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96 | scritti di renato serra |
e del definire, come poteva sorgere nella mente, poniamo, di un De Sanctis, pronto e aperto a tutto, purchè riuscisse a render conto intelligibile della sua impressione.
Il Carducci è sempre lo scolaro di Firenze e Pisa, che leggeva i classici per imparare da loro la lunga lezione dell’arte. La poesia è per lui qualche cosa di sostanziale, che ha un valore proprio; è un tesoro, un non so che di divino. Tu fondo a tutti i suoi movimenti si trova qualche cosa di religioso, che non si può discorrere per ragione.
Con tutto questo c’è nel suo modo di intendere e giudicare i testi di quella religione, cioè i libri degli scrittori, un segreto che gli altri non hanno, che il De Sanctis non possiede, per esempio: il segreto degli iniziati.
Egli si appropria tutto quello che incontra bello e degno, con una gioia infinita, come cosa sua, di cui amore e natura l’hanno fatto degno.
Spesso non sa criticare; ma sa leggere, semine. Il punto di vista da cui egli muove verso un libro è il più giusto. Poichè non è quello dello storico o del descrittore di inventari o del definitore di giudizi; ma è quello proprio dell’uomo dell’arte. Io penso a quest’uomo come fu in realtà: a questo professore, che ha passato tutta la vita sua in mezzo ai libri e che solo dalle finestre del suo studio ha potuto vedere gli uomini e le donne e l’universo.
Ma com’era buona e sana e forte la sua anima!
Egli non posava da eroe o da vate, confessava umanamente la sua dolce passione, in cui il culto per le belle parole dette dagli altri si confondeva col bisogno di crearne altre nuove. A questa passione si votava, senza perdonare a fa-