Storia della decadenza e rovina dell'Impero romano/57

CAPITOLO LVII

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CAPITOLO LVII.

I Turchi Selgiucidi. Loro ribellione contra Mamud, conquistatore dell'Indostan. Togrul sottomette la Persia e protegge i Califfi. Romano, Imperatore debellato e fatto prigioniere da Alp-Arslan. Potenza e grandezza di Malek-Sà. Conquiste dell'Asia Minore e della Siria. Trista condizione cui Gerusalemme è ridotta. Pellegrinaggio al Santo Sepolcro.

Fa duopo che il leggitore, abbandonando le rive della Sicilia, si trasporti al di là del mar Caspio, in quelle contrade d’onde uscirono i Turchi o Turcomanni, contro de’ quali la prima tra le Crociate venne intrapresa. L’Impero che questi fondato aveano nel sesto secolo sulle regioni della Scizia, da lungo tempo non era più; ma vivea tuttor celebre il loro nome fra i Greci e fra gli Orientali: e gli avanzi di cotesta nazione formavano diverse popolazioni independenti, formidabili per le lor forze, e diffuse in tutta l’estensione del Deserto, dalla Cina alle rive del Danubio e dell’Osso. La colonia ungarese facea parte della Repubblica europea; sui troni d’Asia altrettanti schiavi, e soldati di origine turca si stavano. Intanto che le lancie normanne soggiogavano la Sicilia e la Puglia, uno sciame di questi pastori del Settentrione, i reami della Persia inondava. I loro Principi, della stirpe di Selgiuk, innalzarono un saldo e possente Impero, che da Samarcanda ai confini della Grecia, e dell’Egitto [p. 209 modifica]estendeasi, e i Turchi signoreggiarono l’Asia Minore assai prima che lo stendardo vincitore della luna ottomana sventolasse sulla cupola di S. Sofia.

[A. D. 997-1028] Mamud il Gaznevida1, che regnava nelle province orientali della Persia, dieci secoli dopo la nascita di Cristo, fra i maggiori principi della nazione turca vien collocato. Sebectagi, padre di lui, era lo schiavo dello schiavo dello schiavo del comandante de’ Credenti, ma in questa genealogia di servitù, l’infimo grado era unicamente di titolo; poichè questo schiavo di uno schiavo di schiavo, governava con sovrana podestà la Transossiana e il Korasan, contrade solo in apparenza sottomesse al Califfo di Bagdad. Lo schiavo da cui dipendea Sebectagi era un ministro di Stato, un luogo-tenente dei Samanidi2 che ribellandosi infranse i ceppi della [p. 210 modifica]politica schiavitù, e il ridetto Sebectagi dopo avere effettivamente servito nella famiglia di questo ribelle, in premio del suo valore e della sua abilità, genero e successore del proprio padrone, Capo della città e della provincia di Gazna, divenne3. Perchè la dinastia de’ Samanidi, a que’ giorni affatto inclinando, fu sostenuta da prima, poi rovesciata dagli ambiziosi suoi servi, e in mezzo ai pubblici disordinamenti, la fortuna di Mamud si accrebbe ogni giorno. A pro di lui inventatosi il nome di Sultano4, egli estese la sua dominazione dalla Transossiana ai dintorni d’Ispahan, e dalle rive del Caspio alla foce dell’Indo; ma la prima ori[p. 211 modifica]gine della sua fama e delle sue ricchezze, gli derivò dalla santa guerra ch’ei mosse ai Gentù dell’Indostan. Basterebbe appena un volume a descrivere i combattimenti e gli assedj, che alle sue dodici spedizioni andarono uniti, e che, estranei al mio argomento, cercherò racchiudere in men d’una pagina. Nè inclemenza di stagioni, nè altezza di montagne, nè larghezza di fiumi, nè sterilità di deserti, nè copia di nemici, o formidabile apparecchio dei loro elefanti da guerra5, arrestarono mai il cammino del Sultano di Gazna, che i suoi trionfi portarono oltre i limiti delle conquiste di Alessandro. Dopo una peregrinazione di tre mesi fra le colline di Cascemira e del Tibet, ei pervenne alla famosa città di Kinnoga6 situata alle rive dell’alto Gange, e in una battaglia navale accaduta sopra un ramo dell’Indo, quattromila battelli carichi di nativi sconfisse. Dely, Lahor, e Multan costrette vidersi [p. 212 modifica]ad aprirgli le porte. La conquista del regno di Guzarate, tentata avendo l’ambizione del vincitore, la fertilità poi del paese lo indusse a stanziarvisi, e per avarizia si lasciò adescare dal disegno di scoprire nell’Oceano Australe le isole produttrici dell’oro e degli aromi. I Raia conservarono, pagando un tributo, i loro dominj: il popolo ricomperò allo stesso prezzo la vita e la proprietà, ma lo zelante Musulmano si mostrò crudele e inesorabile verso la religion dei Gentù: si contano a centinaia i tempj e le pagode adeguate al suolo per ordine di costui, e a migliaia i simulacri d’idoli infranti, che, composti di materie preziose, furono eccitamento e premio ai fedeli seguaci del Corano. La pagoda di Sumnad trovavasi sul promontorio di Guzarate, nelle vicinanze di Diu, città compresa fra gli antichi possedimenti de’ Portoghesi, e ad essi rimasta7. Ricca delle rendite di duemila villaggi questa pagoda, vi stavano duemila Bramini consacrati al servigio della divinità del paese, e questa lavavano mattina e sera con acqua attinta al Gange, benchè posta ad una distanza considerabile da quel paese; cotesti Bramini aveano sotto il loro comando trecento musici, trecento barbieri, e cinquecento danzatrici distinte per nascita o per avvenenza. Da tre bande l’Oceano difendea il tempio; e un precipizio o naturale, o scavato dall’opera umana, chiudea l’ingresso della stessa lingua di terra su di cui trovavasi collocato: una nazione di fanatici popolava la città e que’ dintorni. I ministri del tempio, e i devoti, ban[p. 213 modifica]dirono essere state giustamente punite Kinnoga, e Dely: ma che i fulmini del cielo avrebbero sicuramente annichilato l’empio Mamud, se al tempio di Sumnad ardia avvicinarsi. Stimolato vie più da cotale disfida il religioso zelo del Sultano, si trasse a far prova delle sue forze contro quelle dell’indiana divinità. Cinquantamila adoratori di essa caddero sotto il ferro de’ Musulmani; scalate le mura, profanato il Santuario, il vincitore percosse colla sua mazza ferrata il capo dell’idolo. Per salvarlo, gli spaventati Bramini offersero, dicesi, un valore equivalente a dieci milioni di lire sterline; e i più saggi fra i cortigiani di Mamud gli dimostravano che la distruzione di una statua di pietra non bastava a cambiare le menti dei Gentù, ma che una somma sì rilevante poteva essere adoperata a sollievo de’ buoni seguaci di Maometto. „Le vostre ragioni, il Sultano rispondea, sono forti e speciose, ma non sarà mai che Mamud comparisca agli sguardi della posterità, come un uomo che ha patteggiato sugl’idoli„. Addoppiò indi i colpi, e la molta copia di perle e rubini usciti dal ventre della statua, diede in qualche modo ragione delle prodighe offerte fatte da sacerdoti per riscattarla. I frantumi dell’idolo vennero spediti a Gazna, alla Mecca e a Medina. Bagdad udì con commozione l’edificante racconto di tale impresa, e il Califfo conferì a Mamud il titolo di guardiano della fortuna e della fede di Maometto.

Obbligatomi a queste sanguinolente discrizioni, di cui così sovente è composta la storia de’ popoli, non posso negare a me stesso il distormene per raccogliere alcuni fiori di scienza e di virtù che in mezzo alle stragi ancor pullularono. Il nome di Mamud, il [p. 214 modifica]Gaznevida, vien tuttavia profferito con rispetto nell’Oriente; perchè, avendo egli in appresso fatto godere giorni di prosperità e di pace a’ suoi sudditi, quanto era di difettoso in lui il velo della religione coperse. Due esempli daranno a divedere la giustizia e la magnanimità di un tal principe.

I. Un giorno ch’ei presedeva al Divano, venne un infelice a’ piedi del trono lamentando la violenta audacia di un turco guerriero, che violato avea e il talamo, e la casa del supplicante cacciandonel fuori. „Sospendete le vostre querele, a questo disse Mamud; e unicamente avvisatemi la prima volta che il colpevole ritorna in casa vostra, ond’io possa trasferirmi in persona a giudicarlo, e punirlo„. Così avendo eseguito poco dopo l’offeso, il Sultano lo prese a sua guida, e fatte schierare intorno alla casa di lui le sue guardie, e ordinato che si spegnessero tutti i lumi, pronunziò decreto di morte contra colui che in atto di commettere violenza e adulterio era stato sorpreso. Compiuta la sentenza, vennero riaccese le fiaccole, e Mamud postosi in ginocchione si diede ad orare; poi terminata la preghiera chiese in fretta qualche alimento che, comunque grossolano, ei mangiò colla voracità d’un affamato. In mezzo ai sensi della gratitudine quel meschino, al quale era stata fatta giustizia, non potè celar quelli della sorpresa e della curiosità sopra una tanto singolare condotta. L’affabile Sultano non tardò molto a dargli spiegazione di tutto: „Io avea pur troppo ragione di credere che, ne’ miei Stati, nessun altro fuor d’un mio figlio fosse capace di tale delitto. Ho fatto spegnere i lumi, affinchè la mia giustizia fosse inflessibile e cieca. Indi ho ringraziato il cielo, dopo avere scoperto chi [p. 215 modifica]era il colpevole: e tali furono le mie angosce sin dall’istante in cui mi portaste querela, che da tre giorni io non avea preso cibo„.

II. Il Sultano di Gazna avea bandita la guerra alla dinastia de’ Bovidi, sovrani della Persia occidentale. Ivi allora governava, a nome d’un fanciullo, la sultana madre che accortamente così scrisse a Mamud: „Finchè è vissuto mio marito ho paventata la vostra ambizione; egli era un principe e un guerriero degno del vostro valore. Or più non vive, e lo scettro di lui è passato nelle mani di una donna e d’un fanciullo; voi non oserete assalire l’infanzia e la debolezza. Niuna gloria andrebbe unita alla vostra conquista, e vergognosissima sarebbe per voi una disfatta, giacchè, per ultimo, l’Onnipossente è solo arbitro delle vittorie.„ Mamud sospese l’invasione sintanto che il giovine principe fosse a virilità pervenuto8.

Un sol difetto, l’avarizia, oscurava il bel carattere di Mamud: nè altri più di lui giunse ad appagare questa passione. Gli Orientali oltrepassano perfino i limiti della verisimiglianza nel descriverne i tesori, facendoli ascendere a tanti milioni d’oro e d’argento quanti l’avidità umana non ne ha accumulati giammai, e a perle, diamanti e rubini, che di tal grossezza non ne produsse mai la natura9. Conviene ciò nono[p. 216 modifica]stante considerare che il suolo dell’Indostan è pieno di miniere preziose; che in tutti i secoli il suo commercio vi ha portato l’oro e l’argento del rimanente del globo; che finalmente prima dei Maomettani, le sue ricchezze non erano state preda d’altri conquistatori. La condotta tenutasi da Mamud all’atto del suo morire, diè a divedere, nel modo il più segnalato, la vanità di tutti questi possedimenti, con tante fatiche acquistati, custoditi a prezzo di tanti pericoli, e che pur gli era inevitabile l’abbandonare. Dopo avere considerate le vaste sale che conteneano i tesori di Gazna, pianse a cald’occhi, e ne chiuse le porte, senza distribuire porzione alcuna di sì copiose ricchezze che non gli era più lecito il conservare. Alla domane passò in rassegna le sue forze militari, composte di centomila fantaccini, di cinquancinquemila uomini a cavallo, e di mille trecento elefanti da guerra10: indi versò nuove lagrime sulla instabilità delle umane grandezze. L’acerbità del suo dolore gli si accrebbe in udendo i progressi de’ Turcomanni, per ordine da lui stesso introdotti nel cuore del suo reame di Persia, ove in quel momento avanzavano come nemici. [p. 217 modifica]

[A. D. 980-1028] Nello stato attuale di spopolazione a cui trovasi ridotta l’Asia, sol ne’ dintorni delle città, gl’influssi regolari di un governo, e le tracce dell’agricoltura, si possono ravvisare; il rimanente del paese è abbandonato alle tribù pastorali degli Arabi, de’ Curdi e de’ Turcomanni11. Due bande considerabili di questi ultimi, ad entrambe le rive del mar Caspio hanno possedimenti; la colonia occidentale può mettere in armi quarantamila guerrieri; quella dell’Oriente, meno accessibile ai viaggiatori, ma più forte e più numerosa, di centomila famiglie all’incirca è composta. Circondate da nazioni venute a civiltà, i costumi dello scitico deserto conservano, cambiano di campi colle stagioni, fra le rovine de’ palagi e dei templi mettono a pascolare le loro mandrie, sola ricchezza che s’abbiano. Le costoro tende, bianche o nere, giusta il colore dello stendardo, e di forma circolare, vanno coperte di feltro: una pelle di pecora è l’abito del verno di questi Barbari; nella state vestono panno o tessuti di bambagia: rozza e truce è la fisonomia degli uomini: mansueta e aggradevole quella delle donne. Una vita errante, il coraggio e le consuetudini militari in essi mantiene; combattono a cavallo, e moltiplicati litigi o fra loro, o co’ vicini, li mettono spesso in circostanza di dimostrare il proprio valore. Comprano il diritto di pascolo, pagando un tenue tributo al Sovrano del pae[p. 218 modifica]ma la giurisdizione domestica ai Capi e ai vecchi appartiene. A quanto sembra la prima migrazione de’ Turcomanni orientali12, i più antichi di loro schiatta, accadde nel decimo secolo dell’Era Cristiana. Quando inclinava il poter de’ Califfi, e poichè incominciarono a mostrarsi fievoli anche i loro capitani, il confine dell’Jaxarte fu spesse volte oltrepassato: dopo la ritirata, o la vittoria che seguiva ciascuna correria, diverse di esse tribù abbracciando la religione maomettana, otteneano il diritto di stanziarsi liberamente nelle spaziose pianure, e sotto il gradevole clima della Transossiana e di Karisma. Quegli schiavi turchi che aspiravano al trono, proteggeano tai migrazioni, che ingrossavano i loro eserciti, intimorivano i loro sudditi e i loro rivali, e difendeano la frontiera contra i nativi più selvaggi del Turkestan. Mamud il Gaznevida abusò di una tale politica anche più de’ suoi predecessori; e il fece accorto di questa imprudenza un Capo della schiatta di Selgiuk che il territorio di Bocara abitava. Perchè avendo domandato a questo il Sultano quanti soldati avrebbe potuto somministrare: „Se voi lanciate, rispose Ismael, una di queste frecce nel nostro campo, cinquantamila de’ vostri servi si metteranno a cavallo„. — „E se un tal numero non mi [p. 219 modifica]bastasse?„ continuò Mamud, — „mandate questa seconda freccia alla banda di Balik, e avrete cinquantamila guerrieri di più„. — „Ma..., soggiunse il Gaznevida dissimulando i proprj timori, se abbisognassi di tutte le forze delle vostre tribù collegate?„ — „Allora, conchiuse Ismael, potreste mandare il mio arco; esso andrà attorno per le tribù, e dugentomila uomini a cavallo ubbidiranno ad un tale comando„. Mamud spaventato di una sì formidabile colleganza, fece condurre le più pericolose fra coteste tribù nelle parti interne del Korasan, ove l’Osso dai lor compatriotti le disgiugnea; nel mettere la qual provvisione, ebbe inoltre l’avvertenza di far sì che le ridette tribù si trovassero per ogni banda circondate da città sottomesse. Ma l’aspetto del nuovo paese sedusse più assai di quello che spaventasse l’instituita colonia, e la lontananza, indi la morte di Mamud, indebolì il vigor del Governo per tenerla in freno. I pastori divennero scorridori; e le lor bande in un esercito di conquistatori si trasformarono; devastata la Persia fino alla città d’Ispahan, e alle rive del Tigri, i Turcomanni non ebbero nè tema, nè riguardi che li rattenessero dal cimentarsi co’ più orgogliosi monarchi dell’Asia. Massud, figlio e successore di Mamud, avea troppo trascurati i consigli de’ più saggi fra i suoi Omrà. „I vostri nemici, questi gli ripeterono di frequente, erano sul principio uno sciame di formiche, sono oggidì serpentelli: ma se non vi affrettate a schiacciarli, acquisteranno ben tosto il veleno de’ rettili più spaventosi„. Dopo diverse vicende di tregue, o di ostilità, di disastri, o buoni successi particolari ottenuti dai capitani di Massud, marciò questi in persona contra i Turcomanni, [p. 220 modifica]che, d’ogni banda, disordinatamente e mandando terribili grida fecero impeto sopra di lui.

[A. D. 1038] Massud, narra lo Storico persiano13, solo tuffossi in mezzo al torrente di quell’armi sfavillanti, per opporglisi con imprese di una forza, di un valor gigantesco, quali nessun monarca mai operò. Un picciol numero de’ suoi amici, animati dalle sue parole, dalle sue azioni, e da quell’onore ingenito che inspirano i prodi, lo secondarono sì, che per ogni dove ei portava la tremenda sua spada, i Barbari mietuti o atterriti da quell’invincibile braccio, quai mordeano la polvere, quai si ritiravano dinanzi a lui. Ma nel momento che l’aura della vittoria parea gonfiasse la sua bandiera, gli soffiava il disastro alle spalle. Si guardò attorno, e vide tutto il suo esercito, eccetto il corpo ch’ei comandava in persona, divorare i sentieri della fuga. Il Gaznevida si trovò abbandonato dalla viltà o dalla perfidia di alcuni generali d’origine turca; e fu la memorabile giornata di Zendekan14, che la dinastia de’ Re pastori15 nella Persia fondò. [p. 221 modifica]

I Turcomanni vincitori procedettero immantinente ad eleggersi un Re; e se dobbiamo prestar fede al racconto assai verisimile d’uno storico latino16, la sorte sola decise della scelta del loro nuovo padrone. Sopra un certo numero di frecce, vennero scritti i nomi delle diverse tribù; indi dal fascio delle frecce medesime un fanciullo ne trasse una; sopra altre frecce si scrissero indi i nomi di tutte le famiglie della tribù favorita dalla sorte, e collo stesso metodo si sperimentò qual fosse tra queste famiglie quella da preferirsi. Furono parimente scritti sopra altrettante frecce i nomi degl’individui della famiglia fortunata, e rinovando egual prova, la Corona venne a porsi sul capo di Togrul-Beg, figliuolo di Michele, e pronipote di Selgiuk, il cui nome divenne immortale per la grandezza a cui son saliti i suoi posteri. In altri tempi, il Sultano Mamud, versatissimo nella genealogia delle famiglie, erasi espresso di non conoscere quella di Selgiuk; benchè molte apparenze diano a credere che questo Capo di tribù, godesse di molta fama e possanza17. Selgiuk era [p. 222 modifica]stato bandito dal Turkestan per avere osato introdursi nello harem del suo Principe. Dopo avere passato il fiume Jaxarte, condottiero di una tribù numerosa di amici e vassalli, ne’ dintorni di Samarcanda pose il suo campo; ed avendo abbracciata la religione di Maometto, ottenne, in una guerra mossa agl’Infedeli, la corona di martire, che giunto era al centesimosettimo anno dell’età sua. Molto tempo prima, essendogli morto il figlio Michele, avea presa cura de’ suoi due pronipoti, Togrul e Giaafar: il primo de’ quali, maggior d’anni, avea già compiuti i quarantacinque, allorquando nella reale città di Nisabur ricevette il titolo di Sultano. Il cieco decreto della sorte le virtù di cotest’uomo giustificarono. Superflua cosa sarebbe l’esaltare il valore di un Turco; ma l’ambizione di lui il suo valor pareggiava18. [A. D. 1038-1063] Scacciò i Gaznevidi dall’oriente della Persia, e andando in traccia di una più ubertosa contrada, e di un clima più mite, li spinse a mano a mano insino alle rive dell’Indo. Impose termine alla dinastia de’ Bovidi nell’Occidente, nella quale [p. 223 modifica]circostanza lo scettro d’Irak passò dalle mani dei Persiani in quelle de’ Turchi. I Principi che avean fatta prova, o temeano farla, de’ dardi dei Selgiucidi, nella polve si prosternarono. In questo mezzo, Togrul avendo conquistato l’Aderbigian, ossia la Media, alle frontiere romane si avvicinò; e il pastore osò chiedere, per via di un ambasciatore, o d’un araldo, obbedienza e tributo all’Imperatore di Costantinopoli19. Togrul ne’ suoi Stati, il padre de’ soldati e del popolo dimostravasi; mercè di una ferma e imparziale amministrazione, ristorò in Persia i mali dell’anarchia, e quelle sue mani che prima nel sangue s’immersero, l’equità e la pace pubblica tutelarono. I più rozzi, forse i più savj fra i Turcomanni20, continuarono a vivere sotto le tende de’ loro maggiori: le quali colonie militari, protette dal principe si dilatarono dall’Osso all’Eufrate. Ma i Turchi della Corte e della città, trattando i negozj s’ingentilirono, e in mezzo ai piaceri, la mollezza li soggiogò; presero le vesti, l’idioma e i costumi persiani, e i palagi di Nisabur e di Rey, assunsero le forme e la magnificenza addicevoli ad una grande [p. 224 modifica]monarchia. I più meritevoli fra gli Arabi e i Persiani agli onori dello Stato pervennero, e l’intero corpo della nazione de’ Turchi abbracciò fervorosamente e sinceramente la religione di Maometto. Da ciò è derivata l’eterna nimistà onde rimasero disgiunti que’ Barbari del Settentrione che innondarono l’Europa da quelli che dell’Asia s’impadronirono. Così fra i Musulmani, come fra i Cristiani, le tradizioni vaghe e locali cedettero alla ragione, e all’autorità di un sistema di religione dominante, all’antica fama che questo erasi acquistata, ad un consenso generale de’ popoli; ma tanto più puro si fu il trionfo del Corano, che il culto prescritto da esso nulla avea di quella esterna pompa, cotanto atta a sedurre i Pagani per una specie di somiglianza coll’idolatria21. Il primo fra i Sultani Selgiucidi per sua fede e zelo si segnalò: ei facea ogni giorno le cinque preghiere imposte ai Musulmani; consacrava i due primi giorni della settimana con un particolare digiuno, e in ciascuna città innalzava una moschea, prima che gli venisse l’idea di mettere le fondamenta di un palagio22.

Nel sottomettersi alla religione del Corano, il figliuolo di Selgiuk concepì alta venerazione verso [p. 225 modifica]il successor del Profeta (A. D. 1055); ma i Califfi di Bagdad e dell’Egitto, rivali fra loro, e continui nel disputarsi l’uno all’altro questo sublime titolo di dignità, non ometteano cure per dimostrare, ciascuno per parte propria, la ragionevolezza delle sue pretensioni, a questi Barbari, ignoranti al pari che poderosi. Mamud il Gaznevida, che spiegato erasi favorevole alla discendenza di Abbas, avea ricusata con disprezzo la veste d’onore, presentatagli da un ambasciator fatimita. Ciò nulla meno l’ingrato Asemita, cambiando di stile colla fortuna, fe’ plauso alla vittoria di Zendekan, acclamando suo vicario temporale nel Mondo musulmano il Sultano Selgiucida; della quale carica Togrul adempiè e dilatò il ministero. Chiamato alla liberazione del Califfo Cayem, obbedì volonteroso a questi santi comandi, che un nuovo regno offerivangli da conquistare23. Il Comandante de’ credenti, ombra vana di quanto un dì furono i suoi predecessori, pur tuttavia rispettato, nel suo palagio di Bagdad sonnecchiava. Il Principe de’ Bovidi, suo servo, o per dir meglio padrone, non avendo nè manco la forza di proteggerlo, contro l’audacia di secondarj tiranni; la ribellione degli Emiri turchi ed arabi, desolava le rive dell’Eufrate e del Tigri. La presenza pertanto di un conquistatore veniva invocata, siccome un dono del Cielo; e la strage, e gli incendj, passeggieri danni, erano riguardati come rimedj amari sì, ma necessarj, e solo capaci di ristorare la cosa pubblica. Il Sultano di Persia partitosi quindi da Hamadan a capo di un [p. 226 modifica]invincibile esercito, sterminò i superbi, fece grazia a coloro che gli si prostrarono innanzi: il Principe de’ Bovidi sparì: le teste de’ più ostinati ribelli vennero portate a’ piedi di Togrul, che diede così una lezione di ubbidienza alle popolazioni di Mosul e di Bagdad. Dopo avere puniti i colpevoli, e ritornata la pace, questo illustre pastore ricevè il guiderdone di sue fatiche, intanto che una pomposa commedia rappresentava il trionfo della superstizione sulla forza de’ Barbari24. Il Sultano turco, imbarcatosi sul Tigri, approdò alla porta di Racca, ove fece il suo ingresso pubblico a cavallo. Giunto alla porta del palagio, scese rispettosamente, e camminò a piedi, preceduto dai suoi Emiri disarmati. Il Califfo, dietro ad un velo nero, stava seduto, portando sulle spalle il mantello nero degli Abbassidi, e reggendo colla mano la verga dell’Appostolo di Dio. Il vincitor dell’Oriente baciò la terra, e si tenne per qualche tempo in una modesta postura, fintanto che il Visir e un interprete, lo condussero in vicinanza del trono. Sedè egli medesimo sopra un trono prossimo a quel del Califfo; e allor fu letto pubblicamente il chirografo che lo chiariva luogotenente temporale del Vicario del Profeta. Decorato indi delle sette vesti d’onore, gli furono presentati sette schiavi nati ne’ sette climi dell’arabo Impero. Profumatogli il velo mistico d’ambra, gli vennero, siccome emblema della sua domi[p. 227 modifica]nazione sopra l’Oriente e l’Occidente, collocate due corone sul capo, e cinte al fianco due scimitarre. Dopo la quale inaugurazione, il Sultano, cui venne impedito il prostrarsi nuovamente, baciò due volte le mani al Califfo: indi gli Araldi, fra le acclamazioni de’ Musulmani, i titoli ne promulgarono. In un secondo viaggio che il Principe Selgiucida imprese a Bagdad, strappò di bel nuovo dalle mani de’ suoi nemici il Califfo, e il condusse devotamente dalla prigione al palagio, camminando a piedi e tenendo ei medesimo la briglia della mula pontificale: e tal loro lega venne consolidata dalle nozze di una sorella di Togrul con Kaiem. Però questo successore del Profeta, che non fu schifo di dar luogo nel suo harem ad una vergine turca, ricusò superbamente la propria figlia al Sultano, disdegnando mescolare il sangue degli Asemiti, col sangue di un pastor della Scizia; ed allontanò per più mesi una tale negoziazione, sin tanto che le sue rendite, a mano, a mano, venute a stremo, gli fecero comprendere che sotto il dominio d’un padrone ei viveva. L’anno in cui Togrul sposò la figlia di Kaiem, fu parimente quello nel quale morì25; nè lasciando esso posterità, gli succedè ne’ titoli e nelle prerogative il nipote Alp-Arslan; onde i Musulmani nelle pubbliche loro preghiere, dopo il nome del Califfo quello d’Arslan pronunziarono. Ciò nulla[p. 228 modifica]meno un tal cambiamento politico, la libertà e la possanza degli Abbassidi aumentò. Perchè i Sovrani turchi, posti sul trono d’Asia, men gelosi mostraronsi dell’amministrazione domestica di Bagdad, e i Califfi si trovarono sciolti dalle vessazioni ignominiose cui la presenza e la povertà dei Re persiani li sommettea.

I Saracini, divisi fra loro, e inviliti sotto il governo di deboli Califfi, rispettavano le province asiatiche del Romano impero, che le vittorie di Niceforo, di Zimiscè, di Basilio aveano estese sino ad Antiochia e ai confini orientali dell’Armenia. Venticinque anni dopo la morte di Basilio, l’Imperatore greco videsi assalito da una banda sconosciuta di Barbari, che al valore scitico univano il fanatismo de’ novelli convertiti, e l’arti e le ricchezze di una possente monarchia26. Miriadi di Turchi a cavallo copersero una frontiera di seicento miglia, da Tauride ad Erzerum; e centrentamila Cristiani, ad onore del Profeta arabo vennero trucidati; ma l’armi di Togrul non fecero nè lunga, nè profonda impressione sul greco Impero; e il torrente dell’invasione dal paese aperto si allontanò. Il Sultano fece le sue prove, ma senza onore, o almeno senza buon successo, asse[p. 229 modifica]diando una città dell’Armenia; e le diverse vicende della fortuna, ora interruppero, or rinovarono oscure ostilità; e solamente la prodezza delle legioni macedoni rammentò la gloria del vincitore dell’Asia27. [A. D. 1063-1072] Il nome di Alp-Arslan, che equivale a generoso lione, esprime, giusta le comuni idee, il carattere in cui stassi la perfezione dell’uomo; e veramente il successore di Togrul diè a divedere la coraggiosa alterezza e la nobiltà di questo sovrano degli animali. Dopo avere passato l’Eufrate a capo della cavalleria turca, entrò in Cesarea, metropoli della Cappadocia, ove tratto aveanlo la fama e la ricchezza del tempio di San Basilio. Ma la saldezza di quell’edifizio a’ suoi divisamenti di distruzione si oppose; nè potè di più che trasportar seco le porte del Santuario incrostate d’oro e di perle, e profanar le reliquie di quel Santo, i cui trascorsi umani la veneranda polve dell’antichità aveva coperti. Alp‐Arslan mise a termine la conquista dell’Armenia e della Georgia. [A. D. 1065-1068] Già la monarchia armena, non men del coraggio degli abitanti, al nulla era ridotta; e truppe mercenarie venute da Costantinopoli, e infidi stranieri, e veterani privi d’armi e di stipendj, e soldati novizj, inesperti e indisci[p. 230 modifica]plinati del pari, cedettero con viltà le piazze alla lor difesa commesse.

Non si pensò più d’un giorno alla perdita di una sì importante frontiera, perchè i Cattolici nè sorpresi, nè afflitti furono, in veggendo un popolo tanto infetto degli errori di Nestorio e di Eutichio, che Cristo e la Madre sua abbandonavano nelle mani degl’Infedeli28 x29. Con maggior costanza i nativi della Georgia30, o gl’Ibernj, nelle foreste e nelle valli del monte Caucaso si mantennero; ma Arslan, e Malek [p. 231 modifica]figlio di Arslan, instancabili si mostrarono in tal guerra religiosa, ove pretendeano dai lor prigionieri un’obbedienza spirituale e temporale; e quelli che voleano rimanere fedeli al culto dei lor maggiori, vennero costretti a portare, invece di collane e smaniglie, un ferro da cavallo, qual marchio della loro ignominia. Pure non fu nè sincera, nè universale la conversione de’ vinti; e ad onta de’ trascorsi secoli di servitù, i Georgiani hanno conservata la serie dei loro Principi e de’ loro Vescovi. Ma l’ignoranza, la povertà e la corruttela giungono facilmente a pervertire una schiatta d’uomini, che la natura delle più perfette forme dotò. Non è che di nome la professione loro del Cristianesimo, e soprattutto la pratica del serbato culto; e se liberati sonosi dall’eresia, lo debbono alla somma loro ignoranza che impedisce ad essi il ricordarsi dogmi metafisici quali che sieno31.

[A. D. 1068-1071] Alp-Arslan, lungi dall’imitare la grandezza d’animo reale, od ostentata di Mamud il Gaznevida, non ebbe scrupolo di far la guerra all’Imperatrice Eudossia e ai figli della medesima. Il terrore de’ buoni successi che egli ottenea, costrinse questa sovrana a dar la mano e lo scettro ad un soldato; onde Romano Diogene della porpora imperiale venne insignito. Trasportato questi da zelo di patria, e forse anche da orgoglio, uscì fuori di Costantinopoli; due mesi dopo il suo avvenimento al trono; e al successivo anno, [p. 232 modifica]nel durar delle feste di Pasqua, con grande scandalo della popolazione, si mise in campo. Entro la reggia, Romano si contentava di essere il marito di Eudossia; ma a capo dell’esercito ei si mostrava l’Imperator d’Oriente, e benchè fornito di pochi modi per far la guerra, con invincibile coraggio il suo carattere sostenea. Cotanto valore e veri buoni successi e solerzia ne’ soldati, e speranza ne’ sudditi, e spavento negli inimici destarono. Benchè i Turchi fossero già penetrati nel cuor della Frigia, il Sultano aveva abbandonata ai suoi Emiri la condotta della guerra; e le numerose loro falangi dilatate eransi per l’Asia, colla fiducia che la vittoria suole ispirare. Ma i Greci sorpresero e battettero spartatamente questi corpi di truppa carichi di bottino, e ad ogni subordinazione stranieri. Pieno di sollecitudine l’Imperatore, accorreva qua e là, sicchè pareva ne’ diversi luoghi moltiplicarsi, e intanto che il nemico udiva le notizie de’ proprj trionfi presso le mura di Antiochia, sconfitto venia da Romano sulle colline di Trebisonda. I Turchi, dopo tre disastrose stagioni campali, respinti vidersi al di là dell’Eufrate; e in una quarta, Romano, la liberazione dell’Armenia intraprese. Ma sì devastato erane il territorio, che fu costretto a trasportarsi con sè viveri per due mesi, e andò a stringere d’assedio Malazkerd32, Fortezza rilevante, situata fra le moderne città di Erzerum e di Van. [p. 233 modifica]A centomila uomini già sommava il suo esercito. Le truppe di Costantinopoli erano rinforzate dalle copiose, ma disordinate soldatesche della Frigia e della Cappadocia; onde il vero nerbo dell’esercito de’ Cristiani formavano i sudditi e confederati dell’Europa, le legioni della Macedonia, le bande della Bulgaria, gli Uzj, Tribù moldava di schiatta turca33, e soprattutto le mercenarie brigate de’ Normanni e dei Franchi. Il prode Ursel di Bailleul, confederato, indi ceppo de’ re scozzesi34 comandava a questi ultimi, che aveano fama di essere eccellenti nell’armi, o, giusta l’esprimersi de’ Greci, nella danza pirrica.

Al ricevere la notizia di questa ardita invasione che i dominj ereditari suoi minacciava, Alp-Arslan, condottiero di quarantamila uomini, sul teatro della [p. 234 modifica]guerra sollecitamente si trasferì35; ove con rapide e perite fazioni, l’esercito greco, benchè superiore di numero, pose in iscompiglio e atterrì. La sconfitta di Basilacio, uno fra i primarj generali greci, si fu la prima occasione in cui Alp-Arslan diede prova di moderazione e valore ad un tempo. Dopo la presa di Malazkerd, avendo Romano disgiunte incautamente le proprie forze, volle indarno richiamare i Franchi mercenarj presso di sè; costoro gli ordini di lui trasgredirono, nè l’alterezza dell’Imperator greco permetteagli aspettare che ritornassero. Ma la diffalta degli Uzj avendogli empiuto l’anima d’inquietudini e di sospetti, contro l’avviso de’ più saggi, affrettossi a venire a decisiva battaglia. S’ei porgeva orecchio ai partiti ragionevoli fattigli dal Sultano, poteva tuttavia assicurarsi una ritirata, e fors’anco la pace. Ma Romano non vedendo in essi che il timore, o la debolezza dell’inimico, con tuono d’insulto, e di minaccia rispose. „Se il Barbaro brama la pace, abbandoni a noi il terreno su cui si trova, e quale ostaggio di sua buona fede, ne consegni la città e il palagio di Rey„. Su questo eccesso di vanità sorrise Arslan, ma deplorò ad un tempo le ulteriori stragi cui vedeva esposto un tanto numero di fedeli suoi Musulmani, a tal che, dopo una fervorosa preghiera, [p. 235 modifica]notificò all’esercito essere permesso a chiunque era stanco di combattere il ritirarsi. Rialzò di sua mano i crini della coda del suo cavallo; cambiò l’arco e le frecce in una mazza e in una scimitarra, vestì abito bianco, e si profumò di muschio, pubblicando che se rimanea vinto, il luogo ove trovavasi sarebbe stato quello del suo sepolcro36. Ma, a malgrado di avere ostentato questo abbandono delle sue frecce, ei ponea la fiducia della vittoria ne’ dardi della cavalleria turca, i cui squadroni in forma di mezza luna aveva ordinati. Romano invece di distribuire le sue soldatesche in linee successive e corpi di riserva, giusta le leggi dell’arte militare de’ Greci, le unì in rinserrata battaglia, precipitandosi vigorosamente sopra de’ Turchi, i quali se a tale impeto resistettero, il dovettero all’agilità del loro difendersi. La maggior parte di una giornata estiva, in questo inutile combattimento venne adoprata, sintanto che la prudenza e la stanchezza persuasero il Greco a raggiungere il proprio campo. Ma pericolosa è sempre una ritirata alla presenza d’un nemico sollecito a profittar degli istanti; oltrechè, nel momento che indietreggiavano gli stendardi, si ruppe la falange, per codardia, o per gelosia, più vile ancora, di Andronico, principe rivale di Romano, e che il sangue e la porpora de’ Cesari disonorava37. In tal momento di confusione e d’in[p. 236 modifica]fiacchimento de’ Greci, furono questi oppressi da un nembo di frecce lanciate dagli squadroni turchi, che producendo le punte della lor formidabile mezza luna, la chiusero alle spalle degl’inimici. Fatto in pezzi l’esercito di Romano, il campo di lui fu saccheggiato. Sarebbe stata vana cura il volere indicare il numero de’ morti e de’ prigionieri. Gli Storici bisantini sospirano una perla d’inestimabile prezzo che andò perduta; e dimenticano dirne che quella fatale giornata tolse per sempre le sue province d’Asia all’Impero.

Fintanto che rimase qualche speranza, Romano non omise prove per riordinare e salvare gli avanzi delle sue truppe, e comunque il centro, ov’ei combattea fosse aperto da tutte le bande, e circondato dai Turchi vincitori, sino al tramontar del sole pugnò col coraggio della disperazione, a capo di quei prodi che al suo stendardo si conservarono fedeli. Ma tutti caddero attorno di lui; il suo cavallo fu ucciso, ferito egli stesso; pure, in tale stato e solo, intrepido si difese finchè oppresso dal numero non fu più padrone di moversi. Uno schiavo e un soldato si disputarono la gloria di farlo prigioniero; il primo d’essi lo avea veduto sul trono di Costantinopoli: il soldato di deformissima figura, era stato [p. 237 modifica]ammesso nell’esercito, a sola condizione di operare atti di straordinaria valore. Romano spogliato dell’armi sue, delle sue gemme, e della porpora, passò sul campo di battaglia la notte, solo, esposto a gravissimi rischi, in mezzo alla ciurma degl’infimi soldati; allo schiarire del giorno venne condotto innanzi al Sultano, che alla propria buona sorte non volle credere, sintanto che i suoi ambasciatori non ebbero ravvisato Romano nel prigioniero; e convenne ancora che la testimonianza loro fosse confermata dal cordoglio di Basilacio che baciò, versando dirotte lagrime, le piante al suo sfortunato monarca. Il successore di Costantino, vestito come un uomo del volgo, fu trasportato al divano, ove intimato vennegli di baciar la terra al cospetto del dominatore dell’Asia. Avendo egli obbedito con repugnanza, dicesi che il Sultano si lanciò dal trono, presto a porre un piede sul collo al vinto imperatore38; ma dubbioso è il fatto, e quand’anche fosse vero che nell’ebbrezza della vittoria Alp-Arslan si fosse uniformato ad una costumanza della sua nazione, la condotta ch’egli tenne da poi, costrinse i più fanatici tra i Greci ad encomiarlo, e può additarsi qual modello ai secoli più ingentiliti. Sollevò immantinente da terra il principe prigioniero, e stringendogli per tre volte, in atto di tenerezza, la mano, gli promise di non operare veruna cosa nè contro i giorni, nè contro la dignità del medesimo; aggiugnendo che egli, Arslan, avea imparato a ri[p. 238 modifica]spettare la maestà de’ suoi pari, e le vicissitudini della fortuna. Fatto indi condurre Romano in una tenda vicina, gli ufiziali stessi del Sultano il servivano onorevolmente, e con rispetto; alla mensa del mattino e della sera il posto dovuto alla sua dignità gli assegnavano. Per otto giorni, seco intertennesi in famigliari colloqui il vincitore, astenendosi dal menomo accento, dalla menoma occhiata che l’animo di lui potesse trafiggere. Ben censurò acerbamente la condotta degl’indegni sudditi di Romano, che, nell’istante del pericolo, il valoroso lor principe aveano abbandonato, e avvertì pur con dolcezza il suo antagonista di alcuni abbagli commessi da questo nel regolare la guerra. Venutosi a ragionare sui preliminari della negoziazione, Arslan chiese all’Imperatore a qual trattamento ei s’aspettasse. Questi gli rispose con tale tranquilla indifferenza che palesò, come la libertà del suo spirito conservasse. „Se siete crudele, gli disse, mi toglierete la vita: se date retta alle suggestioni dell’orgoglio mi trascinerete dietro al vostro carro: ma se consultate i vostri veri interessi, accetterete un riscatto, e mi restituirete alla mia patria. — Però, proseguì il Sultano; come mi avreste trattato, se il destin della guerra vi fosse stato propizio„? La risposta datasi dal Principe greco, mostrò l’impulso d’un sentimento, che per vero dire, la prudenza ed anche la gratitudine dovean consigliargli a tenere celato. „Se ti avessi vinto, ei ferocemente rispose, t’avrei fatto opprimere a furia di battiture„. Per tale arroganza del prigioniero, il vincitore sorrise, pago di rimostrargli che veramente la legge dei Cristiani raccomandava l’amore, sin verso i nemici, e il perdono delle [p. 239 modifica]ingiurie sofferte. „Nondimeno, ei nobilmente soggiunse, non seguirò un esempio che disapprovo„. Arslan, dopo maturo pensamento, le condizioni della pace e della libertà dell’Imperatore dettò; e queste furono il riscatto di un milione di piastre d’oro; un tributo annuale di trecento sessantamila39; le nozze tra i figli de’ due principi; la libertà di tutti i Musulmani caduti in potere de’ Greci. Dopo che Romano ebbe sottoscritto, non senza sospirare, un negoziato sì vergognoso per l’Impero, venne rivestito di un caffetan d’onore: i suoi nobili e patrizj gli furono restituiti; e Arslan dopo averlo affettuosamente abbracciato, lo rimandò con ricchi donativi, e scortato da una guardia militare d’onore. Ma Romano, giunto ai confini dell’Impero, intese che la Corte imperiale e le province, credute eransi sciolte dal lor giuramento di fedeltà verso un sovrano prigioniero; onde a stento potè raccogliere dugentomila piastre d’oro, e spedire questa parte di suo riscatto al vincitore, confessandogli tristemente la propria impotenza, e il disastro che lo incalzava. Il Sultano mosso da generosità, e probabilmente ancor da ambizione, fece causa propria quella dell’infelice confederato: ma la sconfitta, l’imprigionamento, e la morte di Romano Diogene impedirono che i divisamenti di Arslan fossero mandati ad effetto40. [p. 240 modifica]

[A. D. 1072] Nel negoziato di pace che fra Romano e Alp-Arslan fu pattuito, non sembra essere stata compresa alcuna obbligazione imposta al prigioniero di rinunziare province, o città; le spoglie della Natolia, e i trofei della riportata vittoria che da Antiochia al mar Nero estendevansi, bastarono alla vendetta del vincitore. La più bella parte dell’Asia alle sue leggi obbedendo, mille dugento principi, o figli di principi ne circondavano il trono, e dugentomila soldati sotto lo stendardo del fortunato Arslan militavano. Disdegnando perfino inseguire i Greci fuggiaschi, volse immediatamente i suoi pensieri alla più gloriosa conquista del Turkestan, culla della Casa dei Selgiucidi. Trasferitosi da Bagdad alle rive dell’Osso, si gettò un ponte sul fiume, che a poter valicare men di venti giornate non vollersi. Ma il governatore di Berzem, Giuseppe il Carizmio, arrestò i progressi del vincitore, osando difendere la sua città contra le forze dell’intero Oriente. Caduto prigioniero, ei venne entro la regal tenda condotto, ove il Sultano, anzichè lodare il valore del vinto, di una stolta ostinatezza lo rampognò; e irritato dalle audaci risposte che facevagli Giuseppe, ordinò fosse [p. 241 modifica]attaccato a quattro pali, e lasciato morire in questa postura sì miserabile. Spinto allora alla disperazione il Carizmio, trasse il pugnale, impetuosamente insino al trono lanciandosi; le guardie sollevarono le loro azze da guerra; e si fece a moderare il loro zelo Arslan, il migliore arciere della sua età, che tosto scoccò il proprio arco; ma essendogli mancato un piede, la freccia scalfì soltanto il fianco del prigioniero, che giunse ad immergere il suo pugnale in petto al Sultano. Ben trucidato fu il feritore, ma la ferita era stata mortale, onde il Principe turco pervenuto agli estremi di sua vita, tramandò questa lezione all’orgoglio dei re: „Nella mia giovinezza un saggio mi consigliò umiliarmi dinanzi a Dio, diffidare delle mie forze, rispettar sempre, comunque spregevole appaia, un nemico. Ho trascurati siffatti avvisi, e me ne trovo giustamente punito. Allorchè ieri, dall’alto del mio trono, io contemplava il buon ordine, il coraggio, la disciplina delle numerose mie squadre, sembrava che la Terra tremasse sotto i miei piedi, ed io diceva a me stesso. — Tu sei, non v’ha dubbio, il Re dell’Universo, il più grande, il più invincibile de’ guerrieri. — Queste falangi han finito di appartenermi, e per essermi troppo affidato alla forza mia personale, muoio sotto i colpi di un masnadiero41„. Alp Arslan possedea le virtù d’un Turco e d’un Musulmano; fornito di voce e statura [p. 242 modifica]che il rispetto inspiravano, lunghi mustacchi ne ombravano una parte del volto, e il largo suo turbante a guisa di corona se gli adattava sul capo. Le mortali spoglie di esso vennero deposte nella tomba della dinastia de’ Selgiucidi, come la seguente bella iscrizione additavalo42. O voi, stati spettatori della gloria di Alp-Arslan sollevatasi sino ai cieli, venite a Maru, e vedrete questo eroe nella polvere; e, cosa ben atta a dimostrare l’instabilità delle umane grandezze, l’iscrizione e la tomba sono sparite.

[A. D. 1072-1092] Durante la vita di Alp-Arslan, il figlio di lui primogenito Malek-Sà era stato riconosciuto erede presuntivo del trono de’ Turchi; ma dopo la morte del Sultano, e lo zio, e il cugino, e il fratello di Malek, fattisi a disputargli questa successione, presero ciascuno l’armi e le loro truppe adunarono. Malek-Sà trionfando di tutti tre i competitori, la propria fama e il diritto della primogenitura consolidò43. In tutti i tempi la sete dell’autorità ha inspirate le passioni medesime, e prodotti eguali disordini, singolarmente nell’Asia; ma in mezzo a tante guerre civili, sarebbe [p. 243 modifica]difficile il rinvenire alcuna cosa tanto sublime, che il sentimento espresso ne’ seguenti detti del Principe turco, in purezza e magnanimità, pareggiasse. Nel giorno che precedea la battaglia, ei stava a Tua, orando a piè del sepolcro d’un Imano, chiamato Riza; e poichè Nisam, visir del Sultano, parimente orando, stava prostrato dietro di lui, allorquando entrambi si furono rialzati, gli chiese: „Qual era lo scopo della vostra preghiera?„ Il Visir, prudentemente, e, giusta ogni apparenza, con sincerità, gli rispose: „Io supplicava Iddio pel trionfo dell’armi vostre.„ Ed io, soggiunse il generoso Malek, lo supplicava perchè mi togliesse la corona e la vita, se mio fratello più di me era degno di regnare su i Musulmani.„ — Il cielo giudicò in favor di Malek, e questo decreto del cielo fu autenticato dal Califfo, il quale conferì per la prima volta ad un Barbaro il sacro titolo di Comandante de’ Credenti; ma questo Barbaro e per merito proprio, e per vastità d’impero, era il maggior principe del suo secolo. Regolate appena le cose pubbliche della Persia e della Siria, a capo di un innumerabile esercito si condusse a compiere la conquista del Turkestan che il padre suo aveva intrapresa. Al passaggio dell’Osso, udì le querele di alcuni navicellai, ai quali incresceva, che i loro stipendj fossero stati assegnati sulle rendite di Antiochia; la qual provvisione parve fuor di luogo allo stesso Sultano, che ne manifestò scontento al Visir. Ma dovette sorridere egli stesso sull’ingegnosa scusa, che il cortigiano seppe con maestra adulazione architettare. „Non vi avvisaste, o signore, che per differire la paga a questi giornalieri, io l’avessi assegnata su d’un paese tanto remoto; ma piaceami attestare alla posterità che sotto il vostro [p. 244 modifica]regno Antiochia e l’Osso obbedivano ad un sovrano medesimo„. Pur questa distribuzione de’ confini dell’impero di Malek, troppo limitata ancor risultò. Ei sottomise al di là dell’Osso le città di Bocara, di Carizma, di Samarcanda, e sconfisse tutti i ribelli, o Selvaggi independenti che all’armi di lui osaron resistere. Varcò il Sihon, o Jaxarte, ultima frontiera della parte di Persia venuta a civiltà: le bande del Turkestan l’impero di Malek riconobbero; e il nome di lui scolpito sulle monete, venne ripetuto persino nelle pubbliche preci del Casgar, Regno tartaro situato ai confini della Cina; e da questa frontiera egli estendea, a ponente e ad ostro, la sua giurisdizione immediata, ossia il potere di primario Capo della sovranità, fino ai monti della Georgia, ai dintorni di Costantinopoli, alla città santa di Gerusalemme, e agli odorati boschi dell’Arabia Felice. Schifo d’abbandonarsi alla mollezza del suo serraglio, il Re pastore non cessò, nè durante la pace, nè durante la guerra, di tenersi operoso, e di condur sempre la vita nel campo, ch’egli trasportava continuamente da un paese all’altro per fare a mano a mano liete di sua presenza tutte le soggette province; onde narrasi avere egli per dodici volte trascorsa l’estensione de’ suoi dominj, che in vastità oltrepassavano quelli posseduti da Ciro e dagli antichi Califfi. Di tutte le peregrinazioni di questo Sovrano, la più religiosa e la più rinomata ad un tempo, fu la visitazione da esso fatta alla Mecca. In tale circostanza, l’armi di lui la libertà e la sicurezza delle carovane protessero; mentre la generosità de’ soccorsi da esso forniti e cittadini, e viandanti arricchirono; e con provvidi asili che freschezza e ristoro offerivano ai pellegrini, la trista [p. 245 modifica]uniformità del deserto interruppe. Era suo diletto, anzi passione dominante, la caccia, e in questo intertenimento quarantasettemila uomini a cavallo il seguivano. Nè dee negarsi che cacce di sì fatta natura erano veri macelli; ma dopo ciascuna di esse, distribuiva ai poveri tante piastre d’oro, quanti animali erano stati uccisi; ad ogni modo, lieve compenso di quanto costano ai popoli le ricreazioni dei re! Durante la pacifica prosperità del regno di Malek, le città dell’Asia abbondarono di palagi e d’ospitali, di moschee e di collegi: nè alcuno uscia del Divano, o scontento, o senza avere ottenuta l’implorata giustizia. Anche la lingua e la letteratura persiana sotto la dinastia de’ Selgiucidi presero nuova vita44; e se fosse solamente vero che Malek nell’onorarle gareggiò di liberalità con un Turco men potente di lui45, i canti di cento poeti avrebbe la reggia sua ripetuti. Ma più gravi cure e più sensate diede il ridetto Sultano alla riforma del Calendario, riforma operata da un’assemblea generale degli astronomi dell’Oriente. Per legge di Maometto, i Musul[p. 246 modifica]mani si adattarono all’irregolare calcolo dell’anno lunare; benchè fin dal secolo di Zoroastro i Persiani conoscessero la rivoluzione periodica del sole, e con una festa annuale usassero celebrarla46: ma caduto l’Impero de’ Magi, trascurata avevano l’intercalazione; e l’ore e i minuti accumulatisi, divennero giorni, talchè il principio di primavera trovavasi innoltrato dall’Ariete all’Acquario. L’Era Gelalea illustrò pertanto il regno di Malek, e tutti gli errori passati, o avvenire, in ordine a ciò, trovaronsi corretti da un calcolo che l’esattezza del Calendario Giuliano oltrepassa e a quella del Gregoriano avvicinasi47.

[A. D. 1092] Lo splendore e i lumi del sapere che si diffusero per tutta l’Asia, in un tempo in cui l’Europa nella più profonda barbarie giaceva, vogliono essere attribuiti alla docilità, anzichè alle cognizioni de’ Turchi vincitori. Gran parte di lor saggezza e virtù questi dovettero ad un Visir persiano, che sotto i regni di Alp-Arslan e di Malek ebbe l’amministrazion dell’Impero. Nisam, uno fra i più sapienti personaggi dell’Oriente, venia riguardato dal Califfo, quale oracolo della religione e della scienza; e il Sultano affidavasi in lui, come nel più fedele ministro della sovrana giustizia e possanza. Pure la cosa pubblica sì rettamente amministrata per un volgere di trent’anni, la fama con ciò acquistatasi dal Visir, la sua fortuna, [p. 247 modifica]e perfino i servigi, a colpa vennergli ascritti. Le cabale d’un suo rivale unite a quello di una femmina lo perdettero; e ne accelerò la caduta l’imprudenza che egli ebbe di asserire che dal suo turbante e dal suo calamaio, emblemi del visirato, dipendeano, per li decreti di Dio, il trono e il diadema del Sultano. Questo rispettabile ministro si vide all’età di novantatre anni scacciato dal suo padrone, accusato da’ suoi nemici, e morto sotto il pugnal d’un fanatico: le estreme parole di lui ne attestarono l’innocenza; e spirato Nisam, Malek non visse che pochi giorni privi di gloria. Abbandonata Ispahan che stata era il teatro di questa scena d’iniquità, si trasferì a Bagdad col disegno di rimovere dal trono il Califfo, e porre stabile dimora nella capitale de’ Musulmani. Quel debole successore di Maometto ottenne una dilazione di dieci giorni. Ma questa non era per anco spirata, quando Malek fu chiamato dall’Angelo della morte. In quel tempo avendo gli ambasciatori dello stesso Malek chiesta per esso la mano di una principessa romana, l’Imperator greco con decenti modi se ne schivò. Anna figlia di Alessio, sopra la quale cadeano i divisamenti di nozze del Principe turco, rammenta con orrore una sì mostruosa proposta48. Il Califfo Moctadi sposò la figlia del Sultano, ma coll’inviolabile patto di rinunciar per sempre alla vicinanza dell’al[p. 248 modifica]tre mogli e concubine, volendosi che fosse a bastanza pago di questo onorevole parentado.

Con Malek Sà la grandezza e l’unità dell’Impero turco si dileguarono, il fratello e i quattro figli di lui essendosi disputato il trono. Quel negoziato, onde si riconciliarono fra loro i competitori che alle accadute guerre civili poterono sopravvivere, separò dal rimanente dell’Impero la dinastia persiana, ramo primogenito, e principale della casa de’ Selgiucidi. I tre rami minori erano quelli di Kerman, di Sorìa e di Rum: il primo governava dominj estesi, ma quasi incogniti49 sulle rive dell’Oceano indiano50; il secondo scacciò i Principi arabi di Aleppo e di Damasco, e il terzo, che in questa parte di storia più ne rileva, invase le province romane dell’Asia Minore. All’ingrandimento di questi rami non lievemente contribuì la generosa politica di Malek, che avea permesso ai principi del suo sangue, fossero anche stati vinti nelle battaglie, il cercarsi novelli reami degni della loro ambizione: nè per vero dire incresceagli lo spacciarsi con tal grazia d’uomini inquieti e coraggiosi che la tranquillità del suo regno [p. 249 modifica]turbar poteano. Qual Capo supremo della sua dinastia e nazione, il Sultano della Persia riceveva obbedienza e tributo da’ suoi fratelli; onde all’ombra dello scettro di lui, s’innalzarono i troni di Kerman e di Nicea, di Aleppo e di Damasco; e gli Atabechi, e gli Emiri della Sorìa, e della Mesopotamia gli stendardi lor dispiegarono51; e bande di Turcomanni le pianure dell’Asia occidentale copersero. Ma i vincoli di colleganza e di subordinazione, affievoliti per la morte di Malek, a rompersi non tardarono: la troppa bontà de’ principi della casa de’ Selgiucidi collocò altrettanti schiavi sul trono, e, se qui mi fosse lecito adoperare lo stile orientale, un nugolo di principi dalla polve de’ loro piedi si sollevò52.

[A. D. 1074-1084] Un Principe appartenente alla real dinastia, di nome Cutulmis, figlio d’Izrail, e pronipote di Selgiuk, perì in una battaglia contro Alp Arslan, non senza destar pietà nell’animo dell’umano vincitore, che di alcuna lagrima la tomba dell’estinto onorò. I cinque figli di Cutulmis, forti per molto numero di partigiani, ambiziosi e avidi di vendetta, contra il figlio di Arslan brandirono l’armi; e già i due eserciti aspettavano il segnale della battaglia, allor quando il Califfo, dimenticata l’etichetta che divietavagli mostrarsi agli occhi del volgo, frappose la sua mediazione, che rispettavano entrambe le parti. [p. 250 modifica]„Perchè in vece di versare il sangue de’ fratelli vostri, fratelli per natura e per comunione di credenza, non unite le vostre forze, per guerreggiare santamente i Greci, nemici del Signore e dell’Appostolo del Signore?„ Ben accolti i consigli del successore di Maometto, il Sultano si strinse al seno i congiunti testè ribelli; e il maggior d’essi, il prode Solimano, accettò dalle mani di lui il regio vessillo, sotto gli auspizj del quale, tutte le province del romano Impero, che si estendono da Erzerum a Costantinopoli e alle incognite regioni dell’Occidente, conquistò e retaggio fe’ de’ suoi posteri53. Ei passò co’ suoi quattro fratelli l’Eufrate, nè andò guari che le turche tende apparvero sul territorio della Frigia, in vicinanza a Kutaia; e la cavalleria leggiera di Solimano devastò il paese fino all’Ellesponto e al mar Nero. Ben dopo il declinar dell’Impero, la penisola dell’Asia Minore avea sofferte passeggiere correrie di Persiani e di Saracini. Ma i frutti di una durevol conquista serbati erano a questo Sultano, cui dischiusero il varco alcuni Greci, empiamente sospirosi di regnare sull’eccidio della loro patria. Il figlio di Eudossia, Principe pusillanime, per sei anni sotto il peso di una Corona aveva tremato, incominciando dai giorni della cattività di [p. 251 modifica]Romano, sino all’istante che una duplice ribellione gli fece perdere in uno stesso mese le orientali e le occidentali province. I due Capi de’ sollevati il nome entrambi portavano di Niceforo; ma il pretendente d’Europa col soprannome di Briennio distinguevasi da quello dell’Asia, appellato Botoniate. Il Divano le ragioni de’ due competitori, o più veramente le promesse de’ medesimi ventilò, e finalmente dopo qualche incertezza, Solimano chiaritosi per Botoniate, aperse alle sue soldatesche una via da Antiochia a Nicea. Onde i vessilli della Luna e della Croce, veduti furono sventolar congiunti nel campo degli eserciti confederati. Pervenuto quindi al trono di Costantinopoli Niceforo Botoniate, ricevè onorevolmente il Sultano nel sobborgo di Crisopoli, o Scutari, e agevolato a duemila Turchi il passaggio in Europa, dovette alla destrezza e al valore di questi la disfatta, la cattività del suo competitore Briennio; ma i conquisti fatti da Botoniate in Europa vennero a carissimo prezzo pagati col sagrifizio de’ possedimenti dell’Asia. Mancarono immantinente a Costantinopoli l’omaggio e le rendite delle province situate oltre il Bosforo e l’Ellesponto; e fu spettatrice delle mosse de’ Turchi che ordinatamente avanzavansi affortificando i passi de’ fiumi e le gole de’ monti; la qual cosa toglieva del tutto la speranza o di vederli ritirarsi, o di poterli scacciare. Entrò indi in campo un altro pretendente, di nome Melisseno, che la protezione del Sultano implorava, e vestendo la porpora, e calzando i rossi coturni, seguiva gli accampamenti de’ Turchi, e confortava con vane lusinghe le scoraggiate città, che adescate dai manifesti di un Principe romano venivano in sostanza in ba[p. 252 modifica]lìa de’ Barbari abbandonate. Un negoziato di pace che l’Imperatore Alessio di poi sottoscrisse, le ridette conquiste in man de’ Turchi consolidò; perchè questo Principe, mosso dal terrore che Roberto inspiravagli, l’amistà di Solimano richiese; onde solamente dopo la morte del secondo, potè allargare la frontiera orientale dell’Impero, sino a Nicomedia, vale a dire sessanta miglia all’incirca sopra Costantinopoli. La sola Trebisonda, difesa d’ogni lato dal mare e dalle montagne, conservava all’estremità dell’Eussino l’antica indole di colonia greca e le basi di un Impero cristiano.

Lo stanziarsi de’ Turchi nella Natolia, o Asia Minore, fu il massimo disastro che dopo le prime conquiste de’ Califfi, sofferto avessero la Chiesa e l’Impero. La propagazione della Fede musulmana fruttò a Solimano il titolo di Gazi, ossia campione sacro, e le tavole dell’orientale geografia, col reame dei Romani o di Rum da esso fondato, aumentaronsi. Gli autori descrivono questo novello Stato di una vastità che tenesse i paesi posti fra l’Eufrate e Costantinopoli, fra il mar Nero e i confini della Sorìa, ricco inoltre di miniere d’argento e di ferro, di allume e di rame, fertile di biade e vino, abbondante di mandrie e di eccellenti cavalli54. Ma le ricchezze della Lidia, le arti della Grecia, e lo splendore del secolo d’Augusto ne’ libri sol si trovavano, o, tutto al più, se ne scorgeano le tracce [p. 253 modifica]per mezzo a rovine, di cui schifi erano parimente gli Sciti che il paese occupavano. Ciò nullameno la Natolia offre ancora ai dì nostri alcune opulenti e popolose città, delle quali sotto l’Impero di Bisanzo erano maggiori il numero, l’importanza e le ricchezze. Dopo avere affortificata Nicea, capitale della Bitinia, il Sultano vi pose dimora; onde la residenza del governo de’ Selgiucidi di Rum non trovavasi più di cento miglia distante da Costantinopoli, e la Divinità di Gesù Cristo vedeasi rinnegata e insultata in quel medesimo tempio, ove il primo Concilio generale de’ Cattolici articolo di fede avevala promulgata55: l’unità di Dio e la Missione di Maometto in tutte le Moschee venivano predicate; le scuole insegnavano le scienze arabe; colle leggi del Corano i Cadì giudicavano: così l’idioma come le costumanze de’ Turchi prevaleano nelle città; di campi di Turcomanni abbondavano le pianure e i gioghi della Natolia. Se i Greci ottennero la libertà del loro culto, tal concedimento dovettero al duro patto di pagare un tributo, e di vivere sotto il giogo dei Turchi: ma profanati furono que’ loro templi che in maggior venerazione teneano, nè insulti ai Sacerdoti e Vescovi cristiani si risparmiarono56; e al [p. 254 modifica]cordoglio di veder trionfanti i Pagani si aggiunse per essi lo spettacolo dell’apostasia de’ proprj fratelli; circoncisi erano a migliaia i fanciulli; migliaia di schiavi consacrati ai servigi, o ai diletti de’ loro padroni57. Comunque l’Asia fosse perduta pe’ Greci, Antiochia e le sue pertenenze, rimanevano tuttavia fedeli a Gesù Cristo ed a Cesare; ma circondata da ogni lato dalle forze maomettane questa solitaria provincia, qual soccorso sperar potea dai Romani? Già il governator della medesima Filarete, disperando di potersi difendere, a tradire la sua religione e il dovere si apparecchiava; ma in tale colpa lo prevenne suo figlio, che trasferitosi affrettatamente alla reggia di Nicea, offerse a Solimano la propria opera per farlo padrone di una cotanto ragguardevole città. L’ambizioso Sultano, montato subitamente a cavallo, compiè un cammino di seicento miglia in dodici notti, perchè di giorno si riposava. Tai furono la segretezza e la rapidità dell’impresa, che non [p. 255 modifica]lasciarono ad Antiochia il tempo di deliberare; e l’esempio della Metropoli seguirono le città che ne dependeano sino a Laodicea e ai confini di Aleppo58. Da Laodicea al Bosforo di Tracia, o braccio di S. Giorgio, le conquiste dell’Impero di Solimano occupavano uno spazio di trenta giornate di cammino in lunghezza, e di dieci, o quindici in larghezza fra le rupi della Licia e il mar Nero59. L’imperizia de’ Turchi nella navigazione concedè per qualche tempo all’Imperatore greco una sicurezza priva di gloria; ma, poichè i prigionieri greci ebbero fabbricata ai loro padroni una flotta di dugento navi, entro le mura della sua capitale Alessio tremò. Ad eccitare la compassione dei Latini, ei mandò per tutta Europa lettere di lamentazione ove il pericolo, la debolezza, i tesori della città di Costantino si dipingeano60.

La più importante fra le conquiste de’ Turchi Selgiucidi, fu la presa di Gerusalemme61, la qual cit[p. 256 modifica]divenne bentosto il Teatro dell’Universo. Omar concedè a quegli abitanti una capitolazione che la libertà del loro culto e la conservazione dei loro possedimenti ai medesimi assicurava: ma gli articoli di un tale negoziato dovevano essere interpretati da un padrone, col quale era pericoloso il discutere; onde ne’ quattro secoli che il regno de’ Califfi durò, a frequenti vicissitudini fu soggetto lo stato politico di Gerusalemme62. Primieramente i Musulmani si impadronirono di tre quarti della città; il che forse era necessaria conseguenza dell’aumentato numero della popolazione e de’ proseliti di Maometto: venne nondimeno assegnato un rione a parte al Patriarca, al suo clero e al suo gregge; e il sepolcro di Gesù Cristo, e la chiesa della Risurrezione, rimasero fra le mani de’ Cristiani, che per prezzo della protezione lor conceduta, pagavano un testatico di due piastre d’oro. Ma la parte più numerosa e più ragguardevole di Cristiani, non ne’ soli abitanti di [p. 257 modifica]Gerusalemme si stava; la conquista degli Arabi, anzichè toglier di mezzo i pellegrinaggi a Terra Santa, ne eccitò maggior desiderio; e il dolore e l’indignazione cresceano nuova forza all’entusiasmo che l’idea di questi rischiosi viaggi inspirò. I pellegrini dell’Oriente e dell’Occidente giugneano a torme al Santo Sepolcro, e alle chiese circonvicine, soprattutto nel tempo delle feste pasquali; i Greci e i Latini, i Nestoriani e i Giacobiti, i Cofti, e gli Abissinj, gli Armeni e i Georgiani manteneano, ciascuno per propria parte gli oratorj, il clero, e i poveri della loro comunione. L’armonia di tutte queste preghiere fatte in idiomi così diversi, il concorso di tante nazioni assembrate nel tempio comune di lor religione, avrebbero dovuto offerire uno spettacolo di edificazione e di pace; ma lo spirito di odio e vendetta inacerbiva lo zelo delle Sette cristiane, che ne’ luoghi medesimi, ove il Messia, perdonando ai suoi carnefici, avea perduta la vita, voleano dominare e perseguitare i proprj fratelli. Il coraggio ed il numero assicurando ai Franchi la preminenza, Carlomagno colla sua grandezza63 proteggea i pellegrini della Chiesa latina, e i Cattolici dell’Oriente. La povertà di Cartagine, di Alessandria e di Gerusalemme trovò ristoro ne’ soccorsi di questo pietoso Imperatore, che inoltre edificò, o riparò molti monasteri della Palestina. Arun al-Rascid, il maggiore fra gli Abbassidi, apprezzava [p. 258 modifica]nel principe cristiano, da lui chiamato fratello, una grandezza d’animo e una possanza eguale alla sua, e l’amicizia loro avendo consolidata i donativi e le frequenti ambascerie, il Califfo, serbando a sè la vera dominazione di Terra Santa, le chiavi del Santo Sepolcro, e forse della città di Gerusalemme, al cristiano Imperator presentò. Declinando la monarchia de’ Carlovingi, la repubblica d’Amalfi prestò non pochi servigi ai commercio e alla religione degli Europei nell’Oriente; perchè le navi della medesima portavano i pellegrini sulle coste dell’Egitto e della Palestina: e mercè le derrate che vi sbarcava, il favore e l’amicizia de’ Califfi Fatimiti si cattivò64. Istituitasi sul Calvario una fiera annuale, i mercatanti Italiani fondarono il convento e lo spedale di S. Giovanni di Gerusalemme, culla dell’Ordine monastico e militare, che da poi diede leggi all’isola di Rodi, indi a quella di Malta. Se i pellegrini cristiani fossero stati paghi di venerare la tomba di un Profeta65, i discepoli di Maometto, lungi dal querelarsi di una simile divozione, imitata l’avrebbero: [p. 259 modifica]ma spiacque oltremodo a questi rigidi unitarj l’indole di un culto inteso a persuadere la nascita, la morte e la risurrezione di un Dio; invilirono col nome d’idoli le immagini de’ Cattolici, e col sorriso dello sdegno riguardarono66 la fiamma miracolosa che, la vigilia di Pasqua, sul Santo Sepolcro67 appariva. Da questa pia frode68 inventata nel nono secolo69, i Crociati latini si erano lasciati sedurre; e i preti delle Comunioni greca, armena e cofta70 la rinovano ciascun anno agli occhi di una credula moltitudine che costoro ingannano per interesse proprio, [p. 260 modifica]e per quello de’ loro tiranni71; perchè in tutti i secoli l’interesse ha fatto forte il principio della tolleranza, e le spese fatte da un sì smisurato numero di stranieri, e il tributo che essi pagavano, accresceano ciascun anno le rendite del principe e del suo Emir.

[A. D. 969-1076] Il cambiamento politico, onde lo scettro degli Abbassidi passò nelle mani de’ Fatimiti, più vantaggio che nocumento a Terra Santa arrecò. Un sovrano la cui residenza era in Egitto, potea calcolar meglio il profitto che dal commercio co’ cristiani gli derivava, e per altra parte gli Emiri della Palestina si trovavano men lontani dalla sede del trono, e dell’amministrazione della giustizia; ma sventuratamente il terzo Califfo Fatimita fu quel famoso Akem72, giovane farnetico, empio, dispotico, che scioltosi d’ogni timore di Dio e degli uomini, in tutta la condotta della sua vita un bizzarro miscuglio di vizj e di stranezze unicamente mostrò. Sprezzate le più an[p. 261 modifica]tiche costumanze dell’Egitto, obbligò le donne ad un’assoluta prigionia, genere di tribolazione che le querele d’entrambi i sessi eccitò; e tali querele avendolo tratto in maggior furore, fece commettere alle fiamme una parte dell’antico Cairo, gli abitanti della quale città sostennero contro le guardie del Califfo una lotta micidiale che per molti giorni durò. Costui, datosi sulle prime a divedere zelante musulmano, avea fondato e arricchito più collegi e moschee; a spese del medesimo erano stati trascritti in lettere d’oro mille dugento novanta esemplari del Corano, e sterpate per suo ordine tutte le vigne dell’alto Egitto; ma eccesso di vanità lo condusse ben tosto nella speranza di fondare una nuova religione; nè il credito di profeta bastandogli, volle lo riguardassero come immagine visibile dell’Altissimo, che dopo essere nove volte sulla terra apparito, finalmente nella persona reale di Akem agli uomini si dimostrava. Al nome di Akem, Sovrano de’ vivi e de’ morti, ciascuno dovea piegar le ginocchia, e adorare una montagna posta in vicinanza del Cairo, e consacrata ai misterj del culto istituito da questo fanatico. Già sedicimila persone aveano sottoscritta la lor professione di fede, e anche oggi giorno una popolazione libera e guerriera, i Drusi del monte Libano, giurano nella divinità di questo insensato tiranno, persuasi che ancora egli viva73. Nella sua [p. 262 modifica]divina qualità, Akem abborriva gli Ebrei, e i Cristiani, perchè soggetti ai Maomettani, divenutigli rivali, atteso il nuovo culto che ei s’arrogò istituire; benchè un avanzo di prime impressioni, o un riguardo fors’anche di prudenza, gli parlassero a favore dell’Islamismo. Le crudeli persecuzioni che nell’Egitto e nella Palestina operò, fecero alcuni martiri, e molta mano di apostati. Sprezzatore egualmente dei diritti comuni e de’ privilegi particolari delle varie Sette, proibì agli stranieri e agli abitanti di Gerusalemme ogni visita al sepolcro di Gesù Cristo. [A. D. 1009] Il tempio del Mondo cristiano, la chiesa della Rissurrezione, sin dalle sue fondamenta fu demolita: il prodigio luminoso che contemplavasi nelle feste di Pasqua disparve; molti sforzi vennero adoperati a colmare la cavità della rupe, in cui riguardasi, aggiustatamente parlando, l’esistenza del Santo Sepolcro. Alla notizia di un tanto sacrilegio, eguali furono la sorpresa e il cordoglio delle nazioni europee: ma anzichè armarsi per la difesa di Terra Santa, altro non fecero che arder vivi o bandire gli Ebrei, da essi considerati come i segreti consiglieri dell’empio Akem74. Pure un atto d’incostanza o di pentimento del tiranno, alleviò in qualche modo i mali di [p. 263 modifica]Gerusalemme; e stava sottoscrivendo il decreto della restituzione delle chiese, quando venne assassinato da alcuni sgherri mandati a tal fine da una sorella del medesimo. I Califfi successori di Akem riassunsero le antiche massime della religione e della politica musulmana: regnò nuovamente la tolleranza: mercè i pietosi soccorsi spediti dall’Imperatore di Costantinopoli, risorse di mezzo alle sue rovine il Santo Sepolcro, e, dopo essere stati privi di tal vista per qualche tempo, i pellegrini vi ritornarono con quel fervore che delle privazioni suol essere conseguenza75. Il viaggio di Palestina per mare offeriva non pochi pericoli, nè frequenti erano per imprenderlo le occasioni: ma la conversione della Ungheria aperse una comunicazione sicura fra l’Alemagna e la Grecia. Il caritatevole zelo di S. Stefano appostolo del suo regno, soccorreva e guidava i pellegrini76, che per trasferirsi da Belgrado ad Antiochia, attraversavano per mezzo ad un impero cristiano un’estensione di mille cinquecento miglia. [A. D. 1024] Non mai con più forza il fervore dei pellegrinaggi tra i Franchi erasi manifestato, e si vedeano coperte le strade di persone di [p. 264 modifica]ogni sesso e d’ogni grado che giuravano bramar solamente tanto spazio di vita per giungere a baciar la tomba del Redentore. E principi, e prelati abbandonavano la cura de’ lor dominj; onde il numero di queste pie carovane divenne il pronostico degli eserciti di Crociati che nel successivo secolo approderebbero ai lidi di Palestina. Mancavano circa trent’anni all’epoca della prima Crociata allorchè l’Arcivescovo di Magonza, i Vescovi di Utrecht, di Bamberga e di Ratisbona, abbandonarono le rive del Reno per trasferirsi, seguìti da settemila persone, alle sponde del Giordano. L’Imperatore gli accolse con ogni ospitalità a Costantinopoli; ma avendo questi pellegrini fatto imprudente sfoggio di lor ricchezze, vennero indi assaliti dai feroci Arabi del Deserto, e parea quasi che avessero scrupolo a valersi dell’armi loro in propria difesa. Sostennero un assedio nel villaggio di Capernaum, e solamente alla venale protezione dell’Emiro Fatimita la propria liberazione dovettero. Dopo avere visitati i luoghi santi, veleggiarono verso l’Italia; ma di settemila che erano partendo, duemila soltanto la patria rividero. Ingolfo, segretario di Guglielmo il Conquistatore, a questa carovana appartenea: e narra che di trenta cavalieri vigorosi e armati di tutto punto, i quali seco lui aveano abbandonata la Normandia per trasferirsi in Palestina, nel rivalicare le Alpi, rimaneano solamente venti miserabili pellegrini a piedi, non d’altro forniti fuor del loro bordone e della bisaccia che portavano sulle spalle77. [p. 265 modifica]

Dopo la sconfitta di Romano, la tranquillità dei Califfi Fatimiti dai Turchi venne turbata78. Atsiz il Carizmio, uno fra i capitani di Malek-Sà, penetrato nella Sorìa a capo di un esercito poderoso, coll’armi e colla fame ridusse Damasco. [A. D. 1076-1096] Hems e le altre città della provincia avendo riconosciuto il Califfo di Bagdad e il sultano di Persia, il vittorioso Emiro s’innoltrò, senza incontrar resistenza, insino alle rive del Nilo. E già il Fatimita a ripararsi nel cuor dell’Affrica s’apparecchiava, quando i Negri della sua guardia, e gli abitanti del Cairo, operando una disperata sortita, dalle frontiere dell’Egitto i Turchi scacciarono. La strage e il saccheggio contrassegnarono la strada tenutasi da Atsiz nel ritirarsi: per costui ordine vennero trucidati il giudice e i notai di Gerusalemme, da lui medesimo eccitati a venir nel suo campo; alla qual perfidia seguì appresso l’uccisione di tremila cittadini. Egli non tardò a veder punita la sua crudeltà, o veramente la sua sconfitta, dal sultano Tucus, fratello di Malek-Sà, che munito di migliori titoli, e di forze più formidabili, sostenne i suoi diritti all’impero della Sorìa e della Palestina. La casa di Selgiuk regnò a Gerusalemme circa vent’anni79; poi il comando ereditario della [p. 266 modifica]Santa Città, e delle sue pertenenze fu commesso all’Emiro Ortok, Capo di una tribù di Turcomanni. I figli di questo, scacciati indi dalla Palestina, diedero origine a due dinastie che sulle frontiere dell’Armenia, e della Sorìa ebbero regno80. I Cristiani dell’Oriente, e i pellegrini della Chiesa latina, gemettero su di una politica vicissitudine che sostituì per essi all’amministrazione regolare, e all’antica amistà de’ Califfi, il ferreo giogo degli stranieri del Settentrione81. La Corte e l’esercito del Sultano sotto alcuni aspetti, le arti e i costumi della Persia offerivano; ma la maggior parte de’ Turchi, e soprattutto le tribù pastorali, la ferocità delle popolazioni del deserto serbavano. Da Nicea a Gerusalemme le contrade occidentali dell’Asia, fatte eransi teatro di guerre straniere, o intestine; nè l’indole, o lo stato de’ pastori della Palestina, che usavano un’autorità precaria sopra una malcontenta frontiera, davano alle medesime il tempo di aspettare i tardi vantaggi della libertà del commercio e della tolleranza religiosa. I pellegrini che, dopo superati innumerevoli [p. 267 modifica]rischi, pur giungevano alle porte di Gerusalemme, divenivano vittime del ladroneccio de’ particolari, o della tirannide amministrativa; talchè non di rado ad essi accadea di soggiacere alla miseria, o alle infermità, prima di aver avuto il conforto di salutare il Santo Sepolcro. Fosse naturale barbarie, o zelo di nuova religione, i Turcomanni insultavano i sacerdoti di tutte le Sette: il patriarca venia trascinato pe’ capelli sul pavimento del tempio, e confinato indi in un carcere; e spesse volte per costrignere il suo gregge a redimerlo, que’ selvaggi padroni turbavano senza riguardo le cerimonie della Chiesa della Risurrezione; le quali circostanze divulgate con patetiche narrazioni, eccitarono milioni di Cristiani a marciare sotto il vessillo della Croce alla liberazione di Terra Santa. Pur tutti questi mali, accumulati, erano di gran lunga inferiori all’atto sacrilego di Akem, che i Cristiani della Chiesa latina con tanta pazienza avean sopportato! Minori vessazioni infiammarono l’indole più irascibile de’ lor discendenti. Surto era un nuovo spirito di cavalleria religiosa, e di sommessione all’impero universale del Papa. Una fibra delicatissima fu toccata, e la impressione si fe’ sentire nelle più interne parti d’Europa.

Note

  1. Le particolarità da me narrate sulla vita e l’indole di Mamud sono tolte dal d’Herbelot (Bibl. orient., Mahmud, p. 533-537), dal De Guignes (Histoire des Huns, t. III, p. 155-173) e dal nostro concittadino il colonnello Alessandro Dow (v. I, p. 23-83), il quale ne ha offerti i due primi volumi della sua storia dell’Indostan, come una traduzione dell’opera del persiano Feristà. Ma in mezzo ai pomposi ornamenti di stile adoperati da questo Scrittore, non è sì facile il discernere, se veramente sia versione, o originale.
  2. La dinastia de’ Samanidi durò cenventicinque anni (A. D. 874-999) sotto il successivo governo di dieci principi. V. la genealogia de’ medesimi, e la caduta della dinastia nelle tavole del sig. De Guignes (Hist. des Huns, t. I, pag. 404-406). Alla suddetta dinastia venne dopo quella de’ Gaznevidi, A. D. 999-1183 (V. t. I, p. 239-240). Il metodo serbato da questo Storico nell’indicare le divisioni de’ popoli ha sparsa non poca confusione sulle epoche, e oscurità quanto ai luoghi.
  3. Gazna hortos non habet: est emporium et domicilium mercaturae indicae (Abulfeda, Geogr.; Reiske, Tabul 23, p. 349; d’Herbelot, p. 364). Niuno fra i viaggiatori moderni ha visitata questa città.
  4. Fu anzi l’ambasciatore del Califfo di Bagdad che adoperò questo vocabolo arabo, o caldeo, ed equivalente al nostro di Signore e Padrone (d’Herbelot, p. 825). Gli Scrittori bisantini dell’undicesimo secolo si valgono a tradurlo delle voci Αυτοκρατωρ βασιλευς βασιλεων, e la voce Σουλτανος o Soldanus, dopo essere passata dai Gaznevidi ai Selgiucidi, e agli Emiri d’Asia e d’Egitto, vedesi usata spesse volte nel linguaggio famigliare de’ Greci e de’ Latini. Il Ducange (Dissert. 16 sopra Joinville, p. 238-240; Gloss. graec. e latin.) si sforza per provare che il titolo di Sultano veniva adoperato nell’antico regno di Persia; ma chimeriche sono le prove dal medesimo adotte: ei fonda tal sua opinione sopra un nome proprio de’ temi di Costantino (II, 11), sopra un passo di Zonara, che ha confuse le epoche, e sopra una medaglia di Kai-Kosrù, il quale non è, come pensa il Ducange, il Sassanide del secolo XVI, ma il Selgiucida d’Iconium che viveva nel tredicesimo secolo (De Guignes, Hist. des Huns, t. I, p. 246.)
  5. Feristà, giusta i racconti del Dow (Hist. of Hindostan, v. 1, p. 49), fa menzione di un’arma da fuoco che diceasi adoperata fra gli eserciti degl’Indù; ma non m’indurrò sì facilmente a persuadermi di tale uso anticipato dell’artiglieria (A. D. 1008), e piacerebbemi esaminare prima il testo, indi l’autorità di Feristà che vivea nel secolo XVII alla Corte Mogolla.
  6. Kinnoga o Canoga (l’antica Palimbotra), vien collocata a 27.° 3′ di lat. e 80.° 11′ di long. V. D’Anville (Antiq. de l’Indie, p. 60-62), e la correzione del Maggiore Rennel che ha visitati i paesi in persona. (V. la sua eccellente Memoria sulla carta dell’Indostan, p. 37-43). Molte riduzioni sono da farsi sui trecento gioiellieri, e sulle trentamila botteghe di noci di areca, e sulle sessantamila bande di musici ec. numerati da Abulfeda (Geogr. Tab. XV, pag. 274: Dow, vol. I, p. 16).
  7. Feristà chiama i Portoghesi gl’idolatri europei (Dow, vol. I, p. 66). V. Abulfeda, p. 272, e la Carte da l’Indostan, del Rennel.
  8. D’Herbelot, Biblioth. orientale, p. 527. Del rimanente queste lettere, questi apoftegmi ec. offrono di rado il linguaggio del cuore, e il motivo delle pubbliche azioni.
  9. Essi citano a cagion d’esempio un rubino di quattrocentocinquanta miskali (Dow, vol. I, pag. 53) ossia di sei libbre e tre once: mentre il più grosso fra i rubini trovato nel tesoro di Dely non pesava che diciassette miskali (Voyages de Tavernier, part. II, p. 280). Ben vero è che nell’Oriente si dà il nome di rubino a tutte le pietre colorate (p. 355), e che il Tavernier ne aveva vedute tre, più grosse e più preziose del ridetto rubino, fra le gemme del nostro gran re, il più potente e il più magnifico di tutti i re della terra (p. 376).
  10. Dow, t. I, pag. 65. Dicesi che il sovrano di Kinnoga avea duemilacinquecento elefanti. (Abulfeda, Geogr. Tab. XV, p. 274). Il lettore può, giovandosi di queste particolarità intorno all’India, correggere una nota del Capitolo VIII, t. I, o seguendo quella nota correggere queste particolarità.
  11. V. un’esatta e verisimile descrizione di questi costumi pastorali nella Storia di Guglielmo arcivescovo di Tiro (l. I, c. 7, Gesta Dei per Francos; p. 633-634), ed altra importantissima nota che è dovuta all’editore della Histoire généalogique des Tatars, p. 535-538.
  12. Possono attingersi contezze sulle prime migrazioni dei Turcomanni, sull’incerta origine de’ Selgiucidi nella storia laboriosa degli Unni scritta dal de Guignes (t. I, Tables chronolog. l. V, t. III, l. VII, IX, X), nella Biblioth. oriental. del d’Herbelot (pag. 799-802, 897, 901), in Elmacin (Hist. Saracen. pag. 331-333), e in Abulfarage (Dynast., p. 221, 222).
  13. Dow, Hist. of Indostan, vol. I, pag. 89, 95, 98. Ho copiato questo passo, per dare un saggio sul modo di scrivere dell’Autore persiano: ma suppongo che per una bizzarra fatalità lo stile di Feristà sarà stato perfezionato da quello di Ossian.
  14. Il Zendekan del d’Herbelot (p. 1028), il Dindaka del Dow (vol. I, pag. 97), secondo tutte le apparenze sono la stessa cosa che il Dandanekan di Abulfeda (Geograph. p. 345 Reiske), piccola città del Korasan, distante due giornate da Marù, e celebre in Oriente perchè vi nasce la bambagia, e gli abitanti suoi la lavorano.
  15. Gli Storici bisantini (Cedreno t. II, p. 766, 767, Zonara t. II, p. 235, Niceforo Briennio, p. 21), hanno qui confuso le epoche e i luoghi, i nomi e le persone, le cagioni e gli effetti. L’ignoranza e gli errori di questi Greci, nè qui mi fermerò a diciferarli, possono inspirar molti dubbj sulla storia di Ciassare e di Ciro, tal quale la raccontano i più eloquenti fra i loro predecessori.
  16. Guglielmo di Tiro (l. I, c. VII, p. 633). Il metodo di trar gli augurj dalle frecce è antico e celebre nell’Oriente.
  17. D’Herbelot (pag. 801). Del rimanente, quando la posterità di Selgiuk fu pervenuta all’apice delle grandezze, non si mancò di celebrarlo, come trentaquattresimo discendente del grande Afrasiab, imperatore di Turan (p. 800). La genealogia tartara di Zingis ne fa conoscere un altro modo di adulare e un’altra favola: al dir dello storico Mirkond, i Selgiucidi di Alankava derivano da una vergine (p. 801, col. 2); e se questi sono i Zalzut di Abulgazi-Bahadur-Kan (Hist. généalog. p. 148) vien citata in favor loro una testimonianza di molto peso; quella di un principe tartaro, discendente di Zingis, di Alankavà, o Alancù, e di Oguz-Kan.
  18. Per effetto di un lieve cambiamento, Togrul-Beg trovasi essere il Tangroli-Pix de’ Greci. Il d’Herbelot (Bib. orient. p. 1027, 1028) e il De Guignes (Hist. des Huns, t. III, p. 189-201) raccontano con molta esattezza le particolarità del regno e dell’indole di Togrul.
  19. Cedreno (t. II, p. 774, 775) e Zonara (t. II, p. 257) colle solite lor cognizioni sugli affari di Oriente, ne dipingono questo ambasciatore come uno Sceriffo che simile al Syncellus del Patriarca, sia stato il vicario e il successore del Califfo.
  20. Ho tolta da Guglielmo di Tiro una tal distinzione fra i Turchi e i Turcomanni, distinzione almeno popolare e spontanea. I nomi sono gli stessi e la sillaba man ha lo stesso valore negli idiomi persiano e teutonico. Pochi fra i critici ammetteranno l’etimologia di Giacomo di Vitry (Hist. Hieros. l. I, c. II, p. 1061), secondo il quale, Turcomanni significa Turci, e Comani un popolo mescolato.
  21. È vero, che la religione maomettana non ha culto d’Immagini; e se i Cristiani lo avevano, siccome esso nè per la teoria, nè per la pratica non era, come pure non è, un’idolatria, così non sembra aver egli potuto indurre i popoli idolatri del Settentrione ad abbracciare a poco a poco il Cristianesimo. Molti poi di quei popoli s’erano fatti Ariani, ma non Cattolici (Nota di N. N.).
  22. Histoire génér. des Huns, t. III, p. 165, 166, 167. Il De Guignes cita Abulmahasan, storico dell’Egitto.
  23. V. la Biblioteca orientale, agli articoli Abbassidi, Caher o Cayem, e gli Annali di Elmacin e di Abulfaragio.
  24. Ho tolte dal signor De Guignes (t. III, p. 197-198) le particolarità che a questa stravagante cerimonia si riferiscono; e il dotto Autore le ha tratte da Bondari, che ha composta in arabo la storia dei Selgiucidi (t. V, p. 365). Nulla mi è noto sul carattere di questo Bondari, nè intorno al paese, o al secolo, ne’ quali ha vissuto.
  25. Eodem anno (A. E. 455) obiit princeps Togrul-Becus... Rex fuit clemens, prudens, et peritus regnandi, cujus terror corda mortalium invaserat, ita ut obedirent ei reges atque ad ipsum scriberent. Elmacin, Hist. Saracen., p. 342, vers. Erpenii.
  26. V. intorno le guerre de’ Turchi e de’ Romani, Zonara, Cedreno, Scilitzes, il continuator di Cedreno, e Niceforo Briennio Cesare . I due primi erano frati, uomini di Stato i due ultimi; nondimeno tali erano i Greci d’allora, che appena distinguesi fra gli uni e gli altri qualche differenza di stile e di carattere. In quanto spetta agli Orientali mi sono prevalso, giusta il solito, delle erudite ricchezze del d’Herbelot (V. gli articoli de’ primi Selgiucidi), e delle esatte ricerche del signor De Guignes (Hist. des Huns, t. III, l. X).
  27. ’Εφερετος γαρ εν Τουρηοις λογος, ως ειη πεπρωμενον ηαταραφηναι το Τουρηων γενος απο της τοιαυτης δυναμεως, αποιαν ο Μακεδον Αλεξανδρος εχωι κατασρεψατο Περσος. Corse voce fra i Turchi, essere destino che da tanta potenza fosse rovesciata la stirpe turca, come per Alessandro Macedone furono sconfitti i Persiani. (Cedreno, t. II, p. 791). Nulla v’ha di inverisimile nella credulità del volgo, e i Turchi aveano imparata dagli Arabi la Storia, o la leggenda di Escander Dulcarnio. (D’Herb. p. 317, ec.)
  28. Certamente che Dio fa vedere alcune volte subito, e chiaramente il suo castigo. (Nota di N. N.).
  29. Οι και Ιβεριαν ηαι Μεσοποταμιαν, και Αρμενοιαν οικουσι και οι την Ιουδαικην του Νεσορου και των Ακεφαλων θρησκεδουτιν αιρεσιν, quelli che abitano l’Iberia e la Mesopotamia, e l’Armenia, e quelli che seguono l’eresia giudaica di Nestorio, e degli Acefali. V. inoltre le osservazioni di Scilitzes a piè della pagina di Cedreno (t. II, p. 834), poichè le costruzioni equivoche di questo Greco non mi inducono tuttavia a credere che egli abbia confuso il Nestorianismo e l’eresia dei Monofisiti. Egli parla frequentemente di μενις, χολος, οργη Θεου, ira, bile, collera di Dio, qualità che mi sembrano appartenere a tutt’altro che ad un ente perfetto; ma la cieca dottrina del ridetto scrittore è costretta a confessare che una tal collera οργε, μενις etc., non tardò a percotere i Latini ortodossi.
  30. Se i Greci avessero conosciuto il nome di Georgiani (Stritter, Memoriae Byzant., t. IV, Iberica), io ne attribuirei l’etimologia all’agricoltura di questi popoli, come quella del Εκυθαι γεωδγοι, Sciti, Georgj (agricoltori) d’Erodoto (l. IV, c. 18, pag. 289, ediz. di Wesseling). Ma tal voce non rinveniamo nè fra i Latini (Giacomo di Vitry, Hist. Hierosol., c. 79, p. 1095), nè fra gli Orientali (d’Herbelot, p. 407), se non se dopo le crociate, e divotamente è stata tolta dal nome di S. Giorgio di Cappadocia.
  31. Mosheim, Instit. Hist. eccles., p. 632. V. inoltre nei Voyages de Chardin (t. I, p. 171-174) i costumi e il culto di questa popolazione tanto avvenente e spregevole. La genealogia da’ Principi georgiani incominciando da Adamo, e venendo sino ai nostri giorni, leggesi nelle Tavole del sig. de Guignes (t. I, p. 433-438).
  32. Costantino Porfirogeneta fa menzione di queste città. (De administ. imper. l. II, c. 44, p. 119.) Gli Scrittori bizantini dell’undicesimo secolo ne parlano parimente chiamandola Mantzichierte, che molti confondono con Teodosiopoli; ma il Delisle, nelle sue note e nella sua Carta, ha determinata la situazione di Malazkerd. Abulfeda (Geogr., Tab. 18, p. 310) la vuole una piccola città, costrutta di pietre nere, provveduta d’acqua, ma priva di alberi ec.
  33. Gli Uzj de’ Greci (Stritter, Memor. byzant., t. III, p. 923-948) sono i Gozz degli Orientali (Hist. des Huns, t. II, p. 122; t. III, p. 533 ec.). Se ne trovano sulle rive del Danubio e del Volga, nell’Armenia, nella Sorìa, e nel Korasan, e sembra che il nome di Uzj sia stato dato all’intera popolazione de’ Turcomanni.
  34. Gioffredo Malaterra (l. I, c. 33) accenna con distinzione Urselius (il Russelius di Zonara) fra i Normanni che sottomisero la Sicilia, e gli attribuisce il soprannome di Baliol. Gli Storici inglesi raccontano in qual guisa i Bailleul vennero dalla Normandia a Durham; fabbricarono il castello di Bernard sul Tees; fecero entrare nella loro famiglia una erede di Scozia ec. Il Ducange (Note ad Nicephor. Briennium, l. II, c. 4) ha fatte diverse indagini su questo argomento per onorare il presidente di Bailleul, il cui padre avea abbandonato la professione dell’armi per vestire la toga.
  35. Elmacin (p. 343, 344) accenna un tal numero che il verisimile non eccede; pure Abulfaragio (p. 227) lo riduce a quindicimila uomini a cavallo, e il D’Herbelot (p. 102) a dodicimila. Del rimanente lo stesso Elmacin fa ascendere a trecenmila uomini l’esercito imperiale, ed anche Abulfaragio si esprime in tal guisa. Cum centum hominum millibus, multisque equis et magna pompa instructus. I Greci si astengono dall’indicare alcun numero determinato.
  36. Gli autori greci non asseriscono così chiaramente che il Sultano si sia ritrovato alla battaglia: assicurano che Arslan diede il comando delle truppe al suo eunuco, e che indi si ritirò lungi dal campo ec. Parlano forse in tal guisa per ignoranza, o per gelosia, o il fatto sarebbe mai vero?
  37. Questo Andronico era figliuolo di Cesare Giovanni Duca, fratello dell’Imperator Costantino (Ducange, Fam. byzant. p. 165). Niceforo Briennio, mentre loda le virtù, e attenua le colpe (l. I, p. 30-38, l. II, p. 53) di cotest’uomo, confessa ciò nonostante l’odio del medesimo contra Romano. ου πανυ δε φιλιως εχον προς βασιλεα non avea dramma d’affetto pel re. Scilitzes narra in più chiare note il tradimento di Andronico.
  38. Niceforo e Zonara operano saggiamente nel tacer questo fatto, raccontato da Scilitzes e da Manasse, ma che non pare troppo credibile.
  39. Gli Orientali fanno ascendere a tali somme, assai verisimili, il riscatto e il tributo. Ma i Greci conservano un modesto silenzio, eccetto Niceforo Briennio, il quale osa sostenere che gli articoli erano ου αναξιας Ρομαιων αρχης non indegni dell’Impero Romano, e che l’Imperatore avrebbe preferita la morte ad un obbrobrioso negoziato.
  40. Le particolarità intorno alla sconfitta e alla prigionia di Romano Diogene leggonsi in Giovanni Scylitzes (ad calcem Cedreni, t. II, p. 835, 843), in Zonara (t. II, pag. 281-284), in Niceforo Briennio (l. I, p. 25-32), in Glica (p. 325-327), in Costantino Manasse (pag. 134), in Elmacin (Hist. Saracen., p. 343, 344), in Abulfaragio (Dynast., p. 227), in d’Herbelot (pag. 102-103), De-Guignes (tom. III, p. 207-211). Oltre ad Elmacin e Abulfaragio, co’ quali ho acquistata famigliarità, lo Storico degli Unni ha consultato Abulfeda e Bensciuma suo compilatore, una Cronaca de’ Califfi composta da Soyuri, l’egiziano Abulmahasen e l’affricano Novairi.
  41. Il D’Herbelot (p. 103, 104) e il De Guignes (t. III, p. 212, 213), sulle tracce degli scrittori orientali, raccontano le circostanze di questa morte sì rilevante; ma niun d’essi nelle sue narrazioni ha conservata la vivacità del descrivere di Elmacin (Hist. Saracen., p. 344, 345).
  42. Un critico celebre (il defunto dottore Johnson, che ha esaminato con tanto rigore gli epitafj di Pope) troverebbe forse argomento a ridire sulle parole di questa sublime iscrizione: Venite a Maru. Chi legge l’iscrizione, vi si dée già trovare.
  43. La Biblioteca orientale ne presenta il testo per la storia del regno di Malek (p. 452, 543, 544, 654-655), e la Histoire générale des Huns (t. III, p. 214-224) ripete i fatti medesimi aggiugnendo quelle correzioni e que’ supplimenti soliti in esse a trovarsi. Confesso che, se mi mancassero le disamine fatte da questi due dotti Francesi, in mezzo al Mondo orientale, mi troverei affatto perduto.
  44. V. un eccellente Discorso posto in fine alla Storia di Nadir-Shah, di ser William Jones, e gli articoli de’ poeti Amak, Anvari, Rascidi, ec., nella Biblioteca orientale.
  45. Questo Principe turco nomavasi Keder-Kan. Provveduto di quattro sacchi di monete d’oro e d’argento attorno al suo sofà, le distribuiva a piene mani ai poeti che gli recitavano versi (d’Herbelot, p. 107). Tutte queste cose possono essere vere; ma non comprendo egualmente la possibilità che il ridetto principe regnasse nella Transossiana ai tempi di Malek Sà, e anche meno che il primo oscurasse in fasto e munificenza il secondo. Credo che Keder regnasse sull’incominciare, non verso la fine dell’undicesimo secolo.
  46. V. Chardin, Voyages en Perse, t. II, p. 235.
  47. L’Era Gelalea (Gelaleddin, la Gloria della Fede, era uno fra i nomi, o titoli attribuiti a Malek-Sà), veniva prefissa ai 15 marzo, A. H. 471, A. D. 1079. Il dottore Hyde ha riportate le testimonianze originali de’ Persiani e degli Arabi. (De Religione veterum Persarum, c. 16, p. 200-211).
  48. Anna Comnena parla di questo regno de’ Persiani come απασης κακοδαιμονεσερον πενιας, la maggiore di tutte le calamità. Ella toccava i nove anni sul finire del regno di Malek-Sà (A. D. 1092); e quando narra che questo monarca fu assassinato, confonde il Sultano col suo Visir. (Alexias, l. VI, p. 177, 178).
  49. Sono essi conosciuti sì poco, che il De Guignes, dopo tutte le sue indagini, si è limitato a trascrivere (t. I, p. 244; t. III, part. I, p. 269, ec.) la storia, o piuttosto il registro de’ Selgiucidi di Kerman, qual trovasi nella Biblioteca orientale. Cotesta dinastia è sparita prima della fine del duodecimo secolo.
  50. Il Tavernier, solo forse tra i viaggiatori che sia andato sino a Kerman, ne descrive la capitale, come un grande villaggio caduto in rovina, situato in mezzo ad una fertile contrada distante di venticinque giorni da Ispahan, e ventisette da Ormus. (Voyages en Turquie et en Perse: p. 107-110).
  51. Stando ai racconti di Anna Comnena, i Turchi dell’Asia Minore obbedivano ai decreti d’arresto, ossia Sciaus del gran Sultano (Alexias, l. VI, p. 470), il quale, ella dice, teneva alla sua Corte i due figli di Solimano (p. 180).
  52. Petis de la Croix (Vie de Gengis-khan, p. 161), cita questa espressione che giusta ogni apparenza ad un poeta persiano appartiene.
  53. Nel narrare la conquista dell’Asia Minore, il De-Guignes non ha potuto giovarsi in modo alcuno degli scrittori arabi o turchi che si contentano di offerire una sterile genealogia de’ Selgiucidi di Rum; e poichè i Greci furono ritrosi a palesare la propria ignominia, i moderni storici son ridotti a fondarsi unicamente sopra poche parole sfuggite a Scilitze (p. 860, 863), a Niceforo Briennio (p. 88-91, 92 ec., 103, 104), e ad Anna Comnena (Alexias, p. 91, 92, ec., 168, ec.).
  54. Così il paese di Rum viene descritto dall’armeno Haiton, autore di una Storia tartara che leggesi nelle Raccolte del Ramusio e del Bergeron (V. Abulfeda, Geogr., Climat 17, p. 301-305.).
  55. Abbiamo già mostrato in una Nota al vol. IX che la Divinità di Gesù Cristo era già stata creduta anche prima del Concilio generale di Nicea, adunato nell’anno 325, dove poi fu scritto il Credo ec. coll’espressione Consustantialem, che spiega, e stabilisce appunto la Divinità di Gesù Cristo (Nota di N. N.).
  56. Dicit eos quemdam abusione sodomitica intervenisse episcopum (Guibert. Abbat., Hist. Hierosol., l. I, p. 468). Ella è cosa singolare che il medesimo popolo ne abbia offerto ai nostri giorni un non dissimile tratto. „Non vi sono orridezze, dice il Barone di Tott nelle sue Memorie (t. II, p. 193) che cotesti Turchi non abbiano commesse; e simili a soldati che senza sentir legge o freno nel sacco di una città, non si appagano di manomettere tutto a lor grado, ma aspirano anche a’ successi non lusinghieri in modo veruno, alcuni Spai sfogarono la loro libidine sulle persone del vecchio rabbino della Sinagoga, e dell’arcivescovo greco„.
  57. L’Imperatore, ossia l’Abate Giberto, descrive la scena del campo turco come se vi fosse stato in persona. Matres correptae in conspectu filiarum, multipliciter repetitis diversorum coitibus vexabantur. Cum filiae assistentes carmina praecinere saltando cogerentur. Mox eadem passio ad filias, ec.
  58. V. diverse particolarità intorno Antiochia e la morte di Solimano in Anna Comnena (Alexias, l. VI, p. 168, 169), colle note del Ducange.
  59. Guglielmo di Tiro (l. I, c. 9, 10, p. 635) offre descrizioni le più autentiche e le più deplorabili sulle conquiste de’ Turchi.
  60. Nella sua lettera al conte di Fiandra, sembra che Alessio avvilisca il suo carattere e il decoro imperiale; pure il Ducange la ravvisa per autentica (Not. ad Alexiad., p. 335, ec.), benchè sia piuttosto una parafrasi dell’Abate Giberto storico che vivea ai giorni di Alessio. Il testo greco è perduto e tutti i traduttori e copisti hanno potuto dire col citato Giberto (p. 475) verbis vestita meis, privilegio d’una indefinita estensione.
  61. Due passi estesissimi ed originali di Guglielmo, arcivescovo di Tiro (l. I, c. 1-10; l. XVIII, c. 5, 6), il principale autore dell’opera Gesta Dei per Francos, contengono sicurissime particolarità intorno alla storia di Gerusalemme, cominciando da Eraclio, e venendo sino ai tempi delle Crociate. Il De Guignes ha composta una dotta Memoria sul commercio che, prima delle Crociate, avevano nel Levante i Francesi ec. (Mém. de l’Acad. des inscript., t. XXXVII, p. 467-500).
  62. Secundum dominorum dispositionem, plerumque lucida, plerumque nubila recepit intervalla, et aegrotantium more, temporum praesentium gravabatur, aut respirabat qualitate (l. I, c. 3, p. 630). La latinità di Guglielmo di Tiro non è affatto sprezzabile; ma quando egli racconta essere trascorsi quattrocentonovanta anni fra il tempo della caduta e quello in cui fu ripresa Gerusalemme, ne mette una trentina di più.
  63. V. intorno alle corrispondenze di Carlo Magno con Terra Santa Eginardo (De vita Caroli Magni, c. 16, p. 79-82), Costantino Porfirogeneta (De administr. imperii, l. II, c. 26, p. 80), e il Pagi (Critica, t. III, A. D. 800, n. 13, 14, 15).
  64. Il Califfo concedè diversi privilegi Amalphitanis viris amicis et utilium introductoribus (Gesta Dei, p. 934). Il commercio di Venezia nell’Egitto e nella Palestina, non può vantare sì antica data, quando mai non si ammettesse la burlesca traduzione di un Francese che confondea le due fazioni del Circo (Veneti et Prasini) co’ Veneziani e coi Parigini.
  65. I pellegrini cristiani, a norma della loro fede, dovevano visitare la tomba di Gesù Cristo, come figlio di Dio, ed i pellegrini maomettani, secondo la loro credenza, visitavano quella di Maometto come semplice loro Profeta, ed inviato da Dio. (Nota di N. N.).
  66. Una cronaca araba di Gerusalemme, presso l’Assemani (Bibl. orient., t. I, p. 628; t. IV, p. 368), attesta l’incredulità del Califfo e dello storico. Ciò nullameno Cantacuzeno osa appellarsi ai Musulmani medesimi sulla realtà di questo perpetuo miracolo.
  67. L’erudito Mosheim ha discusso separatamente quanto a tal preteso prodigio si riferisce nelle sue dissertazioni sulla Storia Ecclesiastica (t. II, p. 214-306. De lumine sancti sepulchri).
  68. Giacchè Gesù Cristo che ha fatto tanti miracoli, come sappiamo dagli Evangelisti, poteva operare anche questo, non dovevasi usare l’espressione pia frode. (Nota di N. N.).
  69. Guglielmo di Malmsbury (l. IV, c. 11, 209) cita l’Itinerario del monaco Bernardo, testimonio oculare, che visitò Gerusalemme nell’anno 870; e la testimonianza di lui vien confermata da un altro pellegrino, che di alcuni anni avealo preceduto; e il Mosheim asserisce che i Franchi cotesta frode inventarono poco dopo la morte di Carlomagno.
  70. I nostri viaggiatori, Sandys (p. 134), Thevenot (p. 621-627), Maundrell (p. 94, 95) ec., descrivono questa stravagante burletta. I Cattolici si trovano imbarazzati nel determinare il tempo in cui finì il miracolo, e gli fu sostituita la frode.
  71. Gli stessi Orientali confessano la frode, adducendone poi a giustificazione la necessità e diverse mire edificanti, per cui fu inventata (Mémoires du chevalier d’Arvieux, t. II, p. 140; Giuseppe Abudacni, Hist. Coph., c. 20); ma io non farò prova, come il Mosheim, di indicare il modo onde il creduto miracolo si operava; e penso che i nostri viaggiatori sono caduti in abbaglio volendo spiegare la liquefazione del sangue di S. Gennaro.
  72. Possono consultarsi il D’Herbelot (Bibl. orient., p. 411), il Renaudot (Hist. patriar. Alex., p. 390-397, 400, 401), Elmacin (Hist. Saracen., p. 321-323), e Marei (p. 384-386), storico dell’Egitto, tradotto dall’arabo nell’alemanno per opera del Reiske, e ch’io mi sono fatto interpretare verbalmente da un amico.
  73. La religione dei Drusi è nascosta sotto il velo della ignoranza e della ipocrisia. Il segreto della loro dottrina viene comunicato ai soli Eletti che conducono una vita contemplativa. Quanto ai Drusi delle classi comuni, i più indifferenti di tutti gli uomini, si conformarono, giusta le circostanze, al culto de’ Maomettani, o a quello de’ Cattolici dei loro dintorni. Le poche cose che si sanno, o, a dir meglio, le poche cose che meritano essere conosciute intorno a questa popolazione, trovansi nel Niebur; il quale Autore ha accuratamente esaminati i paesi da lui trascorsi (Voyages, t. II, p. 354-357), e nel secondo volume del Viaggio recente ed instruttivo del Sig. Volney.
  74. V. Glaber, l. III, c. 7, e gli Annali del Baronio e del Pagi, A. D. 1009.
  75. Per idem tempus ex universo orbe tam innumerabilis multitudo coepit confluere ad sepulchrum Salvatoris Hierosolimis, quantum nullus hominum prius sperare poterat. Ordo inferioris plebis .... mediocres .... reges et comites .... praesules .... mulieres multae nobiles cum pauperioribus .... pluribus enim erat mentis desiderium mori priusquam ad propria reverterentur. (Glaber., l. IV, c. 6; Bouquet, Historiens de France, t. X, p. 50).
  76. Glaber (l. III, c. 1). Katona (Hist. crit. reg. Hungar., t. I, pag. 304-311) si fa ad esaminare, se S. Stefano abbia fondato un monastero a Gerusalemme.
  77. Il Baronio (A. D. 1064, n. 43-56) ha copiata la maggior parte de’ racconti originali d’Ingolfo, di Mariano e di Lamberto.
  78. V. Elmacin (Hist. Saracen., p. 349, 350), e Abulfaragio (Dynast., p. 237, vers. Pocock). Il De Guignes (Histoire des Huns, t. III, part. I, p. 215, 216) aggiugne le testimonianze, o piuttosto i nomi di Abulfeda e di Novairi.
  79. Dal tempo della spedizione di Isar Atsiz (A. E. 469, A. D. 1076) fino all’espulsione degli Ortokidi (A. D. 1096). Ciò nonostante Guglielmo di Tiro (l. I, c. 16, p. 633) assicura che Gerusalemme rimase trentotto anni in potere dei Turchi; ed una Cronaca araba citata dal Pagi (t. IV, p. 202), suppone che un generale Carizmio l’abbia sottomessa al Califfo di Bagdad, nell’anno dell’E. 463, di Gesù Cristo 1070. Queste date tanto lontano mal si accordano colla storia generale dell’Asia, e son ben certo che nell’anno di Gesù Cristo 1064 il regnum Babylonicum (del Cairo) trovavasi tuttavia nella Palestina (Baronius, A. D. 1064, n. 56).
  80. De Guignes, Histoire des Huns, t. I, p. 249-252.
  81. Guglielmo di Tiro (l. I, c. 8, p. 634) si dà molta briga nell’ingrandire i mali che i Cristiani soffrivano. I Turchi pretendeano un aureus da ciascun pellegrino. Il caphar de’ Franchi è oggidì di quattordici dollari, nè di tal volontaria tassa l’Europa lamentasi.