, e vero esemplare della cinica villana mondanità, come abbiam veduto di sopra nella maniera di cui egli usò a riguardo di Vespasiano. Celebri furono ancora xxv. Gran numero di filosofi greci urli.» Mc-s&a lillì». [p. 298 modifica]298 libro e Auneo Cornuto africano di cui Persio sì grandi elogi ci ha lasciato nelle sue Satire (sat. 5), e Dione soprannomato per la sua eloquenza Grisostomo caro assai a Ner\ a e a Traiano, e da essi sommamente onorato, di cui abbiamo ancora molte Orazioni scritte in greco, poichè egli prima di volgersi alla filosofia avea tenuta scuola di eloquenza; de’ quali e di più altri filosofi si posson vedere più copiose notizie presso il Bruckero (t. 2, p. 95 , 501, 505, 537, 565, ec.). A me non pare opportuno il trattenermi lungamente intorno a tali filosofi, da’ quali non può l’Italia ricever gran lode, poichè non ebbe la sorte di esser lor madre. Molto meno prenderò io a parlare del celebre Peregrino cinico di cui Luciano ci racconta sì strane cose, poichè ei non fu in Roma se non per tempo assai breve; e oltre ciò la narrazion di Luciano, come ben dimostra il Bruckero (t. 2, p. 522), ha una cotal aria di favoloso e d’ironico, che ben si vede da lui essere almeno’ in gran parte finta a capriccio per farsi beffe de’ filosofi cinici, e molto più de’ cristiani. XXà I. Alcuni però di essi, che e lungamente vi vissero, e vi si renderono più illustri, son meritevoli di più distinta menzione. E vuolsi tra’ primi nominare il celebre Epitteto. Non vi fu uomo in apparenza più di lui infelice; nato di padri sì poveri, che convenne venderlo schiavo a un liberto di Nerone per mantenergli la vita; zoppo di una gamba, e sì privo d’ogni bene, che tutto il suo avere riducevasi a un letticciuolo, a una lucerna di creta e a [p. 299 modifica]una vii coltrice entro un picciol tugurio ch’egli lasciava aperto a chiunque, sicuro di non esser rubato (V. Sui dati 1 in Epict.). Ma in mezzo allo squallore della sua povertà, egli era sì ricco delle massime di una saggia filosofia, che da Gellio fu a ragione appellato il più grande tra i filosofi stoici (Noct. Att. l. 1, c. 2). Nè di esse valevasi egli soltanto a suo vantaggio, ma sforzavasi ancora di persuaderle altrui, nel che egli avea una forza di ragionare così grande che piegava ovunque volesse i suoi uditori (Arrianus Nicomed. pracf.ad Diss. Epict.). Ma la sua virtù non gli fu scudo bastevole contro il furore di Domiziano; e quando questi cacciò in esilio tutti i filosofi, Epitteto ancora vi fu compreso (Gell. l. 15, c. 11). Ritirossi egli dunque a Nicopoli, e vi mantenne il medesimo tenor di vita. Se egli poscia tornasse a Roma, non è ben certo. Alcuni il raccolgono dalla famigliarità di cui onorollo Adriano, come racconta Sparziano (in Hadr. c. 16); ma non parmi argomento bastevole a provarlo. Adriano, fece non pochi viaggi, ed è ben verisimile che in occasione di essi conoscesse Epitteto, e gli desse de’ contrassegni di stima. E questa è pure l’opinione di Arrigo Dodwello (Diss. de aetate Peripli Maris Eusini, § 9), a cui ancora sembra probabile che regnando questo imperadore morisse Epitteto; perciocchè, se fosse vero, come altri ha asserito, eli’ ei vivesse fino ai tempi di Marco Aurelio, converrebbe dire che oltrepassasse i cento anni di età, essendo egli stato vivo, come si è detto, fino da’ tempi di Nerone. Era egli in sì grande stima, che [p. 300 modifica]300 LIBRO Luciano racconta Advers. indoctum libros embentem) che un cotale col prezzo di tre mila dramme comperò la lucerna da lui usata; ma questa è forse una capricciosa invenzione di questo scrittore. Più sicuro argomento del concetto che aveasi di Epitteto, si è il confronto che di lui fece il celebre Celso del Divin Redentore per combattere i Cristiani, e per mostrare che tra gl1 Idolatri ancora vi erano virtù eroiche. Ma è a vedere la risposta che su questo punto gli fa Origene (Contra Cels. l. 7), Egli è certo però, che Epitteto fu forse tra gl1 Idolatri cjuegli che col lume della ragione giungesse più oltre di tutti, e desse in se stesso il più luminoso esempio di morali virtù; benchè per altro sia sembrato ad alcuni di scorgere in lui ancora un non so che di quello stoico orgoglio che in altri filosofi abbiam veduto (V. Mem. de Littèrat. de Desmolets, t 5, par. 2). Abbiamo sotto il nome di Epitteto una disputa da lui tenuta con Adriano; ma il Bruckero con evidenti ragioni ha mostrato (t. 2, § 5"i) ch’ella è un’impostura. Arriano di Nicomedia, che ne fu discepolo, ci ha tramandato molti de’ discorsi uditi dalla bocca di questo illustre filosofo, de’ quali ci rimangono quattro libri, e una raccolta di sentenze da lui pure usate, che diconsi ordinariamente il Manuale di Epitteto. Aveane egli ancora scritta la Vita; ma essa è perita. Molti moderni l’hanno parimenti scritta, che dal Bruckero (p. 568) si annoverano, a’ quelli si possono aggiugnere il Cocquelin e il Dacier nelle prefazioni alle lor traduzioni del suddetto Manuale. Intorno a [p. 301 modifica]questo abbiamo una assai bella operetta del P. Michele Mourgues della Compagnia di Gesù, di nuovo ristampata in Bouillon l’anno 1769, intitolala: Parallelo della morale cristiana con quella degli antichi filosofi, in cui a canto del Manuale di Epitteto tradotto in francese aggiunge un Manuale cristiano in cui le sentenze di Epitteto vengono alla nostra religione adattate, e da essa perfezionate; e inoltre un’antica parafrasi cristiana dello stesso Manuale fatta già in greco, e da lui stesso recata in francese.


Di Favorino XXVII. Discepolo di Epitteto fu Favorino nativo di Arles, secondo Filostrato che ne 1 ha scritta la Vita (Vit. Sophist. l. 1, c. 8), amico di Gellio che spesso fa di lui menzione e ne riporta parecchi detti (l. 5, c. 11; l. 12, c. 1; l. 14, c. 1; l. 17, c. 19; l. 18, c. 1,7, ec.), di Plutarco il quale a lui dedicò alcuni suoi libri, e di altri dotti uomini di quel tempo. Par nondimeno che il tenor di sua vita fosse assai diverso da quello del suo maestro (Philostr. l. cit.; Lucian. in Eunucho). Ma in ciò che appartiene a universalità di sapere, gli fu ancor superiore; poichè non solo egli fu valoroso filosofo, e addetto assai alle dottrine platoniche, ma nella poesia ancora e nella storia esercitossi con lode. Già abbiam veduto per qual maniera egli fuggisse il pericolo d’incorrere la disgrazia di Adriano (V. c. 1, n. 13). Questi, geloso al sommo della gloria d’uomo eloquente e dotto, avrebbe voluto pur toglier di mezzo un filosofo che potea contrastargli il primato. Ma Favorino seppe sì destramente condursi, che l’imperadore non trovò mai motivo [p. 302 modifica]3oa libro a cui appigliarsi per condannarlo (Dio l. lì di qui nacque poi forse l’onorarlo ch’ei fece, e il distinguerlo sopra tutti gli altri uomini dotti di quel tempo (Spart, in Hadr.), volendo almeno acquistarsi fama col rendere onori ad un uomo cui non poteva ne vincere nè rovinare. Era egli, al dir di Fitostrato, in sì gran pregio in Roma, che da lui sembrava quasi dipendere tutta la romana letteratura. Ma, a dir vero, agli elogi di Filostrato io non so condurmi a prestare gran fede, perciocchè ei parmi scrittore che cerchi di lodare anzi che di narrare. Comunque sia, ei certo doveva esser uomo assai dotto, come raccogliesi ancor da’ libri in gran numero da lui scritti, che da Suida (Lex. ad eoe. « Pìiavorinus •») e poscia dal Fabricio (Bibl. gr. t. 2, p. (60) son rammentati. l)i lui, oltre ciò che ne ha il Bruckero (t. 2, p. 166), si può vedere ciò che hanno scritto i Mam iiii nella Storia Letteraria di Francia (t. 1, p. 26.1). XXVIII. Non disgiungiamo da Favorino il suo contemporaneo e amico Plutarco. Poco di lui hanno scritto gli antichi, e le notizie a lui appartenenti è convenuto raccoglierle in gran parte dalle stesse sue opere. Tra i moderni più diligentemente di tutti ne hanno scritta la N ita l’inglese Dryden e il Dacier, il quale l’ha aggiunta alla traduzion francese ch’egli ci ha data delle Vite degli Uomini illustri di Plutarco. Questi, nativo di Cheronea nella Beozia, non ebbe veramente stabil dimora in Roma; ma vi venne più volte, e talvolta ancora vi si trattenne a lungo tempo. Il Dacier arreca buone ragioni a provare che la prima volta ch’ei pose piede [p. 303 modifica]iti Italia, non botò essere se non al fine del regno di Vespasiano; e che dopo la morte di Domiziano più non vi fece ritorno. Quindi nella romana letteratura ei non fu molto versato, e confessa egli stesso che assai tardi erasi ad essa rivolto (in Vita Demosth.). Fu uom nondimeno e nella storia e nella filosofia sommamente erudito, come ne fan fede le opere che di lui ci sono rimaste, delle quali si può vedere il Fabricio (Bibl. gr. t. 3, p. 329). I più saggi però confessano ch’egli è filosofo dilettevole più che profondo, benchè anche nel suo stile si trovi una non so quale ingrata durezza (V. fi rack, t 3, p. 179, ec.). Quindi io penso che pochi approveranno l’elogio che di Plutarco ha fatto un moderno scrittore (V. I Recueil Philos. et litt. de la Soc. de Bouillon p. 133, ec.) il quale, non contento di avergli data la preferenza in confronto di Cicerone, non teme di dire (p. 138) ch’egli non può senza ingiustizia negare a questo autore una superiorità che gli antichi e i moderni gli contendono invano. Non si può egli dunque lodare un autore senza abbassarne un altro? E questi smoderati elogi non nuociono essi alla fama di quelli a’ quali si rendono, anzi che farla maggiore? XXIX. Di genere assai diverso fu il sapere del famoso Trasillo a’ tempi di Tiberio. L’antico interprete di Giovenale lo dice (sat. 6, v. 576) uomo in molte scienze versato; ed alcune opere da lui scritte intorno alla musica e ad altri filosofici argomenti si accennano dal Bruckero sulla testimonianza di antichi autori xxix. Dell1 astrologo Trisiilo. [p. 304 modifica]3o4 XTBRO (t. 2, p iG{), benché altri pretendano che le( opere a musica appartenenti sian di un altro Trasillo figliuol del primo. Veggansi intorno a ciò le Ricerche dell’ab. Sevin (Mém, de l’Acad, des Inscr. t. 10,p. 89), il quale diligentemente ha esaminato tutto ciò che narrasi di Trasillo. Ma ciò che più celebre il rendette, fu lo studio dell’astrologia giudiciaria, e l’uso che con Tiberio ne fece. Questi piacevasi assai di questa arte alla sospettosa sua indole troppo opportuna, e da Trasillo ne apprendeva le leggi. Ma poco mancò che queste non riuscisser fatali allo stesso maestro; poichè, come raccontano Tacito (l. 6 Ann. c. 21) e Dione (l. 55), avendo egli predetto l’impero a Tiberio, mentre stavasi in Rodi, questi a lui rivolto, e di te, gli disse, che predicon le stelle? Era questo un pericoloso cimento, poichè, qualunque risposta ei rendesse, poteva facilmente da Tiberio essere smentita. Egli dunque osservando le stelle, e misurando gli spazj de’ cieli, mostrò di turbarsi , e con voce tremante rispose eli’ egli conosceva di essere in grave, e forse estremo pericolo. Della qual risposta compiacendosi Tiberio, abbracciollo, ed esortatolo a non temere, accrebbe vieppiù la confidenza che in lui avea. Lo stesso Dione (ib.) e Svetonio (in Tib. c. 14) raccontano che egli, dalla spiaggia di Rodi veggendo venire una nave, predisse a Tiberio che essa gli portava il lieto comando di tornarsene a Roma, e che così avvenne di fatto. Questa forse fu la ragione per cui allor quando Tiberio tutti gli stranieri che facevan professione d’astrologia dannò a morte, e all’esilio [p. 305 modifica]qne eli’erano cittailini romani (Dio l.57), il solo Trasillo potè impunemente, anzi con piacere dell’imperadore , continuare nella sua impostura. Ma egli almeno seppe talvolta usarne a vantaggio altrui; perciocchè Tiberio vicino al fin di sua vita fatto sempre più sospettoso e crudele, già avea risoluto di fare un’orrenda strage de’ più ragguardevoli cittadini, e di molti ancora della sua famiglia; quando Trasillo per sospendere sì feral colpo assicurò Tiberio che dieci anni ancora gli rimaneano a vivere; e di se stesso al contrario gli disse che presto e al tal giorno determinato sarebbe morto: il che essendo veramente avvenuto, Tiberio lusingossi che avrebbe potuto con agio soddisfare il suo furore; ma poscia sorpreso aneli’ egli da morte, non potè ottenerlo (Dio l. 58; Svet. in Tib. c. 62). Non fa bisogno ch’io qui mi trattenga a mostrare che non potea certo Trasillo coll’aiuto dell’astrologia predire tai cose; e che quindi debbonsi avere in conto di favolosi cotai racconti, o attribuire al caso, o ad altra ragione, s’egli potè indovinar qualche cosa agli altri occulta. Ma le cose che di Trasillo si narrano, ci fan vedere che, non ostante il bando di Roma due volte a’ tempi d’Augusto agli astrologi intimato, essi viveano in Roma, e in Roma esercitavano impunemente la loro arte. XXX. In fatti quasi ad ogni passo della storia di questi tempi noi troviam consultati gli astrologi. Di essi si valse Libone Druso Scribonio a ordire una congiura contro Tiberio (Tac. l. 2 Ann. c. 27). E in tal occasione Tiraroschi, Voi. 11. 20 [p. 306 modifica]3o6 LIBRO un nuovo bando fu contro lor pubblicato con ordine che dovessero uscire da tutta 1 Italia; e un di essi, forse il più reo di tutti, cioè Lucio Pituanio, fu precipitato da un alto sasso (ib.c. 32). E questa probabilmente fu l’occasione in cui, come di sopra fu detto, al solo Trasillo si permise di restare in Roma. Poscia nondimeno piegatosi Tiberio alle loro preghiere, e affidatosi alle loro promesse che non avrebbon più esercitata quest’arte, permise loro il ritorno (Svet. in Tib. c. 37). Ma essi non tenner parola, e circa dieci anni dopo, allor quando Tiberio partì di Roma, gli astrologi di bel nuovo uscirono in campo, e predissero eli’ egli non vi avrebbe più fatto ritorno (Tac. l. 4, c. 58). Agrippina ancora di essi si valse a conoscere qual sarebbe stata la sorte del suo figlio Nerone; e dicesi che udito da essi ch’egli avrebbe regnato, e insieme avrebbe uccisa la madre , ella trasportata dall’ambizione , uccidami pure, rispondesse, purchè egli regni (id. l. 14, c. 9). A’ tempi di Claudio un’altra volta fu lor comandato di uscir dall’Italia; ma Tacito a ragione chiama un tal decreto severo e inutile (l. 12, c. 52). Di fatto Poppea moglie di Nerone molti aveane suoi confidenti (id. 1.1 IIist. c. 22), molti aveane Ottone; e un di essi singolarmente da Tacito (ib.) e da Plutarco (in Galba) detto Tolomeo, da Svetonio (in Othone, c. 4) Seleuco, aveagli chiaramente predetto l’impero. Vitellio appena salito sul trono rinnovò contro di essi l’antico bando, e prescrisse il giorno determinato, entro cui voleva che sgombrassero da Roma e [p. 307 modifica]Tac. I. 2 Hist. c. 62). Ma essi con incredibile ardire esposero pubblicamente in Roma un altro bando, con cui predicendo ordinavano che dentro quel giorno medesimo \ ileilio sgombrasse dal mondo. Dione vorrebbe persuaderci che si avverasse la predizione; ma Svetonio, assai più vicino a quei tempi, scrive che il giorno determinato da Vitellio alla partenza degli astrologi, e dagli astrologi alla morte di Vitellio, era il primo d’ottobre; e questi visse fino al dicembre innoltrato. Cièche ch’è certo, si è che Vitellio fu ucciso, e gli astrologi continuarono a starsene sicuramente in Roma, benchè alcuni di essi fossero da lui stati uccisi (Svet. l. c.). Anzi Vespasiano ebbeli cari assai, e singolarmente il già mentovato Seleuco (Tac. l. 2 Hist. c. 78). Anche l’ottimo Tito sembra che da questa ridicolosa superstizione non si tenesse lontano (Svet in Tito, c. 9). Ma Domiziano sopra tutti n’era pazzo adoratore, e di essi valeasi in particolar maniera a conoscer coloro da cui potesse temere insidie e congiure, per prevenire colla lor morte i rei disegni. Veggansi le grandi cose che in questo genere si raccontano da Dione e da Svetonio (Dio l. 67; Svet. in Domit. c. t \. 10), le quali ci fan conoscere quanto acciecati fossero allora la più parte degli uomini nel lasciarsi aggirare da tali impostori, e quanto saggiamente avesseli Tacito deffiniti, quando gli disse sorta <t uomini traditori de’ grandi, e ingannatori degli speranzosi, che dalla nostra città saranno sempre cacciati, e sempre vi rimarranno (l. 1 [p. 308 modifica]3o8 libro Hist. r. 22). Di Traiano non vi ha, ch’io sappia, argomento a conchiudere che fosse protettore o seguace dell’astrologia giudiciaria, Ma ben lo fu Adriano uomo abbandonato a tutte le più sciocche superstizioni. Di lui narra Sparziano (in Hadr. c. 16) che nell’astrologia era egli così versato, che al primo dì di gennaio egli scriveva tutto ciò che in quell’anno poteva accadergli, e in quell’anno in cui egli morì, tutte scrisse le azioni ch’ei dovea fare fino all’ultima ora di sua vita. Le quali predizioni però io credo che saranno state somiglianti a quelle de’ nostri facitor d’almanacchi. Deesi per ultimo avvertire che gli astrologi a questo tempo, e anche per molti secoli susseguenti, chiamavansi spesso col nome di’ matematici, appellazione troppo onorevole certamente per vani impostori, quali essi erano. Il solo vantaggio che dalle loro imposture si ricavava, era il mantenersi vivo in qualche maniera lo studio dell’astronomia, che forse altrimenti sarebbe stato dimenticato; ma di questo studio medesimo troppo abusavan!! costoro col rivolgerlo agli usi della fallace astrologia giudiciaria. XXXI. Sarebbe a bramare per onor de’ Romani, che altri almeno vi fossero stati a questa età a cui il nome di astronomi, o di matematici con più ragione si convenisse. Ma convien confessarlo che gli studj di tal natura, a’ tempi singolarmente di cui parliamo , assai poco furono coltivati. Se se ne traggano Plinio il Vecchio che dell’astronomia scrisse ciò che trovò sparso ne’ libri greci che avea tra le [p. 309 modifica]mani, e Seneca il filosofo che, come abbiamo osservato, parlò di alcune quistioni più felicemente che non era a sperarsi a’ que’ tempi, noi non troviamo alcun tra’ Romani che in Queste scienze fosse erudito. Abbiamo bensì due geografi, Strabone e Pomponio Mela. Ma il primo fu greco, e benchè viaggiasse in Italia e fosse a Roma, non sappiamo perù eh1 ei vi facesse lunga dimora; e non abbiamo perciò ragione di noverarlo tra’ nostri. Il secondo ancor fu straniero, cioè spagnuolo, benchè la diversa maniera con cui si legge in diverse edizioni un passo in cui egli nomina la sua patria (l. 2, c. 6), non ci permetta di ben accertare in qual città ei nascesse (V. Voss. de Histor. lat. l. 1, c. 25; e Nic. Ant. Bibl. hisp. vet. l. 1, c. 11). Egli è vero però che lo stile da lui usato nella sua Cosmografia, terso ed elegante forse sopra tutti gli scrittori di questo secolo, ci fa credere ch’egli abitasse assai lungamente in Roma. Egli scrivea a’ tempi di Claudio, le cui vittorie nella Brettagna rammenta chiaramente (lib. 7, c. 6); e della sua Geografia perciò potè valersi nella sua Storia Naturale Plinio il Vecchio , che di fatti il nomina tra gli autori da sè consultati, e che è forse il solo tra gli scrittori italiani di questo tempo che abbia nella sua Storia illustrata anche la geografia. XXXII. L’unico tra’ romani scrittori che nella matematica ci si mostri versato, egli è Sesto Giulio Frontino, uomo che non nelle scienze soltanto , ma ancor ne’ maneggi della repubblica e nell’esercizio dell’armi’ si rendette [p. 310 modifica]3lO LIBRO illustre. Di lui e delle cose che a lui appartengono, ha lungamente e con molta erudizione trattato il march. Giovanni Poleni (Proleg ad Front, de Aqueduct.). Dopo essere stato pretore, come da Tacito si raccoglie (l. 4 Hist. c. 39.)), ei fu console surrogato , secondo che congettura il suddetto autore, l’anno dell’era cristiana 74 e quindi l’anno seguente col titolo di proconsole andonne in Brettagna , e vi soggiogò felicemente i Siluri, come abbiamo dal medesimo Tacito (Vita Agric. c. 17). Del secondo consolato di Frontino fa menzione Marziale in un suo epigramma , dicendo: De (Nomentana vinum sine faece lagena Quae bis Frontino consule prima fuit. L. 10, e//igr.; il qual secondo consolato crede il march. Poleni che cadesse nell’anno 97 , e crede che una terza volta ei fosse console ordinario insiem con Traiano l’anno 100; e a conferma di questa sua opinione produce una erudita lettera del dottissimo medico Giambatista Morgagni , in cui rigettasi l’opinion di coloro che in vece di Frontino vogliono che legger si debba Frontone. Egli ebbe da Nerva la soprantendenza alle acque, com’egli stesso afferma (De Aquaeduct. art. 102) , e come chiaramente raccogliesi da una iscrizione che abbiamo nella Raccolta Muratoriana (t. 1, p. 4 t7)> in cui fra le altre cose leggonsi queste parole: Anienem vere novam opere sumptuoso et structura mirabili Julius Frontinus a divo Nerva Curator aquarum factus restituit, ac in urbani [p. 311 modifica]perduxit. L1 impiego di cui fu onorato da Nerva, mostra in quale stima egli fosse; e prova ancor più certa del suo sapere sono i due libri che di lui ci sono rimasti, degli Acquedotti di Roma, opera , dice il Montucla (Hist. des Mathém. t. 1, pag 411) j nella quale egli mostra quell’abilità che potevasi avere in un tempo in cui ignoravansi ancora i sodi principj dell’idraulica. Di lui abbiamo ancora due libri degli Stratagemmi militari, de’ quali si è dubitato da alcuni se dovesse veramente credersi autore Frontino. Ma il marchese Poleni con ottime ragioni, sostenute ancora con una erudita lettera eli’ egli reca di Giovanni Graziani professore primario di filosofia nell’Università di Padova, mostra che non vi ha ragione a negarlo. Non così di un libro d’agricoltura, e di qualche altro frammento che da alcuni gli viene senza ragione attribuito, e che da Guglielmo Goes si mostra (praef. ad Script, rei agrariae) essere di un altro Frontino vissuto a più tarda età. Di Frontino parla con molta lode anche Plinio il Giovane, il quale seco medesimo si rallegra (l. 4> ep- 18) di essere a lui succeduto nella dignità di augure, e altrove rammenta (l. 9, ep. 20) il divieto eli’ ci fece che non gli si alzasse sepolcro , dicendo essere questa una spesa superflua, e che avrebbe ottenuta fama appresso i posteri, se vivendo avessela meritata. XXXIII. Alla filosofia e alla storia naturale appartiene ancora l’agricoltura; e qui perciò darem luogo a Lucio Giunio Moderato Columella, di cui però ci spedirem brevemente, [p. 312 modifica]3l 2 LIBRO perchè egli ancor fu spagnuolo, e nativo di Cadice, com’egli stesso afferma (l. 8, c. 16;. Sembra nondimeno eli’ ei vivesse in Roma, ove conobbe Seneca il filosofo, di cui parla come d uomo ancora vivente, e ne rammenta le ampie e fertili vigne (l. 3, c. 3). Di lui abbiamo XII libri d’Agricoltura scritti con eleganza; e il decimo di essi è sulla coltura degli orti, e scritto in versi; del qual poemetto è a stupire che non avesse notizia il P. Rapin, poichè ei credette di essere il primo che scrivesse di tale argomento (V. praef. ad lib. Hort.). A questi libri un altro separato si aggiunge intorno agli alberi. Plinio cita talvolta l’opera di Columella, e talvolta ancor la confuta, benchè ad altri sembri che senza ragione. Veggasi ciò che più lungamente osservano intorno a questo scrittore Giannalberto Fabrizio (Bibl. lat. l. 2, c. 7), Niccolò Antonio (Bibl. hisp. vet. l. 1 , c. 5), e Mattia Gesner nella prefazione alla magnifica edizione da lui fatta in Lipsia l’anno i —35 di tutti i Latini Scrittori d’Agricoltura. Non vuolsi finalmente tacere di Antonio Castore botanico famoso in Roma a’ tempi di Plinio il Vecchio, il quale ne fa onorevol menzione (l. 25, c. 2), e rammenta il vago orticello ch’egli avea, in cui nutriva gran copia di erbe d’ogni maniera; uomo degno d’essere ricordato anche per la lunga e felice sua vita; perciocchè egli oltrepassò il centesimo anno senza aver mai sofferto alcun male, e senza essergli per vecchiezza venute meno nè la memoria nè le forze.