Per un Catalogo
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PER UN CATALOGO
Mi sta innanzi un libretto che ognuno dei miei lettori deve aver già veduto; è stato pubblicato da Laterza e porta il titolo: Scrittori d’Italia. Catalogo della raccolta.
Io non saprei trovare, diceva il professore Silvestro Bonnard, niuna lettura più facile, più attraente, più dolce di quella, di un catalogo: a che non si vuol soggiungere altro se non che bisogna saperla fare, codesta lettura; ciò che all’eccellente uomo troppo bene riusciva.
Ma questo non è un catalogo come tutti gli altri: esso non è destinato a illustrare punto per punto una collezione di esemplari numerati e più o meno venerabili, e invano vi si cercherebbe quell’apparato di minuta erudizione e quei particolari fra pedanteschi e famigliari, dall’incipit fino alle sorti di un’asta del 1831 e alla commossa notizia, di uno strappo o di una macchia sul frontespizio, che sogliono offrire pascolo alla fantasia modesta, dell’amatore dei libri.
Qui non è descrizione nè cronaca, ma l’annunzio e l’indicazione molto sommaria dei volumi che cominceranno a uscire fra poco.
Questa scarsità di notizie del resto è un pregio; essa dilata il campo dell’immaginativa. Inoltre ci invita, mentre s’aspetta, a riflettere più curiosamente sulle qualità e sugli elementi della nostra stessa aspettazione. Voi sapete che non è una figura retorica, poichè anche se vogliamo lasciar da parte le parole grosse, e la coscienza letteraria nazionale e tutto il resto, è pur certo che la pubblicazione di quello che riuscirà, bene o male, il Corpus degli scrittori d’Italia, è un fatto abbastanza importante da meritare d’essere considerato in se stesso e nei movimenti di spirito donde nasce e anche in quelli che suscita; sieno essi di consenso o di desiderio o di dubbio o di qualunque altra natura.
⁂
Il primo sentimento ch’io provo è del tutto personale; di una moderata allegrezza. Penso che potrò avere finalmente a portata di mano (se non proprio di borsa.... ma pazienza!) una raccolta di tutti gli scrittori e di tutti i volumi che mi possono bisognare. Una raccolta seria, solida, uniforme; questa è una gran bella cosa per colui che ha dovuto fino ad oggi combattere con tutte le insidie del mercato librario.
È inutile ch’io ricordi difficoltà e disavventure che ognuno conosce per esperienza. Chi non ha provato, da quel momento in cui l’amore delle parole scritte cominciò ad operare più consapevolmente nell’animo, il difficile desiderio di costituirsi una biblioteca di classici? E del resto tutte le biblioteche, che un uomo raduna per proprio uso, sono di classici; cioè i libri destinati a essere riletti e a durare nella memoria. Ma per gli scrittori italiani non contemporanei, quanta fatica! Era come una selva rada insieme ed aspra; dove trovare un libro non era meno malagevole che trovarlo buono. Abbiamo conosciuto l’irritazione del desiderio insoddisfatto, verso il volume che mancava perfino alla Biblioteca pubblica; e la stizza dell’edizione perfida e corrotta, venuta con troppa furia alle mani inesperte.
Tutto questo sta per finire: ed è bene che sia così. Oramai potrò maneggiare dei libri italiani, e metterli in ordine sul mio scaffale, con quella stessa fiducia rispettosa che ora provo, poniamo, per le edizioni di Lipsia: mi basta di vedere la copertina di quell’umile aranciato, colore un po’ stinto degli studi oscuri e della spesa mezzana, perchè tutta la stima accumulata da lunghi anni si risvegli nel cuore; prendo il volume e lo metto al posto con la sicurezza di poterlo aver sempre pronto, di qualche eccezione singolarissima in fuori, a ogni mia necessità di leggere e di rileggere e di citare, senza sospetto. Saran finite le incertezze, le diffidenze, gli esami laboriosi, le lunghe ricerche di consiglio presso i manuali, le esplorazioni dei cataloghi e delle mostre antiquarie e dei carretti dei libri d’occasione.
Sebbene, anche in ciò era qualche grazia, e ne resta qualche malinconia. Io parlo per quelli che intorno alle pareti della loro stanza hanno degli scaffali popolati da una folla di volumi vetusta e diversa, dove i testi scolastici e l'Ariosto e il Guicciardini vecchio di casa si trovano accanto alla serie azzurrognola, alquanto sbiadita e gualcita, delle edizioni Sonzogno; qualche volume arancione dei classici italiani di Milano 1802 si appoggia mezzo sciancato a certe edizioni legate duramente in verde e nero del Lloyd di Trieste 1852, e par che domini con la mole grassa e bonaria una fila di piccoli tomi dalla copertina oscura che sa di seminario o di Venezia del ’700; più in là un’aldina, col dorso di pergamena rifilata e lucente, non disdegna, per sua cortesia, la vicinanza di certe traditrici edizioni napoletane vanamente corrette, a penna e tutte gonfie dei quinterni scuciti e scomposti; i volumetti del rosso Diamante brillano un po’ troppo piccini fra gli elzeviri consunti di venticinque anni fa; e nell’ultimo ordine una serie di Danti e di Petrarca, di molte età e di molti formati, tomi scompagnati, quaderni stazzonati dall’abitudine di portarli in tasca, una edizione che contentò per un pezzo sbattuta fastidiosamente dietro la fila e un’altra, che per sè non val meglio ma oggi piace, posata di traverso al di sopra, ci rappresenta con varietà pittoresca il desiderio ancora irresoluto del testo definitivo e gli ondeggiamenti insieme e le mutazioni del nostro studio e del gusto.
L’occhio scorre su quelle file e si ferma a riconoscere e a ricordare; dai margini stazzonati e sfregiati si leva un susurro confuso. Sono le ore e le piccole avventure del nostro passato silenzioso e mediocre; lasciamolo nella sua pace. Ninno si potrebbe giovare di esso, fuor che una nostalgia alla quale non è tempo oggi.
Oggi pensiamo alla biblioteca nuova, e al diritto che essa può accampare per arricchire o sostituire la vecchia. Non si tratta di uno di quei soliti ospiti, portati dall’occasione e raccolti dalla fortuna di uno sguardo e di un animo incerto nei suoi errori; siamo di fronte a una collezione compiuta, valente di ragioni proprie, che cercano ricetto meglio nella intelligenza che negli scaffali.
Vi siete mai chiesto che cosa le possa aver dato origine; o meglio, quale motivo possa aver condotto a tale impresa Benedetto Croce; poichè è lui, e non altri, il soggetto sottinteso dei nostri discorsi generici?
La prima cosa che questa collezione rappresenterà di lui mi pare che sarà il gusto del bibliofilo, amante delle belle raccolte compiute e delle belle impressioni indite: l’uomo che ha radunato, secondo che si dice, una preziosa e rara biblioteca, che ha già dato in qualche modo il suo nome alla raccolta dei Classici della filosofia e ad altre imprese assai degne, lascerà in questa la migliore impronta della sua abilità ordinatrice e della sua finezza tipografica. Ma un lavoro di tanta mole non può nascer solo da una passione di bibliotecario. La ragione vera è chiara per quelli che conoscono il Croce; essa si confonde, quasi, con tutta l’opera di lui, e con quella passione profonda per il vero, per le notizie esatte, per le ricerche compiute, per la preparazione seria e per la cultura sincera, assolutamente onesta e infinitamente curiosa e perfettamente certa, che egli ha in tutta la vita sua espresso da sè e impresso nel pubblico. Fare la storia critica di una letteratura, senza poggiare, come sopra terra salda, su una collezione di testi autentica e sicura, doveva essere un tormento per lui, ed era già un bisogno oscuramente sentito in tutto quel movimento di studi e di animi che da lui si è partito. A ciò ora si soddisfa; sì che sia possibile a tutti in un giorno non lontano parlare di quello che si è letto, e averlo letto bene.
Io dico le cose alla buona, ma se ci pensate bene vedrete che questo fatto importa alla storia: è un momento capitale e quasi direi riassuntivo di quella età che comprende il rinnovamento degli studi positivi e il risorgere di una coscienza del passato nella nazione.
In fine il catalogo di questi scrittori rappresenta anche l’animo letterario del Croce e del nostro migliore insegnamento universitario; il loro sentimento e i gusti e la scelta.
Ho nominato prima la biblioteca teubneriana, per rendere qualche immagine della mia aspettazione di qualche cosa di mezzano e maneggevole, e pur compiuto e rassicurante. Ma non bisogna far confusione. Verso la teubneriana la mia fiducia è illimitata; io so che essa appartiene alla grande tradizione dell’umanesimo, e non pretende di recarvi nulla di nuovo; tutto quello che ci perviene dalla certa antichità, essa lo accetta, e bada solo ad accostarsi a quell’ideale — che del resto è una parte della stessa antichità — della migliore lezione. Potrò trovare di Eschilo o di Bacchilide una lezione più soddisfacente altrove; ma per eccezione. Del resto, e pur con la riserva di cercare caso per caso testi critici più squisiti, per il mio diletto e per la mia lettura, io posso prender tutto a occhi chiusi. Se la spesa non mi trattenesse, io vorrei avere tutta la collezione nel mio studio, e poco più avrei a desiderare.
Della biblioteca italiana di Bari non si può dire lo stesso. Ne avremo testi eccellenti, in veste assai buona, ma il tutto insieme ci lascia un’ombra di diffidenza e di fastidio.
Se si offrisse l’occasione di associarsi a tutta la serie, così in massa, senza diritto di esame o di scelta, credo che nessuno di noi si sentirebbe il coraggio di accettare.
Non è questa la biblioteca del nostro cuore, quella che solo al colore della copertura e alla forma dei tipi ci possa consolare gli occhi e invitare all’amico riposo.
Chi ha nominato l’Italia? quasi che questa fosse la scelta degna di rappresentare durabilmente il nome di lei e la voce del suo passato....
C’è qualche cosa in fondo all’animo nostro che si agita con mormorio di inquietudine e di scontentezza. La quale non voglio, e forse non saprei io discorrere con precise ragioni. Ma penso confusamente a tutto quello che c’è, nel catalogo d’oggi, di meschino e di effimero, limitato ai bisogni e ai gusti e alle abitudini di un momento molto particolare della nostra cultura, anzi del nostro insegnamento: penso a questa presunzione quasi pedantesca di voler rifare il canone dei nostri scrittori, quello che tradizione e storia avevano fermato negli anni e impresso nella forma della nostra mente. Questa presunzione non sarà, non è certo e non può essere, nel promotore; ma io la intravedo nei collaboratori, ma la sento nei lettori e in tutto quanto il volgo profano.
Quel che s’aspetta dai più non è già un dono modesto di sane e pulite edizioni, ma un rovesciamento di valori, qualche cosa come la nuova automobile di Edison o il viaggio del dottor Cook.
Povero dottore! Egli almeno ha sofferto il freddo del cerchio polare e ha vissuto i lunghi mesi solo in mezzo al ghiaccio pulito: ha pagato col dolore e con la fatica il suo diritto di dire dello sciocchezze. Questa gente che ho intorno è tutta sporca d’inchiostro, brutta e pettegola; non può essere sano quello che promette tanto pascolo alla sua ignoranza ambiziosa. Pensate che quasi per ogni nuovo volume di questa raccolta sarà possibile un articolo su certi giornali, che i nomi di un lirico del seicento o di un trattatista del secondo cinquecento usurperanno in certe conversazioni il posto del poeta giapponese o dell’impressionista egiziano, pensate a tutti quelli che per un volume nuovo si sentiranno in buona fede dispensati da ogni rispetto verso tutti quelli che l’hanno letto prima di loro, pensate alla novella istoria che parrà cominciare da codeste ristampe, e ditemi se non ci dev’esser sotto qualche cosa di marcio. E saranno edizioni critiche, in cui forse l’indicazione di una stampa mal nota da collazionare o la nuova lettura di un e in un manoscritto sarà come la freccia avvelenata che cerca il collega nemico attraverso le boscaglie della scienza; e la gioia del professore trionfante si esalterà nel pensiero di contribuir, come dicono, a guastare una tradizione e a creare un nuovo valore; a toglier via la vecchia letteratura di frasi e di motti, per restituire la dimenticata virtù delle cose e dei fatti.
Le cose! tutto quello che c’è in me di meno ingrato si rivolta dispettosamente. Nulla è così vago goffo inconcludente retorico come le cose.
Lasciate questi idoli ai meccanici e ai procaccianti, ai quali le provincie ignorate, le lacune, l’inesplorato, l’ignoto, l’inedito e le preziose scoperte sono così necessari come l’aria per respirare e i titoli per concorrere.
Parliamo onestamente di questa cosa onesta, che è l’Italia e i suoi libri. E allora bisognerà persuadersi che i nostri vecchi erano gente come noi, quando non erano meglio, e avevano occhi per leggere e animo per intendere; e tutto quello che noi ci crediamo di scoprire, altri l’aveva scoperto molto tempo prima di noi; e quel che c’era da vedere, da gustare, da notare, altri pur l’aveva veduto e gustato e notato, se anche non l’aveva detto a modo nostro. C’è una sola cosa forse che il passato non ci possa offrir bell’e fatta; è la gioia di accostare le grandi cose belle, e di comprenderne lentamente la nobiltà nell’animo puro. Essa è nuova ogni mattino in ognuno che se la sappia creare.
Se nei libri che ci si offrono potremo trovare qualche lume e qualche occasione di quella, sarà abbastanza per esser contenti.
È una gioia leggera: essa sfugge dalla mente che cerca di abbracciarla e lascia di sè solo un’ombra, quasi un vago odore e principio di gentilezza; pochi fortunati la sanno esprimere. E bisogna cercarla umilmente in ciò che è la effettiva realtà delle scritture, nelle parole a una a una e nelle composizioni di parole e nella scelta e nelle mutazioni e nelle giaciture delle parole: chè tutto quello che nei libri si trova, sorge da questi principi.
E bisogna accoglierla da quella che è stata la effettiva disposizione e l’intenzione e l’idealità dell’uomo con cui conversiamo; che se egli è uno scrittore d’Italia, sarà essa nella più gran parte dei casi la bellezza non degli universali, ma dei particolari, delle parole e delle rime e delle immaginazioni e delle correzioni; la bellezza che egli aveva imparato a gustare e ad amare da coloro che erano venuti prima e che ha comunicato ai seguenti, la bellezza o insomma l’ideale che è degli italiani e dei classici e dei linguaioli e degli accademici e di tutti quelli che vorrete, ma non dei romantici tedeschi o dei filosofi indiani.
Se non vi piace, cercate altrove; nessuno vi obbliga a restare in Italia. Ma. se ci volete restare, bisogna seguitare l’usanza del paese.
O volete fare della critica, dell’erudizione, della curiosità; e che Dio vi benedica! o volete darci gli scrittori d’Italia e quelli non s’inventano; è inutile volerne scoprire dei nuovi, voler tirar fuori le scritture scientifiche piene di cose, voler sostituire alla tradizione nostra letteraria e toscana, col suo centro nel ’500 e col suo orientamento invincibile verso la poesia, una letteratura d’occasione, fatta di scrittori dialettali, critici, pensatori, scienziati che non hanno mai avuto addentellato ed efficacia nella storia e poco valgono di per sè, una letteratura spostata tutta verso il ’600 e il ’700 e verso quella parte di essi che restò nell’effetto più oscura e meno feconda, una letteratura senza piani e senza architettura e senza forma.
Non dico che il Croce voglia questo; sarebbe assurdo. Tutti conosciamo la chiarezza della sua intelligenza, tanta da superare anche quelle che sarebbero le piccole manie e le particolari tendenze dell’uomo, che non può giù scordarsi di esser napoletano, di esser critico per professione e dedito alle cose del pensiero, e di esser stato magari erudito e cacciatore di rarità bibliografiche, di certi secoli e di certe regioni, nella sua giovinezza; questo nel Croce si vede come una sfumatura, che non offende, anzi piace, poichè è il compimento della sua fisionomia; ma è tenuta da lui in quel conto e in quel luogo che le spetta, e che nasce più dalla simpatia che dalla ragione.
Lasciamo stare il Croce, e leggiamo il catalogo, sia pur provvisorio, leggiamo il manifesto; poniamo mente alla lista del cinquecento, per esempio, anche in certi particolarità quasi accidentali, del posto che vi occupa il Castelvetro prima del Caro o l’Aretino rispetto al Castiglione o il Folengo rispetto al Berni; ed ecco il pensiero dei volumi che usciranno per primi, e non a caso saranno curiosità tutte del seicento e settecento, dà lume a questi accidenti; guardate poi bene ai secoli dal XVII al XIX sopra tutto, alle omissioni e alle restrizioni, come del Buonarroti e del Bartoli, o del Giordani e del Capponi e di infiniti altri, e a tutte le giunte inaspettate e antipatiche che qui non è luogo di ricordare. La tendenza alla fine è troppo chiara.
Ahimè! io scorro ancora una volta questo programma, formato da tanti valentuomini di cui ognuno ha verso la nostra cultura meriti molti e insigni che io non saprei ricordare senza reverenza, e un lungo represso sospiro mi sale su dal profondo, con rimpianto infinito. O dov’è ora il Carducci?
Non avrei voluto profferir questo nome, troppo annoiato ormai dalla retorica volgare e degno di essere difeso solo col silenzio.
Ed è vero poi che se tra le righe di questo catalogo a ogni pausa della lettura pare che incontro sorga quell’altro glorioso catalogo e veramente italiano che il Carducci, con tutti i suoi partiti presi superbi e con le magnanime superstizioni, avrebbe saputo fare, tutto ciò d’altronde è più facile a desiderare che a dire: sì che sembra meglio tacere.
Ma io ho ancora qualche cosa sul cuore. Sento troppo bene che in codesto luogo oramai fatto comune, del paragone fra il Carducci e il Croce, c’è ancora qualche angolo buio, un nodo che vuol essere sciolto. Ognuno parla di cambiamento di indirizzi, di allargamento di campo, di progresso e sviluppi nuovi della cultura; nè son parole soltanto, ma come in una nuova aria si respirano influssi mutati. È bene che sia così, e al compiacimento altrui anche io consento.
Se non che quando, quasi a un intoppo della corrente tutta questa mutazione vaga si circoscrive e prende da un argomento preciso limiti e figura intelligibile, allora è tempo di guardare le cose un poco più intentamente. Fermiamoci a codesto Corpus degli scrittori d’Italia: nella opposizione che quasi naturalmente si determina fra quel che ne fa il Croce e quel che ne avrebbe fatto il Carducci, il mutamento dello spirito e dell’educazione letteraria è assai chiaro. Ma io voglio sapere di più, non solo che cosa si è cambiato, e come, ma anche se c’è stato guadagno.
Non è una domanda oziosa; ogni generazione ha bisogno di far qualche volta il suo esame di coscienza e il suo bilancio morale.
Dicono che l’uno si è sostituito all’altro nel posto di maestro degli italiani. Guardiamo dunque in tutti e due, non tanto quello che è stato insegnato da loro, quanto quello che è stato ricevuto, appreso, ripreso dagli altri; quello che si spera ancora e si attende per loro beneficio.
Con ciò non si vuol fare confronto delle opere o degli uomini, che sarebbe stupido; l’uno era padovano e l’altro è laico. Ognuno è stato ed è quel che è per tutte le ragioni che la natura ha disposto e la storia potrà discorrere.
Ma noi vogliamo guardare il Croce e il Carducci nella loro realtà oggi, come due forze presenti e vive, operanti attraverso il quotidiano tumulto con irraggiamento da sè, mi sia concessa la fantasia epicurea, di idoli intorno rispecchiati e variamente raffigurati dalle anime degli imitatori. Altri si provi a sua posta di circoscrivere e giudicare, e magari anche di superare, l’uno o l’altro o tutti e due. Beato lui!
Io non penso già di superare nessuno. Ciò che è morto sì supera, ciò che è fluito e conchiuso; non ciò che vive. Il Croce è vivo, credo, nella persona e nel pensiero instancabile; è vivo come il fiume che corre in fondo alla pianura, e ad ogni ora del giorno e della notte l’orecchio, pur senza intendere, si fida al murmure vasto ed amico: l’acqua passa veloce verso regioni da noi non conosciute e nessuno può prevedere le fortune del corso.
Che cosa sarà domani, che cosa tenterà o scoprirà nel mondo delle idee e in quello degli uomini? Non so dire; ma so che la sua forza è sempre desta. Se il caso gli farà cadere sotto gli occhi queste pagine, io so che esse troveranno nella sua intelligenza il loro posto piccolo e tranquillo; e forse un sorriso accompagnerà la formula, che definisca limpidamente le mie cogitazioni irrequiete.
Il Carducci dicono che è morto. Ma che cosa è morto di lui? Penso che a più d’uno basterà non dico aprire quei volumi; ma riscuoter solo nella memoria l’eco di una pagina o una parola o un lampo della grande collera per mandare gloriosamonte all’inferno, nella presenza e nella pienezza di lui, tutta la mia cantafavola critica. Anch’io farò tanto, forse, domani. Oggi no; ho bisogno di seguitare, finchè non abbia veduto chiaro nel mio dubbio.
Parlavo poco fa di un esame di coscienza che incombe alla nostra generazione. A questa brutta scrivania dove son seduto, la frase suona un po’ ambiziosa. Se m’affaccio alla finestra vedo i quattro muri grigi di un vecchio cortile in cui cresce l’erba e su in alto risplende, nettamente segnato dall’orlo dei tegoli bruni, il quadrato del puro cielo di settembre. L’aria è celeste, lavata dalla pioggia notturna, brillante e chiara di sole; silenzio e dolcezza.
Ma le generazioni dove sono? Neanche una rondine intorno. Ci sono io solo e tranquillo.
Lasciate dunque che vi parli di me. Per studiare gli effetti di quella spirituale imitazione che occupa oggi la nostra curiosità, non trovo nessun altro esemplare di umanità meglio alla mano. Con un poco di buon volere, anche la mia storia assai ordinaria può servire di specchio a molte altre.
E cercherò nel passato. Se voglio esser sincero, maestri non ne trovo.
Ho cominciato presto a sentir parlare del Carducci e a conoscere la sua parola; ma in principio non ne avevo quasi nessun beneficio. Come molti di coloro che si destavano alle aure della vita morale nel’ultimo decennio del secolo scorso, i miei maestri primi furono barbari. Mi ricordo di una lontanissima estate, in cui bocconi sull’erba grigia d’agosto, alla fine di un pomeriggio di esaltazione, io guardavo il cielo e pronunziavo con una voce che mi pareva piena di solenni promesse queste parole.... Carducci — E Carlo Marx. Era la fine di una strofe saffica, che avrebbe dovuto conchiudere, come è naturale, la storia di quella stagione rivelatrice per la mia mente; per fortuna le rime erano alquanto aspre a trovare, e non credo ch’io ne facessi altro. Ma il frammento resta significativo.
Avevo letto in quei giorni le Nuove Poesie, edizione Zanichelli; e l’unica cosa che m’avesse toccato era la prefazione con i discorsi di Hillebrand e di Étienne dell’Accademia di Francia; e poi un poco dell’Avanti, di Versaglia, Danton ed Emmanuel Kant, Iddio, molto in confuso. Frattanto m’ero succhiato Marx, che mi legava un po’ i denti, e quanto più Labriola, Turati, Laforgue, Engels, Spencer e Lombroso avevo potuto. Quello era il punto capitale; Carducci lo aggiungevo per euritmia, perchè mi pareva che un poro di letteratura stesse bene per contorno.
L’estate dopo rileggevo quel libretto, insieme con le Odi barbare e con qualche cosa delle Confessioni e battaglie, edizione Sommaruga; e ne trascrivevo, ahimè, dei pezzi sopra un mio quadernino. La maledizione della retorica era sopra di me. Nella scelta, il criterio mi veniva dalla lettura delle riviste politico-sociali e dai libri del «pensiero moderno»; facevo collezione di invettive e di traslati, con un fremito di allegrezza nelle dita ogni qualvolta m’abbattessi a scrivere sillabe di qualche «protoplasma poetico». Trovavo che il Carducci fosse un bell’ingegno e un forte scrittore, ma debolissimo di pensiero e di critica, e uomo senza carattere; la sua «evoluzione poetica», la terminavo coi Giambi, e colle nuove Poesie di cui amavo sopra tutto le versioni da Heine. Le Odi barbare appartenevano già alla «involuzione». C'era fra le mie carte una Ode a Ferrara e Alla chiesa di Polenta regalatemi quando uscivano separate e che non avevo letto. Mi piaceva molto il Chiarone.
Questo fu il punto di partenza, gli episodi successivi importano meno. Come arrivassi un bel giorno a studiar lettere per il tramite della filosofia positivista e della critica storica, uso Giornale storico, e scientifica, uso Taine o anche, Dio mi perdoni, Nordau, come entrassi un poco a malincuore nella scuola del Carducci e che cosa mi sembrasse del suo modo di leggere il Parini, e come infine certi paragoni di succhio e linfa popolare risorgente nella poesia fossero per un pezzo, insieme con la imitazione più grossolana e colorata delle prose, il solo e quasi estrinseco legame del mio spirito con lui, è inutile ora ridire.
Il giorno, in cui tutta questa materia vile che s’era accumulata dentro di me lungamente quasi per improvvisa fiamma si purificasse, doveva venire; e venne. Mi toccò anche una buona ventura, che nessuna personale efficacia e consuetudine o caso m’aiutò nè m’interruppe. Imparai a poco a poco che non bastava dare esatte le citazioni e la bibliografia critica per esser letterati da bene, e mi vergognai di parlare dei testi che non avevo letto: ebbi a noia i luoghi comuni, e m’accorsi che la lingua italiana e la metrica e la storia e tutto il resto, per sapere, bisognava averlo studiato; non nei manuali, ma negli scrittori. E poi lo scrupolo di coscienza divenne abitudine, diletto quotidiano e forma propria della mente; e tutto quello che doveva accadere, accadde, in quel modo e con quegli effetti che a voi non importano punto. A ogni modo, se allora io avessi dovuto nominare gli autori della mia trasformazione spirituale, avrei parlato secondo la vicenda degli anni e delle letture, del Boccaccio e di Omero, oppure di Sainte-Beuve e di Montaigne, o di Cicerone e del Petrarca; non credo che avrei nominato il Carducci. Andavo, o ero andato, a udire le sue lezioni, con un entusiasmo equo che non sempre sormontava l’odio della folla e del caldo; avevo provato il suo esame, e offerto al giudizio suo qualche lavoro, senza commozione soverchia; avevo seguitato a leggere e rileggere gli scritti, ma senza dare a questa consuetudine oramai antica un peso troppo grande; anzi ponendo mente a distinguere sempre meglio da certe abitudini e da certe riflessioni acquistate prima il mio gusto, che sentivo diverso.
A quegli anni, altri successero, in cui il corso della vita mi allontanò materialmente e profondamente dal vecchio grande animo che si spegneva; e anche l’altra più modesta e cara luce, che agli scolari meglio rifletteva qualche raggio attenuato ma intimamente vivo di quel tramonto, Severino era venuto meno.
Ho voluto ricordare circostanze che possono parervi meschine, e sopra tutto oziose, ma mi sembrava necessario separar bene gli episodi di una esperienza personale e contingente da quella conchiusione più larga a cui mi sento portato. Io non voglio ritornare al Carducci per forza di abitudine o di scuola o di simpatia sentimentale. Se farò di lui il mio maestro di civiltà, voglio che la scelta sia libera e consapevole delle sue ragioni, pura, non dico già di movimenti umani, ma di vanità e di indulgenze interessate, e sopra tutto chiara, senza pieghe nascoste.
Dirò lo stesso del Croce, più brevemente. Dal 1895 in poi egli è entrato nel mio pensiero a poco a poco; non ho avuto sentore chiaro di lui e del suo lento crescente dominio, tino al giorno in cui me lo son trovato davanti intero. La mia esperienza di lui cominciava, come quella di tanti altri, da quella forma dell’erudito preciso e onesto, che sorse un giorno attraverso le recensioni del Giornale storico; e cresceva poi senza sospetti a furia di giunte e di successivi ritocchi, accettando la chiarezza del suo argomentare prima sopra un punto e poi sopra un altro di questioni letterarie circoscritte, e quindi fermandosi sulle sue idee come per confronto con altre di pensatori apparentemente più interessanti, con una curiosità che diventava insensibilmente compiacenza dell'accorddo e infine gioia dell’intelletto. Sì che mi pare di essere verso di lui in una disposizione che non è nè quella degli scolari veri e propri e di coloro che paiono venuti al mondo per lui e giurano nel suo nome, e neanche quella di coloro che non hanno saputo seguirlo nel corso del suo pensiero o in nulla o solo fino a un certo punto, e se la prendono con lui oggi perchè ha camminato più oltre: la disposizione del mio animo è simile a quella dei più, e non è turbata in nulla dalle vicende di un commercio personale, che può essersi svolto quasi in parte separata.
Lasciamo andare ora tutto questo. Poniamo di avere i due uomini davanti a noi: e interroghiamo la nostra coscienza, che cosa aspetterebbe da ognuno di loro, e di che vorrebbe parlare. Una differenza mi colpisce.
Con uno si può parlare di tutto; con l’altro no. Il campo e l’apertura delle due intelligenze è diversa. Il Carducci ha delle angustie che Croce non conosce. Io sento che a costui, se dovessi prenderlo per maestro, mi potrei confessare in tutto il mio bene e nel male con una sincerità assoluta; poichè la sua intelligenza non rifiuta nulla del mondo. Prima di ogni moto di adesione o di simpatia, mi pare che debba sorgere in lui il desiderio di comprendere.
Di quel che gli dico io, egli non si piglierebbe ira, ma piuttosto curiosità, e quella non malevola. Io mi potrei scoprire a lui in tutta la mia profonda diversità morale, nel mio fastidio delle idee astratte e delle correnti spirituali, nella mia antipatia verso tutta la gente seria elevata e convinta per professione, nelle debolezze del mio pensiero e nelle malinconie della mia sensualità, in tutto quello insomma che, meno somiglia, che più repugna alla sua forte natura; ma non credo che me ne vorrebbe male. Se prima fossimo stati, anche dopo potremmo restare amici.
Il mio sentire differente sarebbe per lui meglio che un urto o un insulto, un piccolo problema; che posto con curiosità, sarebbe sciolto forse con un sorriso: e poi anche la mia forma della mente sarebbe ammessa come una parte o modesto episodio del suo intelligibile universo.
Col Carducci il fatto andrebbe altrimenti.
Voi sapete bene che il discorso vorrebbe esser cauto, come d’uom che si muova sopra terreno pericoloso: a ogni tratto gli può scoppiare sotto i piedi. Nella conversazione di lui ci sono dei limiti, anche delle insidie, dalle quali conviene guardarsi. Cave leonem!
A ogni passo si scoprono templi e statue e termini sacri; più oltre sono le terre maledette. Fate che s’accostino i grandi nomi della letteratura o della rivoluzione, o sorga la specie delle sue grandi idee e architetture, il rinascimento o il quarantotto, la lingua italiana o il principio nazionale o il popolare, e sentirete subito quel terreno ardere e rumoreggiare; bisognerà fermare il discorso, o avanzar con misura prudentissima; tendendo l’orecchio a ogni brontolio, studiando l’effetto delle parole cautamente, nei lampi dei piccoli occhi e nelle scosse brusche dell’antica testa raggiante. Basterà una parola un cenno un moto, che possa gettare anche di lontano qualche ombra sui numi indigeti; e non dico poi un sospetto di citazione non sincera, di dilettantismo o di esotismo o di ignoranza, storica: un’imprudenza sola, e avrò al viso le unghie e l’alito ardente del leone.
E badate che non sarà sufficiente ch’io tenga per me certi gusti, e ch’io rispetti ugualmente e numi e idoli, guardandomi bene dal confessar per esempio quel che penso di Crispi e dei principi dell’89 o della così detta tenebra medievale; sempre dovrò essere in armi. Trasmutabile egli è per tutte le guise; i movimenti della sua intelligenza e i sussulti del temperamento si ribellano a ogni previsione tranquilla.
O col Croce non c’erano mica terreni privilegiati! Io gli parlavo di tutto ed ero certo di esser compreso. Eppure, se ci penso bene, la mia soddisfazione non n’era per nulla cresciuta. Diversa era, non maggiore. Parlavo e ascoltavo quietamente; con molta dimostrazione esteriore di rispetto, credo, e certo con ammirazione e stima profonda dentro, e gioia sopra tutto di quella chiara e dritta e arguta e lieta ragione sua.
Ma parlavo da uomo a uomo, quasi sullo stesso piano e del pari; oltre che minore, e infinitamente, mi sentivo anche diverso, e pur senza nessun bisogno di fare uno sforzo, o un passo solo per avvicinarmi. Non c’era in me entusiasmo nè inquietudine. Sapevo di potermi fidare a quella accoglienza netta e precisa e così fluida da avvolgermi tutto; forse sentivo un poco di freddo.
Che cosa ritraevo di me stesso da quella esperienza? Una valutazione generica che oserei dire perfetta, ma senza insidie di penetrazione, senza luce sul mio secretum; nessuna parte celata si rivelava nell’incontro. La esperienza investiva una parte, non dico impersonale, ma quella che può essere fatta impersonale, categorica e intelligibile; l’effetto se ne rifletteva sopra la mente assai largo, seco portando novità di pensieri e di conoscienze, ma nuova l’orma di umanità che potesse servir di esemplare nuovo e ragione morale, non ne portava.
Vorrei dire che il beneficio di lui si risolve in una forma logica e universale; non è abbastanza umano per suscitare principi di spirituale imitazione. O se qualcuno ne sorge, quello è contingente e cattivo, limitato a certe abitudini del bibliofilo e del napoletano, a certi cattivi gusti del letterato, a certe aridità del critico, che sono la sola cosa forse che del Croce si ritrovi nei cosiddetti imitatori; il resto, per la più parte, è pensiero puro, e non si può imitare.
Torno indietro, a quell’altra intelligenza che ognuno mi afferma molto più limitata. Limitata è veramente; poca imprudenza bastava a farmene accorto, con urto contro uno dei limiti improvviso e terribile. Quindi tempesta, e fuga cacciata da aspre parole.
Ma il giudizio di lui, anche nell’ira, investiva la mia persona come un raggio di luce, ne fermava il carattere con pochi tratti scultori; mi sento signoreggiato.
Credo bene che il ritratto sarà composto dentro mia cornice fittizia; si determinerà ini rapporto con certi piani di luce o d’ombra estranei a me e un poco artificiali, il patriottismo, lo storicismo; ma, dentro quei limiti, che cosa potrà essere più vera, più somigliante, espressiva? La giustizia e la ingiustìzia me ne piaceranno ugualmente.
M’inchino a ciò, come mi sono inchinato nella conversazione a osservare quei termini sacri nel campo della sua mente, senza dispiacere, e non soltanto per una reverenza, che pure era legittima, verso l’uomo. Sento che piegandomi, accomodando parole e cautele, non ho fatto nulla di men degno; non ho manomessa la sincerità del pensiero con nessuna ipocrisia.
E lasciamo stare ora che la verità vera sia dal cielo; sì che a quella che recano innanzi gli uomini convenga accostarsi con molta tolleranza. Questa può essere regola di buona creanza nel commercio, ma non ha luogo nell’animo nudo: ivi quello che è vero, è vero sempre, e sopra tutto.
Se non che nel Carducci io sento diversa forse dal vero la forma e gli episodi del giudizio, ma identica e santa la intenzione; i suoi errori stessi sono gloriosi. L’eroe, o Marceau o sia Carlo Alberto, che io rispetto nella sua ammirazione, è una grande nobile forte figura che l’animo di lui ha creato e la fantasia ha avuto potere di imporre anche sopra di me. Tutte le cose che egli afferma vere sono vere anche per me: se non nella lettera, certo nello spirito. E io sono vinto a consentire nell’animo, nella religione, nella santità del suo pensiero.
Qui non è possibile fare paragone col Croce, dell’intelligenza, come se uno ne abbia più, e l’altro meno. Non è una intelligenza generica, di cui si possa rendere quantitativa ragione; questo, al quale io parlo, è il Carducci. Qualche cosa di grande alita intorno, e io mi sento pieno del nume. Il dialogo è divenuto orazione.
Penso forse ai XX volumi delle opere? o alle vaste scatole di appunti e di schede coronanti le scansie dello studio oggi silenzioso, dove la fatica di questo aspro benedettino delle lettere ha lasciato per quarant’anni la sua traccia quotidiana e minuta? o penso a tutto l’esempio di una vita, che nei particolari della scrittura e del discorso non si esauriva, ma trapassando in vive anime e quivi trasfigurandosi, non perdeva forma però e durava e ancora dura?
Ho dimenticato in questo momento tutto quello che in lui era contingente e limitato e personale; non ricordo più, da me a lui, nè la distanza immensa dell’ingegno, nè gli svantaggi della cultura, nè le differenze delle opinioni e del gusto; voglio che tutto ciò sia fatto vano, e solo mi resti presente l’uomo della mia razza e della mia religione, il testimonio e il compagno, col quale mi sarà dolce vivere e morire.
Io mi sento vicino a lui in tutto quel che più mi importa, nel leggere un libro e nel tollerare la vita.
Un sentimento profondo uguaglia noi ai nostri fratelli che sono stati e a quelli che saranno: al padre Omero quando spande il suo dire in mezzo agli uomini che se ne vanno come le foglie della primavera; e a Saffo che parla alle Pleiadi scintillanti, e a tutti gli altri che sono venuti sopra questa terra nella cara luce del sole a soffrire e a amare e a godere le cose belle che ci sono, e così, parlando con voce tranquilla e con chiari occhi riguardando i compagni e il mondo, sono passati come anche noi passeremo. Perennis humanitas!
Ad essa appartiene il Carducci; per essa io lo onoro.
Egli votava la sua vita a questa religione, con animo schietto e libero e non intronato da nessuna eco di torbidi entusiasmi o di orgie e di non virili invasamenti. Sapeva di essere un uomo, non immortale, ma chiamato alla fine; sentiva nel passato e in grembo alla terra le sue radici, e il suo destino in mezzo agli nomini. Dopo di che egli ha atteso al compito che la natura gli mostrava con una fede serena e superba, con una reverenza di tutto ciò che era stato o grande o buono o bello, con un amore dell’opera propria e dell’altrui, che, per essere senza illusioni di eternità, non par tuttavia meno benefico.
Che cosa importa, ora se a noi manichino i doni che abbondavano a lui? Nessuno ci toglierà il diritto di onorare nel suo nome la nostra parte migliore.
Non si tratta di un maestro, che potevamo anche non avere, o di un libro che potevamo anche non leggere. Ma io mi rifiuto di abbandonare insieme con lui la ragione più profonda del mio sentire, la comunione col passato e la conversazione con tutti i grandi e cari e umani spiriti, e il culto della loro parola cara al mio cuore sopra tutte le cose. Io voglio sapere che c’è nella mia adorazione qualche cosa di vano; che l’amore delle belle parole, con tutto quel che reca di sacrifizio nel cercarle e nel custodirle e nell’imitarle, di superstizione nel goderle, è vano; e son vani i versi e le rime e i libri e i canti e le pitture e i simulacri e le immaginazioni tutte quante; voglio saper tutto questo per avere la gioia di affrontare con occhi aperti il pericolo mio dolce.
Passano i giorni e scema la luce e il tempo dell’amore se n’è andato e l’ombra si avvicina a noi lunga e nera. Noi facciamo dei libri. Anzi non ne facciamo nemmeno; ci contentiamo di leggere e di fare qualche segno sui margini. Ma questo basta, e la compagnia dei nostri padri e fratelli.
Nessuno fra quanti ho dintorno mi è stato guida ad essa e aiuto e conforto degno come il Carducci. Fra tutti i vicini io non trovo altri, a cui poter dare con sincerità questo nome di maestro.... «Orabunt causas melius alii coelique meatus....» descriveranno meglio i cieli del pensiero e gli episodi della storia; nessuno può essermi maestro migliore di letteratura e di umanità, per le quali io vivo.
⁂
Ma queste sono parole grandi: la mia gente è timida e non le ama.
Il Carducci del nostro cuore è quello che diceva le parole che nessuno, fra quanti serbano nel loro cassetto un segreto di quaderni pieni di cancellature, innumerabili e varie come gli entusiasmi dell’adolescenza, sa ricordare senza tenerezza. «Dopo il dono di fare la divina poesia, il dono largito dagli dèi ai loro prediletti, è di ammirarla fino alle lacrime. Questo secondo dono, io l’ho».
Anche noi l’abbiamo: è la nostra forza e la nostra debolezza, com’era la sua. Esso ci impedisce di essere dei ratés; ci ha permesso di chiudere il cassetto senza goffaggine, e di andare tranquillamente per il mondo.
Quanto a lui, quelle lacrime lo hanno messo disarmato nelle mani dei suoi nemici. Essi trovano che alla sua intelligenza mancava la purità degli interessi universali, non solo di fronte alla filosofia, ma di fronte a quello che era pascolo e occupazione sua propria, di fronte ai problemi letterari. E hanno ragione.
Il Carducci non era nè uno storico nè un critico propriamente, come è stato dimostrato e si potrebbe confermare con molte prove particolari bellissime. Davanti a una poesia non sorgeva mai in lui il problema disinteressato del comprendere e del definire, come poteva sorgere nella mente, poniamo, di un De Sanctis, pronto e aperto a tutto, purchè riuscisse a render conto intelligibile della sua impressione.
Il Carducci è sempre lo scolaro di Firenze e Pisa, che leggeva i classici per imparare da loro la lunga lezione dell’arte. La poesia è per lui qualche cosa di sostanziale, che ha un valore proprio; è un tesoro, un non so che di divino. Tu fondo a tutti i suoi movimenti si trova qualche cosa di religioso, che non si può discorrere per ragione.
Con tutto questo c’è nel suo modo di intendere e giudicare i testi di quella religione, cioè i libri degli scrittori, un segreto che gli altri non hanno, che il De Sanctis non possiede, per esempio: il segreto degli iniziati.
Egli si appropria tutto quello che incontra bello e degno, con una gioia infinita, come cosa sua, di cui amore e natura l’hanno fatto degno.
Spesso non sa criticare; ma sa leggere, semine. Il punto di vista da cui egli muove verso un libro è il più giusto. Poichè non è quello dello storico o del descrittore di inventari o del definitore di giudizi; ma è quello proprio dell’uomo dell’arte. Io penso a quest’uomo come fu in realtà: a questo professore, che ha passato tutta la vita sua in mezzo ai libri e che solo dalle finestre del suo studio ha potuto vedere gli uomini e le donne e l’universo.
Ma com’era buona e sana e forte la sua anima!
Egli non posava da eroe o da vate, confessava umanamente la sua dolce passione, in cui il culto per le belle parole dette dagli altri si confondeva col bisogno di crearne altre nuove. A questa passione si votava, senza perdonare a fatiche o a viltà; considerando e cercando e illustrando ogni cosa nella sua sincerità, punto per punto e pagina per pagina, studiando gli scrittori nella loro opera effettiva e le opere d’arte in tutti i loro accidenti e problemi veri, particolari, propri, con una sicurezza di sguardo e con una liberalità di cuore, che conforta a ripensare. Però dico che tutti quelli che si sentono portati dalla natura ad amare le lettere o, se volete, i libri, e a fare della loro consuetudine la consolazione e il fine della vita, non possono avere miglior maestro di lui.
E poichè navigare eternamente fra le nuvole degli astratti non può piacere a nessuno, io voglio che prendiamo uno scrittore fra i nostri e che ci proviamo a leggerlo insieme col Carducci, a paragone con quale si voglia altro. E sia il Petrarca.
Dico che ancora oggi per leggere le rime del Petrarca, per leggerle dico con diletto e con giudizio sicuro e con penetrazione sincera di quelle che sono qualità intime ad esse, niente può valere la edizione commentata da Carducci e Severino Ferrari, e che di quanto il discorso sull’opera di Francesco Petrarca, a parte la eloquenza e la mollezza lirica, cede in parecchi punti al Saggio critico sul Petrarca, di tanto quella edizione poi vince e il Saggio critico e gli altri commenti e tutto il resto. Ma questo si deve dimostrare.
Retractationes. — I due primi articoli di questo quaderno1 furono scritti nell’inverno 1908-1909 e comparvero allora pubblicamente sulla «Romagna» (Forlì). Ho lasciato che si ristampassero oggi quasi senza mutazione.
Con che non si dice ch’io ne resti contento oggi. Se dovessi scrivere ancora sullo stesso argomento, scriverei diversamente, credo; ma mi è piaciuto di non turbare questo piccolo episodio del mio passato.
Correggere era poco sincero; rifare mi sembra inutile. Al più, per scrupolo di sincerità, mi proverò di riassumere in poche parole l’impressione che queste bozze di stampa m’hanno suscitato passando sotto gli occhi in fretta.
Quando scrivevo del Pascoli, scrivevo più per me che per il pubblico; cercavo di veder chiaro in me stesso, in qualche punto che m’era buio e ansioso.
Il Pascoli era stato un grande amore della mia giovinezza romagnola, turbamento e delizia del cuore; parlo di molti anni fa; e avevo anche provato più d’una volta a render conto per iscritto di quelle che mi parevano qualità e novità del suo canto (mi par di riconoscere, nella seconda parte, qualche pagina ripresa da quegli appunti vecchi). Poi era sopravvenuta la stanchezza e il dubbio; e un franco dispetto delle cose ultime; quanto era cambiato lui, e insieme anche i miei studi: ciò si aggiungeva all’affezione antica, alla abitudine di rileggere e di ricantar certi versi, senza cancellarla.
Tutto questo era in me come una confusione, che avevo bisogno di chiarire e di sciogliere. Non mi domando se ci sono riuscito; ma ritrovo quello stato d’animo nella incertezza del mio discorso, diffuso, che tenta il suo soggetto da molte parti e non si risolve per nessuna; anche l’asprezza di certe parole e la insistenza di certe riprese ha quella origine.
Ogni scriverei con meno passione. Non che il problema letterario e morale di quell’uomo mi sembri fatto più semplice; ma non mi inquieta.
Mi piacerebbe di assomigliare in questo alla gente che verrà fra pochi anni. I quali sceglieranno da molti volumi poche pagine, e le terranno care; e del rimanente non discuteranno nemmeno.
Ma forse mi sbaglio. Certo su me oggi opera fortemente l’impressione di questi ultimi tempi, di tante cose brutte, vane, noiose, che egli ha detto e fatto; anche l’uomo è cambiato da quando lo vidi la prima volta, nella folla dei funerali di Carducci, e mi apparve proprio come uno sperduto figlio di Virgilio. Oggi è più debole, più vicino agli uomini e al comune. Quando mi annunziano qualche cosa di lui, io non ho nessun desiderio di accostarmi, e mi bisogna anche un certo sforzo per potere tornare al passato.
Poco ho da aggiungere di Beltramelli. Ne scrissi allora se ben ricordo, con molto interesse; quasi per far giustizia di una certa istintiva antipatia che m’aveva sempre fatto scansare da lui, e che mi pareva meno conveniente in un vicino. Io fui contento di trovar ragione di ricredermi in parte, e di sperar meglio. Credo che Beltramelli resterà sempre press’a poco così; una bella speranza mancata. Ogni uomo bennato, intendete letterato, non può gettar l’occhio sulla pagina di lui senza uno spavento che pronunzia la noia prossima e fatale; l’impressione è ingiusta, ma inevitabile. In quanto al suo scrivere, io feci male a non volerlo ricondurre al suo punto naturale d’origine; che è lo stile delle Novelle della Pescara. Ma è inutile tornarci su.
Poco dovrei avere da ritrattare nell’ultimo articolo; che fu scritto nel settembre, ed era stato pensato assai prima, proprio quando uscì quel catalogo; avrebbe dovuto essere stampato in una rivista di belle lettere e umanità, che poi non si è fatta. Questo spiega la chiusa; perchè chi aveva domandato il primo, aveva domandato anche un secondo articolo, sul Petrarca etc.; che non fu compiuto.
Ma nel frattempo di Carducci e di Croce si è parlato molto; e se volessi tener conto di tante altre e argomentazioni e questioni sorte fra via, troppo avrei da fare. Dalla polemica carducciana, per conto mio, ho cavato solo un beneficio. Dicevo, sopra, vicino al Croce, di sentire un poco di freddo; e, pensando al Carducci, dicevo il vero. Ma se penso a tutta questa gente, che non sono veramente nè carducciani, nè letterati, ma solamente invidiosi o fastidiosi, non sento più freddo; sento di loro una gran noia, e per il Croce una riverenza, piena di gratitudine e d’affetto.
Del resto io scrivo in un angolo di provincia; e molte cose non conosco. Quanto agli uomini, essi mi sono rappresentati solo da qualche pezzo di carta stampata che giunge fin qui; e secondo il fastidio di quella, li chiamo fastidiosi. Saranno poi bravissime persone.