Poesie (Campanella, 1915)/Annotazioni

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VI. Varie - 4. Sonetto fatto al medesimo Nota

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ANNOTAZIONI

SCELTA

Titolo. — «Settimontano Squilla» è pseudonimo di Tommaso Campanella, svelato in quei versi della stessa Scelta (p. 138)

.....tre canzon, nate a un parto
da questa mia settimontana testa
al suon dolente di pensosa squilla.

Giacché «Squilla» è traduzione di «Campanella»: trad. che il C. fece spesso del proprio cognome (cfr. pp. 43, 112, 178), che scrisse del resto svelatamente alla fine della strofa alla quale i tre versi cit. appartengono. «Settimontana» egli diceva la propria testa pei «sette monti», ricordati nella strofa precedente (p. 137); ossia per le sette prominenze che vi aveva, come si può vedere in una ricostruzione della testa del C. fatta a cura di Luigi Amabile, in un suo busto, conservato ora nel Museo di San Martino in Napoli. E si noti che «Squilla» fu chiamato il C. da Gaspare Scioppio nel suo carteggio con Giovanni Fabri; e «Septimontanus» si chiamò lo stesso C. in una lett. del 17 marzo 1609, pubbl. dall’Amabile, Fra T. C. ne’ castelli di Napoli, in Roma ed in Parigi, Napoli, Morano, 1887, ii, docc., p. 45. — «Cantica», al singolare, è italianizzamento che il C. fa del latino «Cantica» (plurale). Cosí nel De libris propriis (ed. Crenio, pp. 176 e 183) accenna a queste sue poesie, dicendo «ut in Canticis nostris apparent» e «partem Canticorum»; e dove dá come titolo (ivi, p. 177) dei sette libri, che ne scrisse, questo di «Cantica», esso è da tradurre: «Cantici». Cosí anche san Bernardo chiamava «Cantica» o «Cantica canticorum» il Cantico dei cantici, il cui commento il C. cita nella Scelta (p. 60) col titolo abbreviato di Cantica. [p. 260 modifica] Dedica di T. Adami. — Christoph Besold, Wilhelm Wense e J. V. Andreä erano, con l’Adami, tra i conoscitori e ammiratori piú caldi che il C. avesse in Germania; e a loro l’Adami dovè comunicare gli scritti del C. anche prima di darli alle stampe. Il Besold tradusse in tedesco la Monarchia di Spagna (1a ed., 1620; 2a, 1623); l’Andreä alcune delle poesie (Geistliche Kurzweil, 1619:

cfr. Herder, Sämmtl. Werke hg. v. B. Suphan, xxvii, 347-62; una prefaz. l’Herder aveva premesso anche a un’ediz. delle Dichtungen dell’Andreä, Leipzig, 1793). E il Wense intitolava Civitas solis un suo disegno di societá religiosa dei rosacroce (cfr.

J. Kvacala, Protestantische gelehrte Polemik von seiner Haftent lassung, Jurjew, 1909, p. 14 sgg.). Di lui scrisse l’Andreä nella sua autobiografia. Ma intorno all’influsso su di essi esercitato dal C., oltre il cit. scritto del Kvacala, v. Sigwart, Kleine Schriftennota, Freiburg i. B., 1889, 1, 173-175, e lo stesso Kvacala, Joh. V. Andreäs Anteil an geh. Gesellschaften, Jurjew, 1899; Pust, in Monatshefte der Comenius-Gesellschaft, 1905, p. 272 sgg.

N. 1, v. 14 ed espos. — Anche altrove il C. paragona sé a Prometeo, e il suo carcere (propriamente la terribile fossa di Castel S. Elmo, in cui egli stette chiuso dal luglio 1604 al marzo o aprile 1608: Amabile, Fra T. C. nei castelli di Napoli, in Roma e in Parigi, 1, 11 e 94) al Caucaso, su cui fu incatenato Prometeo. «Ex Caucaso» p. e. è datata una sua lett. a Gaspare Scioppio dell’8 luglio 1607 e l’altra a monsignor Querengo dello stesso giorno (Amabile, Il cod. della lett. del Campanella, Napoli, 1881, pp. 58 e 63). Cfr. piú giú il son. «Temo che per morir non si migliora» (n. 71). E a quegli anni bisogna quindi assegnare questo Proemio.

N. 2. — La citazione della Poetica fatta nell’espos. non trova riscontro nella redazione di quella a noi giunta (cfr. tuttavia Poet., c. ii, a. 3 e iv, 1). — «Natan parlò in favola a David»: II Reg., c. xii.

N. 3, v. 71. — «Tata», voce dialettale che significa «padre»: qui «Dio padre».

Vv. 77-78. — La lacuna è volontaria, poiché vi si diceva delle adulterazioni subite anche dal Vangelo.

V. 84. — «Cinghi» evidentemente non è un plurale (come credette il Papini, 1, 33), ma indica il gran can dei tartari (Temugin) della seconda metá del sec. xii e della prima del seguente. Marco Polo (Il milione, ed. Olivieri, pp.61 sgg. e 79) lo chiama «Cinghys» e anche «Cinghi». «Cingus» lo chiama il C. nelle sue opere latine; [p. 261 modifica] e, a proposito della menzione che ne è fatta fin dalle prime pagine dell’Atheismus triumphatus, era nata anche in qualcuno de’ suoi contemporanei la curiositá di sapere chi fosse; e il Naudé, da Urbino, il 21 ag. 1632, ricordava al C. la lettera scrittagli dal comune amico La Motte le Vayer, «in qua se tibi plurimum commendabat et quaerebat quisnam fuerit legislator ille Cinghus...» (G. Naudaei, Epist., Genevae, mdclxvii, pp. 261-2). Bastava leggere lo stesso Atheismus per sapere della «lex Cinghi», ossia della religione dei tartari, che il C. giudica un’invenzione (poco differente dalla maomettana) di settari («ex modico, quod ad nostrani de illis pervenit notitiam»), poiché Cinghi «finxit se filium solis, et signa mirabilia fecit Tartaris. Transire visus est mare Caspium sicco pede, sicut Moyses Erithraeum; vere transivit cum fopulo suo legesque tulit hac ratione» (Ath. tr., ed. Parigi, 1636, pp. 130, 186). Cfr. Astrologic., ed. Lione, 1629, p. 73; Amabile, Cod. delle lett., p. 64.

V. 85. — Allusione alla corruzione della vecchia religione giapponese di Amida, intorno alla quale il C. attingeva notizie dalle lettere e storie dei gesuiti missionari di Oriente. Dei quali, nell’Historiographia (in fine alla Poetica, in Philos. ration., pars iv, Parisiis, Du Bray, 1638, p. 238), dice, a proposito dei desiderati della storia al suo tempo, che converrebbe raccogliere e coordinare le narrazioni. Cfr. anche Polit., viii, 14, in Real. philos. epilogist., ed. 1623, p. 390; c. x, 15, nell’ed. 1637, p. 132; Aforismi polit., in Opere, ed. D’Ancona, ii, 26. Sui semidei giapponesi Camis e Fotoques v. la lett. del 1 nov. 1557 del p. Gaspare Vilela in Epist. libri IV var., annessi all’Hist. rer. a S. I. in Oriente gestarum di E. Acosta, Parigi, 1572; G. P. Maffei, Hist. Indic., lib. xii, Bergamo, 1590, p. 331; N. Orlandini, Hist. Soc. Iesu, Roma, 1615, p. 302; D. Bartoli, L’Asianota, Roma, 1667, i, 131-133.

La citazione di san Tommaso a p. 13 è da correggere, riferendosi alla S. theol., ii, 2a, q. 95, a. 4.

N. 5. — Cfr. n. 83; Ath. tr.nota, p. 58 sgg.; De sensu rerum, ii, 25 e Metaph., lib. xiv, c. 2, a. 1; dove l’insaziabile brama di sapere dell’anima è arrecata come uno dei principali argomenti della sua immortalitá. E l’astronomia (Aristarco, Metrodoro) è menzionata come quella che «maxime hominis divinitatem declarat», come si dice nella Metaphysica ( 1 . c.). Pei vv. 12-13, cfr. Metaph., prooem., p. 5.

N. 6. — Il concetto che il mondo sia libro di Dio ricorre frequentissimamente nel C., che era ben lontano per altro dal vantarlo [p. 262 modifica] come proprio e originale; quantunque sia tutto suo il significato naturalistico e telesiano da lui attribuitogli. Si veda p. e. il proemio della Metaph., p. 2, e cfr. G. S. Felici, Le dottr. filos. religiose di T. C., p. 97.

Espos. — Il libro Contra macchiavellisti è l’Atheismus triumphatus.

N. 8, espos. — Ovidio, Met., 1, 321: «Fatidicamque Themin, quae nunc oracla tenebat»; Sapient. vi, 26: «Multitudo autem sapientium sanitas est orbis terrarum».

N. 9. — Pel De sensu rerum, v. lib. iii, c. 4 e per la Metaph., lib. xi, c. 9, a. 2 e 4. Per Mosé, Deuter., iv, 19.

N. 11. — Giobbe, x, 10.

N. 14. — Cfr. Ath. tr.nota, pp. 92-3, dove la vita umana è definita una commedia di ciechi: «...ludum ...coecum, quem vocam coecariam» (reminiscenza, forse, della Cecaria dell’Epicuro, imitata da G. Bruno negli Eroici furori), che si rappresenta nell’universo per volere e diletto dei celesti; e spesso gli uomini mascherati rappresentano parti difformi alla loro natura.

I sonn. 15-17 svolgono questo concetto, di crii non pare ci sia riscontro nella redazione che abbiamo della Metafisica, dal C. citata a p. 25.

I versi di Dante (Purg ., viii, 142-8) sono evidentemente riferiti a memoria dal C., che ne cita molto spesso in quasi tutte le sue opere.

Nell’espos. del n. 16 il «vero principe», a cui si allude, è Gesú, che in Giovanni, x, 14-15 disse: «Ego sum pastor bonus... et animam meam pono pro ovibus meis».

N. 19. — Paolo, Rom., vi, 23; Sapient., ii, 24.

1 quattro sonetti per la morte e la risurrezione di Cristo (nn. 1922), trascritti da fra Pietro Ponzio nel suo codicetto, furono scritti probabilmente nella pasqua 1601 (Amabile, Fra T. C., la sua congiura, i suoi processi e la sua pazzia, Napoli, 1882, ii, 288): certo prima dell’agosto di quell’anno, quando tal codicetto fu sequestrato. Cfr., tra le Poesie postume, i due sonetti a p. 212.

N. 20. — Cfr. lett. a Cristoforo Pflug, in Amabile, Codice, p. 63.

N. 22. — Nel processo di eresia fu deposto che il Campanella una volta ad alcuni frati, che si recavano in chiesa ad adorare il Crocefisso, avrebbe detto: — Dove andate? andate ad adorare un appiccato. — E certo, avverte l’Amabile ( Cong., i, 166 n), «una delle sue idee fu sempre il voler vedere nelle immagini Gesú trionfante [p. 263 modifica] in gloria piuttosto che Gesú suppliziato a modo degli schiavi; e cosi la croce gli riusciva sgradevole; e una volta, in presenza di una croce piantata sul margine di una via, disse al Petrolo che quella ‘gli facea mal ombra’».

Nel Sermo in die sanato Paschae di san Bernardo (Opera, ed. Mabillon, Parigi, 1719, 1, 899-906) è esaltata, coni’è naturale, la gloria di Cristo risorto, ma non c’è il paragone campanelliano tra Cristo risorto e Cristo crocifisso. È bensí dimostrato che la grandezza sublime di Gesú consiste nella sua singolare resurrezione (c. 5). Giacché di altri pure si legge che risuscitarono, ma per tornare a morire.

Per la cronologia di queste canzoni sul Primo Senno v. nota al n. 81.

N. 23, madr. 4, espos. — Cfr. Metaph., 1, 4, 1.

N. 24, madr. r, espos. — Cfr. Paolo, Ad Ephes., v. 13; Campanella, De sensu rer., iii, 5.

Madr. 4, espos. — Cfr. Metaph., lib. vi, c. 11, a. 1, e 1, 9, 7.

Madr. 5, espos. in fine. — Cfr. Campanella, Metaph., 1, 8, 1.

N. 25, madr. 2, espos. — Non pare che questa volta la portentosa memoria del C. lo abbia aiutato bene. Si tratta di un proverbio’(«suus cuique crepitus bene olet»), del quale Erasmo ( Adagia, chil. 111, cent. ív, n. 2) dice: «Suspicor ab Apostolio [sec. xv] e vulgi fece haustum. Nondum enim quemquam reperi cui suus crepitus bene oleret».

Madr. 3, espos. — Paolo, I Cor., vii, 2.

Madr. 5, espos. — Esiodo, Le opere e i giorni, vv. 293-7, cit. da Aristotele nell’Etic. Nic., 1, 4.

N. 27, espos. — Gli Articuli prophetales sono stati pubbl. dalI’Amabile, Congiura, iii, documenti, p. 489 sgg. Intorno all’argomento v. le note dello stesso C. all’Ecloga, pp. 202-3.

N. 28. — Per la cronologia di questa canzone v. nota al n. 81.

Madr. 3, espos. — Cfr. Metaph., vi, 9, 6; vi, 10, 4.

Madr. 7. — Nella favola di Platone, a cui il C. si riferisce, Ἕρως veramente è, com’è noto, figlio di Πενία e di Πόρος. Ma Πόρος è detto da Platone Μἡτιδος υιός ( Conv., p. 203 b); e il ficino traduce «Porus Consilii filius», commentando: «id est summi Dei scintilla. Deus nempe ‛consilium’et c‛onsilii fons’appellatur, quia veritas omnium est et bonitas» (Opera, Basilea, 1561, t. 11, p. 1344: Oratio sexta, c. 7). Per l’espos. cfr. Metaph., vi, 10, 6 (dov’è pur detto che l’amore è «desiderium immortalitatis») e si combatte la concezione platonica dell’amore come stato di difetto. [p. 264 modifica]

N. 29. — Cfr. Metaph., vi, 16, 1, ove il C. ricorda per l’appunto questa canzone, dichiarando che in essa disse l’amore essere del bello e la fruizione del buono, «quoniam tunc amor nobis videbatur a voluptate seiunctus et obiecti abseutis esse modo».

Madr. 4, vv. 17-18. — Cfr. Metaph., 1 . c.

Madr. 6, espos. — I luoghi di san Bernardo nel Commento al Cantico dei Cantici (serm. 52) e le proprie esperienze riferisce il C. in Metaph., lib. vii, c. 6, a. 2. Ma qui cfr. serm. 74, §§ 5-7 (ed.

cit., coll. 1530-1).

Madr. 8. — Cfr. Metaph., vi, 16, 1.

Madr. 9, espos. — Per Tamar e Aminone, v. II Reg., xiii, 11-15; per Ulisse e Polifemo, Omero, Odyss., ix, 365; per Sifra ( Sephora ) Puha (o Phua) con Faraone, Exod., 1, 15-21.

Madr. 10, v. 14. — Cfr. n. 14 e nota corrispondente.

Madr. 11, espos. — Il C. forse allude al son. «Quando fra l’altre donne ad ora ad ora» e alla canz. «Gentil mia donna, i’ veggio» del Petrarca.

N. 30, madr. 4, v. 3. — Metaph., vi, 10, 7: dov’è pure ricordato il suicidio di Nerone e dell’elefante egizio, che si uccise perché «privatus honore primario», come s’era detto nell’art. 5, e degli amanti, «quia nesciunt vivere se posse absque re amata». Pel costume delle donne orientali, che non vogliono sopravvivere all’uomo amato, v. Cic., Tusc., v, 77; M. Polo, p. 209; Ramusio, Delle navigazioni e viaggi, part. ii (Venezia, Giunti, 1583), c. 54 a.

Madr. 5, vv. 1-4. — Cfr. Met., vi, 10, 7. «Niba» è il palico «nibbána» (sanscrito «nirvana») che si pronunzia anche «nibban» con l’a finale muta (secondo mi comunica il collega prof. Belloni-Filippi).

N. 31, madr. 3, espos. — La citazione della Metafisica, giusta la redazione che ne abbiamo, è da correggere: lib. vi (i della parte ii).

Madr. 4, espos., n. — Metaph., lib. ix, capp. 5 e 7.

Madr. 9, espos. — Cfr. Eccles ., 1, 9.

N. 33. — Nella lett. del 1607 al Querengo (Amabile, Codice, p. 59) il C. dice se stesso «un meschino condannato dall’opinione popolare e di principi come il piú empio e malvagio che fosse mai stato nel mondo». E a tale anno è forse perciò da riferire questo sonetto. Cfr. Amabile, Congiura, i, 360 e ii, 416-7.

N. 34. — Il C. doveva aver la mente alle Recognitiones pseudo-clementine (Clementis Romani, Opera, Coloniae Agrippinae, 1569, pp. 56-7); ma lí si dice tutto l’opposto, come chiarirò altrove. [p. 265 modifica]

N. 35, espos. — La Monarchia Messiae fu scritta dal C. nel 1605, trad. in lat. nel 1618: pubbl. a Iesi nel 1633.

N. 36. — Questa canzone è un rifacimento del sonetto «Grecia tre spanne di mar, che, di terra», che è tra le Postume del ms. Ponzio. Pel concetto è da confrontare con l’opuscolo De gentilismo non retinendo (rist. con l’Ath. tr. nel 1636) e con la lett. al Galilei del 13 gennaio 1611 (nelle Opere del Galilei, ed. naz., xi, 21-26).

Madr. 3, nota 3. — Per Catone cfr. Plinio, N. Hist., xxix, 7. Nella lett. al card. Farnese (30 agosto 1606) il C., tra gli altri servigi che promette di rendere se riacquisti la libertá, annovera anche questo: «Componer di nuovo tutte le scienze naturali e morali, cavandole dalla Bibbia e santi padri, per scioglier la gioventú dalla dottrina greca, zizzania del Vangelo e nutrimento dell’empietá di questo secolo, che fa svanir l’ingegni e oscurare, come predisse Catone. E avanzarò in quelle Aristotele e Platone di certezza, di veritá, di facilitá, di pietá e d’efficacia di prove, al senso esposte e confirmate dal divino lume». Lett. ined. di T. C. pubbl. da S. Centofanti, in Arch. stor. ital., s. 3a, t. iv (1866), parte 2a, p. 63.

Madr. 4, v. 8 — «Schiavone»: Aristotile. Le opere del Telesio furono proibite il 17 ottobre 1595: v. Reusch, Der Index d. verb. Bücher, Bonn, 1883-85, 1, 536. Intorno al valore di questa proibizione vedi Campanella, De gentilismo2, p. 48. Ma quanto peso avesse realmente quella condanna, anche in pregiudizio dello stesso Campanella, apparisce da una lettera, pochissimo nota, del card. Del Monte al granduca Ferdinando I, pubbl. da Cesare Guasti nel Giorn. stor. degli arch. tosc., iii, 1859, pp. 159-60.

V. 10. — Gli stilesi piú infierirono in accuse contro il povero Campanella nel processo innanzi al vescovo di Squillace negli ultimi mesi del 1599 e nei primi del 1600: v. Amabile, Congiura, i, 361-7.

Madr. 7, espos. — Per Platone, v. Timeo, p. 22 b; per Giovenale, Sat., x, 174-5.

N. 37. — Questo son. è giá nel ms. Ponzio, col titolo: Sul presente stato d’Italia. «In veritá noi lo crederemmo scritto piuttosto ne’ giorni de’ preparativi, in Calabria [1599]» (Amabile, Cong., 11, 90).

V. 1. — «La gran donna...» è l’«ingens Patriae trepidantis imago», ecc., che apparve a Cesare sul Rubicone, giusta Lucano, Phars., i, 185 sgg. [p. 266 modifica]

Vv. 5-6. — Cfr. Genesi, c. xxxiv.

Per l’intelligenza del v. 9 sgg. occorre tener presente Dante, Par., ix, 133-8, a cui del resto il C. rimanda.

Pel v. 13, cfr. lett. a Paolo V: «Questo zelo spinse Erode e li regi ebrei e gentili ad uccider li profeti e apostoli e innocenti e perseguir Cristo e li filosofi, chi parlan solo di mutanza di stato o di repubblica, o di scienza migliore che l’ordinaria» (in Arch. stor. it., vol. cit., part. i, p. 22).

Espos.: «Erode perché finse serbar il seme». — Forse si allude a Luc., xxiii, 7-11.

N. 38. — Anche questo son. è nel ms. Ponzio: anteriore quindi all’agosto 1601 e scritto probabilmente in carcere a Napoli (Amabile, Cong ., ii, 287-8). Vedi palinodia a p. 251. — Per l’espos., nota 2, cfr. Ezechiel, xvi, 28, 30.

N. 39. — Anch’esso giá trascritto dal Ponzio.

Espos., nota 1. — È noto che, presa dai genovesi, nel 1379, Chioggia, i veneziani, scorati, chiesero la pace, inviando a Piero Doria come ambasciatore Pietro Giustiniano, il quale presentò al fiero genovese e a’ suoi «un foglio bianco e disse, per parte della sua Signoria, che scrivessero tutto quello che volevano, purché la cittá di Venezia avesse a rimaner libera e franca» (A. Gataro, Ist. padovana, in Muratori, RR. II. SS., xvii, 308). Ma, quanto all’«archibugio primo visto in Italia» allora, la memoria falli al C., il quale doveva aver letto de’ nuovi strumenti di artiglieria, con cui i veneziani danneggiarono in quella guerra i genovesi assediati in Chioggia, e il 22 gennaio 1380 uccisero lo stesso Doria. Cfr. Gataro, o. c., pp. 358 e 360.

N. 4. — Allusione ad Alfonso il magnanimo, vinto dai genovesi presso Ponza il 5 agosto 1435, e condotto prigioniero a Milano, presso Filippo Maria Visconti.

N. 41, espos. — Cfr. Ariosto, Orl. fur., xvii, 77.

N. 42. — I detti di san Giacomo e sant’Agostino, citati nel titolo, credo siano scambiati; ché il primo si trova in August., In ps. XXXI, enarr. ii; il secondo («ostende mihi») in Iac., ii, 18.

La parabola narrata nel son. è in Luca, x, 25-37.

N. 43, espos. — Cfr. Matteo, xxi, 31 e vii, 22 e 16.

N. 45. — È nel ms. Ponzio, col titolo Contro i G...., ossia Contro i gesuiti; e l’Amabile (Cong., ii, 92) ha pensato potesse mettersi in rapporto con l’opinione del Campanella (Narrazione detta ist. sopra cui fu appoggiata la favola della ribellione, stamp. dal [p. 267 modifica] Capialbi nel 1845, rist. dall’Amabile, Castelli, ii, docc., p. 134) che il suo complice Maurizio de Rinaldis, prima di essere appiccato fosse stato indotto, nel dic. 1599, dall’avvocato fiscale don Giovanni Sanchez, «con un gesuino confessor del viceré» (certo p. Ferrante de Mendozza), a «confessare la ribellione sopra la forca, perché avesse color di veritá», con la promessa, in verbo regio, della vita: donde le piú gravi testimonianze a carico del povero C. Cfr. Amabile, Cong., ii, 92.

N. 47, espos., nota 4. — Si riferisce alla Monarchia del Messia.

N. 50. — Anche questo son. è nel ms. Ponzio. Per l’espos., cfr. Genesi, vi, 4.

N. 51. — È anch’esso nel ms. Ponzio. Per l’espos., cfr. Apocalissi di Giovanni, ix, 11.

N. 53. — E, come i precc., nel ms. Ponzio. C’era tra i compagni di prigione del C. un grafomane, scrittore anche di prologhi di commedie, Felice Gagliardo, che, ha pensato l’Amabile (Congiura, ii, 287), può essere stato colui il quale invitò il C. a scrivere commedie.

Nn. 54, 55. — Di questi due sonn. il 1° è probabilmente posteriore al 2°, che è il solo che si trovi tra quelli del ms. Ponzio. L’Amabile, Cong., ii, 53, li attribuisce entrambi alle prime settimane del 1600. Il colore bianco delle vesti è uno dei desidèri e presagi del C. per la futura Cittá del sole.

N. 55. — V. 6: «Leon giudeo», cfr. Apoc., v, 5. — V. 8: «bianco corridor», cfr. Apoc., vi, 2. — Espos.: Apoc., vii, 13.

N. 56. — Sopra questa congiunzione magna cfr. Cittá del sole , ed. Solmi, pp. 44-5.

N. 57, v. 12. — Cfr. Apoc., vi, 2. Delle Revelationes di santa Brigida (stampate la prima volta a Roma nel 1475» e poi molte altre volte) il C. fece grande studio; e le citava perciò a memoria, incorrendo quindi in qualche confusione. Nulla infatti mi è riuscito di trovarvi come possibile fonte di questo sonetto. Cfr. tuttavia libro iv, c. 43 (ed. Monaco, 1671, t. i, p. 264).

N. 58. — Cfr. Daniele, ii, 31 sgg.

N. 60. — Il «carcere» è quello del Sant’Uffizio in Roma, dove il C. fu nel 1595, sotto processo di eretica pravitá. E a quell’anno deve perciò, molto probabilmente, riferirsi il son., che è nel ms. Ponzio. «L’autore si rivolge a qualcuno, commentandogli il carcere in cui si trova; e chi sa che non gliel’ispirò lo Stigliola, quando vi giunse egli pure»: Amabile, Cong., i, 84. Colantonio [p. 268 modifica] Stigliola per processo d’eresia fu chiuso in quella prigione nel luglio 1595 e vi rimase fin dopo l’aprile 1596 (ivi, p. 81). E forse v’era pure il Bruno: v. Solmi, o. c., p. xxi, e Gentile, G. Bruno nella storia della cultura, Palermo, 1907, pp. 65-6. Altro son. composto in quel carcere dal C. è tra le Postume, p. 212.

Nel ms. Ponzio il v. 3 dice:

in bocca al rospo che poi la divora.

E I’Amabile ( Cong., iii, 575) osserva: «La sostituzione di ‘mostro’ a ‘rospo’ sará meno ributtante, ma riesce assai meno calzante e troppo lontana dalle vedute dell’autore, il quale parlò del fatto anche in altre sue opere»; rimandando al De sensu rer., i, 8. Questo riscontro infatti assicura che il Ponzio dovette fedelmente trascrivere «rospo». Ma il fatto che «mostro» si legge non corretto nella copia dell’ed. Adami, che si conserva nella Bibl. dei Gerolamini, e che pur reca tante correzioni autografe, dimostra, credo, che l’autore stesso volle la sostituzione, poiché il senso rimane, per altro, immutato.

N. 61. — Nel ms. Ponzio al titolo di questo son. segue: «Subito fu preso». Se non che la giunta, secondo l’Amabile (Cong., ii, 91), «forse potè essere suggerita a fra Pietro dalle parole che si leggono nel 2° verso: ‘il fiero stuol confondo’; ma tutte le circostanze, che accompagnano queste parole, le mostrano riferibili a’ giudici, al fiscale e contradittori intervenuti nelle confronte; sicché il son. risulta precisamente del tempo degli esami e confronte del C., che aveano dovuto sembrargli tali da poterne menar vanto». Cioè al cadere del gennaio 1600.

N. 62. — Il santo Maccabeo del v. 9 è il martire Eleazaro del lib. ii dei Maccabei, vi , 18 sgg. Il re di Geth del v. 11 è Achi, presso il quale David si finse pazzo: I Reg., xxi, 12-15. Cfr. anche la lett. del 12 aprile 1607 scritta dal C. al papa e ai cardinali, in Arch. stor. ital., 1866, ii, p. 73.

Per Bruto cfr. Livio, i, 56 e Cic., Brutus, 14, 53. Per Solone, Plutarco, Sol., 8. Per lo stesso motivo David, Solone e Bruto sono ricordati nella Moral., ix, 11, ed. 1637, p. 3S.

La menzione di Iona (v. 12), allusiva alla Proph. Ionae, i, 15, pare si debba intendere nel senso che, laddove Iona innanzi alla forza cedette, sommergendosi volontariamente, egli (l’Astratto) credette d’inspirarsi al Santo Senno, ossia d’operare piú saviamente, [p. 269 modifica] opponendo alla forza l’astuzia. Giacché «s’intende bene che l’Astratto qui è il Campanella, il quale si trovava in faucibus Orci, come sovente si espresse» (Amabile, Cong., ii, 387 n; Castelli, i, 18-19; cfr. Del carattere díi fra T. C., estr. dagli Atti dell’Acc. pontan., 1890, vol. xx, p. 37 sg.). La nota «essendo condannato ai remi, ecc.», nelle precc. edizz. attribuita a Iona (che non ebbe tale condanna), non si deve intendere alla lettera; mentre giova considerare che altri frati, suoi compagni di causa, furono condannati (marzo 1603) a «inservire pro remigantibus in triremibus Sanctae Sedis Apostolicae» (Amabile, iii, 544), egli invece al carcere perpetuo. Ma la stessa misteriosa designazione, che fa di sé in questo son. con l’appellativo di «Astratto», induce a pensare che il C., anche con la nota inesatta e pur in qualche modo riferibile a quel processo, che, senza la sua astuzia, sarebbe finito con la sua morte, voglia piuttosto velare che svelare la persona di cui si parla. E del resto l’«ecc.» dice pure che oltre la galera avrebbe potuto esserci altro.

Espos., 1. — L’accesso della finta pazzia, con cui il C. si sottrasse alle estreme conseguenze dell’accusa innanzi al S. Offizio, ebbe luogo nei primi di aprile 1600. Nella cit. Narrazione, scritta nel 1620, lo stesso C., dopo avere ricordato le confessioni a cui l’avevan costretto (7 febbraio 1600) le torture «per non morir di tormento», dice delle angarie inflittegli dal crudelissimo Sanchez, finché «lo ristrinse nel torrione con le fenestre serrate, e mise timore a chiunque parlava d’aiutarlo. E li fe’ tanti strazi al povero C., che lo fe’ impazzire. Bruciò il letto. E lo trovâro la mattina mezzo morto, e pazziò cinquanta dí» (in Amabile, Castelli, ii, docc., p. 136). Ma la pazzia, che la storia del processo e tante altre dichiarazioni del C., sparse anche nelle Poesie (v. Amabile, Cong., pp. 386-7 e Del carattere, l. c.), dimostrano falsa, durò quattordici mesi.

Nn. 63 e 64. — Vanno intesi come séguito del n. 62.

N. 67. — Di Annibaie Caracciolo il Quadrio ( Storia e ragione d’ogni poesia, ii, 306-7) ricorda rime comprese in una raccolta di vari, che è in fine alle Poesie nomiche di G. B. Manso (in Venezia, appresso Fr. Baba, 1635). Non pare possa essere lo stesso Annibaie Caracciolo di cui Toppi, Bibl. napol., p. 22. «Niblo» è corruzione di «Annibale».

N. 68. — Il Telesio è legato a grandissima parte della biografia e del pensiero del C., la cui prima opera data alle stampe è una [p. 270 modifica] difesa delle dottrine telesiane: Philosophia sensibus demonstrata, in octo disputationes distincta, adversus eos qui proprio arbitratu, non autem sensata duce matura, philosophati smit, ubi errores Aristotelis et asseclarum ex propriis dictis et naturae decretis convincuntur, et singulae imaginationes pro eo a Peripateticis fictae prorsus reiiciuntur, cum vera defensione Bernardini Telesii Consentini, philosophorum maximi... Neapoli, ap. H. Salvianum, 1591. Il C. fu a Cosenza, vivente ancora il Telesio; ma non ebbe occasione di conoscerlo personalmente. Pure egli stesso ricorda, nella Philos. sens. demonstrata e nel De libris propriis', di averne dette le lodi in una elegia che affisse al suo feretro in chiesa, il giorno dei funerali; che fu la prima e unica volta che egli vide il Telesio, morto.

Intorno all’accademia cosentina, in cui si raccolsero i discepoli del Telesio, v. Fiorentino, Bernardino Telesio, Firenze, 1872-74, vol. i, parte i. — Bernardino Bombini di Cosenza (1523-1588) fu un legale. Lasciò inedite Rime e una Storia dei bruzi, e pubblicò, oltre opere giuridiche, alcune Discorsi intorno al governo della guerra e governo domestico (Nap., 1556; 2a ed. accresciuta, Venezia, 1583). Su lui, S. Spiriti, Mem. degli scritt. cosentini, Napoli, 1750, pp. 82-3; e Giustiniani, Mem. istor. degli scritt. legali del Regno di Napoli, i, 128-30. — Montano è nome accademico di Sertorio Quattromani, autore di un compendio dei primi quattro libri del De rerum natura del Telesio (La filosofia di Bernardino Telesio ristretta in brevitá, Napoli, Cacchi, 1589, rist. da E. Troilo, Bari, 1914). Su lui, Matteo Egizio, Vita di S. Q., premessa alle sue Lettere diverse e altri scritti, Napoli, 1714; Fiorentino, o. c., i, 118-131 e 341-351; F. Bartelli, Note biografiche, Cosenza, 1906, pp. 199-202 e passim; e Troilo, introd. all’o. c. (dove però è stranamente esagerato e alterato il valore del Q.) — Giulio Cavalcanti di Cosenza «ebbe grido in tempo che fiorirono molti altri bell’ingegni nell’accademia cosentina. Per quelle poche memorie che di lui son rimaste, raccogliesi che fosse stato buon filosofo telesiano e buon poeta, ed è fama che avesse descritto la Vita e i miracoli di san Francesco di Paola e che avesse composto un intiero vol. di Rime; niuna delle quali fatighe di presente si rinviene» (Spiriti, pp. 119-20). Conservasi soltanto la trad. di un carme latino del Telesio in lode della Castriota, insieme con l’originale pubbl. tra le Rime in lode della ill.ma ed ecc.ma s.a d.a Giovanna Castriota Carafa, duchessa [p. 271 modifica] di Nocera... racc. da Scipione de’ Monti, Vico Equense, 1585: ad essa si riferisce la lett. a lui del 9 apr. 1585 del Quattromani, Lett., pp. 151-2. È rist. dall’Egizio, o. c., p. 360, e dal Fiorentino, ii, 311. Cfr. Battelli, o. c., p. 54. — Il «buon Gaieta» è Giacomo, del quale il C. dovette essere amico, e lo introdusse come espositore delle proprie idee nel Dialogo politico contro luterani e calvinisti ed altri eretici (studiato da F. Fiorentino nel 1875: Studi e ritr. della rinascenza, Bari, 1911, pp. 391-421, e nel 1897 da G. S. Felici, in Rend. della r. acc. d. Linc., sc. mor., s. 5, vol. vi, pp. 109-31 e 166-91; assai scorrettamente edito da D. Ciampoli, Apologia di Galileo e Dialogo ecc. di T. C., Lanciano, Carabba, 1911: cfr. Amabile, Cong., i, 86-7). Cosentino anche lui, ma dimorante in Napoli; giurisperito e poeta: «molto intendente delle lingue e della poesia, come anco della filosofia telesiana», com’è detto nella raccolta delle Rime in lode della Castriota, dov’è di lui un madrigale (cfr. Toppi, p. 108). Un son. è nelle Rime di G. B. Ardoino in morte d’Isabella Quattromani, Napoli, Cacchi, 1590 (v. Spiriti, pp. 96 7). Ma non si conosce lo scritto a cui allude il C. qui nell’espos. e nella Metaph., vii, 16, 1: «Ergo patet undique pulchritudinem esse signum bonitatis, quae promaterialiter in Potentia et Sapientia et Amore consistit; ergo Caieta Consentinus omnes in dicendo quid, est pulchrum exuperavit scriptos, quamvis principia metaphysicae non attigerit». Lo ricorda anche nella Cittá del sole (ed. lat. in Philos. realis, 1637, p. 155: cfr. Opere, ed. D’Ancona, ii, 250). Con le parole dell’espos.: «rinnovò a filosofia», il C. accenna forse specificamente alla sua Philosophía sensibus demonstrata.

N. 69. — Con questo e i due sonn. seguenti si conchiude la serie dei versi consacrati al circolo intimo della sua scuola e de’ suoi amici, coi quali il C. ama trattenersi, almeno col pensiero, nella sua fossa; quantunque i sonn. della serie possano essere stati scritti in tempi diversi. Ma questi due al Bünau e all’Adami non sono anteriori al 1613, e dovettero essere scritti entrambi negli otto mesi dal febbraio all’ottobre, passati quell’anno dai due tedeschi a Napoli, i quali frequentavano il C., allora chiuso in Castel dell’Uovo, ma con tanta libertá di comunicazioni con l’esterno, da poter anche insegnare. Rodolfo e il suo maggior fratello Enrico di Bünau erano due nobili giovani di Meissen. Enrico era venuto in Italia fin dal 1603, compagno del Pflug e in relazione con lo Scioppio, entrambi amici del C. Rodolfo, sedicenne, imprese un [p. 272 modifica] viaggio d’istruzione col precettore Tobia Adami (n. nel 1581 a Werdau, nel Voigtland, e m. nel 1643 consigliere aulico del duca Ernesto di Sassonia, princ. di Weimar ed Eisenhach); e, dopo aver visitato Padova e Venezia, quindi la Grecia, la Siria e la Palestina, tornarono per Malta in Italia. A Napoli si fermarono in grazia del C., il quale diede all’Adami, con queste poesie, tutte le opere che aveva pronte, perché il buon tedesco le pubblicasse in Germania; e dopo la sua partenza continuò a carteggiare con lui, per convertirlo dal protestantesimo (cfr. Kvacala, Th. C. ein Reformer, pp. 122-5 e Protest. gel. Polemik cit.). L’A. infatti, oltre le Poesie, pubblicò il Prodromus philos. instaurandae (1617); il De sensu rerum (1620); l’Apologia pro Galilaeo (1622) e le quattro parti Realis philosophiae epilogisticae con la Civitas solis (1623). Il De sensu è dedicato appunto «Henrico et Rudolpho a Bina».

N. 71, v. 12. — Filippo III re di Spagna. Il carcere peggiore è questo del Caucaso, ossia della fossa di S. Elmo, a cui si scendeva per 22 o 23 scalini; quello, pur terribile, di «l’altrieri» è il torrione di Castel Nuovo (per cui v. nota al n. 62). Cfr. la lett. del C. al Querengo del 1 luglio 1607, in Amabile, Cod. d. lett., p. 60 sgg. Il C. stesso ci fa sapere che lo guardavano «50 leopardi», ossia soldati spagnuoli. Si veda ancora l’eloquentissimo doc. scoperto dall’Amabile (Cast., i, 94) nell’Arch. vaticano, relativo a una questione giurisdizionale tra la curia ed il governo di Napoli per la carcerazione di un frate reo d’assassinio nel maggio 1610, in cui si fa menzione di un «carcer nimis durus», detto «la fossa di Campanella».

N. 72. — È la fossa di S. Elmo, di cui nel son. precedente, E, come il son., questa canzone appartiene al quadriennio, in cui il C. languí in quella fossa. Per l’intelligenza di essa conviene riscontrare il salmo 87, dal quale lo stesso C. avverte che la canzone in parte è «cavata».

Madr. 3. — Cfr. salmo 87, vv. 5-8. Nei «mostri e draghi» del v. 8 è un’allusione all’apparizione di diavoli, di cui esplicitamente si parla nella canz. 4 in Dispregio della morte, nel De sensu rer., i, 6; ii, 25; iii, 4 e 5; iv, 1 e 2, e altrove: v. Amabile, Cast., i, 18 n.

Madr. 5. — Cfr. salmo 87, vv. 11-13.

N. 73. — Le tre canzoni di questa Salmodia furono «fatte in un tempo stesso... come tre sorelle d’un parto» (p. 138) nel dodicesimo anno della prigionia del C. (pp. 119, 136), ossia nel 1611. Non era piú in Sant’Elmo (Amabile, Cast., i, 144-5). [p. 273 modifica]

Madr. 2. — La Teologia del C. non era ancora scritta. Cominciata, secondo le ricerche dell’Amabile (Cast., ii, docc., p. 372), «circa il febbraio 1614, continuata fino all’ottobre, poi interrotta; ripigliata il 1615, ma finita solamente il 1624», il C. voleva pubblicarla a Parigi nel 1638; ma non ottenne l’approvazione. Il ms., rimasto a Parigi nel convento di S. Onorato, detto dei Giacobini, dove il C. morí, vi era ancora, incompleto, al tempo dell’Echard; ma andò poi perduto nell’incendio di quell’edificio, divenuto sede del club de’ giacobini, nella Rivoluzione (v. Amabile, Cast., ii, 151).

Madr. 3. — Il C. fu torturato tre volte. La prima il 7 febbraio 1600, col tormento detto «il poliedro» (vedine la descrizione in Amabile, Cong., ii, 61 sgg.). Il povero C. non resse allo strazio, e fece una lunga confessione. Fintosi pazzo, il 18 luglio dello stesso anno ebbe un’ora di corda, e «restò per pazzo», com’egli raccontava piú tardi. La terza volta gli fu applicata la terribile tortura della «veglia» (Amabile, ii, 217), alla quale resisté con animo invitto 36 ore (4-5 giugno 1601). I tormenti furono «sette», perché al polledro fu posto due volte con un po’ di respiro, e quattro alla veglia (v. Amabile, ii, 223-4, dove sono anche indicati tutti gli altri luoghi in cui il C. parla ne’ suoi scritti di queste sue sofferenze). Cfr. p. 136.

Madr. 4, espos. — In Demostene non c’è nulla di questa parabola, che evidentemente è qui pel C. un vago ricordo. Nella 1ª bensí delle orazioni Contro Aristogitone attribuite a Demostene, c. 40, si ha: Τί οὖν οὗτός ἐστι; κύων νὴ Δία, φασί τινες, τοῦ δήμου. πόδαπος; οἷος οὓς μὴν αἰτιᾶται λύκους εἶναι μὴ δάκνειν, ἃ δέ φησι φυλάττειν πρόβατα αὖτὸς κατεσθίειν.

Madr. 5. — Questo «Bocca», che andò libero, o a cui furono aperte le porte, benché dispregiante Dio (p. 125), non si può dire chi sia. Forse è soprannome del suo complice fra Maurizio Ponzio, il quale il 16 ottobre riuscí a fuggire dal carcere, e, rifugiatosi presso i turchi, si fece maomettano. Gilardo dev’essere un altro soprannome; e risponde molto probabilmente a quel Felice Gagliardo di Gerace, correo del C. e suo compagno di carcere in Castel Nuovo, poetastro bizzarro e negromante, evocatore del diavolo, a suggerimento, forse, e alla presenza del C., e dal diavolo istruito di eventi futuri, a credere a quel che ne accenna lo stesso C. (cfr. Amabile, Cong., ii, 387-9). Costui riuscí, sostenendo fortemente la tortura, ad essere assolto; ed uscí dal carcere nell’agosto [p. 274 modifica] 1604; benché due anni dopo, per un omicidio, fu ripreso e giustiziato.

Madr. 8, espos. — Cfr. Paolo, Rom ., viii, 22.

Madr. 9, v. 9. — Gesú a Getsemani. Matt., xxvi, 36 sg.; Marc., xvi, 324

N. 74, madr. 1, v. 4. — Allusione alle mutazioni celesti e alle profezie che promettevano al C. (cfr. Ecloga e note rispettive) il rinnovamento del mondo secondo i suoi ideali, precursore della fine universale. Cfr. anche a p. 138 l’esposizione. — Per l’espos. di questo madr., Geremia, xii, 1.

Madr. 2, espos. — Eccl., ix, 3 e viii, 14.

Madr. 3, espos. — Per quello che avrebbe detto san Pietro a Simon mago vedi sopra nota al n. 34, p. 265.

N. 75, madr. 5. — Isaia, lxvi, 7.

Madr. 8. — «Sette monti» son quelli che aveva nel capo (cfr. sopra p. 259): indice, secondo le idee fisiognomoniche del C., d’ingegno privilegiato. «Arti nuove» = nuova dottrina. La «gran semblea» era la societá rifatta secondo la Cittá del sole: cfr. p. 191. Il «primo albo cavallo» è il primato tra i domenicani, poiché il bianco cavallo dell’Apocalissi è, come il C. avverte negli Art. prophetales (cfr. Amabile, Cong., i, 156), l’ordine domenicano. Nei vv. 6-7 accenna agli accorgimenti e all’opera perseverante con cui seppe attrarre (vincere = avvincere) a sé tanta gente in Calabria nel tempo della cospirazione. Cfr. Amabile, o. c., i, 156 e 225; e Cast., i, 163).

Espos. — Vincenzo è s. Vincenzo Ferreri; e Caterina la santa da Siena, che erano tra i profeti, di cui il C. si faceva forte. Cfr. p. 203.

Madr. 9, v. 11. — Il «messaggere» che ebbe il C. (cfr. nota al n. 72) è il demonio, che nell’agosto 1606 egli scriveva al papa di aver interrogato «or son tre anni» e di averne avuto molte profezie (Arch. stor. it., t. cit., parte i, p. 66 e Amabile, Cast., i, 25-26), dicendo che esso «compariva ad una persona da lui instrutta a pigliar l’influsso divino, al quale gli parea disposta dalle stelle per la sua nativitá» (quel Felice Gagliardo, di cui sopra pp. 267 e 273). I demòni che erano apparsi a lui— ricorda nel De sensu rer., ii, 25, — «praedixerunt eventus plurimorum partim verorum partim falsorum».

Per le «cose altre mirabili» dell’esposizione, v. Ath. triumph.2, pp. 161-63. [p. 275 modifica] Madr. 12, espos. — Cfr. Ath. tr.2, pp. 82-3.

N. 77, madr. 4. — Accenni di fisica telesiana, per cui basta riscontrare il luogo dell’Ath. tr. citato nella nota precedente.

Madr. 5, espos. — Per la «Commedia universale» o, come dirá nel madr. 7, «giuoco della cieca», cfr. sopra nota al n. 14.

Madr. 6, espos. — Cfr. Ath. tr.2, p. 222.

N. 78, madr. 5, espos. — A chiarimento del testo giova tener presente il luogo dell’Assioco ps.-platonico, al quale il C. si riferisce (nella trad. dell’Agricola, annessa a quella del Ficino, che dovette essere usata dal C.): «Hinc iam fallens subrepit senectus, in quam confluit quicquid est infirmum fragileque naturae. Qnod nisi ocius quis vitam, velut aes alienum reddiderit, astans supra caput natura, tanquam foenerator, reposcit usuram; ab alio quidem visum, auditum ab alio, persaepe utrumque. At si quis diutius cunctetur, debilitat eum, excruciat membrisque destituit» (Platonis Opera tralatione M. Ficini, Basileae, mdxxxii, p. 957).

N. 79, madr. 3. — «Polo» è san Paolo, martire, come san Pietro e sant’Andrea.

Per l’espos. cfr. Moral., i, 20-21, ed. 1637, pp. 10-11.

Madr. 4, espos. — L’Antimachiavellismo (o Ath. tr.) fu, giusta le ricerche dell’Amabile, composto in gran parte dal marzo o aprile al luglio 1605; interrotto e poi terminato forse in latino, quindi trad. tutto in latino nella prima metá del 1607 (Cong., iii, 657). Questa canzone, dunque, dovè essere scritta nel 1605, se non giá due anni innanzi, quando il C. avrebbe avuto, secondo la sua lett. al papa giá cit. (p. 274 in fine), la sua «sperienza vera» dell’«altro secolo». Certo è del tempo della fossa di S. Elmo, cui si riferisce il commiato.

N. 80. — «Berillo — dice il C. — è don Brigo di Pavia, di santitá e caritá ed amicizia singolare con esso lui», cioè con l’autore. Alla fine della redazione italiana del De sensu rerum nel ms. Casanatense n. 1588 (copia eseguita, io credo, tra il 1605 e il 1607: cfr. Gentile, Le varie redaz. del De sensu, Napoli, 1906; e non tra il 1610 e il ’i2, come ha pensato l’Amabile, Cong., ii, 371-2) si legge: «La quale [universale Sapienza] sia pregata che me e Berillo mio alzi alla sua dignitá e conoscenza e mandi presto il mio liberatore». Testimonianza, che farebbe risalire l’amicizia di questo Berillo col C. al periodo appunto della sua prigionia in Sant’Elmo (nel Caucaso). Allo stesso tempo si riferirebbe, se, come pare anche a me, si tratta della stessa persona, la menzione che [p. 276 modifica] di un Berillarius si trova in una lett. del 31 ottobre 1607 di Gaspare Sdoppio (che quell’anno era stato a Napoli col C. e gli aveva promesso di adoperarsi per la sua liberazione) a Giovanni Fabri, che anch’egli s’interessava in Roma alla sorte del povero prigioniero (in Amabile, Cast., ii, docc., p. 29). L’Amabile non risparmiò indagini negli archivi di Napoli e altrove per trovar traccia di questo Berillario, che a lui parve dovesse essere il vero cognome di questo amico e confessore («eletto a purgar l’alme da’ brutti peccati», p. 163) del C.; «non senza tener presente che il nome ‘don Brigo’, addirittura insolito, poteva rappresentare una storpiatura», apparendogli «quasi certo», per la conoscenza della calligrafia del C., «che egli abbia scritto ‘don Hugo di Pavia’, e che l’Adami, nel pubblicare le Poesie, abbia letto facilmente ‘don Brigo di Pavia’»; e conchiude congetturando che don Ugo Berillario abbia potuto appartenere a’ basiliani (Cast., i, 48-49). Ma sarebbe strano che il C., il quale tante correzioni fece nell’esemplare della Scelta che si conserva nella Bibl. dei Gerolamini, non notasse questo errore di un Brigo, non mai da lui conosciuto, creato dall’Adami. E a me pare evidente che l’espressione «Berillo vivo» del commiato non avrebbe senso, se Berillo non fosse un soprannome dato dal C. a don Brigo, non nel senso generico di «beryllus» = «pietra preziosa» (come prima credette l’Amabile, quasi fosse un vezzeggiativo), ma in quello, ben appropriato al confessore, di «occhiale»; senso, in cui la parola era stata usata, nello scritto De beryllo, dal Cusano, certamente noto al C., che cita spesso questo scrittore (cfr. anche p. 213). Identificato poi Berillo del C. col Berillario dello Scioppio, confermandosi che la «singolare amicizia» di costui col C. è del tempo di Castel S. Elmo, mi pare si abbia una ragione di piú per prendere alla lettera la designazione del titolo «Canzone... fatta nel Caucaso», poiché con questo nome il C. si è sempre riferito a quella piú alta delle tre prigioni napoletane, in Sant’Elmo, e rifiutare quindi la data, costantemente asserita dall’Amabile, del 1613, quando il C. era in Castel dell’Uovo, in una condizione molto migliore che non fosse una volta nel Caucaso. I «quattordici anni» del madr. 2 non li computerei pertanto, come credè sempre l’Am., dal 1599, ma dall’inizio de’processi d’eresia (cfr. nel madr. 1 «per cui piú volte non mi fulminasti»), ossia dal 1591 (v. Gentile, Il primo processo d’eresia di T. C., in Arch. st. nap., xxxi, 1907, fasc. 4). [p. 277 modifica]

Madr. 7. — Per «Antioco» cfr. II Machab., ix, 11.

N. 81. — La data di questa canzone è esattamente determinata da quel che si dice nell’espos. al commiato. Il C. usci da Sant’Elmo nel marzo 1608, e v’era entrato nel luglio 1604; quindi la canz. fu scritta nel luglio 1607 (cfr. Amabile, Cong., ii, 418, e Cast., i, 94). E dall’espos. al madr. 1 risulta quindi che le canzoni al Primo Senno (nn. 23-25) e quella ad Amore (n. 28) sieno anteriori a cotesta data.

Madr. 1, espos. — L’anno saturnino è quello misurato dal giro di Saturno attorno al sole: 29 anni e 15 giorni. I «trentanni» ci riconducono al 1577, quando il C. aveva appena 9 anni. Vorrá dire che a 9 anni cominciò a poetare? Nel De Libr. propriis, i, 1, dice invece che incominciò a studiare grammatica e metrica a 14 anni, e che scrisse allora «multa carmina, sed fiamen nervosa».

Madr. 3, espos. — Cfr. Metaph., parte ii, lib. vi, c. 6, a. 9.

N. 83. — Si può considerare come primo abbozzo di questa stupenda saffica il cap. 25 del secondo libro del De sensu rerum nella red. ital. del 1604, da me pubbl. ne Le varie redazioni, p. 30 sgg. Anteriore alla poesia dev’essere anche la nuova trattazione del tema nell’Atheismus, 2a ed., pp. 58-60; ma posteriore è il piú vasto benché non meno commosso canto, che alla possanza dell’uomo si eleva nella Metaph., xiv, 2, 1 (parte 11, pp. 130-32). — Pei vv. 65-66, cfr. Met., l. c.

N. 85, espos., nota 1. — Salmo xviii, 1.

N. 86, espos., nota 12. — Allude al Fedone, capp. 46-47.

N. 87. — Nel De líbris propriis (i, 2, ed. cit., p. 176) il C. racconta che, mentre era a Roma [fine 1594-fine 1597], cominciò «versus Hetruscos Latino metro componere, ut in canticis nostris apparent [e quindi in queste poesie della Scelta ], et artem metricam vulgaris sermonis persimilem Latinae, dedique hanc Ioanni Baptistae Clario medico archiducis Caroli Romae ac duobus invenibus Asculanis»; sul qual Clario v. Amabile, Cong., i, 81-3. Ma questa Metrica non c’è arrivata. Le due elegie Al Senno latino e Salmo CXI appartengono dunque al periodo romano.

N. 88. — È trad. del salmo iii.

N. 89. — Pare scritto nella fossa di S. Elmo. Cfr. la cit. lett. al Querengo. Si noti che la Cittá del sole, a cui si allude nella n. 1 a p. 191, fu primamente composta nei primi mesi del 1602: v. G. Paladino, Per l’ediz. crit. della «Cittá del sole» di T. C. (estr. dalla Riv. di filosofia, a. iv, 1912, p. 3), ma l’idea era giá [p. 278 modifica] matura nella mente del C. a tempo della congiura. L’accenno «orni la scola mia» del v. 2 si riferisce all’essere il sole appunto l’insegna della sua ideale societá, meta di tutto il suo insegnamento. Degno di nota è quel che disse Felice Gagliardo, nel luglio 1606, del culto che il C. promoveva tra i suoi compagni di carcere pel sole: «E quando io adoravo il sole e la luna, voleva fra Tomaso Campanella che io adorasse il sole in quel modo che mi ritrovava in piedi, coverto o scoverto, guardando fissamente quanto poteva, tanto nel nascere la matina, quanto nel tramontare la sera, e dicesse queste parole, cioè: — O sacrosanto sole, lampa del cielo, padre de la natura, portatore delle cose a noi mortali, e condottieri de la nostra simblea, — e altre parole» (Am., Cong ., iii, 588).

ECLOGA

Venne in luce nel gennaio 1639; onde il C. poteva scrivere il 1° febbraio di quell’anno al card. Antonio Barberini: «Come a protettor di Pranza e divoto ex toto corde, secondo con gli effetti dimostra, io, come servo ex toto corde e salvo sotto la medesma corona, fior del mondo e sostegno di santa Chiesa, mando a V. E., per appendice de le feste ch’Ella ha fatto, l’ecloga ho fatto io nella nativitá del principe il Delfino» (in D. Berti, Lett. inedite di T. C. e catal. delle sue opere, Roma, 1878, estr. dalle Mem. d. Lincei, p. 67).

Verso 103. — L’«Orpheus aevi nostri, Melchisedech et Apollo» è Urbano VIII, delle cui poesie il C. scrisse (1627-29) un lungo commentario (conservato nel cod. Barberiniano xxix, 262). Cfr. Amabile, Cast., i, 315.

Nota 10. — Per tutte queste mutazioni, celesti presagi della fine del mondo, cfr. Metaph., xi, 10, 11, 17.

Nota 11.— La stessa menzione di Aggeo [ii, 8] e Ipparco in Metaph ., ix, 16, a. 2; cfr. cap. 17, a. 1.

Nota 13. — Da piú di 40 anni il C. veniva predicando questa «renovationem saeculi», forte delle predizioni dei profeti e delle osservazioni degli astri. Veggasi la sua Narrazione piú volte cit.; la lett. al papa e ai cardinali del 1607 tra quelle pubbl. dal Centofanti, in Arch. stor. ital., t. cit., parte ii, p. 75; lett. allo Sdoppio, in Amabile, Cast., ii, docc., p. 62; Ath. tr.2, p. 120; Metaph., [p. 279 modifica] xi, 17, 1; e in quasi tutte le opere. Ambrogio arcivescovo di Compsa (Conza, in Campania) è citato nella lett. al papa e ai cardinali col nome di «magister Caterinus». È infatti il domenicano Ambrogio Catarino de Politis, senese, m. a Napoli nel 1553: v. Ughelli, Italia sacra, vi, 820-21. Nella Metaph., parte iii, p. 51 è cit. «Ambrosius Compsanus». La citazione di santa Brigida pare sia da correggere cosí: Revel., lib. vi, c. 67 (ed. cit., ii, 540-541), dove infatti si parla delle tre etá del mondo e dell’avvento dell’Anticristo. Per lo Scaligero (Paolo della Scala) e la sibilla tiburtina v. anche F. Tocco, L’eresia nel M. E., Firenze, 1884, pp. 302-3.

Nota 22. — Lo stesso Campanella, nella dichiarazione scritta, da lui resa a Stilo nel settembre 1599, appena arrestato, depose: «Di piú il capitan Plotino [Francesco Platino, cfr. Amabile, Congiura, i, 156, e doc. 354, p. 336] fece leggere alcune profezie dell’abbate idrontino [di Otranto], le quali mostravano mutazione in Sicilia e Toscana e Calabria. E me le mandò a vedere; e io dissi che ponno esser vere, perché l’altri astrologi e savi predicano il medesimo» (in Amabile, Cong ., iii, 28). Chi non ci è riuscito di identificare, è il vescovo Bomecobo, cit. anche nella n. 35, ma non menzionato altrove dal C. Di maestro Antonio Arquato, medico e astrologo ferrarese della fine del ’400, i pronostici contro Venezia furono nel 1606 diffusi ad arte dai gesuiti. V. Amabile, Cast., i, 25. È anche citato nella Monarchia di Spagna, in Opere, ed. D’Ancona, ii, 93 e 211. La sua opera: Pronostico divino fatto dello anno 1450 al sereniss. re d’Ungheria delle cose che succederanno fra i turchi ed i cristiani e della rivoluzione degli Stati d’Italia e renovazione della Chiesa per tutto l’anno 1538: cosa mirabilissima, uscí in luce nel 1480 (s. l.): v. Mazzuchelli, Scritt. d’Italia, 1, parte 2a, p. 1119.

La Quaestio pro bullis, citata qui dal C., è la Disputatio contra murmurantes in bullas SS. pont. Sixti V et Urb. VIII adversus iudiciarios, scritta nel 1631 e pubbl. a Parigi, insieme con l’Alh. triumph., nel 1636.

Nota 36. — Per gli spagnuoli, contro i quali torna a negare di aver cospirato, egli aveva scritto la Mon. di Spagna, i Discorsi politici ai princ. d’Italia e la tragedia La regina di Scozia, non giunta fino a noi.

Nota 37. — «Ciclopea caverna» egli aveva chiamato (p. 113) la sua prigione napoletana; e giá nella ded. al Seguier della Philos. [p. 280 modifica] realis (Paris, 1637) aveva paragonato la sua uscita dalle mani del governo spagnuolo allo stratagemma usato da Ulisse. «Pelle Agni sacri»: perché il C. fu trafugato, si può dire, per ordine di Urbano VIII, travestito da prete e con falso nome (Am., Cast., i, 260 sg.).

Nota 39. — Il Panegyricus qui citato (cfr. Campanella, lett. agli arciduchi d’Austria, in Arch. st. it., parte ii, p. 100, sono i Discorsi politici ai principi d’Italia, composti la prima volta nel 1595 nel carcere del S. Offizio di Roma, e poi ricomposti con maggior larghezza a Napoli nel 1607. Furon pubbl. dal Garzilli (Napoli, 1848) e dal D’Ancona ( Opere di T. C., ii, 41 sgg.).

Nota 45. — Intorno alla leggenda di Gog e Magog ( Apocal ., xx, 7) si può anche vedere A. Graf, Roma nella mem. e nelle immaginazioni del M. E., Torino, Loescher, 1883, vol. ii, appendice.

Nota 53. — Per questo segreto v. la Cittá del sole, in Opere, ed. D’Ancona, ii, 266.

Nota 55. — Il predicatore Cornelio Musso (1511-74), dal ’44 vesc. di Bitonto.

Nota 57. — Nella Historiografia, giuntaci, non se ne parla.

POESIE POSTUME

I. Sonetti religiosi. N. 1. — Sonetto scritto nelle carceri del S. Officio in Roma, insieme con l’altro «Come va al centro ogni cosa pesante».

N. 2-3. — Sonn. da raccostarsi agli altri: «O tu ch’ami la parte piú che ’l tutto», «Quinci impara a stupirti in infinito», «Morte stipendio della colpa antica», «Se sol sei ore in croce stette Cristo», compresi nella Scelta, e tutti raccolti insieme nel ms. Ponzio: riferibili tutti, ha pensato l’Amabile ( Cong., ii, 289), alla pasqua del 1601.

II. Sonetti letterari e filosofici. N. 2. — L’Amabile (o. c., ii, 285) ha sospettato potesse essere indirizzato a quel Francesco Castiglia, in cui lode il C. scrisse il son. «Arbor vittorioso»; perché questo segue immediatamente all’altro nel ms. Ponzio.

N. 3. — Questo son. fu rifatto nella canz. intitolata Agli italiani che attendono a poetar con le favole greche (p. 85).

N. 4. — Cfr. Scelta, n. 36 e nota corrispondente.

III. Canti del carcere. N. 1. — Carlo Spinelli (figlio di Ferrante, duca di Castrovillari), mandato in Calabria nel 1599, dopo [p. 281 modifica] scoperta la cospirazione del C., in qualitá di commissario, luogotenente generale e capitano a guerra nelle Calabrie: uno dei piú fieri persecutori del C., insieme con Luise Xarava del Castillo, avvocato fiscale.

N. 2. — Cfr. salmo 128, di cui il son. è imitazione. Pel v. 6, «fabricando processo con processo», cfr. Am., Cong ., i, 36.

N. 3. — «Siamo alle prime settimane del dic. 1599, al tempo del massimo fervore nel processo della congiura pe’ laici» (Am., Cong., ii, 91). — V. 9: Maurizio de Rinaldis, capo sècolare della congiura, «dopo il Campanella — dice l’Amabile, o. c., i, 169 — il soggetto piú importante in questa faccenda». Ventisettenne, apparteneva a una delle piú nobili famiglie di Stilo; ricco, assennato e prudente, e insieme pronto, audace; fuoruscito dal 1598 «per certe pugnalate», come fu deposto nel processo: si può dire il braccio di quella cospirazione, di cui il C. fu la mente. Al C. devotissimo, invano, con suo rischio e audacia grande, si adoperò, appena scoperta la congiura, a trarlo con sé in salvo. La prima istruttoria del processo di congiura fu iniziata a Catanzaro e continuata a Squillace dallo Spinelli e dallo Xarava nell’ottobre del ’99. E li Maurizio ebbe «torture enormi, alle quali se ne aggiunsero poi altre non meno atroci» a Napoli: dove uno dei suoi giudici attesta di lui: «per septuaginta horas tortus et nihil confessus» (Amabile, Cong., i, 334-5 ). Carlo Spinelli tuttavia lo condannò giá in Calabria «a esser segato vivo tra due tavole». Mancato tuttavia il tempo all’esecuzione, fu condotto cogli altri a Napoli, dove fu ripreso il processo. Ed ebbe per due volte il tormento della veglia nei primi di dicembre, e fu condannato alla forca. Soltanto quando fu sotto il patibolo, il 20 di quel mese, per scrupolo di coscienza, dichiarò di voler rivelare ogni cosa. E cosí la esecuzione fu sospesa. Fece allora deposizioni gravi contro il C. e i suoi compagni, e fu giustiziato il 4 febbraio 1600. Questo sonetto e il madrigale seguente sono anteriori evidentemente al 20 dic.; come il madr. n. 5 è certo posteriore per lo meno di qualche giorno a quella data. «Il mostro di Granata» è lo Xarava: oriundo di Granata lo dice il C., «con ogni probabilitá per rilevarne il moresco core» (Amabile, Cong., i, 127-8). Cfr. n. 7, p. 223. I «doi germani» del v. 12 sono i fratelli Dionisio e Pietro Ponzio.

N. 5, ult. v. — Allusione al momento in cui Maurizio mutò contegno e si dispose a rivelare.

N. 6. — Segni della rinnovazion del mondo, che egli andava [p. 282 modifica] commentando a’ suoi accoliti, nella cospirazione calabrese. Giá nel 1599 aveva scritto anche gli Articuli prophetales e i Segnali della morte del mondo (Am., Cong., i, 149); ma per questo son. si deve venire al gennaio 1600, come vuole l’Amabile (ii, 93). Nel i° v. si accenna a una terribile inondazione del Tevere, avvenuta nella penultima settimana del 1598, continuata per tre giorni, dal martedí al venerdí, onde non si poterono celebrare le feste di Natale (Campanella, Narrazione, in Am., Cast., ii, docc., p. 128). Il Po inondò la Lombardia. Ci fu «brucorum prodigiosa illuvio in Italiam» (Art. proph., in Cong., iii, 496). Pel v. 8 è da ricordare l’incursione turchesca avvenuta il venerdí santo alla Roccella, in cui furono catturate 40 persone (Cong., i, 152).

N. 7, v. 4. — Don Carlo Ruffo bar. di Bagnara, don Fabrizio Carafa principe della Roccella, don Gio. Geronimo Morano, fratello a Gio. Battista barone di Gagliato, aiutarono tutti don Carlo Spinelli nella repressione della congiura campanelliana. Pel v. 12 si noti che lo Xarava era stato infatti scomunicato nel 1598 dal vescovo di Mileto per contrasti giurisdizionali; e scomunicato rimase almeno fino al 1605 (Amabile, Cong., i, 119; ii, 43). Il C. invece (lett. al papa e ai card, del 1607, in Arch. stor. ital. cit., pp. 80-81) credeva fosse stato assolto molto prima.

N. 8. — Il «perfido angue» del v. 8 è Satana. Il «bianco campione» è il C. domenicano, appartenente a quell’ordine predestinato, secondo s. Caterina.

N. 9, v. 14. — Allusione alla monarchia universale presagita nella Monarchia di Spagna, e nella quale si sarebbe attuata da ultimo la cittá del sole.

N. 10. — Scoperta la congiura, il C., insieme con fra Domenico Petrolo, si allontanò da Stilo e si rifugiò prima (fine agosto 1599) a Stignano, quindi in un convento a S. Maria di Titi: donde, non volendo lasciarsi raggiungere dal De Rinaldis, scapparono entrambi verso la Roccella, feudo del Carafa, dove furono accolti dal contadino Giovanni Antonio Mesuraca, che aveva degli obblighi (come si vede da questo son., v. 9) verso il C., e che, fatto travestire anche il C., poiché giá il Petrolo era travestito da ortolano, diede loro a credere che volesse tenerli celati, intanto che procurava loro un imbarco. Invece li tradí; e dopo tre giorni (4-6 settembre) i due furono catturati. Il «tuo signor» del v. 1 è il Carafa.

N. 11. — È evidentemente dello stesso tempo dei sonn. precc. e seguenti. [p. 283 modifica]

N. 12. — II Petrolo era stato esaminato una prima volta il 14 settembre nel processo di Squillace, e aveva fatto una gravissima deposizione contro il C., che «era mal cristiano e avea opinioni terribili, e tentava ribellione»: una deposizione, «la quale certamente conteneva un po’ piú di quello che egli poteva sapere» (Am.. Cong., i, 287; iii, 211, doc. 282). E ad essa allude il C. nel v. 5, «facendo ottimo viso a pessimo giuoco», fingendo cioè di credere che fosse stata «opra simolata», per giovare piú tardi al C. con la ritrattazione, che con questo son. sollecita (cfr. Am., op. cit., ii, 93). Il son. è anteriore perciò al 29 gennaio 1600, quando effettivamente il P. si ritrattò, ma per revocare piú tardi la ritrattazione, «aggravando fuor di misura la posizione del C.» (op. cit., 11, 54). — Nel v. 12 con «Cerberi e bilingui» si allude all’«empio mostro» Xarava.

N. 13. — In questo son. si può scorgere il senso di scoraggiamento e sconforto, che dovè assalire il C., quando, gettato per una settimana nella «fossa del coccodrillo» di Castelnuovo (nei primi giorni del febb. 1600), fu quindi sottoposto alla tortura e, vinto dallo strazio del «polledro», confessò. — V. 1. Anche suor Orsola Benincasa appartenne all’ordine domenicano. La gran reina è sant’Orsola, che, secondo la leggenda, avrebbe incontrata la morte con altre 11,000 vergini. — V. 6. Se n’era spogliato alla Roccella, dove fu catturato (cfr. sopra, al n. io). Nella lett. al papa, del sett. 1606, mentre ferveva la lotta con Venezia per l’interdetto, suggeriva: «Dunque tutte le persone sante d’ogni paese V. B. chiami a Roma; ché qua in Napoli ci è la beata Orsola; e quello, ch’a loro è inspirato, V. B. veda ed esequisca» ( Arch. stor. it., 1866, i, 29).

N. 14. — Giovan Battista de Leonardis da Nola, dal 20 genn. 1600 avvocato de’ poveri della Vicaria, e quindi assegnato, come ora si direbbe, d’ufficio a difendere il C. e gli altri frati inquisiti (su lui Am., Cong., ii, 74-75). Nelle prime settimane di marzo presentò la difesa pel C., che noi possediamo (o. c., iii, doc. 245, p. 144). — V. 6: «difensor commune» al C. e a’compagni.

N. 15. — Fra Pietro Presterá, concittadino e condiscepolo degli anni della fanciullezza, fu il piú fido amico del C., ed era il piú innocente di questi frati carcerati come suoi complici. Nel v. 5 si allude al canto del gallo del Vangelo. Questi sonn. pel Presterá e i seguenti pei Ponzio si possono collocare tra la seconda metá di febbraio e la prima di marzo. Il «Pietro mio», di cui parla il C. nel De sensu rer., ii, 20 e 220, e iii, 10, è il Presterá. «Chi piú [p. 284 modifica] ingrato mi trade» del v. 10 è il frate Giov. Batt. Pizzoni; e «chi non volendo nel mio mal si piega» (v. 11) è frate Silvestro di Lauriana, secondo il tenore delle loro deposizioni (Am., Cong., ii, 95).

N. 16. — I «mostri» sono lo Xarava e i suoi. Il «serpentin bilingue» è il frate Giovan Battista Pizzoni, che, appena catturato, il 4 sett. 1599, in Calabria, rese una deposizione gravissima contro il C. Cfr. Am., Cong., i, 264-5; ii, 25, 53, e la Narrazione del C., in Amabile, Cast., ii, docc., p. 132.

N. 17. — V. 1: «l’altrui», di Maurizio de Rinaldis: canto cui dovette seguire la palinodia. — V. 5: l’«orrido tormento» del polledro, che aveva fiaccato le forze del C. (cfr. v. 9), e che fra Dionisio sostenne invece con incrollabile costanza. «Fu tormentato col tormento del poliedro; e delle 19 funicelle, con le quali era tormentato, sette se ne ruppero nell’atto della tortura datali per ribellione», diceva in una sua lettera uno dei giudici (Am., Cong., ii, 73); e ne rimase così «disnodato», che «fino a tutto giugno egli non potè firmare gli atti che lo riguardavano, e dovè segnarli portando la penna stretta tra’ denti».

N. 18, v. 12. — Intendi: i giudici del processo di ribellione e quelli del processo di eresia.

N. 20. — Cfr. la relazione d’un colloquio notturno, che dalle finestre delle loro prigioni tennero il 14 aprile il C. e Pietro Ponzio, scritta da una spia e allegata agli atti del processo (Am., Cong., iii, 328):

Fra Pietro. Li sonetti toi per tutto Napoli li ho sparso, e io li ho tutti a mente; e non ho piú gran gusto che leggere qualche cosa dello ingegnio tuo.

Fra Tommaso. Ne voglio fare allo nunzio mò.

Fra Pietro. Si, cor mio. Però fammi una grazia: fa’ li mei prima, cioè quelli che voglio per Ferrante mio fratello, e poi fa’ quelli del nunzio.

Fra Tommaso. Va’ te riposa, bona sera.

Pel son. al nunzio v. nota qui appresso. Ferrante Ponzio è qui lodato insieme con gli altri due fratelli: rappresentante egli del Valore, come Dionisio del Senno, e Pietro della Bontate: immagine, tutti insieme, delle tre persone della Trinitá divina. Pel v. 12 cfr. la «forma tricorporis umbrae, tergemini Geryoonae di Virgilio, En., vi, 289; vii, 202, e Ovid., Eroid., ix, 92.

N. 21. — In questo son., secondo l’Amabile (Cong., ii, 89 e 97), si può vedere quello che il C. diceva (v. nota prec.) di volere [p. 285 modifica] scrivere pel nunzio, il quale avrebbe dovuto trasmetterlo a Clemente VIII.—Vv. 12-13. Questi profeti avevano insegnato al C. quella mutazione politica universale, che egli prediceva.

N. 22. — Cesare Spinola fu testimone a favore del C., contro la deposizione del Pizzoni. E rese la sua testimonianza il 15 nov. 1600. Per essa il C. lo ringrazia. Era un giovane genovese, stabilito a Napoli, benestante da potere spendere 100 scudi al mese: non si sa perché, imprigionato anche lui nel 1600, in Castelnuovo. Lo «stuolo traditoresco» è quello dei frati e degli altri complici, che deposero, come il Pizzoni, contro il C.

N. 23. — Nicola Bernardino Sanseverino, quinto e ultimo principe di Bisignano, uno dei piú ricchi e potenti feudatari del Regno di Napoli, per la sua vita sregolata, fu, d’ondine del viceré, carcerato nel 1590 «per emendazione di vita», e tenuto in prigione non meno di otto anni. Nel 1598 fu visitato in Castelnuovo dal C., che lo confortò coi soliti presagi di prossime mutazioni (Am., Cong., i, 96-101).

N. 24. — Il cavaliere T. Magnati era figlio primogenito della Ippolita Cavaniglia, alla quale sono indirizzate le tre poesie seguenti: era «continuo» del viceré, cioè apparteneva a una specie di guardia del corpo (Am., Cong., ii, 290).

N. 25. — Appartenente a una famiglia venuta da Valenza in Napoli con Alfonso d’Aragona (da cui don Garzia Cavaniglia fu fatto conte di Troia nel 1445); dal 1593 vedova di Fabio Magnati, dottore di leggi.

N. 27. — Francesco Gentile, patrizio genovese, dimorante a Napoli, testimone nel processo, per qualche tempo carcerato anch’egli in Castelnuovo, affezionatosi al C. e a Pietro Ponzio, che per lui raccolse nel codicetto, che ce le ha conservate, queste Postume.

N. 29. — Nulla si sa di questo «Aurelio», poeta.

Rime amorose. N. 2. — Per l’intelligenza di questo son. cfr. quello sui Tre nèi di Florida, a p. 245. Pei vv. 10 e 13 cfr. Genesi, 11, io: «Fluvius egrediebatur de loco voluptatis ad irrigandum paradisum».

N. 3. — Una suora Dianora o Eleonora Barisana di Barletta (m. nel 1620) era allora in Castelnuovo (secondo docc. in Amabile, Cong., ii, 295), e forse apparteneva alla famiglia del guardiano della torre. Può essere una stessa persona con quella donna che faceva all’amore col C. nel carcere e gli forniva libri e scritti mediante una «cordella», secondo la deposizione fatta prima di [p. 286 modifica] morire da Felice Gagliardo, condannato a morte nel luglio 1606 (in Am., Cong., iii, 589; cfr. ii, 350). Piú tardi vergognavasi il C. di avere, anche alla presenza di un giovane suo ammiratore e scolaro, Cristoforo Pflug, indulto a questi amori (Cod. d. lett., p. 65). Ma questi scherzi e la pratica ricordata dal Gagliardo sarebbero del 1603 o 4; posteriori quindi a questi sonetti.

N. 6. — Un’Anna Mendoza, forse quella maritata a don Alonso, castellano di Castelnuovo; in ogni caso stretta sua parente (Am., o. c., ii, 291-2).

N. 16, v. ir. «La natura, volendo eternarci in qualche modo, ci donò quello stimolo di far figli e di gettar il seme in un vaso, dove si ammassasse e componesse un altro noi» (lett. a C. Pflug, in Cod. d. lett., p. 65).

N. 21. — L’Amabile (Cong., ii, 295) mette in relazione questo madr. col son. «Amor nei gesti», ponendolo anch’esso in bocca a Francesco Gentile. Mi è parso preferibile attribuirlo alla donna.

N. 22. — Si può dubitare dell’attribuzione di questo son. al Campanella; ma v. Nota, qui appresso.

Sonetti politici. N. 1. Questo sonetto fu scritto a Roma nei primi del nov. 1597 quando «se preparava la guerra de Ferrara», per usare un’espressione dello stesso C. (Am., Cong., iii, doc. 19, p. 32): ossia contro Cesare d’Este, successo ad Alfonso II, e al quale Clemente VIII intimava di lasciar Ferrara ob lineam finitam (v. Muratori, Antichitá estensi, parte ii, cap. 14; e Amabile, o. c., i, 89-90).

N. 4. — Il settembre del 1606 scriveva il C. al papa di aver sentito «murmurar dal barbiere e soldati», con cui era a contatto nella sua fossa di S. Elmo, «che li veniziarii sono scommunicati da V. B. e che correno intrichi per questo» (Arch . stor. ital., 1866, parte i, p. 30). Era infatti scoppiato fin dall’aprile tra Venezia e Paolo V il famoso conflitto giurisdizionale, in cui fra Paolo Sarpi tenne testa per Venezia contro i teologi e curialisti di Roma, capitanati dal Bellarmino e dal Baronio. E allora il C. scrisse gli Antiveneti, nei quali non si deve vedere soltanto uno strumento per ingraziarsi il papa, del quale il povero C. allora aveva bisogno; perché lo stesso atteggiamento, non stretto da necessitá, aveva assunto nel 1597 contro Cesare d’Este.

Per le varie citazioni bibliche della prosa, pp. 252-3, cfr. Geremia, ii, 20 e 23, Isaia, iii, 9 e Geremia, ii, 23, 25; Proverbi, xviii, 3 e Isaia, xxx, 10; salmo 11, 2-4. Pag. 252 in marg. alle [p. 287 modifica] parole «teologo venduto» nel ms. di Pietroburgo è segnato: «fra Paolo» e in quello di Modena: «fra Paolo Sarpi». Per «Iezabel» v. il i° dei Re, xvi, 31; per «Attalia», Acta apost., xiv, 25, 27. — Il Bavaro è l’imp. Lodovico IV il B., ricordato anche lui per le sue lotte col papa.

Varie. N. 2. — Don Francesco Castiglia depose, come Cesare Spinola, in favore del C. il 6 e il 16 nov. 1600. Oriundo spagnuolo, era nato a Verona e aveva quarant’anni. Oltre che poeta, era capitano, ossia governatore di piccoli luoghi del Regno. Arrestato da poco e anch’egli chiuso in Castelnuovo (Amabile, ii, 175).

N. 3, v. 8. — «Anacarso» (il ms. ha «Anatarso» forse da «Anacharso») intendo per Anacarsi, il sapiente scita, annoverato tra i sette savi.