Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro III/Capo III
Questo testo è completo. |
◄ | Libro III - Capo II | Libro IV | ► |
CAPO TERZO.
Guerra sventurata contro la repubblica francese. Moti nel regno. Fuga del re. Vittoria e trionfo dell’esercito di Francia.
XXXI. Il governo di Napoli scopertamente operava perchè confederazione contro la Francia erasi stretta in Europa, ed egli teneva prefissa e pronta la guerra, I sovrani d’Inghilterra, d’Austria, di Russia, delle Sicilie, vedendo scemate in Italia le squadre francesi chiamate all’esercito del Reno o trasportate in Egitto, e sapendo lontano l’uomo invitto, formarono nuovi eserciti a più vasti disegni. Muoverà il Tedesco in Lombardia sessantamila combattenti, e dietro il Russo; Napoli quarantamila, navilio inglese correrà i mari d’Italia; la Gran-Brettagna fornirà gli alleati di danaro, armi e vestimenti. Si aspettava per le mosse che il più crudo verno fosse passato.
Napoli nel settembre del 98 aveva fatta nuova leva di quaranta mila coscritti, con modi tanto solleciti che non per volere di sorte o di legge si toglievano i cittadini alle comunità, i figli alle famiglie, ma per arbitrio de’ ministri e per necessità di tempo; perciocchè senza preparamenti o scrutinio, in un sol giorno, due di quel mese, ogni comunità dovea fornire otto uomini per mille anime; dalla quale fretta derivarono infinite fraudi ed errori, infinite scontentezze o lamenti. Ogni coscritto, ricordando le patite ingiustizie, tenevasi vittima dell’altrui forza; e parendogli che nessun dovere, nessun sacramento, nessun fatto giusto l’obbligasse alla milizia, solo vi stava per timor della pena. I nuovi coscritti uniti agli antichi soldati empievano l’esercito di sessantacinque mila combattenti, soperchi per le fermate alleanze, non anco bastevoli a’ concetti. E a tante squadre mancando il condottiero, venne d’Austria il generale Mack, noto per le guerre di Germania dalle quali, benchè perdente, usci accreditato di sapienza nell’arte e di valore nelle battaglie. Onorato dal re, da’ cortigiani e dall’esercito, rassegnò le schiere spicciolatamente, senza percorrere la frontiera; però ch’ei mirava non alle difese, alle conquiste; conferì per le idee principali della guerra col generale Parisi, per la fanteria col generale de Gambs, per la cavalleria co’ principi di Sassonia e di Philipstadt, per l’artiglieria col general Fonseca; i pochi suoi detti passavano da labbro a labbro, ammirati come responsi di oracolo. Accertò il re avere esercito pronto ad ogni guerra; e fu creduto.
XXXII. La regina irrequieta volea prorompere negli stati romani, agevolata dagl’Inglesi, che tenaci alla guerra, temevano il congresso già convocato a Rastadt per la pace. Stava perciò in Napoli sin dal settembre il barone di Awerveck confidente di Pitt, viaggiatore oscuro ma potentissimo, amico a Repnin ministro di Prussia, a Metternich di Austria; motore tra i primi delle discordie nelle conferenze di Rastadt, consigliere all’orecchio de’ nostri principi. Il re, nel quale intiepidiva l’amore di quiete, da che l’ira e i timori lo avevano alquanto allontanato dal grossolano vivere nei piaceri, chiamò consiglio per decidere o guerra o pace; e, se guerra, il tempo e il modo. Divise le sentenze, furono per la pace il marchese del Gallo, il ministro de Marco, i generali Pignatelli, Colli, Parisi; ma prevalendo l’autorità della regina, di Acton, di Mack, di Castelcicala, fu deciso far guerra e subita, retta dal general Mack, dissimulata sino alle mosse. Allora si spartì l’esercito in tre campi: attendarono in Sangermano ventiduemila soldati, negli Abruzzi sedicimila, nella pianura di Sessa ottomila; stavano altre sei migliaja nelle stanze di Gaeta, e navi da trasporto pronte a salpare per Livorno. Comandava il primo campo il general Mack, il secondo il general Micheroux, il terzo il general Damas; dirigeva la spedizione preparata in Gaeta il general Naselli. Cinquantadue mila combattenti aspettavano il cenno a prorompere negli stati romani; ma era il capo straniero e nuovo; erano i generali stranieri ancor essi o inabili alla guerra, gli uffiziali inesperti, i soldati se allora coscritti, scontenti; e se antichi, peggiori, perchè usati alle male discipline di milizia sfaccendata o ribalda; gli usi di guerra nessuni, l’ordinarsi negli alloggiamenti, preparare il cibo, ripararsi dalle inclemenze delle stagioni, provvedere al maggior riposo, e, in somma, tutte le arti del miglior vivere, necessarie al sostegno delle forze, non praticate, nè conosciute ne’ campi. L’amministrazione mal regolata ingrandiva i disordini, le distribuzioni incerte, il giungere dei viveri non misurato co’ bisogni, sì che spesso vedevi l’abbondanza dove mancava chi la consumasse, e presso a lei la penuria. Nello esercito serpeva potentissimo veleno e secreto; diffidenza scambievole de’ minori e de’ capi. Le milizie stanziate in Abruzzo furono spartite in tre campi; sul Tronto, all’Aquila, a Tagliacozzo. Nel campo di Sangermano erano continui gli esercizii d’armi; e benchè in autunno piovosissimo sopra terreno fangoso e molle, si fingevano gli assalti e le difese come in guerra. Stavano in quel campo il re preparato a marciare con l’esercito, la regina che sopra quadriga con abito di amazone correva le file de’ soldati, gli ambasciatori de’ re amici, altri forestieri famosi o baroni del regno, e lady Hamilton, che sotto specie di corteggiar la regina, faceva nel campo mostra magnifica di sua bellezza e pompeggiava la gloria di aver vinto il vincitore di Aboukir, il quale nel carro istesso mostravasi di lei e vago e servo. Nè si stava oziosi negli alloggiamenti di Sessa e di Gaeta. Ma l’opera continua ed accelerata non poteva su la brevità del tempo; uomini coscritti nel settembre, venuti per forza nell’ottobre, muovevano alla guerra ne’ primi del novembre; sì che le braccia incallite a ruvidi esercizii della marra non rispondevano alle destrezze dell’armi.
I Francesi dalla opposta parte, quando videro gli apparecchi del re di Napoli, disposero la guerra, così che la frontiera fosse linea difensiva; centro in Terni, estrema diritta in Terracina, estrema sinistra in Fermo; l’ala manca assai forte da resistere, l’ala diritta solamente osservatrice; pronta meno a combattere che a ritirarsi, principale scopo il raccogliersi, e mantenere sicure le strade che menano in Lombardia. I nuovi consigli dagli eventi.
Così certa o non intimata la guerra, l’ambasciatore di Francia dimandò ragione delle vedute cose al governo di Napoli, che ancora fingendo rispose: tener guardata la frontiera napoletana perchè quella di Roma era ingombera di soldati francesi; stare ne’ campi le nuove milizie per istruirsi; egli bramar sempre pace con la repubblica. Ma giorni appresso, il 22 di novembre, comparve manifesto del re, che rammentando gli sconvolgimenti della Francia, i mutamenti politici della Italia, la vicinanza al suo regno de nemici della monarchia e del riposo, l’occupazione di Malta feudo de’ re di Sicilia, la fuga del pontefice, i pericoli della religione; per tante ragioni e tanto gravi, egli, guiderebbe un esercito negli stati romani, a fine di rendere il legittimo sovrano a quel popolo, il capo alla santa sede cristiana, e la quiete alle genti del proprio regno. Che non intimando guerra a nessun potentato, egli esortava le milizie straniere di non contrastare alle schiere napoletane, le quali tanto oltre avanzerebbero quanto solamente richiedesse lo scopo di pacificare quella parte d’Italia. Che i popoli di Roma fossero presti a’ suoi cenni, ed amici; sicuri nella sua clemenza, egli promettendo di accogliere con paterno affetto i traviati che tornassero volontarii all’impero della giustizia e delle leggi.
Così il manifesto. Lettere secrete de’ ministri del re concitavano gli altri gabinetti d’Italia o i personaggi più arrischiati alle nemicizie ed alla guerra. Delle quali lettere una del principe Belmonte Pignatelli, scritta al cavaliere Priocca ministro del re del Piemonte, intercetta e pubblicata, diceva tra le cose notabili: «Noi sappiamo che nel consiglio del re vostro padrone molti ministri circospetti, per non dire timidi, inorridiscono alle parole di spergiuro e di uccisione; come il fresco trattato di alleanza tra la Francia e la Sardegna fosse atto politico da rispettare. Non fu egli dettato dalla forza oppressiva del vincitore! non fu egli accettato per piegare all’impero della necessità? Trattati come questi, sono ingiurie del prepotente all’oppresso, il quale, violandoli, se ne ristora alla prima occasione che il favor di fortuna gli presenta, Come, in presenza del vostro re prigioniero nella sua capitale, circondato da bajonette nemiche, voi chiamerete spergiuramento non tener le promesse strappate dalla necessità, disapprovate dalla coscienza? E chiamerete assassinio esterminare i vostri tiranni? Non avrà dunque la debolezza degli oppressi alcuno ajuto legittimo dalla forza che gli opprime?» E poco appresso: «I battaglioni francesi, assicurati e spensierati nella pace, vanno sparsi per il Piemonte. Eccitate il patriottismo del popolo sino all’entusiasmo ed al furore; così che ogni Piemontese aspiri all’onore di atterrare a’ suoi piedi un nemico della sua patria. Queste parziali uccisioni più gioveranno al Piemonte che fortunate battaglie; nè mai la giusta posterità darà il brutto nome di tradimento a cotesti atti energici di tutto un popolo, che va su i cadaveri degli oppressori al racquisto della sua libertà.
I nostri bravi Napoletani, sotto il prode general Mack, soneranno i primi la campana di morte contro i nemici de’ troni e de’ popoli; saranno forse già mossi quando giugnerà in vostre mani questo foglio....»
XXXIII Tai sensi atroci esponeva quel foglio, e già bandito il manifesto di guerra, le milizie napoletane, levando i campi proruppero negli stati di Roma. Il generale Micheroux con dieci mila soldati, valicato il Tronto, fugando dalla città di Ascoli piccolo presidio francese, avanzava per la strada Emilia sopra Fermo. Il colonnello Sanfilippo con quattromila combattenti, uscendo dal campo d’Aquila, occupava Rieti progredendo a Terni. II colonnello Giustini con un reggimento di fanti ed alcuni cavalli scendeva da Tagliacozzo a Tivoli per correre la Sabina; il general Mack, e seco il re, con ventiduemila soldati, mossi da Sangermano, marciavano per le difficili strade di Ceperano e Frosinone sopra Roma; dove il generale Damas dal campo di Sessa per la via Pontina, conduceva ottomila combattenti; e nel giorno medesimo salpavano da Gaeta per Livorno molte navi cariche di seimila soldati, sotto l’impero del general Naselli. Le quali ordinanze dimostravano che l’esercito di Napoli non andava formato in linea, non avea centro; che le schiere di Sanfilippo e Giustini non legavano, perchè deboli, l’ala diritta alla sinistra; che un corpo non assai grande, quello di Micheroux, assaltava la sinistra francese, la più forte delle tre parti di quello esercito; e che il maggior nerbo de’ Napoletani, trentamila uomini, procedeva contro l’ala diritta, di poca possa, intesa a ritirarsi. Erano dunque le speranze di Mack, superare le parti estreme della linea francese, avvilupparle, spingere gli uni corpi su gli altri, confonderli nel mezzo ed espugnarli; mentre la legione del general Naselli, per le forze proprie e le insurgenti della Toscana, molesterebbe il fianco delle schiere francesi fuggitive verso Perugia. Scarsi concetti. La figura della frontiera, la linea prolungata e sottile dell’esercito francese, la sua base in Lombardia, il numero delle nostre forze quasi triplo delle contrarie; invitavano a sfondare (come si dice in guerra) il centro; e assalendo per il fianco le sue ale nemiche, impedire che si ajutassero; e tagliare, se volesse fortuna, le ritirate nella Lombardia. Perciò, ne’ casi nostri, andava diviso l’esercito in tre corpi: ventisei mila uomini all’Aquila per attaccar Rieti a Terni; dodicimila su la strada Emilia per combattere o impegnare l’ala sinistra francese; ottomila nelle Paludi Pontine per incalzare le piccole partite della diritta; mentre che la legione della Toscana, senza nemico a combattere, coi popoli dalle sue parti, avrebbe corso il paese insino a Perugia, per appressarsi a noi ed ajutarci nelle vicende varie della guerra. Solamente così l’inesperto e nuovo esercito di Napoli poteva superare per ingegno strategico e propria mole l’agguerrita e felice oste francese. 1l resto della guerra dipendeva da’ preparati tumulti nel Piemonte e dalla venuta in Italia de’ Tedeschi.
Tali erano i consigli della ragione e dell’arte; ora narriamo i fatti. I corpi di Mack e di Damas, trentamila soldati, camminando sopra strade parallele, senza incontrare il nemico sollecito a ritirarsi, giunsero il ventinove di novembre a Roma; e il re, fatto ingresso pomposo, andò ad abitare il suo palazzo Farnese. I Francesi, lasciato piccolo presidio in Castel-Santangelo, si partirono, e con seco i ministri e gli amanti di repubblica; ma pur di questi alcuni confidenti alle regali promesse di clemenza, o arrischiosi, o dal fato prescritti, restarono; e nel giorno istesso furono imprigionati o morti; due fratelli, di nome Corona, napoletani, partigiani di libertà, rimasti con troppa fede al proprio re, furono per comando di lui presi ed uccisi. La plebe scatenata, sotto velo di fede a Dio ed al pontefice, spogliò case, trucidò cittadini, affogò nel Tevere molti Giudei, operava disordini gravi e delitti. Vergogne del vincitore; che assai tardi nominò a giunta di sicurezza i due principi Borghesi e Gabrielli e i marchesi Massimi e Ricci; la plebe allora fu contenuta. Sparirono i segni della oppressa repubblica; innalzando la croce dov’era l’albero di libertà, e congiugnendo in cima delle torri e de’ pubblici edifizii le immagini e l’armi del pontefice con le insegne del re delle Sicilie. Il quale spedì messi a Napoli per annunziare la vittoria e ordinare nelle chiese sacre preghiere in rendimento di grazie, al pontefice, dicendo: «Vostra santità sappia per queste lettere che ajutati dalle grazie divine e dal miracolosissimo san Gennaro, oggi con l’esercito siamo entrati trionfatori nella santa città di Roma, già profanata dagli empii, ma che fuggono spaventati all’apparire della croce e delle mie armi. Cosicchè vostra santità può riassumere la suprema e paterna potestà; che io «coprirò col mio esercito. Lasci dunque la troppa modesta dimora della Certosa, e su le ale de’ cherubini, come già la nostra Vergine di Loreto, venga e discenda al Vaticano per purificarlo con la santa sua presenza. Tutto è preparato a riceverla; vostra santità potrà celebrare i divini offizii nel giorno natale del Salvatore.» Un terzo foglio era scritto a nome del re dal suo ministro principe Belmonte Pignatelli a’ ministri del re di Sardegna, per dire, tra le molte cose: «I Napoletani guidati dal generale Mack han sonato i primi l’ora di morte a’ Franecsi; e dalle cime del Campidoglio avvisano l’Europa che la veglia de’ re è ormai giunta. Sfortunati Piemontesi, scuotete le vostre calene, spezzatele, opprimete gli oppressori vostri; rispondete all’invito del re di Napoli.» Le quali jattanze ho qui riferito per dipingere del re e de’ suoi ministri lo sdegno cieco e la vanagioria, femminili passioni sempre schernite dalla fortuna.
XXXIV. Correvano cotesti fogli, mentre successi contrarii accadevano in Abruzzo. Avvegnachè il general Micheroux, scemato alquanto di forze per diserzioni ed infermità, giunto ne’ dintorni di Fermo con novemila soldati, vi trovò schierate a battaglia in preparate posizioni le squadre francesi rette da’ generali Mounier, Rusta e Casabianca; e venute le parti a combattimento, non fu la pruova nè dubbia nè lenta, perchè i Napoletani agguagliati di numero, superati d’arte, mal diretti, sconfidati, si diedero alla fuga lasciando sul campo alcuni morti, molti prigioni, artiglierie e bandiere. I resti della colonna si riparavano tra i monti dell’Abruzzo, e pochi Francesi contenevano con la paura, giacchè i molti andavano a rinforzare il centro e l’ala diritta della linea. Nel qual centro il colonnello Sanfilippo, presa Rieti senza contrasto, avanzava per le strette di Terni guardate dal generale Lemoine con poca gente; ma sopraggiungendo ad ajuto il general Dufresse con mezza brigata di duemilaquattrocento soldati, pareggiarono le forze delle due parti, e le sorti del Sanfilippo furono, come quelle del Micheroux, infelici. Il colonnello Giustini impedito a Vicovaro dal generale Kellermann, volgendo verso la schiera di Sanfilippo, e udito il capo prigioniero, lei fuggitiva, Rieti in potere de’ Francesi, andò celeremente lungo la sponda del Tevere; indi a Tivoli.
Così l’esercito francese combattendo sino allora in egual numero co’ Napoletani, vincitore, come era debito a forze uguali, assicurata l’ala sinistra, raccolse la diritta (nè già per vie curve come temeva, ma per diritto cammino) in Civita Castellana e ne’ vicini monti, forti per luogo e munimenti; erano settemila Francesi e duemila partigiani, valorosi quanto voleva necessità di vincere o morire; gli uni e gli altri comandati dal generale Macdonald già chiaro nelle guerre di Alemagna e d’Italia. Dietro al esso, ma in distanza ed avendo tra mezzo i difficili monti Apennini, volteggiava il generale supremo Championnet, il quale, lasciati contro agli Abruzzi il generale Duhesme e seimila soldati, avanzava con altri ottomila in soccorso di Macdonald. Piccolo squadrone di Perugia stava in vedetta della legione sbarcata in Livorno, e de’ temuti movimenti civili. Ma nè quelle milizie napoletane, nè gl incitamenti degli Inglesi, nè lo sdegno de’ popoli poterono in Toscana contro i Francesi. Il 28 di settembre le armate di Napoli e d’Inghilterra, superbe di molti legni, arrivate a Livorno, chiesero a sbarcar soldati e cannoni. Il governo toscano, allora in pace con la Francia, patì prepotenza o la finse; e manifestando che non in dispregio della fermata neutralità, ma per condizione de’ meno forti egli tollerava il disbarco de soldati, dichiarò voler mantenere la pienezza dell’imperio ne’ suoi stati, e commettere le sue ragioni alla giustizia ed a Dio. Con altro editto, accresciute le milizie assoldate, create le urbane, provvisto alla quiete dei soggetti, attese il fine della guerra di Roma. Il generale Naselli non mosse, aspettando, come gli era prescritto gli ordini del Mack; il quale inabile alle vaste combinazioni strategiche, e poi smarrito ne’ precipizii delle sue fortune, obliò quella legione di ben seimila soldati, che neghittosa e spregiata restò in Livorno. Egli ed il re si godevano in Roma le non mai gustate delizie del trionfo; e, come a guerra finita, stettero cinque giorni senza procedere contro Macdonald; solamente invitando alla resa o minacciando il presidio di Castel-Santangelo. È degno di memoria il cartello che il tenente-generale Bourcard spedì al tenente-colonnello Walter comandante del forte; però che tra l’altro diceva: «I soldati francesi ammalati negli ospedali di Roma, saran tenuti ad ostaggio; così che ogni cannonata del castello cagionerà la morte di uno di loro per rappresaglia; o consegnandolo all’ira giusta del popolo.» Del quale cartello una copia, segnata Mack, mandata al generale Championnet, e da questo bandita nell’esercito, rese la guerra spietata. Rifiutando il castello di arrendersi, tirarono d’ambe le parti, a sdegno più che ad offese, inutili colpi; e il giorno 3 del dicembre l’oste di Napoli mosse da Roma. Seimila soldati restarono a guardia del re; e poichè la schiera del colonnello Giustini aveva raggiunto l’esercito, venticinquemila combattenti andarono contro Civita Castellana.
XXXVI. In cinque corpi. Altro capitano che Mack, assennato se non da altro da’ fatti di quella stessa guerra, chiamata di Toscana la legione Naselli sopra Perugia, conduceva il maggior nerbo dell’esercito per la manca riva del Tevere, e accampato a Terni combatteva con forze tre volle doppie le poche genti di Macdonald prima che Championnet scendesse gli Appennini. Ma l’ostinato duce de’ malaugurati Napoletani avviò lungo il Tevere piccola mano di soldati, e spartì gli altri ventiduemigliaja in quattro corpi, che dopo leggieri combattimenti accamparono a Calvi, a Monte-Buono, a Otricoli, a Regnano. E colà stettero cinque giorni o neghiltosi o assaltando per piccole partite il campo de’ nemici. Ciò che Macksperasse era ignoto; ma il generale francese prima inteso a difendersi, mutò pensiero; e con le medesime schiere assaltò, l’un dietro l’altro i nostri campi. Tutti gli vinse o gli fugò, combattendoli partitamente con forze uguali o maggiori, e maggior arte, ed amica fortuna. Primo a cadere fu Otricoli, quindi Calvi, poi Monte-Buono. Il general Mack aveva scemato il campo di Regnano delle maggiori forze per unirle a quelle che risalivano lungo la diritta sponda del Tevere, e stabilirle a Cantalupo; idea (sola in quella guerra) degna di lode; ma nel cammino, avvisato della sventura de’ suoi campi, diede comando di ritirata generale sopra Roma. Ciò ai 13 dicembre. Negli otto precedenti giorni, sette combattimenti tutti ad onore dell’esercito francese, avevano debellato i Napoletani che vi perdettero mille uomini morti, novecento feriti, diecimila prigionieri, trenta cannoni, nove bandiere, cavalli, moschetti, macchine innumerevoli. Eglino, solamente in Otricoli per poco d’ora fortunati, avevano sorpreso il presidio francese, duecento uomini, uccisa la più parte, imprigionato il resto; e per malvagità degli abitanti, o per caso, appreso il foco all’ospedale, morirono gl’infermi tra le fiamme, e si alzò grido che il barbaro cartello del generale Bourcard non era cruda minaccia ma proponimento. La qual menzogna creduta da’ Francesi accrebbe fierezza alle naturali offese dell’armi. Cominciata nel giorno istesso la ritirata di Mack, i Napoletani sempre perdenti, e sempre infelici, comandati da stranieri, vedendo tra le file molti Francesi, generali o colonnelli, ognun de’ quali, a modo di emigrati, per iscampare da’ pericoli della prigionia, sollecitava il cammino da parer fuga; creduli al male come sono gli eserciti, sospettarono di esser traditi; e chiamando giacobini i capi, e confondendo gli ordini, cadde o scemò l’obbedienza. Si aggiunse a’ mali la scarsezza dei viveri; perciocchè all’ignoranza ed alle fraudi degli amministratori, delle quali cose ho parlato sin dal principio de’ racconti, si unirono le perdite de’ convogli, e i magazzini abbandonati, o a modo di rapina votati dalle milizie, già divenute licenziose e contumaci.:
XXXVI. A quelle nuove i Romani, per amore alla repubblica o per prudenza verso il vincitore, si mostravano della parte francese, per lo che il re Ferdinando, il quale dal giorno 7 stava ad Albano, per natura codardo, impaurito fuggì, al declinare del giorno 10, verso Napoli. Disse al duca d’Ascoli suo cavaliero, essere brama e sacramento de’ giacobini uccidere i re; e che bella gloria sarebbe ad un soggetto esporre la propria vita in salvezza della vita del principe; esortandolo a mutar vesti e contegno, così ch’egli da re, il re da cavaliere facessero il viaggio. Il cortigiano, lieto, indossando il regio vestimento, sedè alla diritta della carrozza, mentre l’altro con riverente aspetto, avendo a maestra la paura, gli rendeva omaggi da suddito. In questa vergognosa trasformazione il re giunse a Caserta nella sera dell’11. Frattanto in Roma le schiere napoletane traversavano celeremente la città inseguite dalle francesi; tanto da presso che uscivano d’una porta i vinti, entravano dall’altra i vincitori. Il generale Championnet erasi congiunto a Macdonald; e mentre in tanta possa venivano in Roma, udirono che una legione di settemila Napoletani, retta dal generale Damas, scordata da Mack o per celere fuggire abbandonata, raddoppiava il passo per giungere prima de’ Francesi; ma così non giunse. Damas per araldo chiese passaggio, che prenderebbe, non concesso con la forza; ed avuta risposta, che abbassate le armi si desse prigioniero, dimandò trattare; i legati convennero. Bramavano indugio i Francesi per aspettare altri soldati nella città, essendo allora e pochi e stanchi; bramava indugio il generale Damas, già risoluto a voltar cammino, per disporre ritirata difficile innanzi a nemico doppio di forza e felice; le ore passavano come per accordi, mentre gli eserciti si preparavano alla guerra. E, giunta l’opportunità, il Damas, con buono senno ed ardito, prese il cammino di Orbitello, fortezza lontana e in quel tempo del re di Napoli. Schiere francesi lo inseguirono, ingorde della preda che, tenuta certa, fuggiva; e colto il retroguardo alla Storta, combatterono; ma venuta la notte, e rimasti d’ambe le parti morti e feriti, Damas continuò il cammino, i Francesi riposarono. Al dì vegnente altri Francesi mossi da Borghetto sotto il generale Kellermann sperarono precedere i Napoletani, e li raggiunsero a Toscanella, dove, combattendo, molti degli uni e gli altri morirono, ed ebbe il generale Damas la gola forata da mitraglia; ma pure la legione procedendo giunse, com’era prefisso ad Orbitello, e trovò la fortezza senza munimenti o vettovaglie, sì che l’accordo di uscirne liberi e tornare in regno non fu per la possanza di que’ muri, ma frutto del dimostrato valore de’ soldati e del duce. I quali andarono laudati di que’ fatti; ma poche virtù fra molte sventure si cancellano presto dalla memoria degli uomini. Ne’ medesimi giorni la lezione del general Naselli sciolse sopra legni inglesi da Livorno; e così, svaniti mezzi e segni ad offendere, le cure di Mack volsero alle difese.
Egli sentì l’errore di essere uscito a modo barbaro, senza base. di operazioni, certo e pieno della conquista, trasandando il restauro delle fortezze, le opere militari nello interno, tutte le arti che lo ingegno, o almeno le pratiche suggeriscono. Nè tra le avversità sperimentate in Romagna egli fissò la mente alla difesa del regno; ma spensierato tra que’ precipizii vide giugnere il bisogno di custodire il paese quando stavano le fortezze non preparate, la frontiera nuda, i luoghi forti malamente muniti e guardati. Attese a radunare le genti fuggitive; e veramente con le legioni tornate intere di Damas e Naselli, con altre squadre non comparse alla guerra, e con i molti resti dell’esercito infelice, poteva comporre oste novella, più assai numerosa di quella che a nostro danno apprestava il general Championnet. Il quale in Roma, poi ch’ebbe ristabilito il governo repubblicano, castigati alcuni tradimenti, rialzati con religiosa cerimonia i rovesciati sepolcri di Duphot e di Basville, e dato lode alle geste, breve riposo alle fatiche delle sue squadre, ordinò l’esercito e gli assalti contro il reame di Napoli. Imperava a venticinquemila combattenti in due corpi; uno di ottomila che il generale Duhesme guidava negli Abruzzi, altro di diciasette migliaja comandato da Rey e Macdonald per la bassa frontiera del Garigliano e del Liri; egli medesimo, Championnet, andava con la legione Macdonald. Gli abbondavano artiglierie, macchine, vettovaglie, ragioni, coscienza; solamente scarseggiava il numero, se il valore proprio e la fortuna, lo scoramento e le infelici prove dei contrarii, non avessero agguagliato le differenze. Ogni cosa prefissa, cominciò la impresa, rischievole per le rivoluzioni del Piemonte, le conferenze sciolte in Rastadt, gli armamenti dell’Austria, le poche schiere della repubblica in Lombardia; ma il destino corresse i falli della prudenza.
XXXVII. Il dì 20 del dicembre tutta l’oste francese levossi verso Napoli. 1l generale Duhesme negli Abruzzi andò minaccioso al forte Civitella del Tronto, îl quale in cima di un monte, inacessibile da due lati, fortificato in due altri, avendo bastevole presidio, dieci grossi cannoni, munizioni da guerra, e per la vicina città vettovaglie abbondanti, poteva reggere a lungo assedio, se pure il nemico avesse avuto artiglierie e mezzi per tanta impresa; ma sole armi de’ Francesi erano le minacce ed il grido, giacchè per que’ terreni dirupati, senza strade da ruote e quasi senza sentieri non potevano trasportare a quell’altezza pezzi di bronzo pesantissimi, Ben lo sapeva il comandante del forte; ma timido, e in mezzo a tanti esempii di codardia impunita, dopo diciotto ore d’investimento, chiesto accordi al nemico, si arrese con l’intero presidio prigioniero di guerra. Aveva nome Giovanni Lacombe, spagnuolo, tenente-colonnello agli stipendii del re di Napoli. Avuta Civitella, il generale Duhesme avanzò negli Abruzzi; e, respinte o fugate varie partite di genti d’armi, giunse al fiume Pescara, prima difeso, poi disertato da’ difensori, e subito valicato da’ Francesi. Duhesme facendo mostra di soldati e di artiglierie, sebben di campo, intimò resa alla fortezza dello stesso nome Pescara; e il comandante di lei, per argomento d’intrepidezza, mostrate all’araldo le fortificazioni, le armi, il presidio, la pienezza de’ magazzini, gli disse: «Fortezza cosi munita e provveduta non si arrende.» Il nemico a quelle ambasciate raddoppiò le apparenze di guerra; ed alle apparenze il comandante, deposto il bello ardire, alzò bandiera di pace, e donò al vincitore la fortezza integra e salda, sessanta grossi cannoni di bronzo, dieci di ferro, quattro mortari, altre armi, polvere, vestimenti, vettovaglie e millenovecento soldati prigionieri. Era comandante il colonnello Pricard, straniero ancor egli, accetto e fortunato come voleva nostra misera condizione e il dispregio ver noi de’ nostri principi.
Mentre Duhesme operava le dette cose, il generale Mounier correva malagevole sentiero che mena, traversando i monti di Teramo, a Civita di Penna; e il generale Rusca, sentiero peggiore, per andare ad Aquila e Torre di Passeri; non temevano pericoli da nemico fuggitivo. ma il generale Lemoine giunto a Popoli, trovò in ordinanza forte schiera di Napoletani, e venuti a combattimento, morto il generale francese Point, stava incerta la vittoria, quando il nostro malo destino fece sorger voce di tradimento nelle file napoletane, che nel miglior punto della battaglia lasciarono il campo, e per Isernia e Bojano rifuggirono confusamente a Benevento. Così procedevano le cose negli Abruzzi, mentre l’ala diritta de’ Francesi sotto il general Rey per le Paludi Pontine, e il general Macdonald per Frosinone e Ceperano, venivano senza contrasto nel regno. Il re di Napoli, perduta speranza che i Francesi occupati nel Piemonte, minacciati nella Lombardia, pochi di numero, non si avventurassero a lontana spedizione; sentite le perdite degli Abruzzi, impose a’ popoli guerra nazionale sterminatrice. Aveva il bando data di Roma l’8 del dicembre, benchè più tardi fosse scritto in Caserta; e diceva: «Nell’atto che io sto nella capitale del mondo cristiano a ristabilire la santa chiesa, i Francesi, presso i quali tutto ho fatto per vivere in pace, minacciano di penetrare negli Abruzzi. Correrò con poderoso esercito al esterminarli; ma frattanto si armino i popoli, soccorrano la religione, difendano il re e padre che cimenta la vita, pronto a sacrificarla per conservare a’ suoi sudditi gli altari, la roba, l’onore delle donne, il viver libero. Rammentino l’antico valore. Chiunque fuggisse dalle bandiere o dagli attruppamenti a masse, andrebbe punito come ribelle a noi, nemico alla chiesa ed allo stato.»
Fu quello editto quanto voce di Dio; i popoli si armano; i preti, i frati, i più potenti delle città e de’ villaggi li menano alla guerra; e dove manca superiorità di condizione, il più ardito è capo. I soldati fuggitivi, a quelle viste fatti vergognosi, unisconsi a’ volontari; le partite, piccole in sul nascere, tosto ingrandiscono; e in pochi dì sono masse e multitudini, Le quali concitate da scambievoli discorsi e dalla speranza di bottino, cominciano le imprese; non hanno regole se non combattere, non hanno scopo fuorchè distruggere; secondano il capo, non gli obbediscono; seguono gli esempii, non i comandi. Le prime opere furono atroci per uccisione di soldati francesi rimasti soli perchè infermi o stanchi, e per tradimenti nelle vie o nelle case; calpestando le ragioni di guerra, di umanità e di ospizio. Poco appresso inanimiti da’ primi successi, pigliarono la città di Teramo, quindi il ponte fortificato sul Tronto, e slogati i battelli che lo componevano, impedirono il passaggio ad altre schiere; mentre in Terra di Lavoro torme volontarie adunate a Sessa, correndo il Garigliano, bruciato il ponte di legno, s’impadronirono di quasi tutte le artiglierie di riserva dell’esercito francese, poste a parco su la sponda; e poi trasportando il facile, distruggendo il resto, uccidendo le guardie, desertavano quel paese. Le tre colonne dell’ala sinistra non più comunicavano tra loro, nè con l’ala diritta, impedite dai Napoletani, che in vedetta delle strade uccidevano i messi o le piccole mani di soldati.
Stupivano i Francesi, stupivamo noi stessi del mutato animo; senza esercito, senza re, senza Mack, uscivano i combattenti come dalla terra, e le schiere francesi invitte da numerose legioni di soldati, oggi menomavano d’uomini e di ardimento contro nemici quasi non visti. E poichè lo stupore de’ presenti diviene incredulità negli avvenire quando s’ignorino le cagioni de’ mirabili avvenimenti, egli è debito della storia investigare come i Napoletani, poco innanzi codardi e fuggitivi, ricomparissero negli stessi campi, contro lo stesso nemico, valorosi ed arditi. Il valore negl’individui è proprio, perchè ciascuno ne può avere in sè le cagioni; forza, destrezza, certa religione, certa fatalità, sentimento di vincere o necessità di combattere: il valore nelle società, come negli eserciti, si parte d’altre origini; da fidanza ne’ commilitoni e ne’ capi. Il valore negli individui viene dunque da natura; negli eserciti, dalle leggi: può quello esser pronto; questo chiede tempo, istituzioni ed esempii; e perciò non ogni popolo è valoroso, ma ogni esercito può divenirlo. Dico sentenze note a’ dotti degli uomini e delle umane società. Tali cose premesse, non farà maraviglia se i Napoletani robusti e sciolti di persona, abitatori, la più parte, de’ monti, coperti di rozze lane, nutrendosi di poco grossolano cibo, amanti e gelosi delle donne, divoti alla chiesa, fedeli (nel tempo del quale scrivo) al re, allettati da’ premii e dalle prede, andassero vogliosi e fieri a quella guerra, per mantenere le patrie insituzioni e gli altari, e avendo libero il ritorno, proprio il consiglio di combattere, proprio il guadagno, bastevole il valor proprio. Ma nella buona guerra poco innanzi combattuta, eglino coscritti nuovi, scontenti della milizia, consapevoli della scontentezza de’ compagni, conoscitori (benchè ultimi negli ordini militari) della ignavia de’ capi, sospettosi della loro fede, mal guidati, mal nutriti, miseri e perdenti, nessuna qualità di esercito avevano in pregio e praticavano. La quale assenza di militari virtù era il retaggio degli errori del governo antichi e presenti; ma sebbene il popolo fosse innocente, n’ebbe egli la vergogna, che nemmeno forse cesserà per i veraci racconti della istoria; avendo le nazioni qualcosa di fatale nella lor vita, ed essendo fatalità, io credo, a’ Napoletani la ingiustizia de’ giudizii del mondo.
XXXVIII. L’ala sinistra francese intrigata negli Abruzzi procedeva lentamente; la diritta correva spedita sino al Garigliano. Il general Rey intimò rendere la fortezza di Gaeta al governatore maresciallo Tschiudy nato svizzero, venuto (per il mercato infame che fa la Svizzera de’ suoi cittadini) agli stipendii napoletani, e salito ad alto grado per merito di casato, per lo inerte corso degli anni e, per favore; egli forestiero, non educato alla guerra, sordo all’onore dell’armi, trepidò; e radunando non so quale consiglio, udito il voto del vescovo che dicevasi ministro di pace e de’ magistrati del comune solamente intesi ad evitare i danni dell’assedio, decise arrendersi. Mentre l’avvilito concilio preparava il tradimento, il generale francese lanciò nella città una granata da sei, non avendo artiglieria più grossa di un obice; ed a quel segno di guerra precipitarono i consigli, ed alzata bandiera di sommissione, un araldo del governatore dimandò pace a larghe condizioni; ma il generale Rey, poi che vide quella estrema vilezza, replicò: «Resa a discrezione o rigor di guerra.» Ed a discrezione si arresero quattromila soldati dentro fortezza potentissima, munita di settanta cannoni di bronzo, dodici mortari, ventimila archibugi, viveri per un anno, macchine da ponti, navi nel porto, innumerevoli attrezzi di assedio. Andavano i prigionieri a Castel-Santangelo; ma lo sfrontato maresciallo pregò indulgenza per sè e per altri sessanta uffiziali, i quali come partecipi e benemeriti della resa, ottennero la vergognosa parzialità di uscir liberi con giuramento di non mai combattere i Francesi.
Le cessioni, a modo di tradimento, di Civitella, Pescara e Gaeta diedero speranza di egual successo per la fortezza di Capua; benchè in essa, dietro al fiume Volturno, il generale Mack riordinasse l’esercito, e vasto campo trincerato su la fronte verso Roma, guardato da seimila soldati, accrescesse i munimenti e le difese. Quindi il generale Macdonald avanzò contro noi, a vincere se noi codardi, o a riconoscere la fortezza. Era ii mezzo giorno quando egli a tre colonne assaltando il campo, mise scompiglio nelle guardie, delle quali parecchie fuggitive alle porte della fortezza minacciavano di atterrarle se non si aprissero. Ma da un fortino del campo, dove i cannonieri stiedero saldi alle minacce del nemico ed al malo esempio dei timorosi, partì scarica di sei cannoni a mitraglia vicina, ben diretta, che produsse molte morti nella colonna di cavalleria, procedente prima e superba; altri colpi tirarono i bastioni, e subito retrocedute le colonne assalitrici, e rianimate le guardie del campo, la battaglio fu rintegrata. Erano Napoletani gli artiglieri del fortino, e Napoletano il loro capo, giovine che trattava in quella guerra le prime armi, alzato dal generale Mack da tenente a capitano, in premio più del successo che del valore; perciocchè i cavalli francesi, e nè manco i fanti, potevano entrare nel campo, che aveva riparo, fosso, alberi abbattuti, e poi cannoni e presidio. I Francesi tornando agli assalti, tentarono passare il fiume a Cajazzo, guardato da un reggimento di cavalleria sotto il duca di Roccaromana. Respinti e perdenti nello intero giorno, viste le sorprese non bastevoli al desiderio, mutato consiglio, disposero espugnar la fortezza con il lento cammino dell’assedio. Avean perduto negli assalti di Capua e di Cajazzo quattrocento soldati, metà morti e feriti, cento prigioni; il generale Mathieu ebbe il braccio spezzato da mitraglia, il generale Boisgerard fu morto, il colonnello Darnaud prigioniero. E dalla nostra parte, cento soli più feriti che morti; e tra i feriti, il colonnello Roccaromana.
Giunti in quel mezzo dagli Abruzzi i generali Duhesme e Lemoine, riferirono i sostenuti travagli e gli impedimenti e gli agguati, la nessuna fede degli abitanti, le morti de’ Francesi troppe e spietate; il generale Duhesme portava ancor vive due ferite sul corpo; e narrando le maggiori crudeltà, citava i nomi spaventevoli dli Pronio e di Rodio. E poi che il generale Championmmet v’ebbe aggiunto la storia de tumulti e de’ fatti popolari di Terra di Lavoro, e ricordato i nomi già conti per atrocità di frà Diavolo e di Mammone, videro i generali francesi (adunati a consiglio nella città di Venafro) stare essi in mezzo a guerra nuova ed orrenda; essere stato miracolo di fortuna la viltà de’ comandanti delle cedute fortezze; e non avere altro scampo per lo esercito che a tenerlo unito, e per colpi celeri e portentosi debellar le forze e l’animo del popolo. «Sia quindi nostra prima impresa, conchiudeva il supremo duce di Francia, espugnare Capua in pochi dì; le schiere, le armi, le macchine di assedio si dispongano a campo in questo giorno, intorno alla fortezza.»
XXXIX. Peri quali provvedimenti superbivano le parti borboniche, vedendo gli Abruzzi liberi per valore proprio, e l’esercito di Francia radunato, non già, credevano, per mira o prudenza di guerra, ma per ritirarsi nella Romagna. Tanti successi di genti avventicce, paragonati alle perdite dell’immenso esercito di Mack, confermavano nella mente comune il sospetto di tradimento; e tanto più che all’avanzar de’ Francesi, cresciute le acerbità di polizia, si udivano imprigionamenti e castighi; molti uffiziali dal campo menati nelle fortezze; chiuso in fortezza lo stesso ministro per la guerra maresciallo Airola. Le quali cose, dividendo il popolo, indebolivano le resistenze al nemico, e generavano le discordie civili e le tante calamità da quel misero stato inseparabili. Fu questo il più amaro frutto dell’antico mal senno del governo in supporre e punir congiura, in sè non mai vera, surta ne’ disegni ambiziosi di pochi tristi, annidata nell’animo superbo della regina, poscia involgata e creduta. Esiziale menzogna che annientò la dignità della monarchia, il credito de’ grandi, l’autorità de’ magistrati. Per essa disobbedivano i soldati a’ capi, i soggetti a’ maggiori; e udivi ai ricordi de’ doveri o delle leggi, rispondere i contumaci la usata voce di traditore. Cosicchè, spezzati gli ordini sino allora venerati della società, la parte per numero e ardire più potente, cioè la bassa moltitudine dominava; tanto più nella città, dove la plebe più numerosa, il ceto de’ lazzari audace, i guadagni più facili e grandi. Cadute le discipline, dispregiato il comando, le squadre ordinate si scioglievano; i fuggitivi chiamati, non tornavano alle bandiere; il valore de’ partigiani si disperdeva in opere mirabili ma vane. La corte in quel mezzo ed i ministri vivevano incerti ed angosciosi; vacillava sul capo del re corona potente e felice; agitavano la regina pericoli o rimorsi; il generale Mack ondeggiava tra speranze di nuove imprese, e le rovine della sua fortuna; Acton, Castelcicala, tremavano quanto si conviene ad animo vigliacco ed a vita colpevole; i consiglieri della guerra, gl’inquisitori di stato, i satelliti della tirannide si abbandonavano a disperati consigli. Così provveder divino infestava quelle anime perverse, che ricordevoli delle male opere, ne vedevano certa e vicina la vendetta. Fuggire, era il desiderio comune, ma secreto perchè estremo e codardo; l’oste francese non avanza, impedita da una fortezza, da un fiume e da truppe armate di popolo; i tumulti della città stavano per il re, e si udivano voci e voti di fedeltà verso il trono e la chiesa; nessuna provincia o città ubbidiva i Francesi, che a tanta poca terra comandavano quanta ne copriva piccolo esercito; e per le impreviste avversità avevano i Borboni e i Borboniani stanze sicure ne’ Principali, nella Puglia, nelle Calabrie. Nessuno argomento a fuggire, ma fugava i malvagi la coscienza.
Altre genti paventavano; i notati giacobini nei libri della polizia, gli uffiziali dell’esercito creduti traditori, e i possidenti di qualunque ricchezza, principale mira della commossa plebaglia. I giacobini, esperti a radunarsi, intendevano per secreto congreghe alla propria salvezza, e ad agevolare, ov’ ei potessero, le fortune de’ Francesi e i precipizii del monarca di Napoli. Quelle furono veramente le prime congiure, colpevoli quando miri al disegno di rovinare il governo; necessarie quando pensi che solamente tra quelle rovine vedevano vita e libertà; nascosti nel giorno, profughi dalle case nella notte, menavano vita incerta e miserabile. Spedirono legati al campo francese per informare il generale Championnet dello stato della città e della reggia, e incitarlo a compiere l’avanzata impresa, promettendo dalla loro fazione ajuti potentissimi. Le quali pratiche sapute dalla polizia o sospettate accrescevano da ambe le parti i pericoli e i timori. Ma le ansietà nella casa del re erano già insopportabili, quando un fatto atroce precipitò i consigli e le mosse. Il corriere, che dicevano di gabinetto, Antonio Ferreri, fido e caro al re, mandato con regio foglio all’ammiraglio Nelson, e trattenuto dal popolo su la marina come spia de’ Francesi, tra mille voci muojano i giacobini, ferito di molti colpi e non estinto, trascinato per le vie della città, fu gettato morente in una fogna dove finì la vita. Mentre i crudeli lo traevano semivivo, chiesero con baldanzose voci sotto la reggia che il re vedesse nel supplizio del traditore la fedeltà del suo popolo; e, ciò detto, non si partivano, non quetavano, cresceva lo scompiglio e la moltitudine, sino a tanto che il re per prudenza mostrossi, e riconobbe l’infelice Ferreri, che moribondo fisò gli occhi in lui, come a chiedere pietà; ed egli tutto re che fosse, non potè liberarlo da’ manigoldi. Inorridì, treniò per sè, decise di fuggire. Chi disse quella strage archilettata per l’effetto che sortì, chi per nascondere certe trame con l’Austria note al Ferreri.
XL. Fermata in animo del re da partenza, ne accelerò gli apparecchi, occulti come di fuga; ma non bastò segretezza, e si apprese che la casa e i ministri regii fuggivano, e che altre fughe o nascondigli si preparavano i più lividi seguaci della tirannide. Per la quale timidezza svanite le ultime speranze di resistere al nemico e riordinare l’esercito e lo stato, consigliere animoso e fedele, il cui nome non citano le invidiose memorie, fece chiaro al re l’errore e ’l danno di quella fuga; ma nulla ottenne, fuori che fosse a’ popoli smentita, per non allentare nelle province l’impeto della guerra e l’odio a Francesi. Quindi lettere e messi andarono accertando che il re disponeva l’esterminio del nemico, il quale ajutato da’ tradimenti, e arrischiatosi nel cuore del regno tra fortezze, soldati e masse armate, troverebbe debito castigo alla temerità. Il popolo che tutto crede, presta fede a que’ detti, doppiò gl’impeti e i cimenti contro i Francesi. Ed ecco inaspettatamente nel giorno 21 del dicembre, navigar nel golfo molte navi sciolte nella notte dal porto; e sul maggior vascello inglese andare imbarcato il re e i regali, come segnavano le bandiere. Nel tempo stesso che un editto chiamato avviso, affisso ai muri della città, diceva: passare il re nella Sicilia; lasciar vicario il capitan generale principe Francesco Pignatelli; divisare di tornar presto con potentissimi ajuti d’armi.
Partitosi il re, si palesavano i segreti della fuga, le brighe de’ perversi cortigiani onde vincere nella reggia gli ultimi indugi a partire, le instigazioni valentissime di Hamilton, Nelson, lady Hamilton: s’intesero tolti i giojelli e le ricchezze della corona; le anticaglie più pregiate, i lavori d’arte più eccellenti de’ musei, e i resti de’ banchi pubblici e della zecca, in moneta o in metallo; in somma il bottino (ventimilioni di ducati) de’ tesori dello stato; lasciando la infelice nazione in guerra straniera e domestica, senza ordini, con leggi sprezzate, povera, incerta. Comunque sieno i legami tra re e popolo, patteggiati dagli uomini, o voluti dalla ragione, o anche prescritti da’ cieli, in tutte le ipotesi più libere o più assolute, abbandonare lo stato co’ modi e le arti del tradimento, è peccato infinito, nemmeno cancellabile dalla fortuna e dal tempo. Trattenute dai venti restarono le navi tre giorni nel golfo; ed in quel tempo la città, i magistrati, la baronia, il popolo, inviarono legati al re, promettendo, se tornasse, sforzi estremi contro il nemico, e, per tante braccia e voleri, certa vittoria. Il solo arcivescovo di Napoli tra i legati parlò al re, gli altri a’ ministri; il re disse irrevocabile il proponimento, ed i ministri ripeterono la medesima sentenza con più duro discorso. Per le quali cose, mutato il sentimento universale, i magistrati per salvezza o disdegno si ritiravano dagli offizii pubblici, gli amanti di quiete aspettavano timidamente l’avvenire, i novatori si alzavano a speranze; la sola plebe, operosa, prorompeva nel peggio. Scomparvero intanto le regie navi e le altre che trasportavano uomini tristi, timidi, ambiziosi, le peggiori coscienze del reame; e giorni appresso giunse nuova che tempesta violentissima travagliava i fuggitivi, de’ quali altri ripararono nelle Calabrie, altri nella Sardegna e nella Corsica, molti correvano le fortune del mare; ed il vascello del re, che l’ammiraglio Nelson guidava, spezzato un albero, frante le antenne, teneva il mare a stento. La regia famiglia pareva certa di final rovina; così che detto alla regina essere morto il regio infante don Alberto, ella rispose: «Tutti raggiungeremo tra poco il mio figlio.» Il re, profferendo ad alta voce sacre preghiere, e promettendo a san Gennaro e a san Francesco doni larghissimi, faceva piglio sdegnoso al ministro ed alla moglie, con quel suo modo rimproverandoli delle passate opere di governo, cagioni a quella fuga e a quel lutto. Si ammirava fra le tempeste andar sicuro il vascello napoletano che l’ammiraglio Caracciolo guidava; e sebbene ei potesse avanzar cammino, e’ tenevasi poco lontano dal vascello del re, per dare a’ principi animo e soccorso; avresti detto che le altre navi obbedivano a’ venti, e che la nave del Caracciolo (così andava libera e altiera) li comandasse. La quale maraviglia osservata dal re e laudata, diede a Nelson cruccio d’invidia. Pure tempestosamente correndo, il vascello inglese giunse il dì 25 a vista di Palermo, dove il mare è meno sicuro, e l’entrata difficile; così che dalla città veduto il pericolo e scoperto che il re stava imbarcato su quella nave sdrucita, il capitano di fregata Giovanni Bausan, sopra piccola barca affronta i flutti, giunge al vascello, e si offre di que’ mari pilota esperto. L’ammiraglio Nelson gli diede volontario il comando del legno; e, fosse perizia o fortuna, in poco d’ora entrò nel porto, e fermò alla Banchetta come in tempo di calma. Caracciolo arrivò al punto stesso; e sbarcate le genti ch’egli menava, riposò su le ancore l’illeso vascello. Ebbero bella gloria di que’ fatti gli uffiziali del navilio napoletano.
XLI. Il vicario del regno, Pignatelli, notificando al general Mack per lo esercito, ed agli eletti della città per gli ordini civili, le potestà conferitegli, animò le difese nell’uno, il consiglio negli altri. Un re o per fino un vicario che fosse stato pari alle condizioni del tempo avrebbe scacciato i Francesi o fermata la pace o prolungato la guerra sino a che per le mosse dell’Austria o dei Russi dovesse l’esercito nemico da questa ultima Italia correre in soccorso della Lombardia. Damas era giunto con settemila soldati, altri seimila ne conduceva Naselli, quindici migliaja o più stavano intorno a Capua, vacillanti alla disciplina o contumaci; ma, come spesso avviene delle moltitudini, facili a tornare, per un cenno o per un motto, all’obbedienza; gli Abruzzi, la provincia di Molise, la Terra di Lavoro formicavano di Borboniani; le altre province si agitavano; la popolosa città di Napoli tumultuava per le parti del re. Ordinare tante forze, muoverle assieme, unirvi la virtù dell’antico, del legittimo, e la idea riverita delle patrie instituzioni, bastava a formare una potenza tre volte doppia di ventiquattromila Francesi, e poche centinaja di novatori non esperti alle rivoluzioni o alla guerra. Ma il generale Pignatelli, nato in ignorantissima nobiltà ed allevato alle bassezze della reggia, non poteva, nè per mente nè per animo, giungere alla sublimità di salvare, per vie generose, un regno ed una corona. È questo il peggior fato del dispotismo; educando i suoi all’obbedienza, non trovarne capaci di comando.
Gli eletti della città, dopo brieve accordo col vicario, sospettando in lui malvage intenzioni provenienti dagli ordini secreti de principi o dal proprio ingegno, e chiamati da’ sedili altri eletti, cavalieri o del popolo, levarono milizia urbana molta e fedele. E poi trattando gli affari pubblici, fu prima sentenza fiaccare il potere del vicario: sì che rammentate le concessioni di Federico II, del re Ladislao e di Filippo III, poscia gli editti o patti di regno di Filippo V, e di Carlo III, pretesero non dover essere governati dai vicerè; e che alla partita del re si trasferisse il regio potere agli eletti che sono i rappresentanti della città e del regno. Si oppose il vicario; e, inaspriti gli umori, a tal si giunse che la città mandò a lui ambasciata di abbandonare quel potere illegittimo. Si palesava la contrastata autorità negli editti degli uni e dell’altro, contrarii di stile o di scopo: e poichè gli eletti si affaticavano a contenere i tumulti, il vicario a concitarli, diviso il popolo, stavano gli onesti co’ primi, i dissoluti e la plebe col secondo. Tra le quali agitazioni fu visto, il 28 del dicembre, nel lido di Posilipo fumo densissimo, quindi fuoco; e s’intese che per comando del vicario, ubbidiente invero a comandi maggiori, s’incendiavano centoventi barche bombardiere o cannoniere, riparate in alcune grotte di quel lido montuoso. E, giorni appresso, tornando da Sicilia parecchi legni da guerra, si offerse spettacolo più mesto; impercioccchè, a chiaro sole, il conte di Thurn, tedesco a’ servigi di Napoli, da sopra fregata portoghese comandò l’incendio di due vascelli napoletani e tre fregate, ancorati nel golfo. Il fuoco appariva benchè in mezzo al giorno a’ riguardanti per color fosco e biancastro; sì che vedevansi le fiamme, come uscenti dal mare, lambire i costati delle navi, è scorrere per gli alberi, le antenne, le funi catramate e le vele; disegnando in fuogo i vascelli, che poco appresso, cadendo inceneriti, scomparivano. Tacito, mesto, costernato, mirava il popolo; e, sciolto lo stupore, l’un l’altro addimandava: «Perchè quella rovina? Non potevano i marinari napoletani ed inglesi trasportare in Sicilia que’ legni? Sarà dunque vero che bruceranno il porto, gli arsenali, i magazzini dell’annona pubblica? Sarà vero che la fuggitiva regina vorrà lasciare non altro al popolo che gli occhi per vedere la pubblica miseria, e per piangere?» E subito abbandonato il lamento, correndo alle opere, andarono alla casa del comune per dimandare che gli edifizii pubblici fossero custoditi da’ popolani; ma quetaronsi al vedere che numerose milizie urbane già guardavano la città. Gli eletti, al pari del popolo commossi dalla empietà degl’incendii e dal timore di più grandi rovine, consultarono dello stato; proponendo, chi ordinarsi a repubblica per ottenere facile accordo da’ Francesi, chi trattar pace per danaro, chi cercare alla Spagna nuovo re della casa Borbone, e chi (fu questo il principe di Canosa che qui nomino acciò il lettore lo conosca da’ suoi principii) comporre governo aristocratico; essendo le democrazie malvage, e la monarchia di Napoli, per la fuga e gli spogli, decaduta. Fra pensieri tonto varii o non consoni a’ tempi si sperdevano i giorni.
XLII. Così nella città: mentre ne campi l’esercito francese combatteva co’ Borboniani, assalitori continui delle parti più deboli o più lontane, e messa a seco e bruciata la città d’Isernia per aver contrastato il passo al generale Duhesme, preparava l’assedio di Capua; e incontro al quale esercito il general Mack accelerava i restauri della fortezza, ed accresceva i munimenti e le guardie. Ma il vicario, che già negoziava secretamente con Championnet per la pace, gli chiese almeno lunga tregua; e convenuti nel villaggio di Sparanisi, per le parti di Napoli il duca del Gesso e ’l principe di Migliano, per la Francia il generale Arcambal, concordarono il giorno 12 del 1799: «Tregua per due mesi; la fortezza di Capua, munita ed armata com’ella era, nel dì seguente a’ Francesi; la linea de’ campi francesi tra le foci de’ regii Lagni e dell’Ofanto; dietro la riva diritta del primo fiume, la sinistra dell’altro; ed occupando le città di Acerra, Arienzo, Arpaja, Benevento, Ariano; le milizie napoletane ancora stanziate ne’ paesi della Romagna, richiamarsi; farsi Napoli debitrice di due milioni e mezzo di ducati, pagabili, metà il giorno 15, metà il 25 di quel mese.» Tregua peggiore di guerra sfortunata. Perciocchè deporre le armi per pace a duri patti, poteva in alcun modo giovare al re ed al regno; ma sospendere in alto le armi, e trattenere, indi estinguere la maggior forza di quel tempo, la foga de’ popoli, e concedere al nemico la sola fortezza che difende la città, e vasto e ricco paese nel cuore dello stato, e sicurezza ed agio ad aspettare nuovi rinforzi di Lombardia: ossia, cadere certamente dopo due mesi di affannoso respiro, era solamente danno, solamente precipizio, senza mercede o speranza. Fermata la tregua, i Francesi al dì vegnente occuparono la fortezza di Capua; e, posti i campi su la riva de’ Lagni, occuparono sino all’Ofanto (fiume che sbocca nell’Adriatico) l’acquistato paese. Le milizie napoletane, che tuttodì per fughe menomavano, accamparono, a segno di guerra più che a difesa, nella opposta riva de’ Lagni. I popoli della città e delle province riprovarono quegli accordi; e chiamandoli del nome usato di tradimento, cessò la guerra esterna, la domestica crebbe. I commissarii francesi nella sera del 14 di gennajo vennero in Napoli a ricevere il pattovito denaro, non ancor presto, nè possibile a raccogliere, perchè tutto il pubblico ed il comune, in moneta, in metallo, dalle chiese, da’ banchi, dalla zecca, era stato involato nella fuga del re. La plebe, visti i commissari, si alzò a tumulto che durò tutta la notte, arrecando timori non danni, avvegnachè per pratiche secrete del vicario i Francesi uscirono di città, e la guardia urbana contenne le ribalderie,
Al seguente mattino tutto in peggio si volse. Alcuni soldati, vogliosi o timidi, cederono le armi a’ popolani, che assalendo i quartieri delle guardie urbane, e disarmandole, sciolsero quella benefica milizia. Divenuti potenti per numero, armi, e prime fortune, corsero alle navi arrivate nella notte con seimila soldati; i quali dubbiosi, ed il capo general Naselli, codardo, diedero le armi; e facili a’ tumulti quanto avversi alla buona guerra, si unirono agli assalitori. Così di piccolo rio fatto un torrente, quelle forme chiesero al vicario i castelli della città; e il vicario di natura vigliacco, atterrito, preparato a fuggire, diede comando che al popolo della città, nemico ai Francesi, fedele al re, fossero i castelli consegnati; e lo furono; le carceri, le galere furono aperte; molte migliaja di tristissimi si unirono alla plebe. Ed allora dalla grandezza de’ casi alzato l’animo de’ magistrati del municipio, mandarono al vicario deputazione; l’orator del quale, principe di Pindemonte, così parlò: «La città vi dice per nostro mezzo rinunziare a’ poteri del vicariato; cederli a lei; rendere il denaro dello stato che è presso di voi; prescrivere per editto ubbidienza piena e sola alla città.» Il vicario disse: consulterebbe; e nella notte, senza rispondere alle intimazioni, nè lasciando provvedimenti di governo, fuggì. Chi pensò essere quelle le istruzioni a lui date dalla regina; e chi suggerite dal proprio senno per ignavia ed abito antico agli errori; o per opprimere sotto le rovine il suo nemico general Acton. Andò in Sicilia oratore infelice della sua vergogna, e fu chiuso in fortezza.
Il popolo vedendo quarantamila armati dei suoi, le castella in sue mani, spezzati i freni delle leggi e della paura, si credè invincibile. Chiamando traditori e giacobini i generali dell’esercito, nominò suoi condottieri i colonnelli Moliterno e Roccaromana, segnati di fedeltà, l’uno da un occhio acciecato nella guerra di Lombardia, l’altro da recente ferita nel combattimento di Cajazzo; e poi nobili, domatori arditi di cavalli, e (che più val su la plebe) grandi e belli della persona. Accettarono per non aver colpa del rifiuto, e perchè speravano con l’autorità da furibondi concessa, moderarne il furore. La municipalità, solo magistrato che stesse in atto di uffizio, assenti alla scelta; e l’impaurita città fece plauso. Torma di plebe andò in cerca di Mack; e non trovatolo in Casoria dove credeva, per subito mutato consiglio ritornò. Il generale, ricoverato nella notte dentro piccola casa di Caivano, agli albori del seguente giorno, vestito da generale tedesco, ed offertosi al generale Championnet in Caserta, ebbe magnanime accoglienze e la permissione di libero viaggio per Alemagna; ma trattenuto in Milano, andò prigione a Parigi. Le geste militari narrate in questo libro assai dimostrano di lui l’arte e ingegno; e la storia di Europa ne conserva documenti più chiari ne’ fatti d’Ulma, l’anno 1805. Depose nel general Salandra l’impero dell’esercito a pompa e a nome, però che l’esercito sciolto, nè ubbidito l’impero. Il nuovo capitano fu poco di poi ferito da genti del popolo, e seco il generale Parisi, mentre andavano uniti ordinando i campi. Altri uffiziali furono feriti, altri uccisi, desertate le trinciere o le stanze, nessuna l’obbedienza, il sentimento della propria salute prepotente; e non altra forza che ne’ tumulti, non altra autorità e pericolante che in Roccaromana e in Moliterno.
XLIII. Incontro agli accampamenti francesi non restando milizie napoletane, e solo apparendo qualche uomo armato del popolo, aspettavasi che il nemico (rotta la tregua perchè non pagato il prezzo) procedesse contro la città; e quelle voci moltiplicate ed accresciute si ripetevano ad incitamento nella plebe. Il senato municipale, sgombro del vicario, consultando col principe di Moliterno, divisero le cure dello stato. Questi per editto comandò preparar guerra contro i Francesi, e cominciarla quando necessaria; mantenere gli ordini interni, e soprattutto la quiete pubblica; rendere l’armi a’ depositi per distribuirle con miglior senno a’ difensori della patria e della fede. E conchiudeva: i disobbedienti a queste leggi, nemici e ribelli all’autorità del popolo, saranno puniti per solleciti giudizii ed immediato adempimento; al qual effetto si alzeranno nelle piazze della città le forche del supplizio. E si firmava, «Moliterno, generale del popolo.» Il senato per decreti provvide alla finanza, allo giustizia, a tutte le parti di governo; minacciando a’ trasgressori pena lo sdegno pubblico. ratto e terribile. Per distorre intanto i popolani alle domestiche rapine, bandì libera la pescagione e la caccia nelle acque e ne’ boschi regii. E scelse ambasciatori per esporre al generale Championnet le mutate forme di reggimento, e la comune utilità nel comporre pace che fosse gloriosa e giovevole alla Francia, ma non misera nè abbietta per il popolo napoletano, pur meritevole di alcuna stima, ora che riscatta con le armi e col danno proprio i falli del governo e dell’esercito.
Per tante provvidenze di quiete, la foga popolare allentò, molte armi tornarono al Castelnuovo, grande numero de’ perturbatori andò ne’ regii laghi o boschi; il tumulto e ‘l romore scemarono. Ma gli antichi settarii di libertà, e i nuovi surti allora dalle vicine speranze, praticavano secretamente co’ Francesi; ed offerendo potenti ajuti nella guerra, della quale i successi darebbero larga mercede di ricchezza e di onore alla repubblica, pregavano si negassero alle proferte lusinghiere di pace: ingrandivano di se medesimi la potenza ed il numero; spregiavano i contrarii; accertavano che le province cheterebbero ad un punto quando sentissero presa la capitale, e ‘l popolo vendicato in vera libertà. Così stando le cose, giunsero nel pieno della notte i legati della città (ventiquattro popolani caldissimi) tra quali era il Canosa, nato principe, aristocratico per dottrina, plebeo per genio: tutti guidati dal generale del popolo Moliterno; confidenti nelle proprie forze, inesperti de’ travagli della guerra e della incostanza delle moltitudini. Parlavano al generale Championnet confusamente, a modo volgare; chi dicendo l’esercito napoletano vinto perchè tradito, ma non tradito nè vinto il popolo; chi pregando pace, e chi disfidando guerra a nome di gente infinita contro piccolo numero di Francesi. E poi che si furono saziati di scomposte preghiere o minacce, il Moliterno con discorso considerato, così disse:
«Generale, dopo la fuga del re e del suo vicario, il reggimento del regno è nelle mani del senato della città; così che trattando a suo nome, faremo atto legittimo e durevole; questo (diede un foglio) racchiude i poteri de’ presenti legati. Voi, generale. che debellando numeroso esercito, venite vincitore da’ campi di Fermo a queste rive de’ Lagni, crederete breve lo spazio, dieci miglia, quello che vi separa dalla città; ma lo direte lunghissimo e forse interminabile, se penserete che vi stanno intorno popoli armati e feroci; che sessantamila cittadini, con armi, castelli e navi, animati da zelo di religione e da passione d’indipendenza difendono città sollevata di cinquecentomila abitatori; che le genti delle province sono contro di voi in maggior numero e moto; che quando il vincere fosse possibile, sarebbe impossibile il mantenere. Che dunque ogni cosa vi consiglia pace con noi. Noi vi offriamo il danaro pattovito nell’armistizio e quanto altro (purchè moderata la inchiesta) dimanderete; e poi vettovaglie, carri, cavalli, tutti i mezzi necessarii al ritorno, e strade sgombere di nemici. Aveste nella guerra battaglie avventurose, armi, bandiere, prigioni; espugnaste, se non con l’armi, col grido, quattro fortezze; ora vi offriamo danaro e pace da vincitore. Voi quindi fornirete tutte le parti della gloria e della fortuna. Pensate, generale, che siamo assai ed anche troppi per il vostro esercito; e che se voi per pace concessa vorrete non entrare in città, il mondo vi dirà magnanimo; se per popolana resistenza non entrerete, vi terrà inglorioso.»
Rispose il generale: «Voi parlate all’esercito francese, come vincitore parlerebbe a’ vinti. La tregua è rotta perchè voi mancaste a patti. Noi dimani procederemo contro la città.» E, ciò detto, li accomiatò. Stavano al campo, seguaci e guida dell’esercito, parecchi Napoletani, che parlando a’ legati con detti lusinghieri di libertà, avute risposte audaci, e gli uni e gli altri infiammati da sdegno di parte, si minacciarono di esterminio. I legati riportarono al senato quelle acerbe conferenze, che di bocca in bocca si sparsero nella città infestissime alla quiete. Alcuni preti e frati, settarii del cadente governo, vista la casa dei Borboni fuggita, il vicario cacciato e ’l senato della città dettar leggi senza il nome del re, andavano tra la plebe suscitando gli antichi affetti; rammentavano il detto della regina: «Solamente il popolo esser fedele, tutti i gentiluomini del regno giacobini»; spargevano quindi sospetti sopra Moliterno, Roccaromana, gli eletti, i nobili; consigliavano tumulti, spoglio di case, ed eccidii. Così rideste le sopite furie, i popolani, la vegnente notte, atterrate le forche, sconoscendo l’autorità di Roccaromana e di Moliterno, crearono capi due del popolo; nominati uno il Paggio, piccolo mercatante di farina, l’altro il Pazzo, cognome datogli per giovanili sfrenatezze, servo di vinajo; entrambo audaci e dissoluti.
La prima luce del 15 di gennaio del 1799 palesò i nuovi pericoli, che subito si avverarono; imperciocchè torme numerose di lazzari andarono contro i Francesi; altre sguernivano delle artiglierie i castelli e gli arsenali; ed altre più feroci correvano la città rubando ed uccidendo. E fatta sicura la ribalderia, que’ frati e preti medesimi con abiti sacri, nelle piazze, nelle chiese accendevano con la parola chiamata di Dio il furore civile. Sì che un servo della nobile casa Filomarino, accusando in mercato i suoi padroni, mena i lazzari nel palagio, ed incatenano nelle proprie stanze il duca della Torre, e ’l fratello Clemente Filomarino; questi noto per poetico ingegno, quegli per matematiche dottrine; la casa ricca di arredi è spogliata, indi bruciata, distruggendo molta copia di libri, stampe rare, macchine preziose, e un gabinetto di storia naturale, frutto di lunghi anni e fatiche. Mentre l’edifizio bruciava, i due miseri prigioni trascinati alla strada nuova della marina, sono posti sopra roghi e arsi vivi con gioja di popolo spietato e feroce. Altre stragi seguirono; si sciolse atterrito il senato della città; gli onesti sì ripararono nelle case; non si udiva voce se non plebea, nè comando se non di plebe. Il cardinale arcivescovo sperando alcun soccorso da quella fede in cui nome i lazzari combattevano, ordinò sacra processione; e nel mezzo della notte, con la statua e le ampolle di san Gennaro percorreva le strade più popolose, cantando inni sacri, e da luogo in luogo predicando sensi di giustizia e di mansuetudine. E mentre la cerimonia procedeva, fu visto nella folla aprirsi strada e giungere al santuario uomo grande di persona, coperto di lurida veste, con capelli sciolti, piedi scalzi, e tutti i segni della penitenza. Egli era il principe Moliterno, che, invocato permesso dell’arcivescovo di parlare al popolo, e manifestato il nome, il grado e il giusto motivo (la universale calamità) di quel sordido vestimento, esortò le genti che andassero al riposo per sostenere nel seguente giorno le fatiche della guerra; certamente ultime, se tutti giuravano per quelle sacre ampolle di sterminare i Francesi, o morire; poi disse a voce altissima: «Io lo giuro»; e mille voci ripeterono, «Lo giuriamo.» Il discorso, le vesti, la cerimonia, la comune stanchezza poterono su quelle genti, che tornando alle proprie case fecero per poco tempo tranquilla la città.
XLIV. Ma non dormivano i repubblicani, sopra dei quali pendeva imminente pericolo di strage. Avevano promesso al generale Championnet prendere il castello Santelmo, e lo tentarono la notte innanzi con infelice successo, perciccchè alcuni de’ congiurati mancarono al convenuto luogo; le parole di riconoscenza fallarono; e, destato all’arme il presidio, salvaronsi appena con la fuga. Comandava la fortezza Niccolò Caracciolo, grato al popolo perchè fratello del duca di Roccaromana; e la guardavano centotrenta làzzari dei più fidi, guidati da Luigi Brandi, lazzaro ancor esso e ferocissimo; era il Caracciolo nella congiura de’ repubblicani. Concertò che nel primo mattino del 20 andasse al castello inattesa ed inerme, come a rinforzo del presidio, piccola mano di congiurati; giunse il drappello, dicendosi mandato dal popolo; avvegnachè tutti gli ordini, preti, frati, nobili, magistrati, combatterebbero in quel giorno, contro i Francesi, da’ castelli, dalle mura e nel campo; e ch’ei venivano inermi perchè, certi di trovar armi nelle armerie del forte, avevano date le proprie a coloro del popolo che ne mancavano. Il bel dire piacque agli ascoltatori; e ’l numero piccolo e disarmato non movendo sospetti, fu il drappello accolto con suoni militari, e provveduto d’armi trionfalmente. Indi a poche ore il castellano rammentando la comparsa de’ giacobini nella scorsa notte, comandò che numerose pattuglie girassero intorno alle mura, ed elesse a guidarle lo stesso Brandi. Uscirono. Dipoi prescrivendo che le ascolte fossero doppiate, pose a fianeo di un popolano un congiurato. Richiamò dalle pattuglie il solo Brandi per conferire di materia gravissima; ed appena giunto, chiusagli indietro la porta ed afferratolo fu menato tacitamente in profondo carcere. Così orbato del capo il presidio de’ lazzari, bastarono pochi arditissimi ad opprimere i resti; perciocchè, fatto, segno, le ascolte de’ congiurati impugnarono le armi sul petto alle vicine; gli altri assalirono i lazzari che andavano sicuri ed inermi per il castello; l’ardire e la sorpresa prevalsero; e in breve ora i centotrenta del popolo furono cacciati dalle porte, o chiusi in carcere da soli 31 repubblicani; altri repubblicani al concertato segnale, accorsero; e da quel punto il castello fu conquista della parte francese senza che stilla di sangue si spargesse. I lazzari discacciati e quegli usciti a pattuglia col Brandi narravano le patite ingiurie, ma non creduti perchè ancora la bandiera del re sventolava sula rocca, e perchè il vero che spiace, tardi è creduto. Il generale Championnet fu avvisato dei successi.
XLV. Il giorno innanzi de fatti di Santelmo, torme di popolo uscite in armi dalla città assalirono il posto francese a Ponte-rotto; lo espugnarono, e procedendo valicarono il finme Lagni; ma da maggiore schiera incontrate e battute, ritornarono. L’oste francese, quel giorno stesso 19 di gennajo, levò i campi ed attendò più presso a noi tra Sarno e Aversa per aspettare la mezza brigata mossa di Benevento sotto il colonnello Broussier, il quale al passaggio che faceva delle strette Caudine, note col nome di Forche per la sventura e la vergogna romana, visto in cima delle convalli e nelle boscose pendici gran numero di armati, si ricordò le male sorti de’ due consoli; ma di coloro più avventuroso, ovvero meno esperti de’ Sanniti i popoli presenti del Principato, egli per arte di guerra li vinse. Avvegnachè simulando prima gli assalti, poi la fuga, spostò da quelle forti posizioni gl incauti difensori, che giunti al piano furono facilmente sconfitti, come genti spicciolate, da schiere in ordinanza. Pure quattrocento Francesi caddero morti o feriti, ed in assai maggior numero della opposta parte; la legione Broussier, superata la stretta univasi all’esercito, e quasi spensierata procedeva, quando vide e combattè e vinse truppa di lazzari, che volteggiando, come dotta in guerra, dietro al monte Vesuvio, sorprendeva opportunamente le stanze del generale Duhesme, e le pigliava; essendo in numero quanto mille contro dieci.
Adunato l’esercito francese, ventiduemila soldati, fu disposto in quattro colonne; delle quali una si dirigeva sotto il generale Dufresse a Capodimonte, altra sotto il generale Duhesme alla porta della Capuana, la terza sotto il generale Kellermann al bastione del Carmine, e la quarta sotto Broussier stava in riserva. Napoli non ha bastioni, o cinta di muri, o porte chiuse; ma la difendevano popolo immenso, case l’una all’altra addossate, fanatismo di fede, odio a’ Francesi. Era il giorno 20. Il generale Duhesme avanzò più degli altri; e il suo antiguardo, guidato dal generale Mounier, scacciate molte bande di lazzari, presi alcuni cannoni, entrò la porta Capuana per mettersi a campo nella piazza dello stesso nome. Subito in giro in giro, dalle case preparate a combattere per feritoje ne’ muri, e per cammini coperti, partono a migliaja i colpi di archibugio, ed i Francesi ne sono uccisi o feriti; cadde moribondo il generale Mounier, cadono i più arditi, non si vede nemico, a nulla puote arte o valore; sì che, abbandonato l’infausto luogo, traggonsi addietro. Kellermann, superate le guardie del ponte della Maddalena, pone il campo nella diritta sponda del Sebeto: e ’l generale Dufresse, non contrastato, si alloggia in Capodimonte. Vanno i lazzari orgogliosi della riconquistata piazza Capuana.
Per brev’ora, perciocchè lo stesso Duhesme, tornato agli assalti ed espugnata una batteria di dodici cannoni messa innanzi alla porta, procede nella piazza lentamente, incendiando gli edifizii che la circondano. Era già notte; le fiamme, la vastità e l’infausto augurio degl’incendii, spaventarono i lazzari, che andarono a ripararsi nella città. Il dì seguente il generale Championnet, addolorato delle morti nel proprio esercito e dal guasto di nobile città, sperò soggettarla per sole minacce o consigli; così che spiegati a mostra su le colline i soldati, le artiglierie, le bandiere, esortava per lettere benigne alla resa. Ma l’araldo impedito nel cammino ed offeso da’ lazzari, tornò fuggendo; altro messo travestito pervenne; ma trovando non capi, non ordini, non magistrati, sciolto il senato, fuggitivi Moliterno e Roccaromana, null’altro che plebe e che scompiglio, venuto al campo riferì le vedute cose. Il generale Duhesme aveva intanto spedito piccola avanguardia al largo delle Pigne; e poichè i lazzari l’offendevano dal vasto palagio di Solimena, poca mano di soldati per subita incursione giunse all’edifizio, lo bruciò, tornò al campo. Così passò il giorno 21; e con poca guerra il seguente.
XLVI. Ma nella notte il capitano francese dispose per il giorno 23 gli ultimi assalti; ed avvisati i capi delle colonne, e i partigiani in Santelmo, ordinò le mosse e le azioni; prescrivendo nella sperata vittoria, severa disciplina a’ soldati; e provvedendo nelle possibili sventure, al ritorno ed alla sicurezza dell’esercito. Terminava il comando con dire: «Alla prima luce del giorno muoveremo.» E mossero. Al generale assalto i lazzari per le strade combattevano; senza consiglio, senza impero, a ventura, disperatamente; e quando da Santelmo partì colpo di cannone ed uccise alcun d’essi nella piazza del mercato, tutti volgendosi al castello videro bandiera francese e si accertarono del tradimento. Moliterno e Roccaromana erano in quel forte rifuggiti; altri repubblicani, vestiti da lazzari tramezzo a questi, prima impedirono le stragi e i furti nella città, poi menavano al flagello de’ Francesi la tradita plebe. Opere malvage, se pongasi mente alla ingannata fede; ma scusabili o benedette perchè intendevano a finire gli eccessi e le furie di stato senza leggi. A’ giudizii di Dio e della istoria sono colpevoli degl’infiniti misfatti di quel tempo chi suscitò la guerra e la disertò, e chi mosse il popolo allarmi ed abbandonò i partigiani, lo stato, il comando, i freni del regno. Queste azioni erano sentite dalla coscienza e volontarie; le altre dipendevano quando da istinto di salvezza, quando da carità di patria, e più sovente da necessità. La peggiore plebaglia, corsa allo spoglio della reggia, e da due cannonate di Santelmo sbaragliata, lasciò a mezzo il sacco. Procedevano intanto i Francesi; il generale Rusca prese di assalto il bastione del Carmine, il Castel nuovo si arrese al generale Kellerman, il general Dufresse passato da Capodimonte a Santelmo scendeva nella città ordinato a guerra.
E il generale Championnet, che fra tante ostilità non aveva deposto il pensiero magnanimo di pace, andò al campo di Duhesme nel largo delle Pigne; e alzando bandiere di concordia, chiamando a se col cenno molti del popolo, dimostrò con modi e parole benevoli dissennata quella guerra da che i Francesi erano padroni de’ castelli; e, peggio che dissennata, ingiusta, perchè portavano al popolo quiete, abbondanza, miglior governo; e ne’ loro giuramenti rispetto alle persone ed alle proprietà, venerazione alla comune religione cristiana, divozione al beatissimo san Gennaro. Il generale, che speditamente parlava l’idioma d’Italia, fu inteso e applaudito. Era tra i presenti quel Michele il Pazzo, scelto capo, come ho riferito, dei lazzari, il quale pregando al generale che fosse posta guardia di onore a san Gennaro, subito ottenne che due compagnie di granatieri andassero alla cattedrale; le quali tra lazzari napoletani, che precorrendo gridavano viva i francesi, facevano sentire altamente, rispetto a san Gennaro! Non mai la fama fu più rapida; da un punto all’altro della vasta città si narravano que’ fatti. si ripetevano quelle voci di concordia, mentre su le rocche sventolava la insegna de’ tre colori, e le bande musicali francesi sonavano ad allegrezza; era il cielo brillantissimo, come suole in Napoli nel gennaro. Caddero le armi di mano al popolo: belva, furibonda o mansueta, a gioco di fortuna; facile alla libertà ed al servaggio; proclive meno al moto che alla pazienza; materia convenevole al dispotismo. Cessato il romore di guerra, uscite da nascondigli le appaurite genti, il generale Championnet fece ingresso magnifico, pubblicando editto in questi sensi:
«Napoletani! siete liberi. Se voi saprete godere del dono di libertà, la repubblica francese avrà nella felicità vostra largo premio delle sue fatiche, delle morti e della guerra. Quando ancora fra voi alcuno amasse il cessato governo, sgomberi di se questa libera terra, fugga da noi cittadini, vada schiavo tra schiavi. L’esercito francese prenda nome di esercito napoletano, ad impegno e giuramento solenne di mantenere le vostre ragioni, e trattar per voi le armi, ogni volta giovi alla vostra libertà. Noi Francesi rispetteremo il culto pubblico, e i sacri diritti della proprietà e delle persone. I vostri magistrati per paterne amministrazioni provvedendo alla quiete ed alla felicità dei cittadini, svaniscano gli spaventi della ignoranza, calmino il furore del fanatismo; sieno solleciti a pro nostro quanto lo è stata contro noi la perfidia del caduto governo.»
Durò la gioja. I repubblicani per le strade abbracciandosi e ricordando le sofferte pene, le benedicevano; gridavano i nomi di Vitaliano, Galiani, De Deo tra lacrime di tenerezza e di piacere; e patriotiche brigate accorrevano alle case de’ parenti loro, per consolarli dell’antico dolore. Tra le quali festive apparenze si rimoveva l’occhio e il pensiero da’ corpi morti delle due parti, che ancora ingomberavano le strade; mille. almeno Francesi; tremila o più Napoletani. Giunta la notte, furono vinte le tenebre dalle infinite luminarie della città; ed il monte Vesuvio, che da parecchi anni non gettava fuoco nè fumo, alzò fiamma placida è lucentissima come di festa; il quale spettacolo parve al volgo assentimento celeste, ed augurio di felicità; ma furono fallaci le apparenze. però che il tempo nascondeva sorti contrarie.