Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro IV

Libro IV

../Libro III/Capo III ../Libro IV/Capo I IncludiIntestazione 2 luglio 2021 75% Da definire

Libro III - Capo III Libro IV - Capo I

[p. 210 modifica]

LIBRO QUARTO.

REPUBBLICA PARTENOPEA, DAL GENNAIO AL GIUGNO DEL 1799.


CAPO PRIMO.

Leggi e provvedimenti per ordinare lo stato a repubblica.

I. Allo ingresso del generale Championnet la gioja non fu piena; l'adombravano le fresche memorie della guerra, e lo spettacolo di cadaveri non ancora sepolti; ma nella quiete della notte i magistrati della città, disperdendo i segni della mestizia, prepararono lieto il vegnente giorno. Il dolore delie seguite morti era cessato, perciocchè tanto dura ne commilitoni quanto il pericolo, e nella genia de’ lazzari non lascia lutto nè bruno, A’ primi albori molti giovani ardenti di libertà chiamando il popolo a concioni, discorrevano i benefizii della repubblica; e per quanto avevano ingegno e loquela, persuadevano i premii, i debiti, le virtù di cittadino. Poi numerando i falli e le ingiustizie del re fuggitivo, rammentavano le involate ricchezze, i vascelli bruciati per lasciar le marine senza difesa da' nemici e da' pirati, la guerra mossa e fuggita, concitate le armi civili e disertate, nessun ordine per lo avvenire, il popolo abbandonato al ferro de' nemici stranieri e delle discordie domestiche. I quali ricordi veri e vicini afforzavano gli argomenti e la eloquenza di libertà; voce gradita a’ cuori umani, sorgente ed istinto di allegrezza. Vi fu dunque gioja piena, universale, manifesta.

Nel qual tempo fu bandito editto del generale Championnet, che a nome e per la potenza della repubblica francese, volendo usare le ragioni della conquista in pro del popolo, dichiarava che lo stato di Napoli si ordinerebbe a repubblica indipendente; che un assembica di cittadini, intesa a comporre il novello statuto, reggerebbe il governo con libere forme; e ch'egli, per la potestà che gli davano il grado e la felicità nelle armi; aveva nominato le persone, che assembrate in quel medesimo giorno nell’edifizio di san Lorenzo riceverebbero dal suo decreto e dal suo labbro l’autorità di governo. Erano i nominati venticinque, che uniti si [p. 211 modifica]appellavano governo provvisorio, diviso in sei parti, detti comitati, i quali prendevano il nome dagli uffizii, Centrale, dello Interno, della Guerra, della Finanza, della Giustizia e Polizia, e della Legislazione. Quindi andò con pompa militare, accompagnato da gente infinita e festosa, in san Lorenzo, casa di onorate memorie per la città; e nella gran sala, dove giù stavano i governanti, egli da seggio nobilissimo così parlò:

«Cittadini! voi reggerete la repubblica napoletana temporaneamente; il governo stabile sarà eletto dal popolo. Voi medesimi, costituenti e costituiti, governando con le regole che avete in mira per il novello statuto, abbrevierete lo stento che apportano le nuove leggi; e per questo pubblico benefizio vi ho affidato ad un tempo i carichi di legislatori e di reggenti. Voi dunque avete autorità sconfinata, debito uguale; pensate ch’è in vostre mani un gran bene della vostra patria, o un gran male, la vostra gloria, o il disonore. Io vi ho eletto, ma la fama vi ha scelto; voi risponderete con la eccellenza delle vostre opere alle commendazioni pubbliche, le quali vi dicono dotati di alto ingegno, di cuor puro e amanti caldi e sinceri della patria.

Nel costituire la repubblica napoletana, agguagliatela, quanto comportano bisogni e costumi, alle costituzioni della repubblica francese, madre delle repubbliche nuove e della nuova civiltà. E nel reggerla, voi rendetela della Francese amica, collegata, compagna, una medesima. Non sperate felicità separati da lei; pensate che i suoi sospiri sarieno vostri martorii; e che s’ella vacilla, voi cadrete.

L’esercito francese, che per pegno della vostra libertà ha preso nome di esercito napoletano, sosterrà le vostre ragioni, ajuterà le opere vostre o le fatiche, pugnerà con voi o per voi. E difendendovi, noi dimandiano null’altro premio che L’amor vostro.»

II. La sala era piena di popolo. Al bel discorso udironsi plausi ed augurii all’oratore, alla repubblica francese, alla napoletana; e furono viste su gli occhi a molti lacrime di tenerezza e di contento. Declinato il romore, uno de’ rappresentanti, Carlo Laubert, napoletano, già cherico dell’ordine degli Scolopii, fuggitivo per libertà in Francia, tornato con l’esercito, rispose:

«Cittadino generale, certamente dono della Francia è la nostra libertà, ma istrumenti del benefizio sono stati l’esercito e ’l suo capo; con minor valore, o minor sapienza, o minor virtù, voi non avreste vinto esercito sterminato, dispersi popoli di furor ciechi, espugnate le rocche, superato il disagio del cammino e del verno. Sieno perciò da noi rese grazie alla repubblica francese; [p. 212 modifica]grazie agli eserciti suoi; grazie, generale, a voi venuto come angelo di libertà e di pace.

In questa terra, da’ petti nostri, uscirono i primi desiderii di miglior governo, i primi palpiti di libertà, i voti più caldi per la felicità della Francia; in questa terra da’ petti nostri fu dato il primo sangue alla tirannide; qui furono i ceppi più gravi, i martorii più lunghi, gli strazii più fieri. Noi eravamo degni di libertà; ma senza i falli della tirannia, ed il divino flagello che discaccia le coscienze agitate dalle perversità della vita, noi saremmo ancora sotto il giogo di Acton, della regina, di Castelcicala, di tutti i satelliti del dispotismo. Nè bastavano i loro misfatti, però che la pazienza de’ popoli è infinita; si volevano co’ misfatti gli errori, ed armi pronte e virtù punitrice.

Voi, generale, ci avete portato il governo per gli uomini, la repubblica; sarà debito nostro conservarla. Ma voi pensate ch’ella bisognerà, come tenera cosa che oggi nasce, di assistenza e di consiglio; ella è opera vostra, consigliatela, sostenetela. Se vedremo non esser noi eguali al carico sublime che ci avete imposto, lo renderemo in vostre mani; però che in tanta grandezza di opere e di speranze, scomparsi, agli occhi nostri, noi stessi, non abbiamo in prospetto che la felicità della patria. Dedicati ad essa, per essa io giuro; e ’l governo provvisorio da voi eletto, innanzi a voi, al popolo ed a Dio, ripeterà il sacramento.» Per altre ventiquattro voci, si udì, lo giuro.

Si partì con ugual pompa e maggiore applauso il generale Championnet, L’altro rappresentante, Mario Pagano, volto al popolo disse:

«Sì, cittadini, siamo liberi; godiamo della libertà ma ricordando che ella siede sopra sgabello d’armi, di tributi e di virtù, e che le armi in repubblica non riposano, nè i tributi scemano, sè la virtù non eccede. A questi tre obbietti intenderanmo le costituzioni e le leggi del governo, Voi, però che libero è il dire, ajutate gl’ingegni nostri; noi accetteremo con gratitudine i consigli, li seguiremo, se buoni.

Ma udite, giovani ardenti di libertà che qui vi palesate per l’allegrezza che vi brilla negli occhi, udite gli avvisi d’uomo incanutito, più che per anni, ne’ pensieri di patria e negli stenti delle prigioni, correte all’armi, e siate nell’armi obbedienti al comando. Tutte le virtù adornano le repubbliche, ma la virtù che più splende sta ne’ campi; il senno, l’eloquenza, l’ingegno avanzano gli stati; il valore guerriero li conserva. Le repubbliche de’ primi popoli, però che in repubblica le società cominciano, erano rozze, ignoranti, barbare, ma durevoli perchè guerriere. Le repubbliche di civiltà corrotta presto caddero; benchè [p. 213 modifica]abbondassero buone leggi, statuti, oratori, tutti i sostegni e gl’incitamenti alla virtù; ma le infingarde, avevano tollerato che le armi cadessero.

Perciò in voi più che in noi stanno le speranze di libertà. Il governo provvisorio, nel dirsi legittimo e costituito intende da questo istante a’ debiti suoi, e voi, strenui giovani, correte da questo istante a’ debiti vostri, date ì vostri nomi alle bandiere di libertà, che ravviserete da’ tre colori.»

L’adunanza sciolta, succederono alla contentezza pubblica molte private; il generale Championnet, che abitava la già casa de’ re, allora della nazionale, convitò i primi dell’esercito e i maggiori del governo e della città; altri de’ rappresentanti bandirono altri conviti; gioja più grande fu nelle case di coloro che avevano patito dalla tirannide e per fino nella plebe si videro feste, e si udirono voti per la repubblica. Solamente mancavano a’ conviti ed alla gioja i parenti degli uccisi per causa di maestà; più compianti e ammirati perchè lontani. E in quel giorno stesso gli editti del governo correvano le province, avvisando le succedute cose, e dando provvedimenti di stato. Fu prescritto che sino agli ordini nuovi reggessero gli antichi, uniformati alle regole generali di repubblica; e che rimanessero temporariamente le medesime autorità, i magistrati, gli uffizii. Però cessato il timore di alcun danno, terminata la guerra; volendo le province imitare la città capo dello stato, ogni paese, ogni terra diede segni di giubilo. Nel giorno appresso, con cerimonia da baccanti più che cittadina, alzarono nelle piazze di Napoli gli alberi di libertà, emblemi allora di reggimento repubblicano; tra calde orazioni, danze sfrenate, giuramenti e nozze come in luogo sacro. E finalmente il generale Championnet con solenne pompa, conducendo seco altri generali ed uffiziali dell’esercito, andarono al duomo per rendere grazie della finita guerra, adorarne le reliquie di san Gennaro, e invocar favori al nuovo stato. Tutto nella chiesa e nella cappella era preparato per la sacra funzione; e popolo infinito stava intento a riguardare le ampolle per trarne augurio di felicità o di sventure. Ma compiuto il miracolo in più breve tempo che ogni altra volta, il generale offrì al santuario mitria ricca d’oro e di gemme; gli uffiziali stettero devoti e come credenti a’ misteri; e la plebe stimò que’ mutamenti di stato voler di Dio.

III. Compiute le feste e chetato il romore della novità, la mente di ognuno, riposata, si fissò alle succedute cose per trarne regole di ambizione e di vita. La quale istoria morale del popolo, compagna e precorritrice della storia dei fatti, voglio esporre in questo luogo come chiarimento delle cose mirabili che narrerò. La libertà politica era scienza di pochi dotti, appresa dai libri moderni e dalle [p. 214 modifica]sentenze della presente libertà francese; perciò sconfinata quanto il genio della rivoluzione, e quanto filosofia ideale non applicata alle società. Gli umani difetti, le colpe umane, le stesse virtù, che per natural cammino cadono in vizii; le ambizioni, l’eroismo, necessarii alle repubbliche, ma che di loro natura trascendono in pericolo dello stato; in somma, tutte le necessità che accerchiano l’umana condizione, travisate o sconosciute dalle dottrine astratte, creavano certa idea di libertà politica troppo lontana dal vero. E maggiore ignoranza era nella pratica. Qui non mai parlamento nazionale o congreghe di cittadini (da’ tempi antichissimi e scordati della buona casa sveva) per trattare i negozii dello stato; qui sempre i diritti di proprietà conculcati dalle volontà del fisco. dalle gravezze feudali, dalle decime della chiesa, dalle fantasie della prepotenza; qui le persone soggette all’imperio de’ dominatori e de’ baroni, agli abusi del processo inquisitorio, alla potenza de’ delatori e delle spie, alle leve arbitrarie per la milizia, ed alle angarie della feudalità; qui non libere le arti nè i mestieri nè le industrie; qualunque volontà impedita. Il solo segno di libertà rimaneva ne’ parlamenti popolari per la scelta degli ufficiali del municipio; libertà sola e sterile perchè tra infinite servitù.

Mancavano dunque le persuasioni di libertà; peggio, della uguaglianza. La libertà viene da matura, così che bisognano ripetuti sforzi del dispotismo, e pieno abbandono del pensiero per dimenticarne il sentimento; l’uguaglianza nasce da civiltà, e per lungo uso della ragione; che non sono concetti di natura, il debole uguale al forte, il povere al ricco, l’impotente al potentissimo: nelle tribù rozze dell’antichità erano gli uomini liberi ma inuguali. E dopo le dette cose, riandando la storia del popolo napoletano, non l’antichissima e dimenticata delle repubbliche greche, ma la più recente, come che vecchia e continua di sette secoli, che ha formato gli universali costumi, non si troverà negli ordini civili pratica o segno di eguaglianza; bensì monarchia, sacerdozio, feudalità, immunità, privilegi, servitù domestica, vassallaggio ed altre innumerevoli difformità sociali. Perciò in quell’anno 1799 non era sentita dalla coscienza, e nemmeno concepita dall’intelletto del popolo l’uguaglianza politica; solamente l’ultima plebaglia finse d’intendere in quella voce l’uguale divisione delle ricchezze e de’ possessi.

Dalle quali cose discende che i maggiori prestigi della rivoluzione francese, libertà ed uguaglianza, erano per il nostro popolo non pregiati nè visti. Queste sole differenze tra le rivoluzioni di Francia e di Napoli bastavano per suggerire differenti regole di governo; ma ve n’erano altre non meno gravi. Aveva la Francia operato il rivolgimento; l’aveva Napoli patito; il passaggio tra gli estremi di monarchia dispotica e repubblica era stato in Francia [p. 215 modifica]opera di tre anni; in Napoli, di un giorno; i bisogni politici furono in Francia manifesti da’ tumulti; in Napoli erano ignoti o mancavano; soddisfare in Francia a quei bisogni era mezzo e riuscita alle imprese; in Napoli occorreva indovinare i desiderii, anzi destarli nel popolo, per aver poscia il merito di appagarli. Il re in Francia era spento; erano spenti i sostenitori di monarchia, o fuggitivi; il re di Napoli regnava nella vicina Sicilia, rimanevano tra noi tutti i partigiani del passato. La baronia, contraria; i nobili partigiani di repubblica (figli, non capi delle famiglie), poco validi a muovere gli armigeri de’ feudi; i preti impauriti dagli strazii del clero francese, i frati temendo lo spoglio de’ conventi; i curiali, la rivocazione di quella congerie di codici eh era per essi talento e fortuna. E infine a noi mancavano (e abbondavano in Francia) le difese della libertà, che sono le virtù guerriere e le cittadine ambizioni; e a noi mancava la legittimità del rivolgimento; perciocchè non veniva da parlamenti, stati-generali, assemblee, autorità costituite, moto uniforme di popolo; ma da sola conquista e non compiuta: condizione che allontanava dal nuovo governo gli animi paurosi e metodici.

IV. Ma benchè le regole dovessero variare da quelle di Francia, noi le vedremo uniformi; sia necessità di tempi o ebbrezza delle fortune francesi o, come più eredo, in tanta copia ne’ rappresentanti nostri d’ingegno o di sapienza, scarsità dell’ingegno delle rivoluzioni, e della sapienza de’ nuovi stati. Que’ rappresentanti erano settarii antichi di libertà, afflitti la più parte nelle prigioni di stato, ed oggi appellati Patriotti per nome preso di Francia, onde schivare l’altro di giacobino, infamato da’ mali fatti di Robespierre. Fu primo pensiero del governo spedire alla repubblica francese oratori di gratitudine per gli avuti benefizii, ed ambasciatori di amicizia e di alleanza; scegliendo a quegli offici il principe d’Angri, grande di casato e di ricchezza; ed il principe Moliterno, anch’egli nobile e fornito di pregi giù belli, cioè buona fama ed alcun fatto nelle armi, lontano da’ club, capo sincero del popolo nella ultima guerra contro i Francesi, e quando la plebe imperversò, fuggitivo non traditore, ma dava sospetto al giovine governo, così che, onorandolo pel carico di ambasciatore, lo discacciò. Il duca di Roccaromana, propenso a femminili lascivie, avendo scarse le forze alle ambizioni del dominio, restò scordato negl’inizii della repubblica. I sensi che prima spuntarono in quel governo furono dunque i sospetti; innati a reggimento libero, stimoli alla virtù ne’ grandi stati, alle discordie nei piccoli, e perciò dove sostegno e dove precipizio di libertà.

Un decreto divise lo stato in dipartimenti e cantoni, abolendo La divisione per province, e mutando i nomi per altri antichi di memorate memorie. In esso i fiumi, le montagne, le foreste, i termini di natura, si vedevano capricciosamente messi nel seno de’ [p. 216 modifica]dipartimenti o de’ cantoni, e talvolta delle comunità: scambiati i nomi; creduto città un monte e fatto capo di cantone; il territorio di una comunità spartito in due cantoni; certi fiumi addoppiati, scordate certe terre; in somma, tanti errori che si restò all’antico, e solo effetto della legge fu il mal credito de’ legislatori.

Ma buona legge sciolse i fidecommessi, libertà desiderata per i libri del Filangieri, del Pagano, di altri sapienti; e produttrice di effetti buoni, quanto comportavano le sollecitudini di quello stato. Molte comunità avevano lite co’ baroni; molte più rodevano i freni del vassallaggio; e perciò quelle, e queste, ed altre tirate dagli esempii, invadendo a modo popolare i dominii feudali, e spartendoli a’ cittadini, vendicavano con gli eccessi delle rivoluzioni gli odii proprii e degli avi. Piacque al governo quel moto, e dichiarando abolita la feudalità, distrutte le giurisdizioni baronali, congedati gli armigeri, vietati i servigi personali, rimesse le decime, le prestazioni, tutti i pagamenti col nome di diritti, promise legge nuova, giusta per i comuni e per i già baroni; senza vendicare, come natura umana consiglierebbe, le ingiurie patite da’ feudatarii. Dopo la quale promessa, il governo attese all’adempimento; ma intrigato nelle vicendevoli ragioni, non mirando che alla giustizia ideale, trovando intoppo quando ne’ possessi e quando ne’ titoli, quella legge, lungamente discussa, non fu mai fornita; e di tutti i rappresentanti maggior sostenitore de baroni fu quello stesso Mario Pagano, avverso a loro nelle dottrine, scrittore filosofo, pusillanimo consigliere, ottimo legislatore in repubblica fatta, impotente come gli altri ventiquattro del governo a fondar nuova repubblica.

Altro indizio di popolare avversione si manifestò per le cacce regie; avvegnachè i cittadini al sentirsi liberi, uccisero le bestie, svanirono i confini; e spregiando le ragioni della proprietà, recidevano i boschi, piantavano a frutto ne’ campi, dividevano come di conquista le terre. Così che il governo dichiarò le cacce, già regie ora libere, terreni dello stato; le guardie, sciolte. Per altri editti prometteva la soppressione de’ conventi, la riduzione de’ vescovadi, la incamerazione delle sterminate ricchezze della chiesa: benefizii non sentiti dall’universale, come dimostrava il rispetto mantenuto intero ne’ tumulti o cresciuto alla chiesa ed al clero. L’abolizione de titoli di nobiltà, l’atterramento delle immagini e de’ fregi de’ passati re, il nome di nazionali alle cose già regie, il nome di tiranno alla persona del re Ferdinando, furono subbietti di altre leggi, volute dal proprio sdegno, o imitate ne’ fatti della Francia.

Provvedevano nel tempo stesso alle altre parti del politico reggimento. La finanza disordinata, come ho mostrato nel precedente libro, venuta in peggio da’ succeduti sconvolgimenti, più inquieta per la urgenza de’ bisogni e de’ casi, fu la maggior cura del [p. 217 modifica]governo. Legge inattesa dichiarò debito della nazione il vuoto de’ banchi, e ne promise il pagamento; con profferta benevola ma non giusta nè finanziera, imperciocchè mancavano le ricchezze a riempiere quelle voragini, ed in tanto moto delle carle bancali, confuse le fila della giustizia, non cerano creditori del fallimento i possessori delle polizze. Per altra legge fu prescritto a’ tributarii di versare subitamente nell’erario del fisco le taglie dovute alla passata finanza, e le correnti; rimanendo intere le imposte pubbliche sino a quando nuovi statuti le ordinerebbero in meglio.

Fu intanto abolita la gabella sul pesce con gradimento de’ marinari della città, che si fecero amici alla repubblica. Ma le abolizioni, nel regno, delle gabelle sul grano e del testatico (indebitamente credute comunali) produssero effetti contrarii; avvegnachè pagando con esse le taglie fiscali, mantener queste, abolir quelle, faceva scompiglio e impossibilità. I tributarii, assicurati dalla legge, negavano gli usati pagamenti; i pubblicani, sostenuti d’ altra legge, li pretendevano; perciò lamenti e discordie nelle comunità.

V. Tra mezzo a’ quali disordini e povertà comparve comandamento del generale Championnet, che donando alla città le somme pattovite per la tregua, imponeva taglia di guerra di due milioni e mezzo di ducati, e di altri quindici milioni su le province; quantità per sè grandi, impossibili nelle condizioni presenti dello stato e nel prefisso tempo di due mesi. Pure il governo, vinto da necessità, intese a distribuire il danno; e non potendo trar norma dagli ordini dell’antica finanza, perchè mancavano tutte le regole della statistica, tassò i dipartimenti, le comunità, le persone per propri giudizii ; ne’ quali prevalendo il maligno genio di parte, si videro aggravate le province più salde alla fedeltà, e gli uomini più tenaci a’ giuramenti. E intanto, per agevolare la tassa, fu dichiarato che in luogo di moneta si riceverebbero a peso i metalli preziosi, cd a stima le gemme; cosicchè vedevasi con pubblica pietà spogliar le case degli ultimi segni di ricchezza, e le spose disabbellirsi degli ornamenti, e le madri togliere a’ bambini le preziosità degli amuleti, e i fregi di religione o di augurio. La gravezza, il modo, la iniquità scontentavano il popolo.

Cinque del governo andarono deputati del disconforto pubblico al generale Championnet; ed il prescelto oratore Giuseppe Abbamonti, parlandogli sensi di carità e di giustizia, lo pregava di rivocare il comando, ineseguibile allora, facile tostochè la repubblica prendesse forza ed impero; ragioni, lodi, lusinghe adornavano la verità del discorso, quando il generale, rompendone il filo, e ripetendo barbaro motto di barbaro antenato, rispose: « Sventure a’ vinti.» Era tra i cinque Gabriele Manthonè già capitano di artiglieria, gigante d’animo e di persona, amante di patria e [p. 218 modifica]spregiatore d’ogni gente straniera, il quale, sconoscendo le forme di ambasceria, fattosi oratore di circostanza, così disse: «Tu, cittadino generale, hai presto scordato che non siamo, tu vincitore, noi vinti; che qui sei venuto non per battaglie e vittorie, ma per gli ajuti nostri e per accordi; che noi ti demmo i castelli; che noi tradimmo, per santo amore di patria, i tuoi nemici; che i tuoi deboli battaglioni non bastavano a debellare questa immensa città; nè basterebbero a mantenerla, se noi ci staccassimo dalle tue parti. Esci, per farne prova, dalle mura, e ritorna se puoi; quando sarai tornato, imporrai debitamente taglia di guerra, e ti si addiranno sul labbro il comando di conquistatore, e l’empio motto, poichè il piace, di Brenno.» Il generale accommiatando la deputazione, disse: risolverebbe. Nacquero da quel punto in lui sospetti, e nei repubblicani disamore a’ Francesi.

Il generale, al vegnente giorno, confermando le taglie, ordinò il disarmamento del popolo; uomini fatti liberi e disarmati sono il dileggio della libertà. Solamente si permetteva la composizione delle guardie civiche; prescrivendo che fossero scelti a quell’onore i patriolti più chiari e più fidi; sì che il governo emanò legge tanto stretta, che pochi cittadini entravano nelle milizie armate, molti nel ruolo dei tributarii: nella città di Napoli quattro sole compagnie, seicento uomini, erano gli scelti; innumerevoli i taglieggiati, la legge, invalida per forza d’armi o per sentimento di libertà, parve finanziera ed avara. La stessa prudenza o sospetto del generate francese, e le sentenze dei dottrinarii napoletani facevano trasandare le milizie stipendiate; essere soldati in repubblica, dicevano i dottrinarii, tutti gli uomini liberi; essere gli eserciti mercenarii stromento di tirannide; Roma, quando veramente libera, conscrivere i combattenti ad occasione di guerra; non mancar guerrieri alle repubbliche: ed altre loquacità di tribuna, o dottrine di fantastiche virtù. Correvano le strade accattando il vivere buon numero di Dalmati, già soldati del re, abbandonati su questa terra straniera; correvano le province, vivendo d’arti peggiori, le già squadre degli armigeri baronali, delle udienze, dei vescovi, e grande numero dei soldati mantenuti sino allora dagli stipendii della milizia. Era dunque facile formare nuovo esercito di venticinquemila soldati, e trarre da’ pericoli della patria venticinque migliaja di bisognosi e predoni. Ma la repubblica vergognava di essere difesa da genti straniere o venali, ed aspettava il giorno della battaglia per battere dei calcagni la terra e vederne uscire guerrieri armati.

VI. Soprastava male più grande; la penuria. I raccolti dell’anno precedente furono scarsi; la guerra esterna e la civile avevano consumato immensa quantità di grano; la grassa Sicilia ricusava di mandarne, e le navi che scioglievano da’ porti della Puglia e della [p. 219 modifica]Calabria erano prodate da’ navilii siciliani ed inglesi. Crebbe il prezzo al pane; tanto più sentito per i perduti guadagni della plebe, per il gran numero di servi congedati, per le industrie sospese, per la malvagità di quelle genti che speravano nelle disperazioni del popolo. Ma i governanti stavano sereni, confidando nello zelo de partigiani ricchi di granaglie, ne’ compensi di governo libero, nella rassegnazione e nel merito di patir male per amar la patria. Erano Virtù dei reggitori, che, poco esperti della mala indole umana, Le credevano universali; e però intendendo che bastasse a tutti i disegni far certo il popolo della bontà di quel reggimento, spedivano patriotti a sciami per concionare e persuadere. Motivo di mestizia e di sdegno era quindi udire ne’ mercati, vuoti di ricchezze e di negozii, oratore imberbe discorrere i benefizii della repubblica; e con eloquenza spesso non propria ma voltata dalle arringhe francesi, nè mai sentita da volgari uditori pieni di contrarie dottrine, presumere di acquetare i lamenti e i bisogni della plebe. Oratore fra tutti più saggio e più inteso era quel Michele il Pazzo, capo del popolo ne’ tumulti della città, pacificatore all’arrivo di Championnet, e, mutate le cose, alzato al grado di colonnello francese, e spesso mandato ambasciatore alle torme de’ popolari. Arringava in plebeo, solo idioma ch’ ei sapesse; da poggiolo o scranna per mostrarsi in alto, non preparato; permettendo la disputa o le risposte. Diceva un giorno: «Il pane è caro perchè il tiranno fa predare le navi cariche di grano, che ci verrebbero da Barberia, che dobbiamo far noi? Odiarlo, sostenergli guerra, morir tutti piuttosto che rivederlo nostro re; ed in questa penuria guadagnar la giornata faticando per non dargli la contentezza di sentirci afflitti.»

Ed altre volte:

«Il governo d’oggi non è di repubblica, la repubblica si sta facendo: ma quando sarà fatta, noi idioti la conosceremo ne’ godimenti, o nelle sofferenze. Sanno i saccenti perchè mutano le stagioni, noi sappiamo di aver caldo o freddo. Abbiamo sofferto dal tiranno guerra, fame, peste, terremuoto; se dicono che godremo sotto la repubblica, diamo tempo a provarlo.

Chi vuol far presto semina il campo a ravanelli, e mangia radici; chi vuol mangiar pane semina a grano e aspetta un anno. Così è della repubblica; per le cose che durano bisogna tempo e fatica. Aspettiamo.»

Dimandato da uno del popolo che volesse dir cittadino, rispose: «Non lo so, ma dev’essere nome buono, perchè i capezzoni (così chiama il i capi dell stato) l’han preso per sè stessi. cittadino, i signori non hanno l’eccellenza, e noi non siamo lazzari; quel nome ci fa uguali.» [p. 220 modifica]

E allora un altro; e che vuol dire questa uguaglianza?

«Poter essere (indicando con le mani se stesso) lazzaro e colonnello. I signori erano colonnelli nel ventre della madre; io lo sono per la uguaglianza allora si nasceva alla grandezza, oggi vi si arriva.»

Non più ne dirò per brevità, sebbene molte altre sentenze di egual senno io abbia inteso da quel plebeo; e spiacemi di averne tarpato il più sottile per non averle riferite nel dialetto parlato, brevissimo e vivace; della quale licenza ho detto in altri luoghi le cagioni.

Alcuni preti e frati, sapienti ancor essi, parlavano al popolo di governo; e tirando dal vangelo le dottrine di eguaglianza politica, e volgarizzando in dialetto napoletano alcuni motti di Gesù Cristo, incitavano e afforzavano l’odio a’ re, l’amore a’ liberi governi, l’obbedienza all’autorità del presente. Spiegavano, come pronostici avverati di profeti, la fuga di Ferdinando, la venuta di genti straniere, il mutato governo; così che messe insieme le profezie, la croce, l’uguaglianza, la libertà, la repubblica, mostrandosi con vesti sacerdotali, e parlando linguaggio superstiziosamente creduto, insinuavano alla plebe sensi favorevoli per il nuovo stato. Ma pure altri cherici da’ confessionali inspiravano sensi contrarii; e giovani dissennati guastavano le buone opere de’ sapienti per dottrine di sfrenata coscienza; predicando libero il credere, libero il culto di religione, non premii celestiali alla virtù, non pene alle colpe; nullo il futuro come di belve.

VII. Le cure de’ reggitori, fermate ne’ primi tempi alla sola città, si estesero alle province; ma seguendo le istesse regole mandavano commissarii per dipartimenti, commissarii per cantoni, con pienezza di potere quando convenisse alla esecuzione delle leggi, e a’ casi urgenti di quiete pubblica, o di guerra. Insieme a’ quali si partivano molti altri col nome di democratizzatori, senza facoltà o stipendii, col carico di persuadere e ridurre alle forme repubblicane le città e terre delle province; provveduti di lettere patenti del governo, andando a turba per vero zelo o per falso, prevedendone uffizii pubblici e guadagni. Non dirò, perchè facile a immaginare, quanto i commissarii e i democratizzatori paressero ingrati agli abitanti delle province, rozzi, semplici, accorti, nulla curanti le bellezze non sentite di libertà; spregiatori di vota eloquenza, ed usi a fermare le speranze nell’abolizione della feudalità, nella divisione delle terre feudali, nella minorazione dei tributi, nel miglioramento delle amministrazioni e della giustizia. Le quali brame non isfuggivano agli oratori di repubblica, ma le discorrevano variamente, promettendole in lontano, ed unendole alle riforme religiose, alle libertà di coscienza, a’ matrimonii solamente civili, alla nullità de’ testamenti, e ad altre innumerevoli sfrenatezze di morale, riprovate [p. 221 modifica]dagli usi e dalla mente de’ruvidi abitanti delle campagne. La tendenza maggiore de’ discorsi era il pagamento de’ fiscali, ed il ricordo degli ajuti e degli sforzi che debbono i cittadini alla nascente libertà.

Da’ discorsi passando alle opere, andavano i commissarii investigando gli atti e le opinioni dei magistrati; i quali, anziani di età, scelti tra partigiani del passato governo, mal contentavano le passioni estreme di giovani ardenti delle parti contrarie; e perciò ad essi erano surrogati uomini nuovi. Molti onesti abitanti delle province, scontenti del passato per sofferta tirannide o per gli spogli delle ricchezze pubbliche e private, amavano gli ordini novelli e gli secondavano; ma si arrestarono a mezzo corso quando, visto governato lo stato dalle opinioni non dal consiglio, presagirono pericoli e precipizii.

VII. Un solo frastuono di libertà, le accuse pubbliche, non ancora si udiva, ma fu corto il silenzio. Niccolò Palomba volendo accusare Prosdocimo Rotondo, membro tra i venticinque del governo, adunò molti patriotti; ed esponendo le colpe, le pruove, le utilità del giudizio, dimandò assistenza contro d’uomo potente; ma in tempi ne’ quali la potenza vera risedeva nella sovranità del popolo. Applaudito il pensiero, intese le accuse, fu promesso per grida patrocinio all’animoso proponimento. Nuovo il giudizio e non prescritte le forme, andò l’accusatore con grande numero di clienti, e con libello che lesse al governo sedente in atto di legislatore, presente l’accusato e facendo parte dell’augusto consesso. Maravigliarono gli uditori; ed alzandosi dubbio se l’accusa dovesse ammettersi, pregante l’accusato, fu ammessa. Trattava di colpe antiche e non vere: la fama di Rotondo era egregia; quella di Palomba (tranne l’amore per la repubblica) correva macchiata di sospetti e di falli; ma i faziosi tenendo ad argomento di piena libertà quel processo, lodavano a mille voci l’accusalore, e concertavano seco in secrete adunanze le offese; mentre l’accusato dimandava in aperto il giudizio. Parve scandalo al governo il proseguimento di processo iniquo, pericoloso per lo esempio all’autorità inviolabile de’ rappresentanti dello stato; e perciò, seguendo il partito degl’infingardi, lo sospese; concesse a Palomba uffizio grande e bramato di commissario in un dipartimento; e sperò di coprire col silenzio la turpitudine de fatti. Quindi ad un mese, mutate le forme e le persone del governo provvisorio, Prosdocimo Rotondo tornato privato cittadino, valendosi delle ragioni di libertà, dimandò il rinnovamento del giudizio da’ magistrati comuni; e fu assolto. Non egli per magnanimità, e non alcun altro, custode delle leggi, per timidezza, diede accusa di calunnia.

Que’ fatti mostrarono la via degl’impieghi pubblici, la forza delle [p. 222 modifica]adunanze secrete, la debilità del governo. Perciò si udirono ad un tratto mille accuse; non bastando egregia fama, probità di antica vita, viver presente immaculato, a contenere le ambizioni e la protervia de’ tristi. Fu composto tribunale, chiamato censorio, a ricevere le accuse, esaminarle, spingerle in giudizio, e provvedere a’ lamenti degli oppressi (era il motto degli accusatori) ed alla necessaria tutela degli accusati. Sursero al tempo medesimo le società popolari, segrete o manifeste, nelle quali i settarii preparavano le accuse; delle pubbliche due furono più famose, le sale Patriottica e Popolare; le quali, ad esempio de’ clubs francesi, adunavansi quando in pubblico, quando in privato, sotto presidenza, con tribuna, processo delle materie discusse e libro delle decisioni. Le grandi quistioni di politica, le nuove costituzioni dello stato, ie leggi, le ordinanze, la guerra; e poi gli uffizii, gli uffiziali, la vita pubblica, la privata de’ cittadini, erano subietto di esame con libertà o licenza tribunicia; e le profferte sentenze andavano, secondo i casi, al governo sotto forma di messaggi o di consigli, al tribunale censorio per accusa, e al popolo per tumulti. Nessuna coscienza riposava nella sua virtù, nessuna voce maligna era spregevole, ogni nemico potente, qualunque merito, pericoloso. Vedevi mutamenti continui negli officii dello stato, odii acerbi, fazioni operose; il quale romore di accuse, di calunnie, di lamenti, si alzò strepitoso, e non posò che al cadere della repubblica; imperciocchè le sette, sintomi della infermità de’ governi, spengono questi se non sono spente.

IX. Mentre nella sala Patriottica si agitavano le più sottili quistioni sul nuovo statuto, e la stessa libertà francese pareva scarsa per noi, comparve la costituzione della repubblica napoletana, proposta nel comitato legislativo dal rappresentante Mario Pagano. Era la costituzione francese del 1793, con poche variazioni suggerite da modesta libertà. Dispiacque leggere in essa rivocati i parlamenti comunali, tumultuosi veramente ed inutili sotto dispotica signoria ma in repubblica mezzi opportuni alle elezioni ed amministrazioni, che sono i cardini di ogni libera società. Era debole in quella carta il potere giudiziario, nè appieno libero l’amministrativo; si plaudì all’immaginato corpo degli efori, sostenitori della sovranità del popolo. Due principii prevalevano: l’equilibrio de’ poteri astratti senza troppo avvertire all'equilibrio delle forze presenti, ovvero a ciò che in stato libero è forza, cioè costumi, opinioni, virtù del popolo; ed il sospetto contro al potere esecutivo, ed a’ cittadini potenti. Come le leggi bastassero ad impedire i precipizii di stato libero, quando nel seno di lui oprano le cagioni della rovina, mancò alla repubblica napoletana il tempo di sperimentarlo; un anno appresso quelle medesime leggi sospettose non mantennero dalla caduta la [p. 223 modifica]repubblica madre. Avventurosa, almeno, perchè discese nelle mani di un Cesare che durò tre lustri, e le serbò gran parte delle acquistate libertà; misera Napoli che inabissò nelle voragini del dispotismo.

Il governo provvisorio esaminava lo statuto costituzionale, consolando con le speranze future le mestizie presenti, che un certo Faypouli commissario di Francia, venne ad accrescere. Egli portava decreto della sua repubblica, la quale, forte nella ragione della conquista, riconfermava le imposte di guerra; e diceva patrimonio della Francia i beni della corona di Napoli, i palazzi o reggie, i boschi delle cacce, le doti degli ordini di Malta e Costantiniano, beni de monasteri, i feudi allodiali, i banchi, la fabbrica della porcellana, le anticaglie nascoste ancora nel seno di Pompei e di Ercolano. Il generale Championnet, che travagliato dalla universale scontentezza ne prevedeva i pericoli, e non aveva cuore disumano, impedì a Faypoult l’esecuzione del decreto, e ne fece per editto pubblica la nullità; ma insistendo il commissario, e accesa briga, vinse il più forte; Faypoult, discacciato, si partì. Piacque ciò a’ Napoletani, che doppiando l’odio contro i Francesi, presero ad amare Championnet; scusandolo allora delle passate durezze, dicendole necessità, e rammentando (que’ della plebe) la sua religione, il ricco dono a san Gennaro, e certo accidente, il cui principio era ignoto. Avvegnachè nei registri battesimali della chiesa di sant’Anna era un Giovanni Championnè, diverso per genitori e per tempo di natali; ma frattanto il generale fu creduto napoletano, benchè veramente nascesse in Valenza nel Delfinato.

Quindi spiacque leggere nelle gazzette francesi decreto del direttorio, che diceva così: «Visto che il generale Championnet ha impiegato l’autorità e la forza per impedire l’azione del potere da noi confidato al commissario civile Faypoult; e che perciò si è messo in aperta ribellione contro il governo; il cittadino Championnet, generale di divisione, già comandante dell’esercito di Napoli, sarà messo in arresto e tradotto innanzi un consiglio di guerra per essere giudicato del suo delitto.»

Subito Championnet si partì; ebbe il comando dell’esercito il generale Macdonald. Championnet giudicato in Francia ed assoluto ritornato all’impero degli eserciti, accresciuto di gloria, povero di fortuna, morì poco appresso in Antibo; e, se fu vera la fama, di veleno datogli o preso. Molti sospiri mandarono i Napoletani alle sue sventure; tanto più che venne compagno al Macdonald quel medesimo Faypoult, baldanzoso, protervo, inflessibile; vago di vendicare la gioja de’ Napoletani alla sua cacciata, e l’amore che portavano al suo nemico.

X. Giunse in quel mezzo nuova che i Francesi occupavano gli [p. 224 modifica]stati della Toscana, e che il gran duca Ferdinando III con la famiglia ne usciva. Il direttorio francese, insaziabile di conquiste, dopo invasi gli stati di Lucca, dimandò ragione al governo toscano delle ostilità manifestate nel ricevere le schiere napoletane contrarie alla Francia, e nel dare asilo al pontefice Pio VI. Il gran duca rispose che non mai nemicizia nè sdegno contro la repubblica, ma forza, e però necessità de’ più deboli, era stato motivo alla pazienza di ricevere l’armi napoletane nel porto di Livorno, minacciato da forti navigli siculi e inglesi: e in quanto al pontefice, che nessun atto vietando dargli ricovero, era debito di principe cristiano concederlo al capo della cristianità, vecchissimo e misero. Benchè laudabili e vere le discolpe, e di già cominciate le avversità delle armi francesi su l’Adige, così che bisognava raccorre non già dissipare gli eserciti della repubblica, prevalendo l’avidità del direttorio e del generale Scherer duce supremo in Italia, andò contro Firenze una legione francese che il generale Gauthier dirigeva; e giunta presso alle mura, intimò per araldo la resa della città. Ma Ferdinando III, rassegnato alle necessità del tempo, mandò in risposta I editto seguente:

«A miei popoli.

«Vengono in Toscana armi francesi. Noi riguarderemo come prova di fedeltà e di amore de’ nostri l’obbedienza al comando delle autorità, il mantenimento della quiete pubblica, il rispetto a’ Francesi, la diligenza di evitare gli sdegni de’ novelli dominatori. Per le quali cose crescerà, se d’incremento è capace, il nostro affetto verso i nostri popoli.»

Dopo ciò l’armi francesi entrarono a Firenze; il gran duca, nel dì seguente 27 di marzo, ne partì; la quiete non fu turbata. Per i quali successi, vedendo allargati in Italia i dominii e le parti di repubblica, si rallegrò il governo di Napoli. Ultima contentezza; imperciocchè da quel dì non giunse nuova se non mesta.

CAPO SECONDO.

Sollevazioni de’ Borboniani nelle province. Geste del re di Sicilia e degl’Inglesi contro la repubblica. Geste in difesa di lei.

XI. Cessato lo sbalordimento del quale i Borboniani furono presi per la guerra infelice, la patita conquista ed il nuovo stato, e non repressi i primi tumulti nelle province da’ battaglioni francesi sempre annunciati, non mai visti, sursero le scontentezze discorse nel precedente capo; e in varii punti dello stato, ribellioni e armamenti. Stavano le moltitudini contro gli ordini nuovi; per la [p. 225 modifica]opposta parte, giovani scarsi di numero e di credito; facevano i prudenti, non per odio alla repubblica o per amore al passato, ma perchè prevedevano i mali e i pericoli del futuro. Nelle città corse dal nemico s’imputavano i danni sofferti, meno alla guerra e alle ragioni della conquista, che alla indisciplina delle milizie alla intemperanza de’ capi; e le città non ancora tocche temevano gli stessi Francesi e gli stessi danni; era universale lo scontento. I Dalmati, gli armigeri baronali, le squadre delle udienze, e que’ tanti che vivevano di stipendii d’armi, uniti a torme, andando in scorreria con motivo o pretesto di fede all’antico re, arricchivano di bottino e di spogli.

Negli Abruzzi dove le armi borboniane rimasero per poco tempo sospese, non mai deposte, si ribrandirono più fieramente che innanzi sotto i capi Pronio e Rodio. Pronio ne’ suoi primi anni fu cherico; ma spinto da malo ingegno prese patente di armigero nelle squadre baronali del marchese del Vasto; quindi, reo di omicidii, andò condannato alle galere, dalle quali per forza ed industria fuggitivo, passò a correre le campagne. Fattosi partigiano de’ Borboni, combattè fortunato contro Duhesme; e scelto capo dagli uguali, acquistò fama, sicurtà e riechezze. Rodio, di civili natali, studioso di lettere latine, dottore in legge, scaltro, ambizioso, previde le sventure della repubblica, e parteggiò per i contrarii. Fu accolto dalle turbe; e avvegnachè primo esempio d’uomo gentile non macchiato di colpe che abbracciasse quelle parti sino allora seguite da’ peggiori, lo gridarono capo. La città Teramo, ed alcune altre terre tornarono alla obbedienza dell’antico re; i Francesi guardavano i forti di Pescara, Aquila, Civitella, e correvano intorno intorno a predar viveri, a rialzare gli alberi abbattuti della libertà, ad animare i seguaci loro, a punire i contrarii. Gli altri paesi delle tre province, divisi per genio, e seguitando l’ingegno vario de’ più potenti, stavano per la signoria o per la libertà; e poichè gli odii e le contese di municipio nemicavano ab antico i popoli confinanti, dipendeva spesso la scelta di governo dalla scelta contraria del vicino; maggiore incitamento a sdegnarsi, a combattere, alle rovine, e stragi.

Nella Terra di Lavoro molti paesi del confine stavano sotto l’impero di Michele Pezza, nato in Itri di bassi parenti, omicida e ladro; cosicchè da due anni per bando del governo pericolava sotto taglia il suo capo; ma per continue venture o scaltrezze, vincitore ad ogni cimento, scampava i pericoli; e la nostra plebe, però che dice scaltrissimi ed invincibili il diavolo e i frati, lo chiamò fra Diavolo; ed egli, per argomento di prodezza e fortuna, ritenne il soprannome nelle guerre civili e sino a morte. Audace, valoroso, spregiatore d’ogni virtù, fattosi capo di numerosa torma, tenendosi agli agguati [p. 226 modifica]fra le rupi e le boscaglie del suo paese, e vedendo da lungi, non visto, disponeva gli assalti contro a’ soldati francesi che andavano soli o a piccole partite, e spietatamente gli uccideva. Correndo da Portella al Garigliano trucidava i corrieri e qualunque gli desse ombra di recar lettere o ambasciate; rompeva il cammino tra Napoli e Roma.

Nella stessa provincia ma in altra contrada, quella di Sora, guerreggiava capo di molti Gaetano Mammone mulinaro; la ferità del quale tanto si scosta dalla natura degli uomini e si avvicina alle belve crudelissime, che io con animo compreso di orrore dirò di lui come di mostro terribile. Ingordo di sangue umano, lo bevea per diletto; beveva il proprio sangue ne’ salassi suoi; negli altrui, lo chiedeva e tracannava: gradiva, desinando, avere su la mensa un capo umano, di fresco reciso e sanguinoso; sorbiva sangue o liquori in teschio d’uomo e gli era diletto a mutarlo. Immanità che non avrei narrate nè credute se il pubblico grido, che spesso amplifica i fatti maravigliosi, non fosse confermato da Vincenzo Coco, uomo ed autore pregiatissimo, consigliere di stato, magistrato integerrimo, che da istorico narra e da testimonio accerta le riferite crudeltà. Mammone in quelle guerre civili spense quattrocento almeno Francesi o Napoletani, e tutti di sua mano, facendo trarre dal carcere i prigionieri per ucciderli a gioja del convito, stando a mensa coi maggiori della sua torma. Eppure a tal uomo, o a questa belva, il re Ferdinando e la regina Carolina scrivevano: «Mio generale e mio amico.»

Prosieguo a descrivere lo stato interno de’ popoli. Torma numerosa guerreggiava nella provincia di Salerno. Una stretta nominata di Campestrino, difficile, intrigata, era guernita di borboniani, che la cedevano solamente alle poderose colonne di milizia, e combattendo. Di là correvano le terre del Cilento, i monti di Lagonegro, e gli stessi dintorni della città capo della provincia; perciò il cammino delle Calabrie ingomberato da’ borboniani era chiuso ad ogni altro. La città di Capaccio e le terre di Sicignano, Castelluccio, Polla, Sala, inalzata bandiera regia, minacciavano i paesi di repubblica. Il vescovo Torrusio, dopo ribellata la città di Capaccio, combatteva con armi spirituali e guerriere; mentre nelle altre terre della stessa provincia dirigeva le armi per il re Gherardo Curci soprannomato Sciarpa; già capo degli armigeri della udienza, congedato da quell’uffizio, ributtato quando egli chiese di servir la repubblica, e ingiuriato del nome di satellite della tirannide.

XII. Guerra più sanguinosa travagliava la Basilicata, combattendo quei popoli ciecamente; che l’essere governati a repubblica o a signoria non era sentimento ma pretesto a sfogare odii più antichi: vedevi perciò d’ambe le parti molte truppe, molti corpi, [p. 227 modifica]combattimenti giornalieri, stragi continue. Nelle quali domestiche sventure due casi avvennero degni di ricordanza. La piccola città di Picerno, che avea festeggiato con sincera allegrezza il mutato politico reggimento, assalita da’ borboniani sbarrò le porte; e ajutandosi del luogo, allontanò più volte gli assalitori. Sino a che, declinando le sorti universali della repubblica, torme più numerose andarono all’assedio; e fu agli abitanti necessità combattere dalle mura. Finita dopo certo tempo la munizione di piombo e consultato del rimedio in popolare parlamento, fu stabilito che si fondessero le canne d’organo delle chiese, poscia i piombi delle finestre, in ultimo gli utensili domestici e gl’istrumenti di farmacia; con i quali compensi abbondò il piombo come abbondava la polvere. I sacerdoti eccitavano alla guerra con devote preghiere nelle chiese e nelle piazze; i troppo vecchi, i troppo giovani pugnavano quanto valeva debilità del proprio stato; le donne prendevano cura pietosa de’ feriti; e parecchie, vestite come uomini, combattevano a fianco de’ mariti o fratelli; ingannando il nemico meno dalle mutate vesti che per valore. Tanta virtù ebbe mercede, avvegnachè la città non cadde prima che non cadessero la provincia e lo stato.

Presso a Picerno, in Potenza, città grande, oggi capo della provincia, era vescovo Francesco Serao, lo stesso rammentalo con debita lode nel secondo libro di queste istorie: il quale già travagliato per giansenista dalla santa sede, sostenuto in quel tempo dal re, ma poi, per mutata politica di governo, venutogli a tedio, era tenuto settario di repubblica e de’ Francesi. Cosicchè ai primi tumulti assalito nella casa vescovile, trovato in atto di preghiera innanzi alla croce, fu trascinato nella strada, ucciso, troncato del capo, e ’l capo in punta di lancia portato in giro per la città. Furono i manigoldi pochi di numero, diciassette, nessun plebeo. Un cittadino di Potenza, Niccolò Addone, ricco, fiero per natura, devoto della cristiana religione, amante di repubblica, ma occulto perchè temeva nelle dubbietà di quello stato arrischiare le sue ricchezze, quando vide lo spettacolo atroce, giurò vendicarlo: e nol potendo apertamente, usò d’inganni. Conciossiachè fingendosi borboniano, allegro della morte del vescovo, chiamò a convito gli uccisori, e, dopo lauta mensa e bevere trasmodato, tutti gli spense; nè già di veleno ma di ferro, e più col braccio proprio che de’ suoi fedeli, che pure a mensa o nascosti nella casa attendevano il comando della strage. Orrida scena, che spiacque a’ partigiani medesimi di repubblica; e l’Addone, ciò visto, fuggì di Potenza, e tenutosi lungo tempo ne’ boschi, si riparò in Francia. Anni appresso, perdonato di que’ misfatti per decreti del nuovo re Giuseppe Bonaparte, tornò in regno; e l’età nostra lo vide accusatore calunnioso di delitti di maestà, a [p. 228 modifica]pro de’ Borboni, e a danno di onesti cittadini. Nè fu punito; e vive ancora tra ricchezze avite, o mal tolte.

XII. Sommovevano le Puglie contro la repubblica quattro Corsi, de Cesare, Boccheciampe, Corbara e Colonna; de’ quali de Cesare era in patria servitor di livrea, Boccheciampe antico soldato di artiglieria e disertore, Colonna e Corbara vagabondi e viventi di male arti: tutti e quattro fuggitivi di Corsica per delitti; e da Napoli, per timor de Francesi, cercavano imbarco nei porti della Puglia per Sicilia o Corfù. E giunti a Montejasi, alloggiando per ventura nella casa del massaro Girunda, ingegnoso fabbro di brighe, concertarono sollevare i popoli a pro de’ Borboni, figurando Corbara il principe Francesco erede al trono; Colonna, il contestabile, suo cavaliero; Boccheciampe il fratello del re di Spagna; e de Cesare, il duca di Sassonia. Girunda, in quelle trame, sarebbe precursore, testimonio e tromba delle fallacie. Il vero principe Francesco era stato in Puglia, come dicemmo nel terzo libro. poco tempo innanzi; ma Girunda confidò nella credulità degli stolti, e ne’ guadagni che gli astuti trarrebbero da quelle scene. Concertate nella notte le parti, va Girunda, prima che il giorno spuntasse, a palesare per la città misteriosamente l’arrivo de’ principi e la fortuna di essere primi a seguirli. È creduto, e numeroso stuolo di plebe accorrendo alla piccola casa dove quei grandi alloggiavano, si offrono per grida guerrieri e servi. Esce il Colonna su la strada; rende grazie in nome del principe allo zelo de’ presenti, ma li accommiata. Il Girunda in quel tempo avea provveduto una carrozza, e nell’entrare in essa i quattro Corsi simularono riverenza al principe Francesco; il quale dicendo agli astanti: «Io mi abbandono in braccio de’ miei popoli»; e salutandoli benignamente, si chiuse in legno e partirono verso Brindisi.

Ne’ Corsi abbonda il talento di ventura; cosicchè adoperavano, secondo i casi, alterigia, magnanimità, grandezza di principi: si partivano da luoghi abitati prima del giorno, giugnevano all’entrar della notte, andava innanzi di molte miglia il Girunda a preparare alloggiamenti e credenze. E perciò mille bocche accertavano la presenza dei principi, ognun dicendo: «Io gli ho veduti»; ed aggiungendo, come suole nel racconto delle maraviglie, fatti non veri ma creduti. I successi avanzarono le speranze; popoli armati seguivano la carrozza, circondavano la casa degl’impostori, ed abbattendo i segni di repubblica, ristabilivano il regno. Il finto principe Francesco rivocava magistrati, ne creava novelli, vuotava le casse dell’erario, imponeva taglie gravissime alle case dei ribelli: obbedito più di vero principe perchè più ardito, e secondato da popolo pronto alle esecuzioni. L’arcivescovo d’Otranto che da lungo tempo conosceva [p. 229 modifica]il principe Francesco, e che l’anno innanzi in quella stessa città era stato seco alle cerimonie della chiesa e della reggia, oggi partecipe agl’inganni, ed egli medesimo ingannatore, accertò dal pergamo essere il presente quel desso, come che dopo un anno, per i travagli di guerra e di regno, apparisse mutato nell’aspetto.

Rivolsero quegl’impostori cammino verso Taranto, dove giunti videro approdare il vascello che portava in Sicilia le vecchie principesse di Francia, fuggitive da Napoli. Non ismarrirono gli audaci, ed il Corbara preceduto da imbasciate, rivelanti alle principesse i fatti maravigliosi di quella popolare credulità, andò con pompa regale e fidanza di parente a quelle donne; le quali, benchè superbe come ci stirpe regia borbonica, per giovare alla causa del re, accolsero da nipote quell’uomo abbietto; gli diedero titolo di altezza e gli prodigarono i segni di riverenza e di affetto. Così confermate le credenze de’ popoli, armi numerose adunaronsi per le parti regie, e gli stessi increduli, o i certi della impostura unendosi alla fortuna, tre province di Puglia ribellarono. Corbara, dopo ciò, desideroso di porre in salvo le male acquistate ricchezze, bandì ch’egli, portando seco il contestabile Colonna, andava in Corfù per tornare con poderose schiere di Russi; e che lasciava luogotenenti e generali nel regno il fratello del re di Spagna e ’l duca di Sassonia. Si partì. Uscito appena dal golfo, preso da pirati, perdè ricchezza e vita; il Colonna non mori, ma il suo nome scomparve. Boccheciampe, difendendo il castello di Brindisi da vascello francese, fu morto; e de Cesare condottiero fortunato di numerese torme, occupò senza guerra Trani, Andria, Martina, città grandi e forti, mentre le minori e la più parte delle terre Pugliesi, debellate dal grido, ubbidivano al re.

XIV. Rimane a dire delle Calabrie. Benchè lo stato di repubblica trovasse maggior numero di seguaci ne’ Calabresi, avidi forse di vendicare le patite ingiurie da feudalità più tiranna, o perchè nella ruvidezza de’ costumi e del vivere serbassero le virtù primitive di libertà, pure tenevano dalla parte del re innumerevoli cittadini; potendo affermare che i repubblicani dello stato intero stavano a’ contrari come il dieci al mille. I Borboniani calabresi spedirono al re nella vicina Sicilia fogli e legati per avvisarlo delle condizioni di quelle province, e pregarlo mandasse milizie, come che poche, ed armi assai, e personaggi di autorità, e leggi, e bandi per ajutare lo zelo delle genti già mosse; soccorresse il suo regno; impietosisse de’ suoi fedeli esposti alle vendette de’ nemici esteriori ed interni. Altri messi da Napoli e dalle Puglie accertavano i popolari tumulti, e la facilità di scacciare i Francesi, di opprimere i ribelli. Ma il re, fermo nella idea di tradimenti, non prestando fede a que’ fogli, ma credendoli nuovo inganno, confidava solamente nell’armi dei suoi [p. 230 modifica]alleati; egli nascondeva a sè medesimo i proprii torti; la regina ed Acton onestavano per il tradimento i falli di governo; Mack in un lungo scritto copriva i suoi mancamenti con quelli dell’esercito; i fuggitivi dal campo scusavano per lo stesso trovato le loro colpe; il capitano generale Pignatelli accusava traditori gli eletti della città, I Sedili, la più parte de’ nobili. Cosicchè non altro udivasi nella reggia che tradimenti, traditori, pene future e vendette.

Ma le vecchie principesse di Francia giunte in Palermo narrando le scene di Taranto dicevano vere e grandi le mosse popolari nella Puglia; mentre gli uffiziali inglesi, mandati sopra navi, esploratori delle nostre marine riferivano le cose istesse. Tenuto consiglio, fu deciso secondare quei moti; e poichè tra’ consiglieri mostravasi ardente per la guerra il cardinale Fabrizio Ruffo, il re gli diede carico di andare in Calabria ne’ feudi della casa; vedere, sentire lo stato della provincia, e secondo i casi avanzarsi nel regno o tornare in Sicilia; il grado, il nome, la dignità gli sarebbero ajuto all’impresa, e scudo contro la malvagità de’ nemici. Andò voglioso con pochi seguaci, meno danaro, autorità senza limiti, larghe promesse, Fabrizio Ruffo, nato di nobile ma tristo seme, scaltro per natura, ignorante di scienze o lettere, scostumato in gioventù, lascivo in vecchiezza, povero di casa, dissipatore, prese ne’ suoi verdi anni il ricco e facile cammino delle prelature. Piacque al pontefice Pio VI, dal quale ebbe impiego supremo nella camera pontificia; ma per troppi e subiti guadagni, perduto uffizio e favore, tornò dovizioso in patria, lasciando in Roma potenti amici acquistati, come in città corrotta, co’ doni e i blandimenti della fortuna. Dimandò al re di Napoli ed ottenne la intendenza della casa regale di Caserta; indi tornato nelle grazie di Pio, fu cardinale, andò a Roma, e là restò sino al 1798, quando per le rivoluzioni di Roma prese in Napoli ricovero, e poco appresso in Palermo seguendo il re.

XV. Giunto nel febbrajo di quell’anno 1799 al lido di Calabria, essendosi prima inteso coi servi e gli armigeri della sua casa, decorato della croce e de’ segni delle sue dignità, sbarcò in Bagnara dove fu accolto riverentemente dal clero e da’ notabili, e con pazza gioja dalla plebe. Divolgato l’arrivo e ’l disegno, accorsero da’ vicini paesi torme numerose di popolani guidate da gentiluomini e da preti o frati, che quendo videro andar capo un porporato non isdegnarono quella guerra disordinata e tumultuosa. Il colonnello Winspeare già preside in Catanzaro, l’auditore Angelo Fiore, il canonico Spasiani, il prete Rinaldi, e insieme a costoro numero grande di soldati fuggitivi o congedati, e di malfattori che poco innanzi correvano da ladri le campagne, e di malvagi usciti ne' tumulti delle carceri, si offrirono guerrieri per il re; ed il cardinale, viste le prime fortune, pubblicato il decreto che lo nominava [p. 231 modifica]luogotenente e vicario del regno. uscì di Bagnara circondato da stuolo numeroso e disonesto, col quale, senza guerra, soggettò per grido le città o terre sino a Mileto. Dicevasi che la forte città di Monteleone tenesse le parti di repubblica: ma intimata di cedere e minacciata di esterminio, riscattò la fama per denaro, cavalli, viveri ed armi. Stando il cardinale a Mileto, convocò quanti poteva vescovi, curati, altri cherici di grado, e antichi magistrati del re, e militari, e impiegati, e cittadini potenti per nome o ricchezza; ed esponendo i ricevouti carichi, la causa giusta del trono, santa della religione, bandì che i cittadini fedeli al re, devoti a Dio dovessero unirsi a lui, portando al cappello per insegna e riconoscimento la croce bianca e la coccarde rossa de’ Borboni; avrebbero oltre i premii celesti, le esenzione delle taglie fiscali per sei anni, e i guadagni della guerra sopra i beni de’ ribelli da quel giorno medesimo incamerati alla finanza regia, e su le taglie che sarebbero poste alle città o terre contrarie; abbattuti gli alberi infami della libertà, alzerebbero in que’ luoghi le croci; l’esercito si chiamerebbe della Santa Fede, per dir col nome l’obbietto sacro di quella guerra. E poscia processionando nella chiesa, e benedicendo ad alta voce le armi, progredì, non mai combattendo, sempre trionfatore, per Monteleone e Cutro, sopra Cotrone.

Cotrone, città debolmente chiusa, con piccola cittadella sul mare Ionio, era difesa da’ cittadini e da soli trentadue Francesi, che venendo d’Egitto, si erano là riparati dalla tempesta; ma comunque animoso il presidio, scarso d’armi, di munizioni e di vettovaglie, assalito da molte migliaja di borboniani, dopo le prime resistenze dimandò patti di resa; rifiutati dal cardinale, che non avendo danari per saziare le ingorde torme, nè bastando i guadagni poco grandi che facevano sul cammino, aveva promesso il sacco di quella città. Cosicchè dopo alcune ore di combattimento ineguale, perchè da una parte piccolo stuolo e sconfortato, dall’altra numero immenso e preda ricca e certa, Cotrone fu debellata con strage de’ cittadini armati o inermi, e tra spogli, libidini e crudeltà cieche, infinite. Durò lo scompiglio due giorni; e nella mattina che seguì, alzato nel campo altare magnifico e croce ornata, dopo la messa che un prete guerriero della Santa Fede celebrò, il cardinale, vestito riccamente di porpora, lodò le geste de’ due scorsi giorni, assolvè le colpe nel calore della pugna commesse, e col braccio in alto disegnando la croce, benedisse le schiere. Dipoi, lasciato presidio nella cittadella, ed a’ dispersi abitanti (avanzi miseri della strage) nessun governo e non altre regole che la memoria e lo spavento de’ patiti disastri, si partì per Catanzaro, altra città di parte francese.

Giunto a vista, inondando delle sue truppe le terre vicine, mandò ambasciata di resa. Ma Catanzaro, sopra poggio eminente, cinta di [p. 232 modifica]buone mura, popolosa di sedicimila abitatori, provveduta d’armi e preparata (per le udite sorti di Cotrone) a’ casi estremi, rispose ch’ella non mai ribelle, obediente alle forze della conquista francese come oggi alle più potenti della Santa Fede, tornerebbe volontaria sotto l’impero del re, a patto che i cittadini non fossero puniti nè ricercati delle opinioni e delle opere a pro della repubblica, e che le truppe della Santa Fede non entrassero in città, ma solamente i magistrali regii, guardati ed obbediti dalle milizie urbane. Così per pace. Sapesse il cardinale che per guerra seimila uomini armati morirebbero alle mura combattendo, prima di tollerare i danni e le ingiurie che aveva patite Cotrone. Per i detti Ruffo vide che la vittoria non sarebbe certa nè allegra; e simulando modestia, dicendo che i disordini di Cotrone derivarono dall’ardore delle sue schiere concitate da ostinata resistenza, concordò: che la città innalzerebbe la insegna de’ Borboni; e tornata sotto l’impero del re, obbedirebbe alle sue leggi e magistrati, che milizia urbana, composta da ministri regii, sarebbe la sola forza dell’autorità regale; che sarebbero occulte le opinioni de’ cittadini e rimesse le opere a pro della repubblica; non entrerebbero in città le truppe borboniche; Catanzaro pagherebbe per le spese di guerra dodici migliaja di ducati. La pace così stabilita fu mantenuta; e poichè tutta quell’ultima Calabria tornò al re, procedè il cardinale verso Cosenza.

XVI. Tal era nel finire del febbrajo lo stato interno della repubblica, mentre correvano lungo le marine legni siciliani ed inglesi, animando alle ribellioni, combattendo le città marittime fedeli al nuovo reggimento, e lasciando a terra uomini armati, armi, editti del re Ferdinando, e gazzette narratrici di fatti contrarii alla Francia. Perciocchè in quel medesimo tempo i Russi e Turchi, sopra potenti navigli, prese alcune delle isole Ionie, assediavano Corfù; e dicevano volgerebbero, compiuta quella impresa, in Italia. Nelson, lasciata la Sicilia, navigava nel Mediterraneo: molte città romane più vicine alla nostra frontiera combattevano per gli ordini antichi; cominciavano i tumulti di Arezzo nella Toscana; e poderoso esercito austriaco aspettava su l’Adige il cenno a prorompere. Sapevasi della Sicilia che diciottomila nuovi soldati accrescevano l’esercito del re; che il generale Stewart con tremila Inglesi presidiava la città di Messina; che si formavano a truppe i partigiani più caldi della monarchia per venire negli stati di Napoli ad accrescere la forza e l’ardimento dell’esercito della Santa Fede; e che sovrano e popolo erano accesi di barbaro sdegno contro i Francesi, come attestavano due fatti.

Nave con bandiera neutrale in quella guerra trasportava da Egitto in Francia cinquantasette infermi, tra’ quali il generale [p. 233 modifica]Dumas e Manscœur, il naturalista Cordier, altri personaggi di bel nome, e soprattutto il geologo Dolomieu, dotto, chiarissimo. La nave, battuta da tempesta, si riparò in Taranto, confidando nella bandiera e nella pace che in Egitto non sapevasi rotta. Ma caddero quelle fedi, perciocchè dominando in Taranto il Corso Boccheciampe fu trattenuta la nave, ed i Francesi e il Dolomieu, chiusi barbaramente in orrido carcere, ne uscirono per andare prigionieri a Messina; dove prevalendo l’ira di parte al rispetto della umanità e della fama, furono gettati in carcere più doloroso. Dolomieu, venuto per nuova infermità quasi a morte, richiesto al re di Sicilia dal governo di Francia, dalla società reale di Londra, dal re di Danimarca, dal re di Spagna due volte, e dal grido inorridito di tutti i sapienti di Europa, rimase in ergastolo; nè fu libero che per novelle vittorie dei Francesi, tra’ patti di pace con Napoli, nel ventesimo di prigionia; portando malattia sì grave che poco in età non piena di 51 anni.

Altra nove, pure salpata da Egitto, compagna di quella che parlava Dolomieu, colta dalla medesima tempesta si ricoverò nel porto di Agosta, per poi menare in Francia quarantotto tra soldati, uffiziali e amministratori militari, ciechi da malattia presa nel barbaro clima dell’Africa. Nè però quello stato miserevole, nè la riverenza che inspiravano le margini di onore su la fronte ai guerrieri, nè il pensiero che erano arrivati a quel porto travagliati dal mare, sopra nave sdrucita e riposando nella fedeltà dei trattati, bastarono a contenere la ferità degli Agostani che a torme armate sopra piccole barche, assalendo la nave, uccisero spietatamente que’ ciechi e inermi. I magistrati regii non impedirono la strage; nè il re, quando tornò in pace con la Francia, punì gli uccisori, dicendo a pretesto, che ne’ tumulti di popolo i rei confusi agl’innocenti sfuggono le pruove e le pene.

XVII. Tali e tante cose tristissime sapute da’ governanti della repubblica destarono la tardità di quegli animi, che, amanti di quieto vivere, rifuggivano dalle necessità di guerra e di castighi. Increduli alle prime nuove, poi confidenti negli incantesimi della libertà, dicevano che subito e senza l’opera della forza cesserebbero i moti della plebe inquieta perchè ignorante, ma certo pentita e pacifica sol che sentisse i benefizii del nuovo stato; cosicchè più potenti dei soldati e delle artiglierie sarebbero i discorsi, i catechismi, la eloquenza de’ commissarii. Ma finalmente, scossi da’ pericoli, andarono al generale supremo di Francia pregandolo a soccorrere la repubblica dagli sforzi del re antico, secondati da gente, infima invero, ma spaventevole per numero e atrocità. Esauditi, mossero due squadre di Francesi e Napoletani, una per le Puglie, l’altra per le Calabrie; avvegnachè gli Abruzzi, rattenuti dai posti francesi [p. 234 modifica]della linea di operazione tra Romagna e Napoli, e dalle fortezze di Civitella e Pescara, tumultuavano in se stessi con fortuna poca e varia. Le province di Avellino e di Salerno restavano soggiogate nel passaggio delle colonne di Puglia e di Calabria: la Basilicata, serrata dalle colonne istesse, quieterebbe. I nemici da sconfiggere erano dunque Ruffo e de Cesare.

Delle due colonne fu maggiore per numero ed arte quella di Puglia, onde presto ricuperare le province granajo impedite a mandar vettovaglie, da’ borboniani per terra, dagl’Inglesi per mare, all’affamata capitale. Il generale Duhesme fu eletto capo di quella schiera che numerava seimila Francesi, e mille o poco più Napoletani, retti da Ettore Caraffa, conte di Ruvo. Il quale, della nobile stirpe de’ duchi d’Andria, primo nato ed erede della casa, libero per natura, chiuso l’anno 1796 nelle prigioni di Sant’Elmo, fuggì con l’uffiziale che lo custodiva, e tornò in patria nello esercito di Championnet; dedito alle armi ed alle imprese più audaci, spregiatore de’ pericoli e di ogni cosa (uomini, numi, vizii, virtù) che fosse intoppo ai suoi disegni; strumento potentissimo di rivoluzione. L’altra schiera, quella destinata per le Calabrie, forte di miladuecento Napoletani, che sarebbe nel cammino afforzata de’ patriotti fuggitivi dal cardinal Ruffo, aveva per capo Giuseppe Schipani, nato Calabrese, militare dimesso dal grado di tenente, perspicace, ignorante, elevato all’altezza di generale della repubblica perchè settario caldissimo e valoroso. La prima schiera, soggiogate le Puglie, volgerebbe alle Calabrie; bastava che la seconda contenesse l’esercito dalla Santa Fede; cosicchè scopo dell’una era il vincere, dell’altra il resistere. Gli ordini scritti del governo palesavano l’animo pietoso de’ governanti, confidando più che nella guerra nella mostra dell’armi, nella modestia de’ capi, nella disciplina de’ soldati, nella magnanimità del perdono. Sensi sconvenevoli a repubblica nascente, che succede ad invecchiate pratiche di schiavitù.

Schipani, traversando Salerno ed Eboli, avvicinandosi a Campagna, Albanella, Cotrone, Postiglione, Capaccio, tutte città o terre amiche, vide bandiera borbonica sul campanile di Castelluccia, piccolo villaggio in cima di un monte al quale ascendesi per sentieri alpestri; e benchè gli fossero scopo la Calabria e ’l Cardinal Ruffo, egli preso di sdegno, volse cammino al paese ribelle; scegliendo delle tre strade, a scherno d’impacci, la più difficile. I borboniani dall’alto, vedendosi assaliti da milizie ordinate, con artiglierie trasportate sopra muli, trepidarono; e tenuto consiglio tumultuariamente nella chiesa, stabilivano di arrendersi. Ma colà stando a ventura il capitano Sciarpa, biasimata la codardia, disse che se fosse necessità cedere il luogo, si cedesse a patti di tornare volontari sotto l’impero della repubblica; ma vietando alle genti [p. 235 modifica]armate di entrare vincitrici nel villaggio, E poichè piacque il con siglio, e si diede a Sciarpa istesso il carico di eseguirlo, egli mandò a Schipani per pace; e a fin di vantare le forze del luogo, e tentar nuovamente le sue fortune, fece dire: «Che i cittadini volevano guerra, ma che li avea persuasi alla sommissione il capitano Sciarpa, non avverso alla repubblica, e pronto a darne pruova se lo impiegassero nelle milizie interne dello stato.» Quindi espose i patti. L’altro, che ad ascoltare impazientava, replicò essere venuto a Castelluecia per guerra non per pace; e a dar pene non premii: si arrendessero i ribelli a discrezione, o fossero preparati a sorti estreme. Sensi atroci, ed in guerra civile atrocissimi e stolti.

Riferiti que’ fatti al popolo adunato ancora nella chiesa, Sciarpa disse: «Or vedete gli effetti della codardia e del precipitato consiglio di arrendervi. Non vi ha per me che due partiti: se ripiglierete animo, io vi guiderò alla battaglia e alla vittoria; se vorrete darvi a vincitore superbo e spietato, e con voi le vostre robe e le vostre donne, io, per altra strada che tengo sicura, andrò con i miei a combattere in miglior luogo, tra miglior popolo.» Risposero gridando guerra; e appena il parroco dall’altare ebbe segnata la croce su le armi e benedetto il voto di combattere, tutti andarono contro al nemico, apprendendo da Sciarpa le parti e le regole della battaglia. Trattanto giungevano affaticati alle prime case del villaggio i repubblicani, e tolleravano grandine di archibusate da nemici non visti, nè però si arrestarono; ma dietro al generale (che tenendo in alto la spada gl’ incitava con l’esempio e la voce) stavano alla entrata della terra, dove infiniti colpi e molte morti, molte ferite, nessun nemico in aperto, abbatterono lo sterile coraggio di quella schiera; così che il capo, facendo sonare a raccolta, imprese a ritirarsi. Sbucarono allora dalle mura i nascosti guerrieri, e seguitando per la china i fuggitivi, altri ne uccisero, altri ne presero, e furono sopra i prigioni e i feriti crudeli come barbari. Schipani trasse le sue schiere scemate in Salerno; a Sciarpa crebbe animo e nome.

XVIII. Assai differenti dalle descritte furono le sorti della schiera di Puglia; la quale sottoponendo col grido le città forti e nemiche di Troja, Lucera e Bovino, accolta festivamente in Foggia città amica, rianimate Barletta e Manfredonia che tenevano per la repubblica, preparò gli assalti a Sansevero, popolosa, rinforzata da’ feroci abitanti del Gargano, con animi risoluti alla vittoria o alla morte. Quella città non ha mura, nè i difensori l’avevano munita di opere, confidando nel numero di dodicimila combattenti e nel valor disperato. Avean presso alle case, a cavaliero, piccolo poggio fitto di ulivi e di vigne: dove come ad imboscata disegnavano di nascondere ì più valorosi per menarli nella città quando il nemico, avaro e [p. 236 modifica]lascivo, andasse, come è costume, spicciolatamente in cerca di ricchezze e di piaceri. Il generale Duhesme che in Bovino aveva fatto punir con la morte i colpevoli della ribellione, e tre soldati francesi rei di furto, notificò quelle discipline in luogo di minacce o promesse agli abitanti di Sansevero. E costoro uccidendo alcuni partigiani di repubblica, o cittadini onesti, o sacerdoti, sol perchè pregavano la pace, avvisarono il generale di quelle crudeltà, chiamandole (ad esempio e a dileggio del suo scritto) discipline loro. E quindi, scoppiando lo sdegno in Dubesme, mosse il 25 di febbrajo contro Sansevero; e saputo, per ingegno di guerra o dalle spie, il disegno de’ borboniani, avviò forte squadra pier la sinistra del poggio, onde snidarli dagli oliveti; e nella vittoria che teneva certa, tagliar le strade alla fuga. I borboniani, per la opposta parte, divinando il pensiero del nemico, assai forti su la prima fronte per cannoni portati a braccia, e per numerosa cavalleria sciolta e scorritrice nel piano come Numida, uscirono in forza dal bosco, ed animosamente guerreggiando forzavano quella squadra francese a retrocedere.

Accorse in ajuto altra squadra, mentre Duhesme assaltò in gran giro la città con arti nuove a’ difensori; cosicchè sbaragliata la cavalleria, più molesta che forte, vinte le batterie, superato e cinto il poggio degli ulivi, fece sonare a vittoria e ad esterminio. Nel quale scompiglio de borboniani, compito dalla prima squadra l’ordinato movimento, e così tolte le strade al fuggire, finì la guerra, cominciò la strage; spietata, imperciocchè i Francesi vendicavano trecento commilitoni estinti; altrettanti almeno feriti, e le morti civili e le audaci risposte alle offerte di pace. Tremila di Sansevero giacevano sul campo e non finiva l’eccidio; quando le donne con capelli sparsi, e vesti lacere e sordidate, portando in braccio i bambini, si presentarono al vincitore pregando che soprastessero dall’uccidere, o consumassero il castigo meritato da città ribelle sopra i figli e le mogli de’ pochissimi uomini che restavano. Quello spettacolo di pietà e di miseria commovendo l’animo de’ Francesi, tornarono mansueti i vincitori, sicuri i vinti.

I fatti di Sansevero, come che bastassero a scoraggiare molte piccole terre della Puglia, confermarono alla guerra la città d’Andria e di Trani; avvegnachè rinforzate pei molti fuggitivi dalla battaglia, e fermate nella credenza che Sansevero fosse perduta per forza di tradimento: menzogna sempre usata dai fuggiaschi, sempre creduta dai partigiani. Il generale Duhesme, accresciuto da ottocento Francesi venuti dagli Abruzzi, disponevasi a procedere verso Andria; ed in quel mezzo giungevano al suo campo legati e statichi delle tre province di Puglia. Ma in Napoli mutato il comando dell’esercito da Championnet in Macdonald, e ’l senno e la idea di quella guerra, furono richiamate le schiere, fuorchè piccola mano lasciata [p. 237 modifica]in Foggia, e un grosso battaglione ad Ariano, altro ad Avellino, un reggimento a Nola. Giunta in quel tempo la nuova che i Turco-Russi stringevano da presso Corfù; e viste le navi di quelle due bandiere nell’Ionio e nell’Adriatico, rialzarono Trani ed Andria le speranze; le altre città o terre sottomesse dal grido della fortuna francese, oggi per grido di fortuna contraria tornavano borboniane; gli statichi, lasciati o fuggitivi, si facevano liberi. Solamente Sansevero benchè in animo sentisse maggiori stimoli di vendetta, scemata de’ più giovani e più prodi, abbrunato il popolo intero per le morti della battaglia, ed ogni casa, ed ogni zolla serbando i segni della strage, si tenne obbediente alle sue male sorti e addolorata.

XIX. A tale in breve si venne che bisognava tener perdute le Puglie, o riconquistarle. Adunata in Cerignola nuova squadra repubblicana, forte quanto la prima, sotto l’impero de generale Broussier con la medesima legione napoletana di Ettore Carafa, drizzò il cammino ad Andria. Andria, città popolosa, circondata di mura con tre porte, dopo il tristo fato di Sansevero accrebbe le difese, ristaurando la muraglia in più parti rovinata dal tempo, alzando nuove fortificazioni, sbarrando le porte, fuorchè una, e sfilando dietro ogni porta fosso largo ed alta trinciera. Diecimila borboniani la difendevano, soccorsi dagli abitatori ch’erano diciassette migliaia; i preti e i frati concitavano quelle genti con gli stimoli potenti della religione; e sopra vasto altare alzato nella piazza, avendo poggiato un crocifisso di grandezza più che umana, dicevano che al celebrare della messa ed alle sacre offerte, udivano dalla santa immagine che nessuna forza profana basterebbe ad espugnar la città, difesa dai cherubini del paradiso; e che presto giungerebbe in ajuto degli Andriani stuolo numeroso di altri soldati e di altri popoli. Le quali promesse si leggevano scritte a caratteri grandi in un foglio spiegato, messo in mano al crocifisso. E poichè il giorno innanzi della comparsa de’ Francesi giunse in città sopra legni corridori un battaglione di borboniani mnossi da Bitonto, e la nuova che Inglesi, Russi e Turchi arriverebbero tra pochi dì, si confermarono le predizioni; ed il popolo, fatto certo della vittoria, stava lieto, non timido della battaglia.

Il nemico, intorno ad Andria, spartì le forze in tre colonne quante le porte; e con le migliori arti di guerra minacciò, assalì, finse altri assalti alla città, la quale da’ ripari per colpi di cannoni e di archibugi teneva lontani gli assalitori. Ad un cenno del generale Broussier, tra suoni militari e romore di artiglierie avanzarono a corsa i repubblicani, e appoggiando alle mura le scale, impresero a montarle; ma sotto spari infiniti, e sassi, e moli che i difensori precipitavano dall’alto, tollerate molte morti e più ferite di guerrieri prodi e chiari nell’esercito. fu sonato a raccolta, e gli assalitori [p. 238 modifica]scherniti da’ motteggi de’ contrarii tornarono al campo. Volle fortuna de’ Francesi che in quel tempo per lo scoppio di un obice si aprisse la porta di Trani, contro la quale stava Broussier con la scelta de’ guerrieri, accorse ad essa; ma penetrando in città trovò guerra peggiore; fatta ogni casa un castello; e benchè in ajuto della prima colonna venisse per la stessa porta la seconda, stavasi incerto Broussier se procedere o trarsi fuora, quando si vide incontro Ettore Caraffa con la sua schiera, Napoletani e Francesi, i quali messi avanti la porta detta Barra, non riuscendo ad atterrarla, ed inteso il pericolo di Broussier, assalirono le mura con le scale, e trasandando lo scemar de’ compagni e le proprie ferite, entrarono nella città. Al quale assalto il colonnello Berger, gravemente trafitto su la scala facevasi spingere a montare; e fu visto Ettore Caraffa con lunga scala su la spalla, e in pugno banderuola napoletana e spada nuda, esplorar l’altezza de’ muri, cercando il luogo dove la scala giungesse; e trovato, ascendere il primo ed entrare primo e solo nella città. E sebbene tutto l’esercito fosse già in Andria, non finiva la guerra, essendo mirabile il valore de’ borboniani; tanto che dieci di loro, dentro debole casa, sostennero per molte ore gli assalti di forte battaglione francese, e altre prove dettero di non facile virtù. Soggiacque alfine la città d’Andria, feudo una volta. e allora pingue possesso di quel medesimo Ettore Caraffa che la espugnò, e diede avviso nel consiglio (maravigliosa virtù o vendetta) che si bruciasse. La quale sentenza seguita dagli altri, e comandata dal capo dell’esercito, tante morti, e danni e lacrime produsse che sarebbe a raccontarle troppa mestizia.

XX. Nè però sazie di sdegno le due parti, si accolse numero più grande di borboniani nella città di Trani; e andò contr’essa lo stesso esercito di Broussier, scemato di cinquecento almeno prodi guerrieri, morti o feriti ne’ fatti d’Andria. Più forte città era Trani per muraglie massicce e bastionate, molti cannoni, barche armate, schiere meglio agguerrite, difese concertate e cittadella. Andò Broussier in tre ordini, e investita nella notte la città, innalzò parecchie batterie come a far breccia; con assalti, due finti, uno vero da lui medesimo diretto; ma i difensori, scoperto il disegno, mandarono vuote le offese e le speranze. Combattevano dunque le due parti, una da’ muri vigilantissima ed operosa; l’altra di fuori aspettando gli accidenti della giornata, con divisamento giovevole a chi meglio conosce le arti della guerra, perciocchè spesso la propria virtù, ma più spesso i falli de’ contrarii ed il favore ben colto della fortuna guidano alla vittoria. E difatti per accidente fu espugnata la città; imperciocchè ad una punta di lei su la marina giace piccolo forte, quasi nascosto da scogli e muri, e mal guardato in quel giorno da’ meno validi cittadini; il qual forte fu scoperto da un soldato [p. 239 modifica]francese, che sperò di giugnervi camminando nel mare o nuotando. Palesò il pensiero ad alcuni compagni, ed in piccola mano, speranti gloria, vanno all’assalto. L’acqua giungeva al petto; ed eglino portando l’arme poggiata sul capo arrivano agli scogli, lì varcano, e rampicandosi per gli sdruciti dell’antica muraglia toccano la sommità del riparo senza esser visti dalle guardie, che però pagano con la morte la spensieratezza. Di quel successo altro soldato, lasciato a vedetta nel campo, avvisa il capo, e ad un cenno buona schiera va ed entra nel forte; nè già per le vie difficili del mare e degli scogli, ma scalando senza contrasto le mura. Intesi del pericolo corsero a folla i borboniani per riconquistare il perduto castello; ed i Francesi per arti e valore facevano vani gli assalti.

Così fervendo la guerra nella marina, divertiti i difensori e la vigilanza delle altre fronti, il generale Broussier comandò il secondo assalto alle mura; e felice (benchè molti morti e chiare patissero) entrò in città, dove il combattere fu sanguinoso terribile; avvegnachè più notevole a quei di Francia, percossi, senza quasi veder nemico, dalle case e di dietro le sbarre o le trinciere, avvisarono di montare su gli edifizii, coperti, come suole in Paglia, da terrazzi, e di varcare d’uno in altro rompendo i muri, o facendo di travi e di altri legni ponte al passaggio. Le condizioni mutarono; i difensori già sicuri nelle case, vedevansi sorpresi dal nemico sceso da’ terrazzi; e perciò, invalidate le fortificazioni e le poderose artiglierie della cittadella, trucidate le guardie dietro ai ripari, cominciò nuova specie di guerra che scorava gli animi, confondeva gli ordini delle difese; e annientando i preparati mezzi di resistenza, svaniva (nella impossibilità di combattere) la stessa intenzione di morir combattendo. Caddero l’armi di mano a’ cittadini: Trani fu presa, e ridotta per secondo esempio, non di castigo ma di furore, a cumuli di cadaveri e di rovine. Ettore Caraffa, espugnatore del fortino di mare, quindi della città, prode in guerra, crudele ne’ consigli, sostenne il voto ch’ella bruciasse.

XXI. Lasciato l’infausto luogo, le schiere procederono a Bari, Ceglie, Martina ed altre città o terre, animando le amiche, soggiogando le contrarie, imponendo sopra tutte taglie gravissime; però che univasi all’avidità delle genti straniere il bisogno del Caraffa, cui non era dato altro mezzo di mantenere i suoi guerrieri che per la guerra. E quando a lui, Pugliese, ricorrevano i deputati di alcuna comunità per far torre o scemare i tributi iniquamente imposti a città fedeli ed amiche, egli citava, in esempio di necessaria severità, Andria sua per suo voto bruciata; e se medesimo che donava alla patria le ricchezze della casa, la grandezza del nome, il riposo, la vita. Quella colonna francese nelle Puglie avea più volte battuto e disperso nell’aperto le truppe borboniane; per difetto del de Cesare [p. 240 modifica]loro capo, timido, ignorantissimo, cresciuto in domestica servitù dove non sorge virtù guerriera, o se, natura ne concede il germe, vi si spegne. Tante sventure e tante morti abbattendo l’animo delle parti regie, l’impero e i segni della repubblica tornarono in Puglia temuti e venerati. Ma come Duhesme così Broussier fu richiamato, entrambo implicati da Faypoult nello stesso giudizio di Championnet. Andarono capi di quelle schiere i generali Olivier e Sarraziu, con ordine di non avanzare nell’ultima provincia e tener le squadre così disposte da ridurle in Napoli al primo avviso.

Avvegnachè il generale Macdonald sospettava di non rimanere nella bassa Italia mentre nell’alta l’esercito francese precipitava di sinistro in sinistro. Erano mossi gli Austriaci e indietro i Russi; la battaglia di Magnano combattuta lungamente, sebbene grave a’ Tedeschi, avea forzato i Francesi, lasciato l’Adige, ad accampar dietro al Mincio, indi all’Oglio. Mantova investita, Milano minacciata; l’esercito di Scherer ridotto a trentamila combattenti, a petto di quarantacinque migliaja di Tedeschi e d’altre quaranta migliaja di Russi che succcedevano; gli eserciti francesi del Piemonte, di Toscana e di Napoli, lontani dalla Lombardia per guerre ingloriose contro de’ popoli. Così stavano le cose nella Italia, mentre i Turchi e i Russi, già espugnata Corfù e prese le isole Ionie e le già venete, volgevano alle marine italiane quaranta navi da guerra e trentadue mila soldati; e la plebe d’Italia odiando i Francesi perchè stranieri, portanti novità, e predatori, secondava i nemici loro, aspettando miglior libertà da genti del settentrione e da Turchi.

Peggio nello interno andavano le cose, avvegnachè nelle province, all’infuori della Puglia, le parti borboniane crescevano di forza e di ardire. Pronio e Rodio avevano restituite allo imperio dei re presso che tutte le città e terre degli Abruzzi; evitando gli scontri de’ Francesi, lasciandoli padroni e sicuri dove accampavano, ma tutto intorno rivolgendo i popoli di affetto e di governo. Mammone occupava Sora, Sangermano, e tutto il paese che bagna il Liri. Sciarpa, dominando nel Cilento, minacciava le porte di Salerno. E sopra tutti il cardinale Ruffo procedendo dall’ultima Calabria contro la città di Corigliano e Rossano, distaccò i capo-banda, Licastro sopra Cosenza, Mazza su Paola; sole città di quella provincia che tenessero ancora per la repubblica. Paola cadde, i partigiani di libertà si ripararono in Cosenza; a Cassano e Rossano furono dati per largo prezzo miseri accordi; sola Cosenza resisteva. Dirigeva le milizie un de Chiaro, eletto capo perchè ardentissimo di libertà; tremila Calabresi gli obbedivano; e la città benchè aperta, era munita da trincere, qua da case o poggi fortificati, e nel più vasto giro, dal fiume Crati, il quale con due rami quasi l’abbraccia e circonda: le armi, le vettovaglie, i proponimenti abbondavano. [p. 241 modifica]Ma quando più salde stavano le speranze, i borboniani entrarono senza guerra dov’era il de Chiaro con la maggior guardia; e de Chiaro dopo di aver sedotto con discorso e con l’esempio quante potè delle sue genti, guidando traditore i nemici contro gli altri posti, sottomise in poco d’ora la città. Fuggirono oltre il fiume alcuni de’ fedeli; ed aspettata per virtù d’armi la notte, altri per inospiti sentieri tra le montagne giunse alla marina ed imbarcò, altri affidandosi a vecchi amici, fu tradito, altri per favore del caso scampò.

Il cardinale, accresciuto della numerosa torma del de Chiaro, volse alla Puglia per buon consiglio di rianimare col grido del suo arrivo le parti regie, scorate da’ fatti che ho discorso; ignorante di guerra; sagacissimo ne’ civili sconvolgimenti, guidava la difficile impresa con fine ingegno; e perciocchè di crudeli, rapinatori e malvagi componevasi la sua schiera, la crudeltà, le rapine, i delitti cerano mezzi al successo. Molti vescovi e cherici di alto grado concertavano seco in segreto da lontani paesi le pratiche di rivoluzione; ed egli, secondo i casi spronava lo zelo; o, a vederlo prematuro e pericoloso, il ratteneva, sempre scrivendo con lo stile ecclesiastico, pietoso e doppio. Così pervenne a far noto nelle Puglie il vicino arrivo delle sue truppe; e quindi, rincorate le parti del re, il finto duca di Sassonia nelle ultime terre di Taranto e Lecce tornò alle armi.

XXII. Il cardinale movendo dalle Calabrie lentamente per dar agio alle rovine della repubblica di crescere, ed alla fama di narrarle, riduceva sotto il regio impero quel largo paese di Basilicata, bagnato dal maro Ionio, e che abbonda di biade e greggi, d’uomini e città. Nel qual tempo il generale Macdonald, richiamate dalla Puglia le schiere francesi, con tal arte nel cammino che apparisse scaltrimento di guerra non abbandono; ma il Corso de Cesare, come sentiva qualche terra vuotata da’ nemici, andava timidamente ad occuparla. Ed in quel tempo stesso tornando in Francia i legati della nostra repubblica, mandati ad ottenere formale riconoscimento e stringer lega per qualunque ventura, riportarono che il di rettorio aveva negato le inchieste, sotto varii colori che scoprivano il pensiero di abbandonare alle male sorti un paese travagliato amor della Francia sin dell’anno 1783, dalla Francia trasformate a repubblica, tributario di lei, impoverito per lei, ed ora da lei quasi rimesso nelle mani dell’antica tirannide: fato de’ popoli che si commettono alle genti straniere. Insieme a’ legati venne il commissario francese Abrial per ordinar meglio la repubblica napoletana; stando fra i pretesti del direttorio la cattiva forma politica datale da Championnet. Abrial era tenuto probo cittadino, amante di libertà, dotto delle ragioni dei popoli e della presente civiltà degli stati; bella fama che in Napoli accrebbe. [p. 242 modifica]

Egli compose il governo con le forme di Francia: potere legislativo commesso a venticinque cittadini, potere esecutivo a cinque, ministero a quattro. Egli medesimo elesse i membri de’ tre poteri, serbando molti degli antichi rappresentanti, aggiugnendo i nuovi, e mutandoli spesso con altri. Fu de’ nuovi il medico Domenico Cirillo, che avvisato, rispose: «È grande il pericolo, è più grande l’onore; io dedico alla repubblica i miei scarsi talenti, la mia scarsa fortuna, tutta la vita.» Il nuovo governo fu subito in ufficio con le regole costituzionali tratte dall’esempio di Francia e dal senno de’ governanti: non essendo ancora sancita, come che lungamente discussa, la costituzione che propose Mario Pagano; però data in esame al secondo congresso legislativo. Il quale, sciolto dalle sollecitudini di guidare lo stato, si volse con grande studio alle nuove leggi; codici, amministrazioni, finanza, feudalità, milizia, culto, pubblica instruzione; e poi alle magnificenze della repubblica, invitando gli architetti con gara d’ingegno alla formazione di un Panteon, dove si legessero primi con distinto carattere i nomi di de Deo, Vitaliani, Galiani; e decretando un monumento a Torquato Tasso nella sua patria di Sorrento; e disegnando, dove giacciono le ceneri di Virgilio, tomba più degna e marmorea.

XXIII. Mentre a tali cose di futura grandezza intendevano i rappresentanti della repubblica, intendeva il cardinal Ruffo alla espugnazione di Altamura, città grande della Puglia, forte per luogo e munimenti, fortissima per valore degli abitanti. Ma il porporato unito al Corso, e fatto audace delle gustate fortune, pose il campo a vista delle mura, e cominciò la guerra. I borboniani peggiorati in disciplina, miglioravano nell’arte, accresciuti di veterani e di uffiziali e soldati mandati da Sicilia, o venuti volontarii alle venture di quella parte; avevano cannoni, macchine di guerra, ingegneri di campo ed artiglieri; superavano d’ogni cosa l’opposta parte, fuorchè d’animo; così che gli assalti per molti dì tornando vani e mesti, crebbe lo sdegno degli assalitori e l’ardimento de’ contrarii. Vedevansi dalle mura nel campo le religiose cerimonie del cardinale, che, avendo eretto altare dove non giugnesse offesa, faceva nel mattino celebrar messa; ed egli, decorato di porpora, lodava i trapassati del giorno innanzi, vi si raccomandava come ad anime beate, e benediceva con la croce le armi che in quel gioruo si apparecchiavano contro alla città ribelle a Dio ed al re.

Dentro la quale città si vedevano altri moti e religioni, adoravano pur essi la croce ma in chiesa, si concitavano al campo con le voci e i simboli di libertà. Erano scarse le provvisioni del vivere, scarsissime quelle di guerra; e se la liberalità de’ ricchi e la parsimonia de’ cittadini davano rimedio all’una penuria, la guerra viva e continua accresceva il peso dell’altra. Fusero a projetti tutti i metalli [p. 243 modifica]delle case, mancò l’arte a liquefar le campane; ne’ tiri a mitraglia, non andando a segno le pietre, usarono le monete di rame; nè cessò lo sparo delle artiglierie che al finire della polvere; ed allora il nemico, avvicinate alle mura le batterie de’ cannoni ed aperte le brecce, intimò resa a discrezione. La quale andò negata, perciocchè non altro valeva (se la natura del cardinale non fosse in quel giorno mutata) che serbar molte vite degli assalitori, nessuna de’ cittadini; e morir questi straziati senza pericolo degli uccisori; e, privati d’armi e di vendetta, sentir la morte più dura. Perciò gli Altamurani difendendo le brecce col ferro, e con travi, e sassi, uccisero molti nemici; e quando videro presa la città, quanti poterono uomini e donne, per la uscita meno guernita, fuggendo e combattendo scamparono. Le sorti de’ rimasti furono tristissime; chè nessuna pietà sentirono i vincitori; donne, vecchi, fanciulli, uccisi; un convento di vergini profanato; tutte le malvagità, tutte le lascivie saziate; non ad Andria e non a Trani, forse ad Alessia ed a Sagunto (se le antiche istorie son veritiere) possono assomigliare le rovine e le stragi di Altamura. Quello inferno durò tre giorni; e nel quarto il cardinale, assolvendo i peccati dell’esercito, lo benedisse, e procedè a Gravina che pose a sacco.

XXIV. Più lente, non meno felici erano le bande di Pronio, Sciarpa, Mammone e di altri guerrieri di ventura, che tutto dì giravano con la fortuna; sì che non mai tanto poterono le ambizioni, nè tanti mancamenti si videro. Il cardinale accoglieva lieto i traditori, lodava le tradigioni, prometteva a maggior opera che giovasse (benchè fosse delitto) maggior premio; imperversarono allora i rei costumi del popolo. Le città repubblicane della Basilicata, valorosamente combattendo, si arresero a Sciarpa con patto di serbar vita, libertà e proprii beni sotto l’antico impero de’ Borboni; le province di Abruzzo, fuorchè Pescara e poche terre che i Francesi guardavano, e di Calabria e di Puglia erano tornate intere al dominio del re; nella sola Napoli, e in poca terra intorno stringevasi la repubblica. Il generale Macdonald, pregato a mandar soldati contro i ribelli, rispondeva che ragioni di guerra lo impedivano. Stavano anziosi non sconfidati i repubblicani, allorchè il generale, pigliando a pretesto la dechinante disciplina che in deliziosa città provano gli eserciti, annunziò che andrebbe a campo in Caserta; nascondendo le sventure d’Italia, e Scherer battuto più volte dagli Austro-Russi, e la battaglia di Cassano perduta da Moreau, e Milano presa da nemici, e il Po valicato ed occupate Modena e Reggio, e i popoli d’Italia, sconoscenti o adirati de’ patiti spogli, parteggiar co’ nemici della Francia. Ma la industria de borboniani, divolgando quegl’infortunii, palesava gl’inganni del generale francese; che però da varii sdegni commosso, bandì legge così: [p. 244 modifica]

«Ogni terra o città ribelle alla repubblica sarà bruciata e atterrata;»

«I cardinali, gli arcivescovi, i vescovi, gli abati, i curati, e in somma tutti i ministri del culto saranno tenuti colpevoli delle ribellioni de’ luoghi dove dimorano, e puniti con la morte;»

«Ogni ribelle sarà reo di morte, ogni complice secolare o cherico sarà come ribelle;»

«Il suono a doppio delle campane è vietato; dove avvenisse, gli ecclesiastici del luogo ne sarebbero puniti con la morte;»

«Lo spargitore di nuove contrarie a’ Francesi o alla repubblica Partenopea, sarà, come ribelle, reo di morte;»

«La perdita della vita per condannua porterà seco la perdita dei beni.»

Stando a campo in Caserta lesercito di Macdonald, sbarcavano da navi anglo-sicule alle marine di Castellamare cinquecento soldati del re di Sicilia e buona mano d’Inglesi; le quali genti, ajutate da’ borboniani e dalle batterie delle navi, presero la città ed il piccolo castello che sta in guardia del porto. Padroni del luogo, uccisero molti della parte contraria, e lo stesso presidio del forte, benchè di Francesi datisi per accordi. Corsero a quel romore i terrazzani dei paesi vicini, Lettere, Gragnano e i rozzi abitatori de’ monti soprastanti; Castellamare, città bellissima, stava dunque a sacco e a scompiglio. E nel tempo stesso un reggimento inglese e non piccoli turba di borboniani sbarcati presso a Salerno, presero quella città, rivoltarono a pro del re Vietri, Cava, Citara, Pagani, Nocera,. poco uccidendo, rapinando molto, e formando a truppe que’ tristi che accorrevano disordinatamente più al bottino che alla guerra.) I citati avvenimenti presso al campo francese, comunque invalidi n turbarne la sicurezza, ne oltraggiavano il nome ed il valore.

Il 28 di aprile il generale Macdonald con buona schiera, ed il generale Vatrin con altra non meno forte, andarono agli scontri del nemico. Lo trovò Macdonald in riva al Sarno, fortificata con trincieramenti e artiglierie; ma, raggirato fuggì, lasciando i cannoni e pochi uomini meno validi alla fuga. Il vincitore, procedendo, sottoposte le terre di Lettere e Gragnano, scese a Castellamare, dove Inglesi, Siciliani e molti di quelle parti fuggivano a folla su le navi. Flottiglia repubblicana uscita nella notte del porto di Napoli, valorosamente combattendo, benchè sfavorita dal vento che la spingeva sotto le fregate nemiche, impedì la fuga di molti, che venuti alle mani del vincitore furono morti o prigioni. Tre bandiere del re, diciassette cannoni, cinquanta soldati di Sicilia, molti borboniani, ira sfogata e bella fama di guerra furono il frutto della vittoria. Stavano i legni anglo-siculi lontani dal lido a vista della città, quando nella notte bruciavano la terra di Gragnano e parecchie case [p. 245 modifica]di Castellamare; incendii infami a chi li causò, a chi li accese, perchè non da mira di buona guerra ma da feroce insazietà di vendetta.

Il generale Vatrin, più spietato, uccise tre migliaja di nemici; non perdonò a’ prigioni se non militari di ordinanza; e serbò alcuni borboniani sol per farli punire da’ tribunali con tremenda esemplarità. Mandò in Napoli a trionfo quindici cannoni tolti in battaglia, tre bandiere, una del re Giorgio d’Inghilterra, due del re Ferdinando di Sicilia, e lunga fila di prigionieri siciliani, inglesi, napoletani. Le città rivoltate, tornando all’impero della repubblica, pagarono grosse taglie al vincitore.

XXV. Ma il giorno di abbandonare a se stessa la repubblica Partenopea essendo giunto, il generale Macdonald venne di Caserta in Napoli, ed a’ governanti adunati a riceverlo disse: non essere appieno libero uno stato se protetto dalle armi straniere, nè poter la finanza napoletana mantener l’esercito francese; nè di questo aver bisogno se la parte amante di libertà vorrà combattere le disgregate bande della santa fede. E perciò, ch’ ei lasciando forti presidii a Santelmo, Capua e Gaeta, si partirebbe col resto dell’esercito a rompere (sperava) i nemici delle repubbliche, scesi in Italia confidando meno nelle armi che nelle discordie italiane o nelle sue lunghe pratiche di servitù; e che facendo voti di felicità per la repubblica Partenopea riferirebbe al suo governo quanto il popolo napoletano era degno di libertà; che altro è popolo, altro è plebe; e questa sola non quello, sotto le bandiere del tiranno, combatteva per il servaggio, pronta ella stessa a mutar fede come gente ingorda di guadagni e di furto. E poi che i rappresentanti ebbero risposto sensi amichevoli ed auguranti, egli prese commiato e tornò al campo. Fu gioja (incredibile a dire) ne’ partigiani della repubblica, i quali, semplici e buoni, sembrando a loro impossibile che spiacesse ad uomini la libertà, credendo che le ribellioni e la guerra derivassero dalle soperchianze, le imposte, la superbia de’ conquistatori, andavano certi che al pubblicarne la partita si sciorrebbero le torme della santa fede, o pochi resti di quella parte fuggirebbero svergognati in Sicilia. Perciò dicevasi che il principe di Leporano, brigadiere negli eserciti regii, militante sotto il cardinale, disertata quella insegna, era passato a’ repubblicani, ed aveva imprigionato il suo capo; ed erano rimasti soli o con pochi Sciarpa, frà Diavolo, Pronio: ed altre simili a queste voci bugiarde.

Frattanto a’ dì 7 di maggio, levato il campo di Caserta, mosse l’esercito francese diviso in due; l’uno guidato da Macdonald per la via di Fondi e Terracina col gran parco di artiglierie e con le bagaglie, l’altro sotto Vatrin per Sangermano e Ceperano. E nel tempo stesso il generale Coutard comandante negli Abruzzi, raccolte le squadre, andava per le vie più brevi nella Toscana, confidando [p. 246 modifica]le fortezze di Civitella e Pescara ad Ettore Caraffa; il quale, tornando i Francesi dalla Puglia, era passato con le sue genti negli Abruzzi, Macdonald e Coutard procederono senza contrasto; Vatrin superò, combattendo, Sangermano; e giunto ad Isola, piccola terra presso a Sora, fu arrestato. Quella terra prende nome dal vero, imperciocchè due fiumi (fonti copiose del Garigliano) la circondano, ed a lei si giunge per ponti che i borboniani avevano rotti; cosicchè dietro i fiumi ed il muro di antica cinta stavano sicuri ed audaci. Vatrin mandò a parlamento per aver passaggio, ch’egli prenderebbe, se negato, con la forza dell’armi; ma i difensori, spregiando o non conoscendo le regole sacre dell’ambasceria, per colpi di archibugi scacciarono il legato. Erano i due fiumi inguadabili. cadeva stemperata pioggia, mancavano le vettovaglie a’ Francesi; divenne il vincere necessità. La legione Vatrin costeggiando la riva manca di un fiume, e la legione Olivier la diritta dell’altro, cercavano un guado; e non trovato, costrussero un ponte di fascine, di botti e di altri legni, debole, piccolo, non atto a’ carreggi di guerra ed all’accelerato passaggio di molte genti; e perciò mezza legione andando per il ponte ajutava con mani e con funi l’altra metà che a nuoto valicava; e tutta intera, passate l’acque, giunse a’ muri. Nè perciò paventarono i difensori.

Per antichi sdruciti e per operate rovine alle pareti delle case, i Francesi penetrarono in quella parte della terra che, traversata dallo stesso fiume e rotto il ponte, fu nuovo impedimento a’ vincitori. Ma la fortuna era con essi; i difensori non avevano demolite le pile, e stavano ancora le travi presso alle sponde. Ristabilito in poco d’ora il passaggio, cadute le difese e le speranze, fuggirono i borboniani, di poco scemati, e superbi di quella guerra e delle morti arrecate al nemico. Il quale sfogò lo sdegno su i miseri abitanti; e trovando nelle cave poderoso vino, ebbro d’esso e di furore, durò le stragi, gli spogli e le lascivie tutta la notte. Ingrossarono le piogge, e la terra bruciava; al nuovo sole, dov’erano case e tempii, furono visti cumuli di cadaveri, di ceneri e di lordure.

CAPO TERZO.


Dopo la ritirata dell’esercito francese precipizii della Repubblica.


XXVI. Non appena uscito dalla frontiera l’esercito francese, il governo della repubblica bandì l’acquistata indipendenza, e rivocando le taglie di guerra, scemando le antiche, numerando i benefizii civili che aveva in prospetto, consigliava e pregava di non più straziare la patria nostra, ma tornar tutti agli offizii di pace e al godimento che i cieli preparavano. E non pertanto sospettoso di effetti [p. 247 modifica]contrari alle speranze, provvide celeremente si bisogni di guerra; imperciocchè raccolse in legioni le milizie che andavano sparse in più colonne, coscrisse milizie nuove, diede carico al generale Roccaromana di levare un reggimento di cavalleria, ingrossò la schiera dello Schipani, formò due legioni, e le diede al comando de’ generali Spanò e Wirlz; Spanò calabrese, militare in antico, ma pei bassi gradi dell’esercito; Wirtz svizzero, stato colonnello agli stipendii del re, e, lasciato dopo la sua partita sciolto d’impegni e di giuramenti, per amore di libertà arrolatosi alle bandiere della repubblica. Poscia il direttorio fece capo supremo dell’esercito Gabriele Manthonè; lo stesso rappresentante, della repubblica nel primo statuto, e ministro per la guerra nel secondo; del quale avendo detto altrove alcun fatto, ora ne prosieguo la vita. Buono in guerra, di cuor pietoso, eccellente per animo ed arte nei duelli, d’ingegno non basso nè sublime, per natura eloquente. Quando ci propose al consiglio legislativo il decreto che alle madri orbate di figli per la libertà si desse largo stipendio ed onori, conchiudeva il discorso «Cittadini legislatori, io spero che mia madre dimandi l’adempimento del generoso decreto»; Morì per la libertà l’infelice, come dirò a suo luogo, ma senza i premii della legge, e non altro ebbe la madre che pianto.

Altra milizia si formò col nome di legione Calabra, senza uniformità d’armi e di vesti, nè stanze comuni, nè ordini di reggimento; truppe volontarie che ad occasione si univano per combattere solto bandiera nera con lo scritto: «Vincere, vendicarsi, morire.» Erano tre migliaja, Calabresi la maggior parte, avversi per genio al cardinal Ruffo, da lui vinti e fuggitivi, memori di avuti danni e ferite: incitati per tanti stimoli alla vendetta. Dell’esercito repubblicano volendo far mostra, fu schierato in più file nella magnifica strada di Toledo e nella piazza nazionale intorno all’albero della libertà, dove si vedevano giungere tra immenso popolo i membri del governo, i generali, il generale supremo Manthonè, quindi le artiglierie e le bandiere del re tolte nei combattimenti di Castellamare e Salerno, ed un fascio d’immagini della famiglia regale che la intollerante polizia aveva prese in argomento di colpa da certe case della città e nelle province; chiudevano il convojo due file di prigionieri, soldati e partigiani, i quali credendo che per pena ed esempio sarebbero stati in quel giorno e in quel luogo trucidati, andavano mestissimi e tremanti. Ardeva a fianco dell’albero un rogo, dove si divisava di bruciar le bandiere e le immagini.

H generale supremo parlò all’esercito, l’oratore del governo al popolo; e quando s’imponevano alle fiamme le odiate materie, i repubblicani le strapparono a furia di mano agli esecutori, e trascinate per terra e lordate, le ridussero a brani e dispersero. Poscia il [p. 248 modifica]ministro delle finanze mostrò grosso fascio di fedi bancali (un milione e seicentomila ducati), che in tanta povertà dello stato e in breve tempo la parsimonia della repubblica avea raccolto per iscemare di altrettanto il debito nazionale; le quali carte, gettate in quel rogo preparato da brama di vendetta, bruciarono per miglior divisamento. E finalmente, chiamati i prigionieri intorno all’albero, il ministro per la giustizia lesse decreto del direttorio, che dicendoli sedotti, non rei, offeriva a’ già soldati gli stipendii della repubblica, e faceva salvi i borboniani; cosicchè sciolte le catene, succedendo alla profonda mestizia gioja improvvisa, correvano quasi folli tra ’l popolo gridando laudi e voti per la repubblica; e gli astanti, affin di accrescere quelle allegrezze, soccorrevano la loro povertà esortandoli a riferire agl’ingannati concittadini la forza e la magnanimità del governo. Così ebbe fine la cerimonia; ma la festa durò lunga parte del giorno, danzando intorno all’albero, cantando inni di libertà, e stringendo, come in luogo sacro, parentadi ed accordi.

Quelle mostre di felicità furono brevi e bugiarde; però che al giorno seguente molte navi nemiche, bordeggiando nei golfo, davano sospetto che volessero assaltare la città per concitar tumulti nella plebe; così il governo comandò fossero armate le poche navi della repubblica, ristorate le batterie del porto, ed altre sollecitamente costrutte. Non appena divolgato il pericolo ed il comando, andarono i cittadini volontarii all’opera; e furono viste donne insigni per nobiltà, egregie per costumi, affaticare a quel duro lavoro le inusitate braccia, trasportando per parecchi giorni e sassi e terre; fu quindi il porto ben munito. Ed allora il nemico volse a Procida ed Ischia, isole del golfo, vi sbarcò soldati, uccise o imprigionò i rappresentanti e i seguaci della repubblica, ristabilì il governo regio, e creò magistrati a punire i ribelli. Si udirono le più fiere condanne, e il nome del giudice Speciale, nuovo, ma che subito venne a spaventevole celebrità.

XXVII. Giungevano fuggitivi alla città gli abitatori di quelle isole a pregare ajuti; e i repubblicani, più magnanimi che prudenti, stabilirono con pochi legni e poche milizie combattere il nemico assai più forte. Stava in Napoli, tornato con permissione dei re da Sicilia, l’ammiraglio Caracciolo, di chiaro nome per fatti di guerra marittima e per virtù cittadine; ebbe egli il comando supremo delle forze navali, ed il carico di espugnare Procida ed Ischia. Sciolsero dal porto di Napoli i repubblicani lieti all’impresa benchè tre contro dieci; e valorosamente combattendo un giorno intero, arrecarono molte morti e molti danni, molti danni e morti patirono; e più facevano, e stavano in punto di porre il piede nella terra di Procida, quando il vento che aveva soffiato contrario tutto il dì, infuriò nella sera, e costrinse le piccole navi della repubblica a tornare in porto; [p. 249 modifica]non vincitrici, non vinte, riportanti lode dell’audacia e dell’arte.

XXVIII. In Napoli frattanto le parti del re si agitavano in secreto, e, poco discorate dalla gioja e dalle apparenze de’ contrarii, ordivano potenti macchinazioni. Un venditore di cristalli, detto perciò il Cristallaro, aveva arruolato grosso stuolo di lazzari; che senz’amore di parte, ma per guadagni e rapine si giuravano sostenitori del trono. Altro capo, di nome Tanfano, dirigeva numerosa compagnia di congiurati, e concertava domestiche guerre co’ sovrani della Sicilia, col cardinale Ruffo, con gli altri capi delle bande regie; riceveva danaro e lo spartiva co’ suoi; aveva armi e mezzi di sconvolgimento; preparava le azioni e le mosse; lettere della regina lo chiamavano servo e suddito fedele, amico e caro al trono ed a lei. E qui rammento a quali uomini diffamati per delitti o per pene, fra Diavolo, Mammone, Pronio, Sciarpa, Guarriglia, ultima plebe, immondizia di plebe, i sovrani della Sicilia dichiaravano sensi di amicizia e di affetto. Sopra tutte le congiurazioni era terribile quella di Baker, Svizzero, dimorante in Napoli da lungo tempo, imparentato con famiglie divote a’ Borboni; divoto a loro egli stesso ed ambizioso. Il quale conferendo per secreti messi con gli uffiziali delle navi contrarie, stabilirono che in giorno di festa, quando è il popolo più ozioso ed allegro, flottiglia sicula e inglese tirerebbe a bombe su Napoli; e perciò accorrendo le milizie a’ castelli ed alle batterie del porto, lasciata vuota di guardie la città, sarebbe facile lo scoppio e la fortuna de’ preparati tumulti; in mezzo a’ quali ucciderebbero i ribelli al re, incendierebbero le loro case, si otterrebbe ad un punto vendetta e potere.

Così fermate le cose, andarono segnando in vario modo le porte e i muri delle case da serbare o distruggere, secondo era prescritto in quei nefandi concilii. E poichè sovente sotto lo stesso tetto e nella stessa famiglia dimoravano genti delle due parti, distribuirono secretamente alcuni cartelli assicuranti dalle offese. Uno fu dato dal capitano Baker, fratello del capo de’ congiurati, a Luigia Sanfelice della quale era preso di amore; e fidandole il foglio, con dirne l’uso, accennò il pericolo. Ammirabile carità per donna amata e a lui crudele; la quale, rendendo grazie, prese il cartello, ma non per sè, per darlo al giovine del suo cuore, che, uffiziale nelle milizie civili e caldo partigiano di repubblica, era certamente vittima disegnata della congiura. Fin qui amore guidò le azioni, ma indi appresso ira e ragion di stato; avvegnachè il giovine, Ferri, svelò al governo quanto ei sapeva della trama, presentò il cartello, disse i nomi; superbo per sè e per la sua donna di salvare la patria. La Sanfelice, chiamata in giudizio e interrogata di que’ fatti, vergognosa de’ palesati amori, della denunzia, de’ castighi che soprastavano, sperando alcuna scusa dalla pietà de’ giudici per la ingenuità de’ [p. 250 modifica]racconti, rivelò quanto aveva in cuore, solo nascondendo il nome di lui che le diede il cartello, e protestando con virile proposito morir prima che offendere ingratamente l’amico pietoso che volea salvarla. Ma bastarono le udite cose, e soprattutto la scrittura e i segni del cartello, a scoprire i primi della congiura, chiuderli nel carcere, sorprender armi, altri fogli; conoscere le fila della trama e annientarla. Stava la Sanfelice timorosa di pubblico vituperio, quando si udì chiamata salvatrice della repubblica, madre della patria.

AI manifestare di que’ pericoli fu grande il terrore, scuoprendo nelle porte delle case e ne muri note o segni, che, veri, o accidentali, erano creduti di esterminio; se ne vedevano negli edifizii pubblici, ne’ banchi dello stato, e nel palazzo vescovile con abbondanza. L’arcivescovo di quel tempo, cardinale Zurlo, già contrario al cardinal Ruffo, e divenuto dispettoso della fortuna, timoroso della potenza del nemico, indicandolo principal cagione delle sventure dello stato, e non colonna, come si vantava nelle pastorali, ma disfacitore e vergogna della religione e della chiesa, lo aveva segnato di anatema. Ed il cardinale Ruffo, ciò visto, scomunicò il cardinale Zurlo, come contrario a Dio, alla chiesa, al pontefice, al re. Si divisero le opinioni e le coscienze de’ cherici; ma stavano i pietosi ed i buoni con Zurlo, i tristi e i ribaldi con Ruffo.

Se non che, distrutta per lo abuso delle armi la potenza delle opinioni, niente altro valeva che la forza. Tutte le province obbedivano al re; la sola città e piccolo cerchio intorno a lei si reggeva in repubblica. Ettore Caraffa con piccola mano di repubblicani, dopo aver combattuto all’aperto, e provveduto largamente alle provvigioni di Pescara, stava ritirato nella fortezza; i Francesi non movevano da Santelmo, Capua, Gaeta; le schiere, della repubblica erano poche, le bande della santa fede innumerabili; avvegnachèè all’amore per il re si univano le ambizioni e i guadagni di causa vincente, la impunità di colpe antiche, il perdono a chi aveva seguita poi disertata la parte di repubblica. Sbarcarono in Taranto col maresciallo conte Micheroux intorno a mille fra Turchi e Russi, che uniti e ubbidienti al cardinale presero e taglieggiarono la città di Foggia, quindi Ariano, Avellino; e si mostrarono alla piccola terra detta Cardinale, ed a Nola. Mentre Pronio, che aveva arruolato sul confine di Abruzzo alcuni fuggitivi di Roma e di Arezzo, correva la campagna sino a vista di Capua; Sciarpa, richiamata alla potestà del re Salerno, Cava, e le altre città soggiogate poco innanzi da’ Francesi, stava col nerbo delle sue bande a Nocera; fra Diavolo e Mammone, uniti nelle terre di Sessa e Teano, aspettavano il comando a procedere. Le genti che assalivano la inferma repubblica erano dunque Napoletani, Siculi, Inglesi, Romani, Toscani, Russi, Portoghesi, Dalmati, Turchi; e nel tempo stesso correvano [p. 251 modifica]i mari del Mediterraneo flotte, l’une all’altre nemiche, e potentissime. La francese di venticinque vascelli, la spagnuola di diciassette, la inglese di quarantasette, in tre divisioni; la russa di quattro, la portoghese di cinque, la turca di tre, la siciliana di due, e delle sette bandiere che ho indicate, le fregate, i cutter, i brick erano innumerabili. Stavano da una parte Francesi e Spagnuoli, settanta legni; stavano dalla opposta novanta o più. Si aspettava in Napoli per le promesse del direttorio francese la flotta gallo-ispana.

XXIX. Acciò le amiche navi arrivassero in porto sicuro ed utilmente alla repubblica, bisognava respingere o trattenere le truppe borboniane, che grosse venivano a stringere la città. Tenuto consiglio per la guerra, il generale Matera, napoletano, fuggitivo in Francia l’anno 1795, tornato in patria capo di battaglione, fatto generale della repubblica, valoroso ne’ combattimenti, sciolto di morale e di coscienza, propose adunare in un esercito le milizie sparse in più colonne, accresciute di mille Francesi dei presidii delle fortezze, promessi a lui dal capo Megèan a patto e prezzo di mezzo milione di ducati; forti perciò le squadre della repubblica per numero e per arte, andar con esse ad assalire la banda maggiore del cardinal Ruffo, distruggerla; imprigionare, se fortuna era propizia, il porporato; e quindi volgere alle bande di Pronio, Sciarpa, Mammone, che troverebbero debellate prima dal grido che dalle armi. Stessero chiusi a guardia dei castelli i partigiani di repubblica; la città corresse la fortuna delle fazioni, sino a che le medesime squadre repubblicane, vincitrici nella campagna, tornassero a lei per il trionfo, ed a castigo dei ribelli. La povertà dell’erario non faceva intoppo al disegno; che se il governo (il generale diceva) mi fa padrone della vita e de’ beni di dodici ricche persone che a nome disegnerò, io prometto deporre in due giorni nelle casse della finanza il mezzo milione per l’avido Megèan, ed altri trecento mila ducati per le spese di guerra. Cittadini direttori (conchiudeva), cittadini ministri e generali; alcune morti, molti danni, molte politiche necessità che gli animi deboli chiamano ingiustizie, andrebbero compagne o sarebbero effetti de’ miei disegni, e la repubblica reggerebbe; ma s’ella cadrà, tutte le ingiustizie, tutti i danni, morti innumerabili soprasteranno.

Inorridivano a quel discorso i mansueti ascoltatori: lasciar la città, le famiglie, i cittadini alla foga ed alle rapine de’ borboniani; concitare a delitti per poi punire; trarre danaro senza legge o giustizia per forza di martorii da persone innocenti; crear misfatti crear supplizii, erano enormità per gli onesti reggitori di quello stato disapprovate dal cuore, dalla mente, dalle pratiche lunghe del vivere e del ragionare. Cosicchè tutti si unirono alla sentenza del ministro Manthonè; il quale, inesperto delle rivoluzioni, [p. 252 modifica]misurando dal valor proprio il valore dei commilitoni, magnanimo, giusto, diceva che dieci repubblicani vincerebbero mille contrarii; che non abbisognavano i Francesi, però che andrebbe Schipani contro Sciarpa, Bassetti contro Mammone e frà Diavolo, Spanò contro de Cesare, egli medesimo contro Ruffo; e resterebbe in città ed in riserva il generale Wirtz con parte di milizie assoldate, con tutte le civili, e la legione calabrese. Mossero al dì seguente Spanò e Schipani.

XXX. Questi giunse alla Cava ed accampò: l’altro battuto ne boschi tra le strette di Monteforte e Cardinale, tornò in città scemo d’uomini, disordinato, con esempio e spettacolo funesto. Quindi Schipani, assalito giorni appresso, nelle deboli ale della piccola schiera, senza retroguardo e senza speme di ajuto, pose il campo su le sponde del Sarno. Il generale Bassetti, che uscì fuori in quei giorni, teneva sgombera di nemici la strada insino a Capua. Restavano ancora in città con le milizie del generale Manthonè le altre tumultuariamente coscritte; e si sperava nella legione di cavalleria che il generale Roccaromana levava, come ho detto innanzi, a nome e spese della repubblica. Ma la speranza cadde e si volse in cordoglio, avvegnachè il duca, visti i precipizii della repubblica, presentò con se medesimo le formate schiere al cardinal Ruffo, e militò sino al termine di quella guerra per la parte borbonica. Dura necessità di chi scrive istoria è il narrar tutti i fatti degni di ricordanza, o grati, o ingratissimi allo scrittore: da che gli uomini apprendano non ischivarsi il biasimo delle opere turpi che per sola oscurità di condizioni o per rara ventura; non bastando a nasconderle il mutar de’ tempi, o le generose ammende, o gli affetti amichevoli di chi narra, perciocchè altri libri e memorie attestano la nascosta o trasfigurata verità; ed il benevolo silenzio non giovando all’amico, nuoce alla fede de’ racconti.

XXXI. Vedevasi la città piena di lutto; scarso il vivere, vuoto l’erario, e per fino mancanti di ajuto i feriti. Ma due donne, già duchesse di Cassano e di Popoli, e allora col titolo più bello di madri della patria, andarono di casa in casa raccogliendo vesti, cibo, danaro per i soldati e i poveri che negli spedali languivano, Potè l’opera e l’esempio: altre pietose donne si aggiunsero; e la povertà fu soccorsa. Ma dechinava lo stato: il cardinal Ruffo pose le stanze a Nola, e le sue torme campeggiavano sino al Sebeto; le altre di frà Diavolo e di Sciarpa si mostrarono a Capodichina; non cerano computate quelle genti, perciocchè vaganti e volontarie, passando d’una in altra schiera, coprivano la campagna disordinate e confuse; ma dicevi a vederle che non meno di quaranta migliaja costringevano la città. Schipani assalito e vinto sul Sarno, passò al Granatello, piccolo forte presso Portici; Bassetti tornò respinto [p. 253 modifica]e ferito in Napoli, Manthonè con tre mila soldati giunse appena alla Barra; e dopo breve guerra soperchiato da numero infinito, percosso da’ tetti delle case, menomato d’uomini, tornò vinto. Tumultuava la città; messi di Castellamare annunziarono che per tradimento bruciava l’arsenale; ma poi seppesi che, sebben vera la iniquità, fu l’incendio, per zelo delle guardie e per venti che spiravano propizii, subito spento. Si udivano in città nella notte gridi sediziosi, e serpevano spaventevoli nuove di preparate stragi e di rovine.

Bando del governo prescrisse che al primo tiro del cannone dal Castelnuovo i soldati andassero alle loro stanze, le milizie civili agli assegnati posti, i patriotti a’ castelli della città, i cittadini alle proprie case; che al secondo tiro, numerose pattuglie corressero le strade per sollecitare la obbedienza a que’ comandi; e al terzo, fossero i contumaci dalle pattuglie medesime uccisi stando il delitto nella disobbedienza, la pruova nello incontro per le vie, la giustizia nella salute della repubblica. Poscia tre nuovi tiri del castello, non come i primi a lungo intervallo ma seguiti, annunzierebbero la facoltà di tornare alle ordinarie faccende. Provato il bando nel seguente giorno, fu L’effetto come la speranza, grande il terrore, deserte le vie, mestissima la faccia della città: città vasta e vuota è come tomba.

Schiere ordinate di Russi e Siciliani, secondate da stormi borbonici, assalirono in quel giorno medesimo, 11 di giugno, il forte del Granatello intorno al quale attendevano le milizie di Schipani, mille uomini o poco meno, soccorsi da navi cannoniere che l’ammiraglio Caracciolo guidava con animo ed arte ammirabile. Il campo non fu espugnato; il generale restò ferito, menomarono i soldati; accampò l’oste nemica incontro al forte. Cosicchè nella notte, disposti d’ambe le parti gli assalti e le difese, il generale Schipani avendo stabilito di ritirarsi nella città, inviò tacitamente ai primi albori numerosa compagnia di Dalmati alle spalle de’ borboniani, che, però sorpresi e sconcertati, diedero a Schipani opportunità di uscir dal campo, combattere, spingerli sino alla chiesa parocchiale di Portici, e aver certa ritirata sopra Napoli. Ma in un subito que’ Dalmati spauriti o sedotti nella mischia, mutando fede e bandiera, si unirono a’ Russi; ed accerchiando la piccola tradita schiera dei repubblicani, dopo molte morti e ferite, arrecate, sofferte, la presero prigione.

XXXII. Ma il cardinale procedeva lentamente per meglio stimolare all’aspetto di ricca città le avide voglie delle suo turbe alle quali avea promesso licenza e sacco, e per aspettare il dì festivo già vicino di sant’Antonio; avvegnachè per i miracoli del sangue praticati in grazia di Championnet, di Macdonald, del direttorio [p. 254 modifica]napoletano, caduta la credenza della plebe da san Gennaro, bisognavano al porporato altre religioni ed altro santo. E perciò al primo raggio del 13 di giugno, alzato nel campo l’altare, celebrato il sagrifizio de’ cristiani, ed invocato sant’Antonio patrono del giorno, fece muovere contro la città tutte le torme della santa fede; stando lui a cavallo col decoro della porpora e della spada, in mezzo alla schiera maggiore, intesa a valicare il piccolo Sebeto sul ponte della Maddalena. Alle quali mosse, mossero incontro i repubblicani; prima sparando dal Castelnuovo i te tiri del cannone per tener le vie della città sgombere di genti, e salve dalle insidie de’ nemici interni.

Il generale Bassetti con piccola mano correva il poggio di Capodichina, minacciando, per le viste più che per l’armi, l’ala diritta della immensa torma che avanzava ne’ fertili giardini della Barra. Il generale Wirtz con quanti potè raccogliere andò sul ponte, vi stabilì poderosa batteria di cannoni, e munì di combattenti e di artiglierie la sponda diritta del fiume: i castelli della città restarono chiusi co’ ponti alzati. La legione Calabra, divisa in due, guerniva il piccolo Vigliena, forte e batteria di costa presso l’edifizio de’ Granili; e pattugliava nella città per impedire le insidie interne, e per ultimo disperato ajuto alla cadente libertà. I partigiani di repubblica, vecchi o infermi, guardavano i castelli; i giovani e i robusti andavano alla milizia, o formati a tumultuarie compagnie, o volontarii e soli a combattere dove li guidava sdegno maggiore o fortuna. I Russi assalirono Vigliena, ma per grandissima resistenza bisognò atterrare le mura con batteria continua di cannoni; e quindi Russi, Turchi, borboniani, entrati nel forte a combattere ad armi corte, pativano, impediti e stretti dal troppo numero, le offese de’ nemici e de’ compagni. Molti de’ legionarii calabresi erano spenti; gli altri feriti, nè bramosi di vivere; cosicchè il prete Toscani di Cosenza capo del presidio, reggendosi a fatica perchè in più parti trafitto, avvicinasi alla polveriera, ed invocando Dio e la libertà, getta il fuoco nella polvere, e ad uno istante con iscoppio e scroscio terribile muojono quanti erano tra quelle mura, oppressi dalle rovine, o lanciati in aria, o percossi da sassi: nemici, amici, orribilmente consorti. Alla qual pruova d’animo disperato trepidò il cardinale, imbaldanzirono i repubblicani, e giurarono d’imitare il grande esempio.

Con tali augurii stava Wirtz sul ponte, Bassetti su la collina, e uscì dal molo con lance armate l’ammiraglio Caracciolo; il cardinale co’ suoi avanzava. Cominciata la zuffa, morivano d’ambe le parti; ed incerta pendeva la vittoria, stando sopra una sponda numero infinito, e su l’altra virtù estrema e maggior arte. Tra [p. 255 modifica]guerrieri sciolti e volontarii andava Luigi Serio avvocato, dotto, facondo, guida un tempo ed amico all’imperatore Giuseppe II, come ho rammentato nel precedente libro; ma contrario al re Borbone per sofferta tirannide, bramoso anzi di morte che paziente alla servitù. Egli avendo in casa tre nipoti, per nome de Turris, giovani timidi e molli, allo sparo della ritirata lor disse: «Andiamo a combattere il nemico»; ed eglino, mostrando la età senile di lui, la quasi cecità, la inespertezza comune alla guerra, la mancanza delle armi, lo pregavano di non esporre a certa ed inutile rovina sè e la famiglia. Al che lo zio: «Ho avuto dal ministro della guerra quattro armi da soldati e duecento cariche. Sarà facile cogliere alla folta mirandola da presso. Voi seguitemi; se non temeremo la morte, avremo almeno innanzi di morire alcuna dolcezza di vendetta.» Tutti andarono. Il vecchio per grande animo e natural difetto agli occhi non vedendo il pericolo procedeva combattendo con le armi e con la voce. Morì su le sponde del Sebeto; nome onorato da lui quando visse con le muse gentili dell’ingegno, ed in morte col sangue. Il cadavere, non trovato nè cercato abbastanza, restò senza tomba; ma spero che su questa pagina le anime pietose manderanno per lui alcun sospiro di pietà e di maraviglia.

XXXIII. Al dechinare del giorno ancora incerta era la fortuna su le sponde del piccolo fiume, quando il generale Wirtz, colpito e stramazzato da mitraglia, lasciò senza capo le schiere, senza animo i combattenti; ed al partir di lui, su la bara moribondo, vacillò il campo, trepidò, fuggì confusamente in città. Ed allora i borboniani ed i lazzari, dispregiando il divieto di autorità cadente, uscirono dalle case per andare armati contro la schiera del Bassetti; la quale, saputo la morte del Wirtz, la perdita del ponte ed il campo fugato, si ritirò, aprendosi varco fra le torme plebee, nel Castelnuovo. Qui già stavano riparati e in atto di governo i cinque del direttorio, i ministri, e parecchi del senato legislativo; gli altri uffiziali o partigiani della repubblica si spartirono, secondo variar di senno, tra i castelli, le case, i nascondigli, o a drappelli armati nell’aperto. Molti che andarono al forte di Santelmo, ributtati dallo spietato Megèan, accamparono sotto le mura e nel vasto convento di San Martino. Caracciolo combattè dal mare per molta notte; e poi che i nemici si allontanarono dalla marina, tornò al porto. E mentre tali cose di buona guerra si operavano, due fratelli Baker e tre altri prigioni già condannati dal tribunale rivoluzionario furono archibugiati, come in segreto, sotto un arco di scala del Castelnuovo; supplizio crudele perchè nelle ultime ore del governo, senza utilità di sicurezza o di esempio. Non bastò il tempo, e fu ventura a più estesi giudizii contro a’ congiurati col Baker. La città intanto priva di muri e di munimenti, sgombera de’ repubblicani, [p. 256 modifica]e già piena de’ contrarii, alzò grida di evviva per il re; ma le milizie assoldate, e quanto si poteva di truppe della santa fede restarono fuori, tenute dal cardinale (non per carità della patria) per tema che le tenebre ajutassero preparate insidie del nemico. Voci dunque di gioja e luminarie, adulatrici o prudenti più che sincere, festeggiavano il ristabilito impero; e tiri di cannone da’ castelli, o disperate uscite de’ repubblicani turbavano le feste, uccidevano i festeggianti. Tetra notte per le due parti fu quella del 13 di giugno del 1799.

XXXIV. Al seguente mattino assalito e preso dai Russi il forte del Carmine, vi morirono uccisi repubblicani e soldati, ed all’alzare della bandiera borbonica su Ja torre, furono volte, sparando a guerra ed a festa, le artiglierie al Castelnuovo ed alle trinciere del molo. Pose le stanze il cardinale a’ Granili, accamparono le milizie ordinate della santa fede nelle colline che soprastanno alla città; le torme sciolte vennero al promesso spoglio delle case, e quante commettessero prede, atrocità, uccisioni dirò in altro luogo. Dalla opposta parte i repubblicani si affaticarono in quel primo giorno a munire le fronti offese del Castelnuovo ed a sbarrare alcune strade della città, così che fossero ancora in repubblica i tre castelli Nuovo, dell’Uovo, Santelmo, il palazzo, la casa forte di Pizzofalcone, l’ullima punta dell’abitato detta Chiaja. Durarono le batterie nei seguenti giorni; alcuni repubblicani disertando si girarono al re, il comandante del castello di Baja invitò i Siciliani ad impadronirsene, due uffiziali fuggiti dal Castelnuovo furono visti alzar trinciere contro quel forte che dovevano per sacramento difendere; ma di cotesti colpevoli taccio i nomi, perchè pochi ed oscuri più nocquero alla propria fama che alla repubblica; o perchè in tanti mutamenti di stato le tradigioni grandi e felici hanno coperto le minori, sì che oggidi la fede, il giuramento, i debiti di cittadino, le religioni di settario sono giuochi di astuzia, nutriti dal dispotismo, cui giovano tutte le bassezze della società più corrotta, di modo che il censo progressivo de’ vizii e delle virtù civili dal 1799 sin oggi mostrerebbe quell’anno il tempo meno tristo del popolo napoletano: tanto di mese in mese i pubblici costumi degradarono.

Assalita la piccola rocca di Castellamare da batterie di terra e di vascelli siciliani ed inglesi, non cedè che a patti di andare il presidio libero in Francia, ciascuno portando i beni mobili che voleva, e lasciando sicuri nel regno possedimenti e famiglie. Il sotto ammiraglio inglese Foote sottoscrisse per le parti regie il trattato; e poscia il presidio, apprestate le navi, fu menato a Marsiglia. Nella guerra della città una stoltizia de’ borboniani, altra de’contrarii generarono pericolo gravissimo. Dal castello del Carmine tiravano per ignoranza palle infocate contro i saldi muri del Castelnuovo; ed una, [p. 257 modifica]fermata in piccola slanza su la cortina, apprese il foco a certi legni che antichi ed oliati rapidamente bruciarono. Sorgeva quella casetta presso il bastione della marina, e stava in seno a questo la polveriera piena di polvere e di artifizii. Non potevano quelle fiamme fuggenti verso il cielo comunicar sotterra fuoco, scintilla, o calor grave; ma si eccitò tanta paura e tumulto che il presidio minacciava sforzar le porte del castello e fuggirne; o se alcuno calmar voleva le agitate fantasie lo credevano disperato di vivere, uccisore crudele delle sue genti; il Toscani di Vigliena, sino allora di eroica fama, era citato in esempio di ferità. Cosiechè tutti, sapienti, insipienti posero mano all’opera, solleciti come soprastasse l’incendio della polveriera; e benchè lontana la fonte, fatto perenne il getto d’acqua per catena d’uomini, fu spento il fuoco, Ma tra mezzo allo scompiglio, il nemico, visto fumo d’incendio nel castello e rallentato lo sparo de’ cannoni, si appressò alla via detta del Porto, e gettando parecchie granate alla porta della darsena la incendiò; aprì un varco al castello, ed entrava se avesse avuto maggior animo e miglior arte. Corsero i repubblicani al rimedio, e tumultuariamente sbarrarono quello ingresso.

XXXV. Era concertata per la notte la uscita de’ repubblicani da San Martino e de’ castelli dell’Uovo e Nuovo per distruggere batteria di cannoni alzata nella marina di Chiaja. Non erano i Francesi con loro perchè Megèan già negoziava col cardinale il prezzo del tradimento, e i repubblicani, sospettandone, gli nascondevano le mosse e le speranze. Al battere della mezzanotte, ora fissata ad uscire, muovono le tre partite, e quanti incontrano soldati della santa fede spietatamente uccidono, perciocchè il far prigioni era danno al segreto ed alle piccole forze della impresa; vanno tanto sospettosi che due avanguardi credendosi nemici, si azzuffano; ma ratto scoprendosi, e commiserando insieme la morte di un compagno, giurano vendicarla su i nemici. Procedono, sorprendono ed uccidono le guardie della batteria, inchiodano i cannoni, bruciano i carretti e tornano illesi a’ loro posti, disegnando altre sortite e giurando di morire nei campi. Il romore della pesta, i lamenti e i gridi alla uccisione de’ borboniani, annunziando pericolo, ma incerto, nel campo russo, nei campi della santa fede e nelle stanze del cardinale, tutti batterono allarme, tenendo schierate le truppe sino al giorno, mentre il codardo porporato divisava tirarsi addietro di molte miglia.

E pensieri più aspri lo agitavano. Null’altro sapevasi della flotta gallo-ispana fuor che navigava nel Mediterraneo; e benchè flotte maggiori e nemiche girassero nel mare istesso, era incerto lo scontro, e negli scontri la fortuna de’ combattimenti. Molte città sospiravano ancora la repubblica; e delle città regie parecchie si [p. 258 modifica]scontentavano per la crudeltà delle genti della santa fede. Le promesse dei premii cadevano; menomavano le torme, però che i meno avari, saziata l’avidità, volean godere vita oziosa e sicura. E finalmente avendo a fronte gente animosa e disperata, il cardinale temeva per sè e per gli statichi (tra quali un suo fratello) custoditi nel Castelnuovo. Nelle veglie angosciose di quella notte, decise mandar legati al direttorio della repubblica per trattar di pace; e a giorno pieno, meglio computate le morti e i danni della sortita, le fughe, lo sbalordimento ne’ suoi campi, uditi a consiglio i capi delle truppe e i magistrali del re, tutti proclivi agli accordi, inviò messaggio a Megèan con le proposte di accomodamento convenevole a’ tempi, alla dignità regia ed a causa vinta. Gli ambasciatori di Ruffo ed un legato di Megèan riferirono quelle profferte al direttorio della repubblica.

XXXVI. Qui erano maggiori e più giuste le inquietudini; ma l’offerta di pace le consolò, altri credendo diserzioni o ribellioni nei campi della santa fede, altri vittorie francesi nella Italia, ed il maggior numero vicina e vincitrice la Gallo-Ispana. Risposero che a governi liberi non era lecito concedere o rigettare senza consultazioni, che il direttorio consulterebbe. Frattanto a preghiere del legato di Megèan fu concordato armistizio di tre giorni; ed il ministro Manthonè, al partire degli ambasciatori, disse a’ borboniani che se il cardinale nella tregua non sapesse frenare le sue genti, egli uscendo dal forte impedirebbe le crudeltà, le rapine, il sacco infame della città. Rimasti soli consultavano; e a poco a poco dubitando delle immaginate felicità, inchinavano gli animi agli accordi. Manthonè, solo fra tutti, proponeva partiti estremi e generosi, pari al suo cuore, non pari alle condizioni della repubblica. Oronzo Massa generale di artiglieria, chiamato a consiglio e dimandato dello stato del castello, rispose il vero così: «Siamo ancora padroni di queste mura perchè abbiamo incontro soldati non esperti, torme avventicce, un cherico per capo. Il mare, il porto, la darsena son del nemico, l’ingresso per la porta bruciata è inevitabile, il palazzo non ha difese dalle artiglierie, la cortina verso il nemico è rovinata, infine, se mutate le veci io fossi assalitore del castello saprei espugnarlo in due ore.» Replicò il presidente: «Accettereste voi dunque la pace?» «A condizioni, rispose, onorate per il governo, sicure per lo stato, l’accetterei.»

Si consumava la tregua, la Gallo-Ispana non appariva, le forze repubblicane menomavano per diserzioni, dechinavano di proponimenti. Nella seconda notte fu rifatta la distrutta batteria di Chiaja, ed altra nuova se ne formò nella via del Porto; ma per lamentanze e minacce del direttorio, sospese le opere, il cardinale accertò che se al dì vegnente non si fermava la sperata pace, egli farebbe [p. 259 modifica]abbattere quelle trincere alzate, non per suo comando, per foga dei soldati. I repubblicani riconsultando, passate a rassegna e cadute le speranze maggiori, prolungar l’assedio sino all’arrivo degli ajuti stranieri, o vincere all’aperto, o farsi varco tra nemici per unirsi ai Francesi di Capua; vedendo facile il morire, impossibile la vittoria; e volendo serbar sè stessi e mille e mille ad occasioni più prospere per la repubblica, distesero in un foglio le condizioni di pace, ed elessero negoziatore lo stesso general Massa che aveva sostenuto nei congressi la opinione per gli accordi. Oronzo Massa, di nobile famiglia, ufficiale nei suoi verdi anni di artiglieria, volontariamente ritirato quando il governo, l’anno 1795, volse a tirannide, si offrì soldato alla repubblica, e fu generale; facondo, intrepido e di sensi magnanimi. A mal grado accettò il carico, ed uscendo dalla casa del direttorio, incontrando me, che scrivo, nella piazza del forte, mi disse a quale uffizio egli andava, soggiugnendo: «I patti scritti dal direttorio sono modesti, ma il nemico per felicità superbo non vorrà concedere vita e libertà ai capi della repubblica; venti almeno cittadini dovranno, io credo, immolarsi alla salute di tutti, e sarà onorevole al direttorio ed al negoziatore segnare il foglio dove avremo pattovite per il vivere di molti le nostre morti.»

XXXVII. Convennero nella casa del cardinale i negoziatori. E poichè il direttorio avea dichiarato che non confiderebbe nel solo re Ferdinando e nel suo vicario, fu necessità unire al trattato i condottieri de’ Moscoviti e de’ Turchi, l’ammiraglio della flotta inglese, il comandante Megèan. Parvero al cardinale troppo ardite le dimande de’ repubblicani; ma per i discorsi del general Massa, non audaci, sicuri, e per i proponimenti terribili ch’egli svelava, usar degli statichi alle maniere antiche, abbattere, bruciare le case della città, ripetere l’eroismo di Vigliena in ogni castello, in ogni edifizio, dechinò la superbia del porporato; il quale, mormorando co’ suoi ch’egli avrebbe rimproveri dal re se trovasse in rovina Napoli sua, chiese che tolti dal trattato i concetti e le parole oltraggiose alla dignità regale, scenderebbe a’ preteti patti. E aderendo il general Massa, fu scritta la pace in questi termini:

«1°. I castelli Nuovo e dell’Uovo, con armi e munizioni, saranno consegnati a’ commissarii di S. M. il re delle due Sicilie e de suoi alleati l’Inghilterra, la Prussia, la Porta Ottomana.»

«2°. I presidii repubblicani de’ due castelli usciranno con gli onori di guerra, saranno rispettati e garentiti nella persona e ne’ beni mobili ed immobili.»

«3°. Potranno scegliere d’imbarcarsi sopra navi parlamentarie per essere portali a Tolone, o restare nel regno, sicuri d’ogni inquietudine per sè e per le famiglie. Daranno le navi i ministri del re.» [p. 260 modifica]

«4°. Quelle condizioni e que’ patti saranno comuni alle persone de’ due sessi rinchiuse ne’ forti, a’ prigionieri repubblicani fatti dalle truppe regie o alleate nel corso della guerra; al campo di San Martino. »

«5°. I presidii repubblicani non usciranno dai castelli sino a che non saranno pronte a salpare le navi per coloro che avranno eletto il partire.»

«6°. L’arcivescovo di Salerno, il conte Micheroux, il conte Dillon e ‘l vescovo di Avellino resteranno ostaggi nel forte di Santelmo sino a che non giunga in Napoli nuova certa dell’arrivo a Tolone delle navi che avranno trasportato i presidii repubblicani. I prigionieri della parte del re, e gli ostaggi tenuti ne’ forti andranno liberi dopo firmata la presente capitolazione.»

Seguivano i nomi di Ruffo e Micheroux per il re di Napoli, di Foote per la Inghilterra, di Ballie per la Russia, e di....1 per la Porta; e per la parte repubblicana, di Massa e Megèan.

XXXVIII. Ne’ dì seguenti furono apprestate le navi. Un foglio del cardinale invitò Ettore Caraffa conte di Ruvo a cedere le fortezze di Civitella e Pescara alle condizioni de’ castelli di Napoli; ed un suo editto da vicario del re, bandiva esser finita la guerra, non più avere il regno fazioni o parti, ma essere tutti i cittadini egualmente soggetti al principe, amici tra loro e fratelli; volere il re perdonare i falli della ribellione, accogliere per fino i nemici della bontà paterna; e perciò finissero nel regno le persecuzioni, gli spogli, le pugne, le stragi, gli armamenti. Ma pure taluni, o veggenti o increscevoli del reggimento borbonico, vennero a dimandare imbarco; e su le navi ch’erano preste, imbarcarono. Del campo di San Martino pochi rimasero in città, molti andavano in Francia; e cosi uscendo da’ castelli coi pattoviti onori, i due presidii si spartirono tra ’l rimanere (ed erano pochi) e il partire. Non mancava dunque a salpare che il vento, sperato propizio nella notte.

Quando visto il mare biancheggiar di vele fu creduto l’arrivo della Gallo-Ispana; e perciò tra i repubblicani imbarcati scoppiò cordoglio comune, e rimproveri vicendevoli; andò più alto la fama di Manthonè, il quale aveva sempre biasimato la resa de’ castelli, e chiamato viltà in qualunque infima sorte darsi schiavo al nemico, quasi mancasse la libertà del morire; ma erano quelle navi dell’armata di Nelson, che arrivò al golfo prima che il sole tramontasse. Nella notte levatosi favorevole vento a navigare per Francia, i preparati legni non salparono, ed al vegnente giorno, mutando luogo nel porto, andarono sotto al cannone del castel dell’Ovo, tolto i [p. 261 modifica]timoni e le vele, gettate le ancore, messe le guardie, trasformate le navi a prigioni, di che gl’imbarcati, maravigliando e temendo, chieste spiegazioni all’ammiraglio Nelson, il vincitore di Aboukir non vergognò cassare le capitolazioni, pubblicando editto del re Ferdinando che dichiarava: «I re non patteggiare co’ sudditi; essere abusivi e nulli gli atti del suo vicario; voler egli esercitare la piena regia autorità sopra i ribelli.» E dopo quel bando andarono alle navi commissarii regii per trarne i disegnati (ottantaquattro) che a coppie incatenati, e a giorno pieno per le vie popolose della città, furono menati con spettacolo misero e scandaloso alle prigioni di quei medesimi castelli ch’essi poco innanzi, ora gl’Inglesi guernivano. Altri degli imbarcati non eccitando, per la oscurità de nomi e de’ fatti, la vendetta di que’ superbi, o bastando a vendetta l’esilio, andarono su le navi medesime a Marsiglia. Il conte di Ruvo, cedute le fortezze di Pescara e Civitella, e venuto con altri parecchi del presidio ad imbarcarsi, com’era statuito nei patti della resa, furono menati spietatamente nelle carceri. Alle quali pruove di crudeltà e d’ingiustizia, i borboniani, i lazzari, le torme della santa fede, già impazienti e sdegnosi de’ trattati e degli editti di pace del cardinale, ora scatenati tornarono alle mal sospese ferità; ed il Ruffo, timoroso di que’ tristi e della collera del re, taceva o secondava.

XXXIX. Cederono l’un dietro l’altro solto finte di assedio, Santelmo, Capua, Gaeta. Comandava Santelmo, come innanzi ho detto, il capo di legione francese Megean che da più giorni mercanteggiava la resa del castello; ed è fama non contraddetta che l’avidità di lui, scontentata dalle tenui offerte di Ruffo, si volgesse per patti migliori agl’Inglesi; ma, ributtato, fermò col primo; e stabilirono:

Rendere il castello a S. M. siciliana e suoi alleati; esser prigioniero il presidio, ma tornando in Francia sotto legge di non combattere sino al cambio; uscir dal forte con gli onori di guerra; consegnare i sudditi napoletani, non a’ ministri del re, ma degli alleati.

Ed al seguente giorno, consegnato il castello, uscendone il presidio, furono visti i commissarii della polizia borbonica correre le file francesi, scegliere e incatenare i soggetti napoletani; e dove alcuno sfuggiva la vigilanza di que’ tristi, andar Megean ad indicarlo. Erano uffiziali francesi, benchè nascessero nelle Sicilie, Matera e Belpulsi; e pur essi vestiti della divisa di Francia, furono dati a sbirri di Napoli. I ministri de’ potentati stranieri, come che presenti, tacevano; mancando a’ patti della resa, i quali ponevano que’ miseri nella potestà degli alleati. Era tempo d’infamie. [p. 262 modifica]

Cedè, poco appresso, come io diceva, la fortezza di Capua, indi Gaeta. Le condizioni furono le medesime di Santelmo; lo scandalo minore; avvegnachè non erano tra le file francesi, o si nascosero, i mal augurati soggetti del re delle due Sicilie. Imbarcarono i Francesi; e sopra tutte le rocche sventolava la bandiera de’ Borboni; comandava il regno, luogotenente del re, il cardinal Ruffo; le città, le terre, i magistrati gli obbedivano. Tutto dunque cessò della repubblica, fuorchè, a maggior supplicio degli animi liberi, la memoria di lei e lo spavento de’ presenti tiranni.




  1. Manca nell’originale. Carlo Botta dice, Kerandy per la Russia, Bonieu per la Porta. (Editore.)