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86 | scritti di renato serra |
lare risorgente nella poesia fossero per un pezzo, insieme con la imitazione più grossolana e colorata delle prose, il solo e quasi estrinseco legame del mio spirito con lui, è inutile ora ridire.
Il giorno, in cui tutta questa materia vile che s’era accumulata dentro di me lungamente quasi per improvvisa fiamma si purificasse, doveva venire; e venne. Mi toccò anche una buona ventura, che nessuna personale efficacia e consuetudine o caso m’aiutò nè m’interruppe. Imparai a poco a poco che non bastava dare esatte le citazioni e la bibliografia critica per esser letterati da bene, e mi vergognai di parlare dei testi che non avevo letto: ebbi a noia i luoghi comuni, e m’accorsi che la lingua italiana e la metrica e la storia e tutto il resto, per sapere, bisognava averlo studiato; non nei manuali, ma negli scrittori. E poi lo scrupolo di coscienza divenne abitudine, diletto quotidiano e forma propria della mente; e tutto quello che doveva accadere, accadde, in quel modo e con quegli effetti che a voi non importano punto. A ogni modo, se allora io avessi dovuto nominare gli autori della mia trasformazione spirituale, avrei parlato secondo la vicenda degli anni e delle letture, del Boccaccio e di Omero, oppure di Sainte-Beuve e di Montaigne, o di Cicerone e del Petrarca; non credo che avrei nominato il Carducci. Andavo, o ero andato, a udire le sue lezioni, con un entusiasmo equo che non sempre sormontava l’odio della folla e del caldo; avevo provato il suo esame, e offerto al giudizio suo qualche lavoro, senza commozione soverchia; avevo seguitato a leggere e rileggere gli scritti, ma senza dare a questa consuetudine oramai antica un peso troppo grande; anzi ponendo mente a distinguere sempre meglio da certe abitudini e da certe riflessioni