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con coraggio la morte. E abbiam già veduto ,di sopra quanti per sottrarsi alla crudeltà di Tiberio amaron meglio di finire con volontaria morte una vita che sembrava loro troppo spiacevole e travagliosa. Lo stesso dee dirsi del regno ancor di Caligola e di quello di Claudio; poichè il primo in crudeltà andò innanzi a Tiberio medesimo, e niun riguardo ebbe mai agli uomini celebri per sapere; il secondo, coltivatore di una leggera letteratura, non ebbe nè maturità nè talento pe’ gravi e severi studj. Quindi, come lo spirito di adulazione comune allor tra’ Romani faceva che il genio e l’inclinazione degli imperadori desse, per così dire, la legge al genio e all’inclinazione del popolo, videsi allora singolarmente introdursi in Roma uno studio di cose frivole e puerili, e di niun vantaggio alla società e allo Stato. Ecco, dice Seneca in un libro da lui scritto nel regno di Claudio (De brev. vit. c. 13), che tra Romani ancora si è sparso un inutile impegno (di sapere cose futili e da nulla; e ne reca parecchi esempj. E forse a questi tempi medesimi allude lo stesso Seneca, quando descrive (ep. 48) i ridicoli e sciocchi sofismi che a far pompa d’ingegno da alcuni filosofi allor si usavano: Mus syllaba est: mus autem caseum rodit Syllaba ergo caseum rodit... Mus syllaba est: syllaba autem caseum non rodit. Mus ergo caseum non rodit. Oh le fanciullesche inezie! esclama Seneca; a questo fine adunque noi ci accigliamo? per questo portiamo al mento prolissa barba? per questo ci struggiamo e ci consumiamo insegnando? Ma lo stesso Seneca