Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. I/Capitolo VII

Capitolo VII

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CAPITOLO VII.1


Inizio del processo — Il giudice processante a tentone fra le tenebre — Primi raggi di luce — Primi mandati di cattura.



Il Processo di lesa maestà con omicidio in persona del Conte Pellegrino Rossi ministro di stato, esistente nell’Archivio di stato di Roma, si compone - credo di averlo accennato nella prefazione - di quindici tomi di circa mille pagine ognuno, scritti in carta ancôra ordinaria barbata, o di un sedicesimo tomo, contenente il Sommario o Ristretto a stampa, redatto dall’ultimo processante avvocato Domenico Laurenti, la difesa a stampa dell’avvocato Pietro Frassinelli a favore degli imputati Zeppacori, Caravacci, Papucci, Selvaggi e Capanna, i processi verbali dei dibattimenti svoltisi dinanzi al Supremo Tribunale della Sacra Consulta e vari altri importanti documenti, di cui parlerò a suo tempo. Così il Processo viene a constare di sedici tomi. I quindici tomi dell’istruttoria contengono la numerazione di settemilaottocentocinquanta fogli, pari a quindicimila e settecento [p. 330 modifica]pagine. In queste pagine sono raccolte ottocentoquarantotto deposizioni fatte da cinquecentodue testimoni, alcuni dei quali furono interrogati due, tre, quattro, cinque, qualcuno fino a sette volte; il turpissimo rivelatore impunitario Filippo Bernasconi fu esaminato venti volte. In quelle deposizioni non sono annoverati i costituti dei vari imputati, costituti che ascendono al centinaio.

Il processo, iniziato il 15 novembre 1848, dopo pochi giorni rimase sospeso; ne fu ripresa la compilazione il 3 settembre 1849, spinto avanti con vigore, subì pur tuttavia due lunghi intervalli di interruzione, e il lettore vedrà in seguito perchè; fu chiuso il 30 giugno 1853 e la compilazione di esso durò quindi, comprese le interruzioni, tre anni e otto mesi.

Il processo comincia con l’atto di ricognizione, consistente in una prima relazione e constatazione dello stato del cadavere di Pellegrino Rossi in casa del Cardinale Lodovico Gazzoli. In quella relazione è descritta la ferita e una piccola piaga linfatica purulenta nel braccio destro, già preesistente e medicata con apparecchio. In quell’atto si fa pure la constatazione delle carte rinvenute presso l’ucciso e chiuse e sigillate in un pacco.

Sono firmati nell’atto: Antonio dott. Bertini medico-chirurgo fiscale, Cesare Pifferi sergente nel II battaglione civico, testimonio, cavalier Francesco Rinaldi, sergente del I battaglione civico, testimonio, Pomponio Angelilli giudice, C. Bianconi attuario. L’atto è in data di mercoledì 15 novembre 18482.

Il 15 stesso, a sera, il giudice processante Pomponio Angelilli interroga Giovanni del fu Francesco Pinadiè (sic), domestico del Conte Rossi, di anni 28, il quale afferma che, appena entrata la vettura nel portone del palazzo della Cancelleria, si sono uditi alcuni fischi; che, quando il Conte discese, quelli sono aumentati; che, mentre egli era voltato a rimettere su il montatoio dello sportello, il suo padrone era stato colpito e, quando egli si voltò, lo vide caduto e accorse ad aiutarlo. Dice di aver consegnato l’orologio a cilindro del padrone con la catenina d’oro al cameriere di lui Germano Pinadiè (sic), il quale, quantunque abbia il suo stesso cognome, non è suo parente. Afferma [p. 331 modifica]recisamente di non aver veduto l’omicida e dice che neppure il cocchiere Deck non si è accorto di nulla3.

Segue il rapporto di Giovanni Lustrini, maresciallo dei carabinieri della brigata Parione; i quali dovevano girare, e girarono di fatti, in pattuglia sulla piazza della Cancelleria e nei dintorni la mattina del 15 novembre. Tale rapporto, indirizzato al giudice settimanale del Tribunale criminale, afferma che, quando giunse il ministro Rossi al palazzo della Cancelleria, vi si affollò una moltitudine di popolo e le (sic) hanno dato due stilettate e è restato sull’istante vittima. Nel rapporto è detto anche che, essendosi il maresciallo Lustrini rivolto al Maggiore comandante la guardia civica, questi gli aveva risposto che era nato qualche cosa, ma che a lui non era lecito entrare su tale rapporto4.

All’una pomeridiana del giorno 16 novembre fu eseguita l’autopsia sul cadavere del Conte Pellegrino Rossi, nella camera mortuaria della chiesa di S. Lorenzo e Damaso, dai dottori Antonio Bertini e Rinaldo Aleggiani, dalla quale risulta che il colpo di istrumento perforante ed incidente aveva reciso la carotide e la trachea e che era stato causa della morte quasi immediata dell’infelice uomo di stato5.

Il giudice processante annette agli atti processuali un altro rapporto del maresciallo Lustrini, in tutto simile al primo, da lui indirizzato, sotto la stessa data del 15 novembre, alla Presidenza del rione Parione e da questa inviato al Tribunale6.

Intanto, come risulta da tutte le storie che trattano di quegli avvenimenti, e come è confermato dalle deposizioni testimoniali dei deputati Pantaleoni, Fusconi, Minghetti e Pizzoli nel processo, questi deputati, a cui si unirono il Ranzi, il Serenelli, il Fiorenzi, il Bianchini, raccoltisi in casa del Pantaleoni, firmarono una mozione da presentarsi alla Camera e con la quale si chiedeva al nuovo ministero che iniziasse e proseguisse con energia il procedimento penale contro l’uccisore o gli uccisori di Pellegrino Rossi. Il Fusconi comunicò, per incarico avutone dai colleghi, quella mozione al [p. 332 modifica]ministro dell’interno avvocato Giuseppe Galletti, il quale rispose: presentassero pure tale mozione, egli l’accetterebbe e risponderebbe essersi ordinato il procedimento penale per la uccisione del ministro Rossi. Poi il Galletti riflettè, o gli fu fatto riflettere, che, per regolarità costituzionale, a quella mozione non lui, ministro dell’interno, ma il Sereni, ministro di grazia e giustizia, doveva rispondere, il quale non era ancora giunto da Perugia e non era per anco entrato nel suo nuovo ufficio.

Dalle deposizioni del Minghetti, del Pantaleoni e del Fusconi risulta che essi non rimasero gran fatto persuasi di quella obiezione del Galletti e par quasi che essi vi intravedessero o renitenza, o mal volere da parte del Galletti stesso. Se non che dall’interrogatorio a cui fu sottoposto, a Perugia, l’avvocato Giambattista Sereni risultò che nè il Galletti, nè altri ministri si intromisero presso di lui per far sospendere il procedimento penale contro gli uccisori del Conte Pellegrino Rossi; che a lui non fu presentata nessuna mozione firmata da deputati su tale proposito, che solo il Conte Terenzio Mamiani gli parlò di ciò nel senso che bisognava spingerle innanzi energicamente il processo per scoprire l’autore del delitto e che egli, Sereni, spontaneamente, aveva già scritto al procuratore fiscale generale per eccitarne lo zelo, sembrandogli cosa mostruosa che tanto delitto potesse andare in oblìo.

L’avvocato Sereni però, rispondendo alle interrogazioni rivoltegli dal processante, ammette che il procedimento contro gli uccisori del Rossi incontrava non lievi difficoltà, «perchè nelle condizioni di allora non si trovava facilmente chi volesse fornire notizie sull’avvenuto alle autorità: lui del resto durò poco al ministero, quindi di quel procedimento non ebbe e non può dare notizie»7.

Tutto ciò che aveva deposto l’avvocato Sereni era vero: il procedimento contro l’uccisore o gli uccisori del Rossi si arrestò il giorno 28 novembre al verbale di apertura del pacco contenente le carte rinvenute nella tasca dell’abito di Pellegrino Rossi. Quel pacco fu aperto dal processante Angelilli in presenza dei testimoni che avevano assistito al suggellamento: [p. 333 modifica]esso non conteneva che due istanze, indirizzate al Conte Rossi da un tal Vincenzo Venturi e da un certo Luigi Guerra Coppioli, ambedue reclamanti contro l’amministrazione delle poste per sottrazione di danaro. Sopra ambedue le istanze eravi un breve rescritto di carattere del Conte Pellegrino Rossi: «Al signor sostituto Righetti perchè si facciano severe indagini e mi riferisca. R.»8.

Da quel giorno 28 novembre nessun nuovo atto apparisce in processo sino al 21 di dicembre, sotto la data del qual giorno si legge in esso una lettera dell’avvocato Pomponio Angelilli, giudice processante, indirizzata all’avvocato Agostino Pasqualoni sostituto fiscale generale, in cui egli dichiara che non può proseguire il processo se la Direzione generale di polizia non gli somministra indizi ed elementi9.

Intanto e prima di tutto importa constatare che il giudice processante Angelilli, o perchè cosi, a voce, gli fosse stato consigliato, o perchè non avesse voglia, per paura, di cacciarsi in quella bega, non fece nessuna delle indagini che, di sua iniziativa, e per debito del proprio ufficio, avrebbe potuto e dovuto fare; giacchè è evidente che egli non aveva bisogno dell’aiuto della polizia per chiamare ad esame il cocchiere del Conte Rossi, il cavalier Pietro Righetti che lo aveva accompagnato alla Camera, il maresciallo Lustrini che aveva inviato due rapporti sull’omicidio del Rossi e il quale avrebbe saputo indicare i nomi del carabinieri che erano andati in pattuglia per la piazza, don Giovanni Nina curato di S. Lorenzo e Damaso che da tutti si sapeva essere andato, con l’olio santo, nelle camere del Cardinale Gazzoli, il Maggiore comandante il battaglione della guardia civica, che era di servizio sulla piazza della Cancelleria [p. 334 modifica]e dal quale avrebbe appreso i nomi degli ufficiali civici sottoposti, in quel giorno 15 novembre, ai suoi ordini e, finalmente, i due sergenti della civica che si erano trovati presenti al suggellamento del pacco, contenente le carte trovate in tasca del Conte Pellegrino Rossi. Tutte queste indagini erano elementari e suggerite dalla più rudimentale conoscenza dell’ufficio affidato ad un giudice processante; e per eseguirle l’Angelilli non aveva bisogno del sussidio della polizia; eppure, o per l’una o per l’altra delle ragioni accennate, non le fece. E fece male.

E peggio fecero i vari ministri di grazia e giustizia e di polizia, succedutisi al potere dal 16 novembre 1848 al 2 luglio 1849, non occupandosi menomamente di quel processo e non sospingendo il giudice processante alla prosecuzione degli atti inquisitorii.

Si capisce, riportandosi, con obiettive considerazioni, alle condizioni veramente gravissime ed eccezionali di quel periodo rivoluzionario, come e perchè i capi di quel partito non volessero e non potessero, per necessità politiche, proseguire nella inquisizione per la uccisione di Pellegrino Rossi; ma si capisce altresì come, giustamente, di quella quiescenza e di quell’oblio traesse argomento il partito reazionario, vincitore e restaurato al potere, per accusare di connivenza e di complicità con gli uccisori del Conte Rossi gli uomini che avevano retto la cosa pubblica dal 16 novembre 1848 al 2 luglio 1849; perchè quello era un misfatto; e dei misfatti i governi giusti debbono, ad ogni costo, scoprire e punire gli autori. I ministri della repubblica ciò non fecero e, qualunque potesse essere la causa di tale indifferentismo, al cospetto della storia essi sono colpevoli e biasimevoli.

Fatto sta che il governo pontificio, appena ristabilito in autorità, nominò una Commissione direttrice delle procedure criminali per tutti i reati di maestà e di carattere politico commessi durante i sette mesi e mezzo in cui a Roma e nello stato aveva imperato il partito rivoluzionario. Al presidente di quella Commissione il ministro di grazia e giustizia, avvocato Giansanti, indirizzava la lettera che qui faccio seguire:

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MINISTERO DI GRAZIA E GIUSTIZIA.

N. del protocollo riservato 203.

Roma, 3 settembre 1849.

A pronta evasione della seconda parte della richiesta fatta col pregiato foglio del 1° corrente, ricevuto ieri dal sottoscritto ministro, richiamato dall’officio fiscale l’incarto iniziato sull’omicidio del Conte Pellegrino Rossi, già ministro dell’interno, lo inoltra qui annesso alla S. V. Ill.ma, pregandola di un cenno di ricevimento.

Sulla prima parte del foglio medesimo (?) si riserva di dare riscontro fra poco.

Intanto con sensi di distinta stima si conferma

Di V. S. Ill.ma

Dev.mo servitore
il ministro di grazia e giustizia
A. Giansanti10.


Signor avvocato Bertini
Presidente della Commissione direttrice
delle procedure criminali
(con processo).



Il presidente Bertini incaricò della prosecuzione del processo contro gli uccisori di Pellegrino Rossi il giudice processante avvocato Francesco Cecchini11, il quale non appare dagli atti processuali che si desse gran da fare; giacchè soltanto dopo due mesi, e cioè il 3 novembre 1849, riproduceva, nel processo a lui affidato, gli esami di Ilario Tozzi e di Antonio Sprega, i cui originali esistevano nel processo col titolo Di più delitti contro Francesco Gianna, Giuseppe Casanova, Giovanni Battista Fortuna ed altri.

Ilario di Luigi Tozzi, romano, di anni 30, impiegato, aveva deposto, avanti al giudice incaricato del suddetto processo Di più delitti, quanto segue:

«Mi sono trovato presente ancora all’uccisione del ministro dell’interno signor Conte Pellegrino Rossi, avvenuta il 15 novembre 1848, nell’atto che il medesimo si recava all’apertura della Camera dei deputati. In quel giorno, mosso da curiosità, [p. 336 modifica]mi recai al palazzo della Cancelleria. Giunto vicino al portone cominciai a vedere diversi individui che entravano nel cortile, vestiti con quella sudicia e ridicola montura indossata dai reduci di Vicenza, e siccome tal montura da qualche tempo non si vedeva, tale uniformità di vestiario di nuovo comparsa mi mise in sospetto di qualche giro, vedendo che buon numero d’individui la indossavano in quel giorno e sospettai che quel vestiario potesse essere un segno di convenzione. Questo mio sospetto si accrebbe nel vedere che ognuno di tali individui che giungeva, veniva dagli altri ricevuto colle seguenti parole: «Sei venuto? Bravo, bravo», e quindi fra loro confabulando intesi che dicevano parlando del ministro Rossi le precise parole: «Questa carogna dovrebbe aver paura, sta a vedere che non viene». Dopo pochi momenti io sentii, anzi vidi la carrozza del Rossi che dalla parte dei Baullari veniva direttamente al portone; ed allora, raddoppiando le mie osservazioni su quelli individui, per vedere che cosa facevano, sentii che uno di essi, che io non riconobbi, ma che doveva essere forse il direttore di tutti, disse ai suoi compagni: «Dentro, dentro, dentro». Infatti questi individui, così monturati, uniti ad altri in uniforme civica, che pur non conobbi, e qualche borghese, pur ignoto, defilarono in due ali nella linea del cortile, che motte alla scala grande, e quando il signor Righetti, che accompagnava in carrozza il Conte Rossi, cominciò a scendere per il primo dal legno, seguendolo poi il ministro, vidi ed udii che tutti quelli, come sopra descritti, che avevano formato le due ali e che in tutti potevano essere circa una cinquantina, cominciarono a fischiare, ed a gridare con voce cupa: «Ammazzalo, ammazzalo», volendo indicare lo stesso Rossi; e dopo che il predetto Conte fu sceso dal legno e si fu, per così dire, incanalato in mezzo alle due file per andare verso la scalea, vidi che un piccoletto, vestito colla indicata sudicia montura vicentina e che stava nell’ala destra, ossia che, nel modo che camminava il Rossi, corrispondeva alla di lui destra, e che era dalla parte delle colonne verso il cortile, sfoderata la daga, vibrò da quella parte un colpo che ignoro se lo ferisse dietro, di che tutti i componenti le due indicate ali si dettero, ad un tratto, una stretta o riunita strettissima intorno al ministro e subito si intese una voce che diceva; «Via, via, via»; dietro di che tutti [p. 337 modifica]i componenti le due ali se ne partirono, dirigendosi verso il portone per uscire e io vidi che il Conte Rossi, rimasto solo col suo sostituto Righetti, aveva ricevuto un colpo nella parte sinistra del collo, colpo ch’io non vidi vibrare, ma che dovette essere scagliato certamente nel momento che le due ali si strinsero intorno a lui, nell’atto, che fu dato il colpo alla parte destra da quello della daga. Di tutti quanti componevano le dette due ali non riconobbi altro che il figlio del notissimo Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, che non so come si chiami, ma che è quello che seguì, anzi apparteneva, ai legionari di Garibaldi a cavallo, che è giovane piuttosto rosso, tozzuto e bassotto, e che meglio di così non saprei descrivere, ma riconoscerei certamente, e che era vestito alla vicentina come gli altri e portava, mi pare, il cappotto civico sulle spalle, e che certamente era nella lega cogli altri, senza che possa precisare le parole e la parte presa nella esecuzione dell’omicidio suddetto, avendolo solo veduto parlare insieme cogli altri, stare insieme con essi nel formare le due ali, stringersi con essi insieme attorno al ministro e con essi insieme partire, consumato il delitto. L’individuo bassetto vestito alla vicentina, che vibrò il colpo al Conte Rossi colla daga a parte destra, era un giovane pallido, senza barba, non so come si chiami, meglio di così non saprei descriverlo, mi sembrò che potesse avere circa vent’anni e se lo vedessi non lo riconoscerei».

Ho voluto riferire testualmente, e per intero, la deposizione del Tozzi per due ragioni: innanzi tutto perchè la descrizione della drammatica scena da lui fatta è una delle più particolareggiate ed è confermata poi, dal più al meno, da altre quaranta deposizioni di testimoni oculari; in secondo luogo perchè questi, che è il primo testimonio del fatto che appaia in processo, indica un nome solo, quello di Luigi Brunetti, che è il primo attore della tragedia del palazzo della Cancelleria e che, in seguito alla deposizione del Tozzi, è il primo a figurare fra quelli dei sette cospiratori contro la vita di Pellegrino Rossi.

Dopo quella prima parte della deposizione sua il Tozzi riferisce ciò che a lui disse Antonio Sprega, del quale mancano in processo le generalità, ufficiale della guardia civica il quale, comandando il distaccamento di quella milizia, posto a guardia [p. 338 modifica]di porta Maggiore nel maggio del 1849, notò due individui, un civico e un legionario, che risiedevano nel casino e nella vigna di proprietà di un oste, Francesco Mattei, situato fuori della suddetta porta Maggiore, in vicinanza di una vigna e di un casino di proprietà dei Padri Serviti di San Marcello. Allo Sprega quei due individui, viventi lassù, segregati dal consorzio umano, parvero esseri misteriosi. Secondo il Tozzi, che era un grande coloritore ed esageratore, lo Sprega gli avrebbe detto che coloro si erano vantati di aver commessi varii assassinii (!) e che uno dei due aveva accennato ad essere stato o autore, o complice dell’omicidio del Rossi12.

Antonio Sprega conferma soltanto una parte delle cose dette dal Tozzi: è vero che lui era di guardia a porta Maggiore, che, anzi, non avendo ricevuto il cambio, vi dovette restare quarantott’ore; è vero che da una pattuglia di pontonieri quei due, sospetti di furto a danno dei Padri Serviti, furono arrestati; è vero che furono condotti alla polizia, dalla quale furono poi rilasciati, cosicchè tornarono subito al casino dei Serviti, ove cenarono coi frati e con lui testimone e donde tornarono, a sera, al casino Mattei, dove dormivano. Egli descrive quei due uomini così: il civico statura complessa, colorito piuttosto bruno, capelli, baffi e mosca neri; il legionario statura giusta, smilzo, macilente, senza barba, pochissimi capelli.

Ma nega assolutamente lo Sprega che quelli gli dicessero, e che perciò egli ripetesse al Tozzi, aver commesso assassinii, o di aver partecipato all’omicidio Rossi. «Quei tali» - dice risolutamente e ripetutamente lo Sprega - «non parlarono d’altro che di essere coraggiosi e buoni soldati, che si erano battuti per la repubblica contro i Francesi e che eran convinti di averne ammazzato qualcuno nella pugna».

Il povero giudice processante si affanna assai a rivolgere al tenente Sprega domande suggestive, questi risponde sempre negativamente, negativamente.

C’è un frammento grazioso in questo esame e lo riferisco testualmente.

[p. 339 modifica]«Interrogato a spiegare che cosa intenda per fatti in merito alla rivoluzione.

«Risponde: io intendo gli accaduti, cioè se buoni o cattivi.

«Interrogato perchè spieghi che cosa intenda per accaduti della rivoluzione buoni o cattivi.

«Risponde — dopo avere alquanto pensato — cosa devo rispondere? Che è successo durante la rivoluzione? sono avvenuti tanti fatti!

«Interrogato perchè narri i fatti in specie di cui ha tenuto parola nella precedente risposta e dica di quali ha inteso parlare.

«Risponde: fatto buono è adesso che è tornato il Papa; fatto cattivo quando se ne è andato; fatto eclatante il fatto del 16 novembre e così discorrendo; come pure fatto rimarchevole fu l’uccisione del ministro Rossi il 15 novembre, ma è meno eclatante del fatto del 16 novembre, perchè di uomini se ne ammazzano tanti!»13

L’italiano, anche se giudice processante, è sempre un po’ artista; per cui l’avvocato Cecchini non potè e non seppe sottrarsi al fascino che esercitavano sulla sua fantasia quei due uomini misteriosi, uno bruno, complesso, gagliardo, l’altro magro, piccolo, macilente, che vivevano in campagna, che forse avevano commesso qualche assassinio — si sa bene, un giudice processante conta sempre sopra qualche assassinio! — e in quei due uomini, avvolti nel meraviglioso, gli parve di aver trovato un buon filone, che lo guidasse nell’interno della miniera che era incaricato di scoprire.

Quindi, in pochi giorni, scavò fuori sei fra caporali e militi del VII battaglione civico, i quali erano stati di guardia a Porta Maggiore sotto gli ordini del tenente Sprega e cioè: Cima Niccola, Fortunato Maria Villani, Melchiore Cartoni, Ettore Nobili, Giuseppe e Salvatore Dellotti, e li interrogò con grande interesse; ma non potè trarne le rivelazioni che sperava: nessuno di quei testi confermò le parole del Tozzi; si cominciò a dileguare il mistero; il civico si chiamava Romolo Poggioli ed era romagnolo; il legionario Giuseppe Montesi ed era romano; risultava da quelle testimonianze che il Poggioli si era mostrato caldo repubblicano [p. 340 modifica]o aveva detto che la sua daga puzzava di sangue napoletano o francese: erano stati arrestati da una pattuglia composta di soldati di linea, civici e pontonieri; condotti alla polizia, si verificò che essi erano stati inviati a custodia della vigna di Francesco Mattei, sopra istanza di questo, dal Maggiore Ercole Morelli.

La nebbia del mistero si era ormai dileguata: il filone non dava indizio di metalli, ma il giudice Cecchini, finchè fu incaricato del processo lui, ci tornava su di tanto in tanto... Quel legionario Montesi, pallido, macilente, di poche parole, quel civico Poggioli, complesso, bruno, romagnolo poi, che si millantava di avere ammazzati in guerra guerreggiata qualche napoletano o qualche francese... hum!... che non dovessero proprio essere due sicari, o almeno almeno complici dell’omicidio Rossi, il giudice Cecchini non sapeva e non poteva persuadersene! Ma da quel filone anche lo distrassero i nuovi elementi, che si venivano accumulando sul suo tavolo.

Il brigadiere dei veliti pontifici, Francesco De Rossi, in data 4 novembre, gli aveva inviato una denuncia: Pietro Quintili, romano, studente di chirurgia, figlio del Colonnello, aveva detto il 14 novembre, all’ospedale di S. Giovanni in Laterano, a Francesco Anessi, giardiniere del Principe Massimo, che il Conte Pellegrino Rossi sarebbe stato ucciso all’indomani.

E un’altra denuncia gli era giunta: e questa anonima: nella farmacia Bruni, la sera del 1° novembre, il dottor Adone Palmieri, declamando contro il professore Baroni e contro il governo pontificio che non lo perseguitava, disse che anche l’assassino del Rossi, a lui noto, restava impunito.

E l’energico inquisitore all’opera. In due giorni fa venire a sè ed esamina Bonaventura Aversa, giovine della farmacia Bruni, Niccola Bruni, padre del proprietario della farmacia, e un ufficiale pontificio, Francesco Paolini, frequentatore di quella: la denuncia anonima diceva il vero: da quelle tre concordi testimonianze appariva che il dottor Palmieri14, sproloquiando, declamava contro il governo perchè non perseguitava un rivoluzionario del 1831 quale era il professore Baroni e lasciava passeggiare impunito, per le vie di Roma, l’uccisore del Rossi.

[p. 341 modifica]E subito chiamò il Cecchini dinanzi a sè Adone di Giovanni Palmieri, di Bevagna, medico-chirurgo di anni 41, il quale, fatta una fiera invettiva contro il professor Baroni, in fondo rivoluzionario, in apparenza maschera, che sa procurarsi la protezione di tutti i partiti, narra di essersi recato alla Camera dei deputati il giorno 15, aver veduto con sospetto tutti quei reduci vicentini, essere salito nel loggiato del palazzo per entrare nell’aula, aver poi udito a raccontare che i vicentini misti con alcuni borghesi, all’arrivo del Rossi, avevan formato due ale, avean fischiato, lo avevan stretto ed ucciso.

— Ma l’uccisore, l’uccisore, che vi siete vantato di conoscere? — chiede ansioso il giudice processante.

— Ah!... quanto all’uccisore... è un altro paio di maniche.

Il Palmieri, un parolaio, un otre pieno di vento di vanità, dice che suo figlio Tito, cantante, gli riferì, due o tre giorni dopo il 15 novembre, che l’uccisore del Rossi era stato uno studente di chirurgia. Suo figlio Tito — continua a deporre il dottor Palmieri — disse di conoscerlo di vista, ma di ignorarne il nome: giovane, di statura piuttosto bassa, che indossava quasi sempre un soprabito bianco, grande amico di Pietro Sterbini, che la voce pubblica accusò istigatore e complice dell’omicidio, e che aveva una grande influenza sui legionari vicentini. Chi sa qualche cosa di preciso è un Buti Giulio, cantante, il quale, gli pare, disse a suo figlio l’uccisore del Rossi chiamarsi Silvani o Silvagni.

Appena il dottor Palmieri ebbe svesciato le sue inconcludenti chiacchiere di farmacia, il Cecchini esaminò Lodovico Buti di Francesco, di anni 26, romano, cantante, reduce di Vicenza, che il 15 novembre indossò la panuntella, andò alla Cancelleria, poi, per prudenza, se ne allontanò prima che giungesse il ministro Rossi: avendo saputo che l’uccisore era stato uno che vestiva la tunica vicentina, egli non volle più indossare quella divisa di obbrobrio. Non conferma le chiacchiere del Palmieri, non può aver pronunciato il nome dell’uccisore, perchè non lo ha mai saputo. Dice che la legione dei reduci, nel tempo in cui fu ucciso il Rossi, era sciolta e che «alcuni individui ad essa appartenenti erano passati sotto il comando di Luigi Grandoni, il quale - così gli fu riferito - aveva abbassato l’ordine ai [p. 342 modifica]suoi uomini di vestir la montura nel giorno 15 novembre e di trovarsi alla Cancelleria».

Stretto abilmente dal Cecchini, il Buti, caduto in qualche contraddizione, finisce per ammettere di essersi trovato alla Cancelleria e diviene testimonio di capitale importanza per l’accusa, perchè attribuisce una grande parte ai cinquanta o sessanta legionari e a Luigi Grandoni, che - secondo il Buti - andava, veniva, parlava nei vari gruppi e perchè descrive l’uccisione, da lui veduta bene, così: «un individuo, vestito alla vicentina,, di statura media e, forse, potrebbe dirsi piuttosto bassa, dell’età di 20 0 22 anni, biondo di capelli e anche di viso (!) (sic), senza barba, baffi pronunciati, piuttosto pieno e tozzotto».

E non contento di aver fatto una così esatta ipotiposi della persona di Luigi Brunetti, aggiunge «di aver conosciuto, negli ultimi tempi, Luigi Brunetti, figlio di Ciceruacchio, e gli pare che i connotati dell’uccisore corrispondano con quelli del Brunetti, non sa bene... ma se vedesse... forse riconoscerebbe l’identità della persona»15.

Quel martedì 13 novembre 1849, il giudice processante deve essere stato abbastanza soddisfatto e deve aver pensato che a qualche cosa giovano anche le chiacchiere di farmacia e che nei processi sono utili i cantanti.

E, raccogliendo le deposizioni del cavalier Pietro Righetti, dell’altro legionario Ferdinando Buti, del chirurgo dottor Ignazio De Cesaris, ha la conferma, dal più al meno, della descrizione fatta dal testimone Ilario Tozzi del come si svolse la scena della uccisione. Il De Cesaris dice peste e vituperi dello Sterbini, demagogo, capace di tutto16.

Niccola Giuseppe del fu Niccola Giuseppe Deck, nato in Seviscont, ducato di Lussemburgo, di anni 38, cattolico, cocchiere del ministro Rossi, vide i legionarii serrarsi verso la scala, udì i fischi, vide quelli aprirsi in due ali, uno percuotere il Conte Rossi nel fianco destro con un bastoncino, un altro, che gli parve vestito alla vicentina, dare un gran pugno al Conte, poichè non [p. 343 modifica]vide la mano armata di ferro. Udì dire che fra i presenti v’era Luigi, il figlio di Ciceruacchio.

Poi dando la stura a tutte le fandonie e alle leggende che la fantasia popolare e le arti dei gesuiti avevano create e diffuse, narra di aver sentito dire che l’uccisione del suo padrone era stata stabilita in un gran pranzo dal Conte Terenzio Mamiani (!), dal principe Carlo Luciano Bonaparte di Canino, dal dottor Pietro Sterbini, il cui strumento era il capo-popolo Ciceruacchio; che l’uccisore fu proclamato eroe, che il pugnale era stato messo in un reliquiario, avanti al quale erano state accese le candele!... E via di seguito17.

In questo mezzo il processante riceveva dal presidente della Commissione pei processi politici un rapporto riservatissimo di un ispettore di polizia, Mauro Rossi, il quale indica un antico cameriere della trattoria delle Belle arti come colui che sa tutto intorno all’uccisione del Conte Rossi, uccisione dovuta alla mano di un N. Neri, d’accordo coi Brunetti padre e figlio, col celebre ravennate Angelo Bezzi, con Giuseppe Fabiani detto il Carbonaretto ed altri.

Un altro cameriere è stato chiamato: egli è Luigi Ganni di Salvatore, romano, di 27 anni, il quale si trovò alla Cancelleria, vide i reduci vicentini, li udì «parlare altamente contro il ministro Rossi, chiamandolo infame, nemico di libertà, pronto a sopprimere la Costituzione». C’era gran folla nel cortile, onde voleva andarsene, quando arrivò il ministro; udì la sorda fischiata, vide i legionari aprirsi in due ale, un borghese in soprabito bianco percuotere con un bastoncino il Rossi a destra, un vicentino dargli un gran pugno nel collo a sinistra; il ferro non lo vide. Conobbe fra i legionari Luigi Brunetti e un tal Pescetto, reduce di Lombardia, protetto da Ciceruacchio, da lui impiegato, in tempo di repubblica, ai lavori di beneficenza e che ha circa 25 o 26 anni. Ma non può dire in qual punto dell’atrio quei due fossero nel momento che il Rossi fu colpito. Gli parve di vedere anche il Grandoni: nulla sa circa la preordinazione di quel delitto18.

[p. 344 modifica]Il 25 novembre il giudice processante riceve un nuovo rapporto del Capitano Giovanni Galanti19, comandante della forza di polizia di Roma, in data 20 novembre 1849, il quale, come bracco, si aggirava per le prigioni, ripiene di detenuti - oltre duemila - imputati dei vari reati politici avvenuti nel periodo rivoluzionario, in cerca di elementi da fornire ai molti processanti intenti al lavoro di punizione... e di vendetta.

Il rapporto Galanti afferma che l’omicidio Rossi era stato stabilito, qualche giorno prima del 15, in un fienile di proprietà di Ciceruacchio, fuori di porta del Popolo, vicino al Mattatoio; che «ivi sei furono gli individui prescelti per eseguirlo, cioè Antonio Ranucci, Alessandro Todini, Luigi Brunetti, i due fratelli Mecocetti e Francesco Costantini dell’Umbria; che là si distribuirono armi e che fatta la estrazione del nome dell’esecutore, la sorte designò Francesco Costantini, bene inteso che gli altri lo avrebbero aiutato, in caso che il colpo a lui non fosse riuscito, in guisa che, fingendo di soccorrere il Rossi, lo avrebbero finito». Aggiunge il Capitano Galanti, in benemerenza dell’eseguita uccisione essere stato al Costantini accordato il grado di Tenente nella civica mobilizzata.

Poi, dando nel grottesco, il zelante Capitano Galanti, mentre indica i nomi di cinque testimoni che potranno informare sui fatti narrati, afferma che i riuniti al fienile di Ciceruacchio erano più centinaia (!), decisa ivi la rivoluzione, da cominciare con la uccisione di tutti i cardinali e i principi romani, ecc. (!)20.

Lunedì 26 novembre il giudice Cecchini presenta al presidente della Commissione dei processi la relazione delle risultanze del procedimento di cui è incaricato ed è autorizzato a rilasciare ordinanza di cattura contro Luigi Brunetti e il vetturino o cocchiere di piazza di Spagna detto Pescetto di cui si ignora nome e cognome, quali responsabili dell’uccisione del Conte Rossi.

[p. 345 modifica]Il cameriere del caffè delle Belle Arti, indicato dal rapporto dell’ispettore di polizia Mauro Rossi, non si rinviene; in sua vece è citato a testimoniare Francesco di Filippo Manni, romano, sarto, di 24 anni, il quale udì da un suo conoscente cameriere o garzone all’osteria Mattei a piazza di Spagna e di cui ignora nome e cognome, che uno degli uccisori del Rossi era un tal Neri. Di fatto suo riferisce di avere udito, due o tre sere dopo l’uccisione del Rossi, da Luigi Brunetti fare grandi elogi, nella sala di lettura del Circolo popolare, del Neri che meritava la bandiera e parlando del quale colui disse le precise testuali parole: Altro che lui poteva fare la forza. Poi attesta di aver veduto a cena al caffè delle Belle Arti, poche sere dopo l’uccisione del Conte Rossi, lo Sterbini, Ciceruacchio, il figlio di questo — gli pare — il Bezzi, il Carbonaretto, e il Neri ossequiato e carezzato. La voce pubblica accusava ordinatori della congiura lo Sterbini, il Bezzi, Ciceruacchio, ecc. ecc.21.

Questa deposizione è, in gran parte, corroborata da quella di Orlando del fu Giuseppe Bozzoli, di Ancona, tipografo torcoliere, di 26 anni, il quale però non parla del Neri, ma ammette la cena, a cui gli pare partecipasse anche lo Sterbini, che tutti dicevano preordinatore dell’uccisione Rossi22.

Lo stesso giorno 27 novembre il Cecchini ricevè la deposizione di Gioacchino fu Antonio Pieruccioni, romano, impiegato assistente al ministero delle belle arti, di anni 26. Esso è uno dei testimoni indicati dal rapporto del Galanti. Il Pieruccioni ammette di essere andato tre volte alle riunioni del fienile di Ciceruacchio: di solito dall’avemaria ad un’ora di notte; presenti sessanta o settanta individui - ne indica parecchi, fra cui il Neri, il Ranucci, il Fabiani, Giuseppe Caravacci e Francesco Costantini. Ma lo scopo di quelle riunioni non era per uccidere il Rossi, per scannare i cardinali, i principi, ecc., ma sibbene per mandare avanti e sostenere la costituente, tanto è vero che le riunioni avvennero — quantunque il teste dica di non ricordarne l’epoca precisa — dopo la morte del Rossi, giacchè «lui si allontanò da quelle riunioni, perchè intese dire dai [p. 346 modifica]fratelli Costantini che il Rossi era stato ucciso da un angiolo del cielo e dal contegno loro si vedeva bene che essi Costantini e Toto Ranucci detto Pescetto e padre e figlio Brunetti applaudivano e consideravano quell’azione come eroica e dovevano avervi avuto parte»23.

È chiaro quindi che, se in quelle riunioni si celebrava l’uccisione del Rossi, questa era già avvenuta24.

Pieruccioni Luigi fratello del precedente e Filippo Menghini, altri testimoni indotti nel rapporto Galanti, nulla sanno delle riunioni al fienile di Ciceruacchio, nulla dei pretesi accordi ivi stabiliti per la uccisione del Rossi25.

Il quarto testimonio, citato nel rapporto Galanti, è Paolo del fu Giovanni Guarnaccia, romano, cappellaro, di anni 43, il quale non ricorda da principio se le riunioni al fienile Brunetti fossero prima o dopo la repubblica, poi pensandoci meglio gli pare prima, ma non dice affatto che vi si stabilisse e preordinasse la uccisione del ministro Rossi: «vi si distribuivano pistole, si notavano i nomi di quelli che le ricevevano: ogni sei o sette uomini erano posti sotto un caporale, a fine di vigilare all’ordine della città. Erano per lo più facinorosi, lui si ritirò. Ricorda i fratelli Costantini, Antonio Ranucci detto Pescetto, Filippo Medori verniciaio, i fratelli Caravacci, Alessandro Todini musaicista, il Carbonaretto. Ciceruacchio disse che faceva quella distribuzione d’armi non di testa sua, ma di intesa con chi comandava e per tener Roma netta dai ladri26, ciò che a lui parve un pretesto. Ricorda che si [p. 347 modifica]andò effettivamente in pattuglia per la città. Fra gli intervenuti ricorda il dottor Pietro Guerrini. Ha sentito dire che fu ucciso il Rossi; ma non ha in proposito veduto o udito nulla»27.

Il quinto testimonio addotto dal Galanti è Domenico di Gaetano Di Niccola, romano, macellaio, di 50 anni. Egli «conosce Ciceruacchio, col quale è stato varie volte all’osteria a bere, pagando ognuno la parte sua. Ciceruacchio aveva il fienile fuori di porta del Popolo, ove lui andò soltanto a comperare le fascine del fieno. Mai vi fu a riunioni politiche, che ignora se si tenessero. Intervenne anche lui a qualche pranzo di Ciceruacchio e suoi amici nell’albergo di Ciceruacchio stesso fuori di porta del Popolo: nei pranzi ognuno pagava la propria parte: lui gli altri non li conosceva: conosceva solo Ciceruacchio e in quei pranzi si gridava Viva Pio IX, nient’altro che Viva Pio IX! Viva Pio IX!»28.

Cosi tutto l’edificio eretto dal rapporto del Capitano Galanti, circa alla preordinazione dell’uccisione del Conte Rossi nel fienile di Ciceruacchio, circa la designazione dei sei esecutori, circa l’estrazione a sorte del nome di Francesco Costantini, crolla sotto il soffio della voce degli stessi cinque testimoni da lui indicati.

Contemporaneamente il giudice processante dalla deposizione del giardiniere del Principe Massimo, Francesco Anessi, sussidiata da quella dei due canonici Lateranensi don Giuseppe Graziani e don Stefano Antonelli, rileva che effettivamente il sostituto chirurgo Pietro Quintili avrebbe predetto il 14 che il Conte Rossi verrebbe ammazzato il 15 novembre29.

Dall’esame di cinque camerieri della trattoria e caffè delle Belle arti non risulta provato il pranzo dello Sterbini, dei due Brunetti e degli altri indicati, due o tre giorni dopo l’uccisione del Rossi, nè i festeggiamenti fatti al Neri30.

[p. 348 modifica]Ma il giudice processante non perde di vista quei due uomini misteriosi della vigna Mattei fuori di porta Maggiore, quel bruno, complesso, romagnolo, quel romano, smilzo e macilente, ed esamina parecchi testimoni, da cui nulla di preciso o di legittimamente incriminabile ricava.

Le chiacchiere della farmacia Bruni penetrano un’altra volta nel gabinetto dell’avvocato Cecchini: un medico, il dottor Serafino del fu Giambattista Macarone, da Pescina, di anni 50, viene a dire che là, in quella farmacia, discutendo intorno all’omicidio Rossi, si disse che «il colpo doveva essere stato fatto da mano maestra nell’anatomia del corpo umano e, quindi, si sospettò che prima della uccisione si fossero fatti esperimenti sopra qualche cadavere»31.

A questo punto del processo è allegato un dispaccio del 15 dicembre 1849, n. 13050, dell’assessore di polizia, insieme al quale esso invia gli atti che servirono di fondamento al proscioglimento degli arrestati a porta Maggiore, Romolo Poggioli e Giuseppe Montesi. Questi atti consistono nel rapporto del Masi e del Corvisieri sull’arresto dei suddetti, da loro operato il 17 maggio 1849, in margine al quale rapporto è scritto: «Li 17 maggio, non essendovi titolo a ritenerli ulteriormente in carcere, si dimettano liberamente. Galvagni Giuseppe».

Più una specie d’istruttoria condotta nel giorno 17 maggio intorno a quell’arresto dalla polizia repubblicana in cui Romolo Poggioli, di Ravenna, scapolo, 34 anni, fornaio, dichiara essere egli ben cognito al Bezzi, che gli ottenne la grazia della residua pena cui era stato condannato per delitti politici dal governo pontificio. Messo in libertà, è rimasto in Roma: il 30 aprile è andato a battersi contro i Francesi a porta Angelica. Il 7 andante maggio è stato pregato dal cittadino Mattei di guardargli la vigna e le circonvicine, perchè non siano depredate e da esso gli fu dato per compagno un milite della legione Galletti, di cui ignora il nome. Poi vennero ad arrestarmi. Nego di aver detto che siamo stati lì posti dalla Repubblica romana. (Firmato): Romolo Poggioli — Giuseppe fu Luigi Montesi, romano, 23 anni, milite nella I legione romana. Per preghiera del Mattei il suo Maggiore [p. 349 modifica]Eugenio Agneni gli comandò di andare alla vigna di quello per guardarla. Nel 1845 fui arrestato per una donna; dopo 11 giorni fui messo in libertà. - Il cittadino Francesco Mattei, fu Vincenzo, 37 anni, possidente, addetto alla Commissione municipale di approvigionamento, fin dall’8 corrente - per garentire il vino ed altri oggetti nella sua vigna - si fece dare dall’Agneni il milite Montesi a cui aggiunse il Poggioli. Avendo saputo che li avevano arrestati senza mancanza, è venuto a reclamare perchè siano messi in libertà»32.

Non ostante ciò, il giudice processante Cecchini, il quale si è fitto in testa che i connotati dati di quello smilzo e macilente Montesi corrispondano perfettamente a quelli forniti da due o tre dei testimoni oculari, fin qui esaminati, sul legionario che percosse con la daga in una coscia o in un fianco il Conte Pellegrino Rossi per fargli volgere il capo verso destra, il 24 dicembre rilascia ordinanza di cattura contro Giuseppe Montesi, responsabile di complicità nella uccisione del Conte Pellegrino Rossi33.

Il canonico Lateranense Antonelli ha detto nella sua deposizione avergli riferito un tal Sante Grassi, ortolano a Santo Stefano Rotondo, che nell’omicidio del Conte Rossi fosse implicato uno scalpellino, Filippo Trentanove: ora il Grassi, interrogato, conferma di aver dato al canonico Antonelli quella notizia, avuta da un tal Gentili, cantore della basilica Lateranense34.

La trama, su cui il giudice processante Cecchini doveva tessere il suo processo, si veniva, come si vede, ampliando e complicando, tanto più che di quei giorni, e precisamente il 30 dicembre, gli perveniva dal giudice processante Velletrani, che conduceva il processo Di più delitti, cioè, quello pei fatti del 16 novembre al Quirinale, una parte dell’esame dinanzi a lui sostenuto da Francesco di Filippo Cecchetti, nativo di Preturo, provincia di Aquila, di 35 anni, confidente di polizia, il quale per conto del minutante Rufini e del capo degli agenti, Alessandro Rosalbi, frequentava i congiurati della Salita di Marforio e poi andava a riferire tutto in polizia.

[p. 350 modifica]Ora il Cecchetti si trovò presente all’uccisione del Conte Pellegrino Rossi, che racconta, presso a poco, come gli altri, ma cade in aperta contraddizione con sè stesso quando dice prima che l’assalitore del Rossi fu un tiragliolo e poi, due o tre pagine dopo, descrivendolo, lo dice vestito alla vicentina.

Le circostanze nuove che emergono dalla deposizione del Cecchetti si riferiscono ad un nuovo personaggio, Ruggiero Colonnello, il quale — dice il Cecchetti — «aveva gran proseliti fra i vaccinari della Regola, che egli riuniva, a scopo di rivoluzione, in una vigna di là dal Colosseo: e quella mattina del 15 novembre lo vide da piazza della Cancelleria, assai prima che giungesse il ministro Rossi, avviarsi verso la Regola dicendo: «vado a chiamare quei ragazzi»; e lo vide, in fatti, andare alla Regola e lo seguì e lo vide raccogliere i vaccinari; e allora lui Cecchetti retrocedette alla Cancelleria, ove giunse in tempo per assistere al brutto dramma; e, poco dopo, osservò che i vaccinari erano arrivati sulla piazza della Cancelleria, ecc.35.

E pare, invero, che questo operoso e zelante confidente di polizia vedesse e facesse troppe cose in quella mattina.

Dallo stesso processo condotto dall’avvocato Velletrani, pervenne all’avvocato Cecchini una particola importante. Eccola.

Nina rev.mo sacerdote canonico don Giovanni, del fu Francesco, di Recanati, parroco di S. Lorenzo e Damaso, di anni 61, «fu chiamato ad assistere il Conte Rossi privo di parola, ma ancora vivente. Nulla può dire sul fatto: soltanto che, qualche giorno dopo, persona, che lui non ricorda ora, gli consegnò un pezzetto di carta su cui era scritto il nome dell’uccisore del Rossi: crede di avere ancora quel pezzetto di carta: se lo troverà e si ricorderà il nome della persona che glielo diede, verrà a portare la carta e a dire il nome»36.

Ma, intanto che il giudice processante avvocato Cecchini aspettava, invano, l’arresto di Luigi Brunetti, di Antonio Ranucci, detto Pescetto, di Giuseppe Montesi e di Pietro Quintili [p. 351 modifica]da lui ordinati, il zelantissimo Capitano Giovanni Galanti, di sua iniziativa, aveva proceduto alla cattura di Francesco Costantini, da lui, nel surriferito rapporto, denunciato come uno dei sei delegati nel fienile di Ciceruacchio alla uccisione del Rossi, anzi come colui dalla sorte designato alla esecuzione del delitto.

Tale arresto era eseguito l’11 gennaio 185037; e il 20 dello stesso mese il medesimo Capitano Galanti, senza ordinanza dell’istruttore, aveva proceduto all’arresto di Luigi Grandoni, eseguendo anche un’accurata perquisizione nella casa di lui, in via Bonella n. 20, asportandone una cassetta di ferro, contenente parecchie carte, che egli sugellò in presenza di testimoni38.

Così il 15 gennaio il processante Cecchini potè sottoporre al primo costituto Francesco Costantini descritto cosi: «Un uomo dell’apparente età di 20 anni, statura giusta, corporatura snella, senza barba nè baffi, di carnagione naturale alquanto pallida, capelli neri, fronte regolare, occhi castagni, ciglia scure, mento regolare, naso e bocca giusta, il quale dichiarò chiamarsi Francesco Costantini di Feliciano, di anni 20, nato a Fuligno, prima ebanista ora studente musica e canto.

«Egli non ha commesso alcun delitto e non ha avuto a far mai nulla con la giustizia; dal 1841 ad oggi è sempre stato a Roma. Nello scorso autunno fu, col fratello Sante, a villeggiare, come tutti gli anni, a Fuligno, dove lui tornò nel novembre 1849. Il fratello Sante, che ha due anni più di lui ed è scultore, è da quindici o venti giorni partito per la Grecia, per trovarvi lavoro, perchè a Roma non ce n’è: non sa se è partito solo o in compagnia di qualche amico. Vivevano presso la madre Maddalena, che li manteneva col prodotto della sua professione di sarta; prima della rivoluzione lui e suo fratello davano, fra tutti due, alla madre due scudi alla settimana. Poi, dopo la rivoluzione, si eran fatti soldati nella legione Masi, nella quale lui fu sergente e il fratello prima sergente maggiore e poi sottotenente. L’ottobre 1848 loro due furono a Fuligno, donde tornarono a Roma il 3 o 4 novembre. E invitato a dire come passò la giornata del 15, si sforza di produrre un alibi, asserendo di essersi trattenuto in casa [p. 352 modifica]dal mezzodì sino a tardi, indicando come testimoni un agente di polizia De Paolis, una modella Marietta e un impiegato giubilato Cimarelli, tutti abitanti nella stessa casa di sua madre. Infine si schermisce e si difende, facendo l’ingenuo, dalle tante domande con cui lo assale il processante; non andò a cena in novembre in nessuna trattoria; conobbe il Carbonaretto a Tor di Quinto dove lui era caporale e suo fratello assistente ai lavori e il Carbonaretto era quasi capo; fu raccomandato allo Sterbini, ministro dei lavori pubblici, da un certo Fumi di Fuligno; lo Sterbini lo inviò da Ciceruacchio, che faceva tutto a Tor di Quinto, e così lui conobbe il capo-popolo. Sa che questi aveva fienili fuori porta del Popolo; lui vi andò una volta sola con tante altre persone e "sa un cavolo lui che cosa ivi si dicessero e si facessero;" anzi un certo Bezzi gli ingiunse di andar via e intese poi dire che si era fatta là dentro una distribuzione di armi, per dare, pattugliando per la città, la caccia ai ladri. Ignora se vi fosse suo fratello Sante, perchè si stava all’oscuro. Conosce Luigi Brunetti e Antonio Ranucci che era assistente con suo fratello ai lavori di Tor di Quinto, conosce i fratelli Caravacci e Felice Neri, no Alessandro Todini. Non fu mai a cena con Ciceruacchio, col Bezzi o con lo Sterbini»39.

Il giorno successivo 16 gennaio il Cecchini interroga l’agente di polizia Luigi De Paolis, che frequenta la casa della madre dei Costantini e conosce i due giovani, dei quali gli spiaceva l’ammirazione per Sterbini e per Ciceruacchio. Il 15 egli era di servizio con gli altri agenti di polizia sulla piazza della Cancelleria, per cui non si recò a casa Costantini e non sa ciò che i due fratelli facessero in quel giorno40. Nè maggior sussidio, per provare l’alibi, recò al Costantini la deposizione di Bartolomeo Cimarelli del fu Giovanni, da Fuligno, impiegato pensionato dall’amministrazione del Debito pubblico, attualmente in attività come caporale ai lavori pubblici; il quale, quantunque convivesse, da molti anni, con Maddalena Costantini, madre di Sante e di Francesco - divisa, da diecissette o dieciotto anni dal marito suo Feliciano - e quantunque da quella unione morganatica il Cimarelli [p. 353 modifica]avesse avuto un figlio, pur tuttavia non potè deporre e non depose con certezza che i due fratelli, il giorno 15 novembre, avessero a mezzogiorno pranzato in casa e vi si fossero trattenuti fino alle due o alle tre pomeridiane e solo disse che gli pareva di sì. E il Cimarelli pregiudicò Sante, affermando che egli «non sapeva il segreto motivo che poteva averlo mosso a partire per Atene, saper soltanto che era partito con Felice Neri»41.

Soltanto la modella Maria Spacca, di Sebastiano, da Spoleto, di anni 21, affermò che Sante e Francesco, il 15 novembre, erano tornati a casa verso le 10 e mezzo antimeridiane e quando lei uscì, alle 2 pomeridiane, c’erano ancora42.

Sotto la stessa data del 23 gennaio 1850 appare in processo un curiosissimo documento, così concepito:

«Oggi giorno 14 gennaio 1850, alle oro 10 e mezzo circa, noi, Mazzocchio Lorenzo, brigadiere a piedi, facente parte del deposito generale, prevenuti per segreta riferta che il nominato Giovanni Ceccarini, studente chirurgia nell’ospedale di San Giacomo, fosse uno dei principali autori dell’assassinio di S. E. il signor Conte Pellegrino Rossi, barbaramente ucciso nella mattina del 16 (sic) novembre 1848, lo abbiamo arrestato, ecc.»43.

E questo, in pochi giorni, era il terzo arresto operato dalla polizia, senza ordinanza del giudice processante Cecchini; il che prova, evidentemente, una di queste due cose: o il giudice Cecchini era incurante della dignità e dei doveri del suo delicatissimo ufficio e lasciava arbitrariamente agire la polizia; ovvero egli faceva due istruttorie, una segreta, verbale, e di cui non resta traccia, ed una palese e scritta, ed è quella che io ho studiata e transunta e di cui vengo scrupolosamente rendendo conto ai miei lettori.

Da questo dilemma mi pare che non si esca; tanto più che non avvi, fin qui, in processo un solo atto o una sola deposizione in cui appaia neppure il nome del dottor Giovanni Ceccarini.

Il processante scrisse subito a Sua Eminenza reverendissima il Cardinal Vicario per ottenere il permesso di perquisire la [p. 354 modifica]camera occupata dal Ceccarini nell’ospedale di San Giacomo44. Ottenuto il permesso e eseguita la perquisizione, si rinvennero nella camera del giovane chirurgo molti oggetti d’oro, spille, braccialetti, orologi, anelli, lettere in italiano, in francese e in inglese e uno stocco lungo un palmo circa.

Il 24 il giudice processante esamina Giovanni Furiani del fu Marco, di Assisi, sartore o inserviente dell’ospedale di San Giacomo, il quale fu uno dei testimoni alla perquisizione nella camera del Ceccarini e depone, gli studenti addetti all’ospedale sopra indicato essere stati ed essere ancora tutti caldi rivoluzionari. Non crede ciò che disse lo studente dottor Savorani che tutti quegli oggetti d’oro fossero stati depositati presso il Ceccarini dal console americano. Afferma che il Ceccarini più volte asserì essere lui amico dello Sterbini e del Mamiani. I dottori sostituti Savorani, Donni, Bis, Laurenzi, Mazzoni, Barilocci e Corsi fecero grandi feste dopo l’uccisione del Rossi, perchè tolto l'ostacolo al trionfo della repubblica. Non ricorda se vi partecipasse anche il Ceccarini: sa che tutti il 16 novembre presero il fucile e andarono a Monte Cavallo; e, dopo, si trovò che il Corsi aveva guasto un dito e lo portò molti giorni fasciato, vantandosi di esserselo ferito nel rompere i cristalli, per entrare nell’appartamento del Cardinale Lambruschini. Afferma che il 15 novembre, a mezza mattinata, il Corsi e il Pestrini uscirono vestiti da legionari, armati di fucile e ventriera, e dissero che in quel giorno bisognava vincere o morire45.

E per sempre meglio dimostrare che la Direzione generale di polizia e, per essa, il Capitano Galanti faceva in quel processo una istruttoria segreta, ecco che, la domenica 27 gennaio, sopra quella semplice ed unica deposizione di quell’inserviente Furiani - giacchè prima di quella non avvi negli atti che io esamino una sola parola che accenni ai giovani chirurgi Pestrini e Corsi - ecco un’ordinanza del giudice Cecchini che comanda l’arresto del dottor Cesare Pestrini e del dottor Luigi Corsi46.

[p. 355 modifica]E sotto la stessa data del 27 gennaio, l’attuario nota e riproduce il rapporto dell’arresto e trasferta in Roma di Felice Neri e di Sante Costantini, fermati ad Ancona, mentre erano in procinto di partire per Atene. Insieme coi due imputati venivano inviati a Roma il passaporto per Felice Neri in data 13 dicembre 1849 e per Sante Costantini in data 1° gennaio 1850; più i pacchi suggellati contenenti oggetti di vestiario e biancheria, ecc.47.

Ora, finalmente, allo zelo, alla intelligenza e all’energia del giudice processante si offriva un largo campo di lavoro: ed egli si accinse con ardore all’impresa.

Il 25 gennaio egli sottopone al primo costituto l’imputato Ceccarini. Eccone riassunto fedelmente — come sempre ho fatto e farò con scrupolo severissimo — e spoglio soltanto della parte formale, l’atto.

«Un uomo, dell’apparente età di 26 anni, statura piuttosto alta, smilzo, capelli castano— chiari, barba castagna corta, baffi tendenti al biondo, fronte piuttosto alta, carnagione vermiglia, occhi castani, naso aquilino, bocca regolare. Interrogato rispose: Sono Giovanni Ceccarini del vivente Pietro, nativo di Torice, provincia di Frosinone, 26 anni compiuti, chirurgo, da nove anni domiciliato in Roma. Il 27 dicembre 1849 ero a Genova, partii per Livorno, di qui, sul Castore, arrivai a Civitavecchia il 29 e ripartii subito per Roma; il 30 mi riposai, il 31 ripresi l’esercizio della mia professione quale sostituto dell’ospedale di San Giacomo. Il giorno 2 gennaio il padre Giuseppe Maria Canori dei Fate Bene Fratelli, superiore dell’ospedale stesso, viste le misure che prendeva il governo contro parecchi sostituti degli ospedali, mi consigliò a dare le mie dimissioni. E poichè io sono da sei mesi impiegato quale chirurgo a 300 franchi al mese presso Niccola Brown, che era console d’America in Roma, accettai subito la proposta del priore Canori. Data la rinuncia mi presentai il 6 gennaio alla polizia per avere il passaporto per Napoli, ove trovasi il Brown. Non mi diedero il passaporto, mi prorogarono fino al 20 la carta di permanenza — forse perchè supponevano che io fossi stato uno dei tre emissari [p. 356 modifica]università andati in provincia a suscitare la gioventù a prendere le armi contro l’invasore straniero, ciò che non poteva essere che un equivoco di persona — per cui ritornai dal priore Canori e mi feci rilasciare certificato che dall’8 settembre 1848 al 14 luglio 1849 io non mi era più mosso, neppure per ventiquattr’ore, da Roma. Fui consigliato dall’avvocato Carenzi, cui ero stato raccomandato, di presentare un’istanza affinchè sul mio passato si facesse un’inchiesta e, verificate le cose, mi si desse il passaporto. Mentre andavo dall’assessore Dandini e, non avendo potuto parlargli, gli lasciavo quelle carte, fui arrestato48. Nei sei mesi in cui fui assente, viaggiai col Brown, fui a Genova, a Torino, a Ginevra; non avvicinai esuli; girai la Svizzera, poi andai a Wisbaden, Bruxelles, Parigi, ecc. Dal settembre 1848 non uscii più di Roma altro che il giorno del combattimento di Velletri, perchè fui mandato, insieme col dottore Serafino Gatti, dal professor Baroni, a prendere i feriti. Conobbi Sterbini, ma non ho con lui relazione; due o tre volte andai alla Camera dei deputati per assistere alle discussioni. Il giorno 15 novembre mi era avviato, insieme ai miei colleghi dottore Pasquale Donni e Luigi Zavaglia verso la Cancelleria; ma — era verso un’ora e mezzo dopo mezzogiorno — fummo trattenuti dal signor Odoardo Cecchi, padrone delle Mole a Ponte Sisto, il quale ci disse esser da per tutto pieno di gente: intanto sopravvenne la carrozza del Rossi; udimmo i fischi, vedemmo la folla spingersi verso il portone e di lì a un momento retrocedere e, stando noi ancora fermi sulla piazza, apprendemmo che il ministro Rossi era stato ucciso. Io e il Zavaglia vestivamo da civici, il Donni da tiragliolo. Ci ritirammo per non essere esposti a compromessa»49.

Il sabato 26 gennaio l’avvocato Cecchini procedeva al primo costituto del Grandoni.

«Un uomo dell’apparente età di anni 40, di statura media, di corporatura snella, carnagione bruciata dal sole e vaiolata, barba intera, lunga, nera, con qualche pelo bianco a destra, fronte giusta, cappelli neri-grigi, occhi castano-chiari, naso, bocca, mento regolare. Interrogato risponde: mi chiamo Luigi Grandoni fu [p. 357 modifica]Pietro, romano, ho 40 anni, possidente e negoziante di campagna, scapolo. La scorsa domenica 20 corrente, con modi indegni per la mia condizione, fui arrestato in piazza Navona; dico che gli sbirri usarono modi indegni, perchè io ero pronto a seguirli e mi attrapparono come un ladro. Non fui mai inquisito, carcerato o condannato, nè la mia coscienza mi permette di immaginare il motivo dell’attuale mio arresto. Con Bartolomeo Ruspoli, Pietro De Angelis e Giovanni Costa fui deputato dai reduci della campagna del Veneto a ottenere la formazione di un battaglione civico separato composto di reduci, cosa che il ministro Galletti concesse il 22 del mese di novembre 1848, udito il parere di Sua Santità. Il suffragio dei militi mi scelse a Tenente colonnello di quel battaglione ed il giorno 10 dicembre dal Generale della guardia civica ne ebbi la nomina. Durante la campagna del Veneto fui Tenente di compagnia. I reduci, al ritorno, si divisero; alcuni si ritrassero e fra questi io che tornai Tenente di compagnia al III battaglione civico del rione Colonna; altri formarono una legione agli ordini del Colonnello Bartolomeo Galletti, e furono circa la metà degli antichi legionarii. So che ai detti legionarii del battaglione Galletti era concesso, fino dal loro ritorno e fino alla formazione del battaglione di cui io fui Tenente colonnello, di indossare la divisa militare estiva; e so che due volte la indossarono in gran numero, in occasione dei funerali di due militi morti in agosto e in settembre. So che spesso la indossavano persone che non avevano militato nel Veneto. Nego di aver ordinato qualche volta di indossarla. Mi trovai alla Cancelleria il giorno in cui fu ucciso il Conte Rossi. Non ricordo se in quel giorno indossassi la divisa della legione. Salii per entrare nella sala del Consiglio dei deputati e non avendo trovato posto nelle tribune, ridiscesi e mi trattenni parecchio vicino all’imboccatura della sala. Intesi fischi e grida, discesi le scale e incontrai il Rossi che saliva: a un tratto lo vidi cadere, onde, volgendomi a Giovanni Costa, che mi era a fianco, esclamai: Perdio, lo hanno fatto! Al che l’altro soggiunse che l’assassinio è sempre un atto indegno. Non vidi chi ferì il Rossi; non potrei indicare alcuno dei molti che lo circondavano; vidi svolazzare un cappotto, o manto scuro attorno al Rossi. Io sbalordito me ne partii con Giovanni Costa: nessuno di noi due, [p. 358 modifica]stante il turbamento, capì come, nè da qual porta uscimmo. Ci dividemmo; io andai al Falcone per pranzare, ma era tanta l’alterazione sofferta per l’ammazzamento del Rossi che non potei prender quasi nulla. Nego di essermi trattenuto in quella mattiva sulla piazza e di aver parlato con legionarii.

«Ammonito a dir meglio la verità, risponde: la verità l’ho detta»50.

La dignità e la fermezza dimostrata dall’infelice Grandoni nel suo primo costituto, egli la mantenne sempre sino all’ultimo: ma spesso, come in quel primo esame, negò troppe cose che, per loro stesse innocue, acquistavano un tal qual carattere di gravità perchè così ostinatamente negate.

Il giorno di venerdì 1° febbraio l’avvocato Cecchini sottomise al primo suo costituto Felice Neri.

«Un uomo dell’apparente età di 20 anni, statura alta, piuttosto smilzo, carnagione bianca naturale, capelli biondi-scuri, fronte alta, occhi turchini, naso aquilino, bocca regolare, mento ovale lungo, alquanto vaiolato in viso. Felice Neri, del vivente Domenico, circa 21 anno, romano, negoziante incisore di camei. Non ebbe mai da fare coi tribunali: per ragione di commercio divisò andare ad Atene, ottenne il passaporto, andò fino ad Ancona con Sante Costantini, non sa di dove, e che si disse scultore. Andammo a far vidimare i passaporti e ci fu intimato l’arresto. Militò nella legione romana; dopo la campagna del Veneto tornò a Roma. Passò a far parte della legione dei reduci di Vicenza sotto Grandoni fino all’antivigilia di Natale: passò allora nella legione Garibaldi, che stanziava a Fuligno, ove la raggiunse. La divisa estiva dei legionari era indossata frequentemente; chi la indossava spontaneamente, chi per ordine del comandante Grandoni. E il 15 novembre fu la prima circostanza straordinaria in cui il Grandoni ordinò, con affisso, nel quartiere di S. Claudio, ai reduci di indossare la panuntella, senza indicare la ragione di quell’ordine e per quale servigio si dovesse indossare la divisa. Andò a vestirsi e tornò nel momento che la vettura del Rossi imboccava sulla porta del palazzo della Cancelleria, corse per vedere quell’uomo che non conosceva, ma la folla [p. 359 modifica]che faceva ressa sul portone glielo impedì e già il ministro era stato ucciso. Col Grandoni, vestito della divisa dei legionarii, erano sulla piazza - egli lo ricorda - i fratelli Mecocetti e un tal Ferrauti dei Monti, Antonio Ranucci detto Pescetto, Paolo De Andreis, Costa di Trastevere, Bruzzesi incisore di camei. Molti vicentini erano col Grandoni nel punto che dalla scala grande del palazzo dava accesso alla sala del Consiglio dei deputati51. Conosce Luigi Brunetti, il quale indossava la panuntella e stava sulla piazza. Conosce Sterbini e Ciceruacchio: frequentava il caffè delle Belle arti e il Circolo popolare e qualche volta andò anche alla trattoria delle Belle arti, ove cenò una sola volta colla famiglia del Marchese Vecchiarelli di Rieti. Conosce il Carbonaretto»52.

Il 4 febbraio si addiveniva al costituto di Sante Costantini.

«Un uomo dell’apparente età di 24 anni, statura giusta, corporatura proporzionata, capelli ricci castagno-scuri, fronte alta, occhi castagni, ciglia idem, pochissima barba castagna al mento e baffetti simili, naso e bocca regolari, un piccolo polipo nero sull’estremità, verso il mento, della gota sinistra, ove comincia la descritta barba. Sante Costantini del vivente Feliciano, nato a Fuligno, da dieci anni domiciliato a Roma, 24 anni, scapolo, scultore. Sprovvisto di lavoro da tre anni, pensò di andare ad Atene; la madre gli procurò un passaporto; partì con Felice Neri, che credo romano, con cui non aveva precedente relazione mentre presentava pel visto il passaporto all’ufficio di polizia di Ancona, fu arrestato insieme al Neri. Non aveva smania di partire, se no avrebbe presa la via più breve di Civitavecchia.

Apparteneva alla legione romana sotto il fu Colonnello Del Grande, poi al 5° reggimento linea quale sergente maggiore, e vi fu poi Sottotenente e fu assistente alla beneficenza per intercessione di Agostini presso Sterbini. Non sa se un Grandoni succedesse al Galletti nel comando di una parte della legione. Vi fu un [p. 360 modifica]corpo dei reduci di Vicenza, che aveva quartiere a San Claudio dei Borgognoni e vestiva la divisa dei legionari, ed egli vi fu ascritto, per quanto gli fu riferito da un tal Bruzzesi, ma non vi fece mai la guardia; non voleva appartenervi, perchè non gli piacevano le persone che componevano quel corpo; qualche volta, per garantire la propria persona, indossò egli pure la panuntella. Nell’estate ’48, dopo la campagna del Veneto, passò la stagione a Fuligno e ritornò a Roma sui primi di novembre. Conosce di vista Grandoni. Conosce benissimo Luigi Brunetti, ma non ha con lui particolar relazione. A Tor di Quinto imparò a conoscere Antonio Ranucci detto Pescetto, ma nè con lui, nè coi fratelli Luigi e Giuseppe Caravacci, che pur conosce, non ebbe amicizia. Non ha inteso mai neppur nominare Giuseppe Montesi. È stato qualche volta a cena alla trattoria delle Belle arti, ma con Felice Neri gli pare di no»53.

Nel frattempo l’avvocato Cecchini interrogava il vignarolo di Francesco Mattei e quello dei Padri Serviti su Romolo Poggioli e su Giuseppe Montesi e nulla apprendeva di nuovo: dopo il combattimento del 30 aprile il vignarolo del Mattei, Niccolò Bastianelli, da Fabriano, non avea voluto rimaner solo alla vigna ed era proprio lui che aveva stimolato il padrone a mandargli per compagno qualche militare. Del resto il vignarolo dei Frati Serviti, Domenico Orlandi, da Cagli, informa il processante che quei due - specie il Poggioli - bestemmiavano sempre e che dicevano volere ammazzare francesi, preti, frati e gesuiti. Tutti due i vignaroli attestano che il Poggioli possedeva un bellissimo pugnale che descrivono, e tutti due negano di aver mai udito o il Poggioli o il Montesi a parlare dell’omicidio del Conte Rossi54.

Seguono quindi nel processo i rilievi delle lettere inglesi rinvenute al Ceccarini e che, tradotte dal perito Giovanni Caroselli, risultano inconcludenti, come quelle sequestrategli in italiano e in francese.

Il processante chiama ad esame Vincenzo Claudi fu Loreto, da Monte Porzio, di 39 anni, Giovanni Tibaldi fu Francesco, [p. 361 modifica]romano, di 34 anni, Gesualdo Andreani fu Domenico, nativo di Iesi, d’anni 37, e Benedetto del fu Pellegrino Bracucci, romano, d’anni 59, tutti agenti di polizia di servizio in pattuglia a piazza della Cancelleria il 15 novembre, tranne il primo che era di servizio a piazza Montanara.

Intorno ai particolari della uccisione del Rossi questi testi nuovi non adducono nuova luce: anzi le loro deposizioni sono incomplete, perchè, non essendo penetrati nel portone e nell’atrio, poco videro od udirono. Il processante interroga quei tre agenti di polizia per apprendere i nomi dei legionarii, che ciascuno di essi, per combinazione o per effetto dell’ufficio da essi esercitato, avesse conosciuto.

Di fatti uno di quegli agenti, il Tibaldi, dice di aver sentito dire che fosse tra quei legionarii l’ufficiale Grandoni, che si dava moto fra quei gruppi, ma lui non ricorda di averlo veduto; due, il Tibaldi stesso e l’Andreani, riconobbero, fra quei reduci di Vicenza in divisa, lo scultore o musaicista romano Alessandro Todini e lo scultore romagnolo Angelo Bezzi; il Bracucci riconobbe fra quelli Felice Neri, il quale, dopo che il Rossi era stato colpito, alzava le mani in sul portone, verso la folla, gridando: Quieti, zitti, non è niente; tutti tre poi attestano che due legionarii erano appostati all’angolo dei Baullari e che di là si staccarono, correndo verso il portone del palazzo, per avvertire i compagni dell’imminente arrivo della carrozza del ministro55.

Fra questi esami è interpolato il verbale di riconoscimento degli oggetti militari e delle carte sequestrati al Grandoni: fra cui tutti i registri e le lettere riguardanti la legione reduci da lui esattamente conservati. Fra quelle carte vi hanno anche quelle concernenti l’ufficio di consigliere municipale di Roma, cui il Grandoni era stato eletto dal voto popolare. Fra quelle lettere una ve n’era, assai onorevole pel Grandoni, nei tempi passati, ma che ora, avanti al giudice processante, diviene un terribile capo di accusa contro di lui e che il Cecchini riproduce in atti e che io pure riproduco in queste pagine.

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REPUBBLICA ROMANA.

ministero dell’interno.

N. 59717.


Li 30 giugno 1849.


Le opere onorevoli e vantaggiose non deggiono essere inosservate, ma retribuite dal governo anche per eccitamento al ben fare.

L’amor patrio da voi dimostrato nell’accettare ed adempiere, con devozione ed energia, gl’importanti ufficii conferitivi in momenti difficili merita speciale considerazione e perciò unita a questo foglio riceverete una medaglia della quale potrete fregiare il petto. Questo onore cittadino a voi impartito sia d’esempio agli altri e di vantaggio alla nostra patria.

Il ministro
Carlo Mayer56.


Al cittadino Luigi Grandoni
Consigliere municipale.



Ma ora, con l’arresto e con l’inquisizione contro i tre chirurgi dottor Giovanni Ceccarini, dottor Cesare Pestrini e dottor Luigi Corsi, comincia una delle parti più comicamente e grottescamente tragiche di questo processo.

Quei ciarloni dei medici dottor Palmieri e dottor Macarone, con lo strepitar per le farmacie, che il colpo con cui era stato ucciso Pellegrino Rossi era un colpo da maestro esperto nell’anatomia del corpo umano, avevano dato origine alla leggenda che, per ammaestrare in quel colpo l’uccisore, si fossero fatti alcuni esperimenti sopra un cadavere. Il meraviglioso attrae la fantasia popolare, la quale ricama e intesse nuove frangie intorno alla trama che le vien pôrta. Quindi questa idea degli esperimenti sul cadavere si era ingrandita, si era diffusa, era cresciuta rigogliosa, generando di sé tante ideuzze particolari che, di bocca in bocca, circolavano per la città. Su quell’idea e su quelle ideuzze ora, con credulità medioevale, imprendeva il suo lavoro di inquisizione il processante Cecchini, il quale [p. 363 modifica]doveva aver fatto, fra sè e sè, questo ragionamento: Un cadavere non si poteva trovare che in una sala anatomica; le sale anatomiche non si trovano che negli ospedali a cui sono annesse le cliniche, nelle quali spadroneggiano i giovani chirurgi, sostituti negli ospedali stessi. E siccome nell’ospedale di San Giacomo c’era una sala anatomica, e siccome i giovani chirurgi di quell’ospedale erano tutti settari e repubblicani sfegatati, cosi era chiaro che da San Giacomo era uscito il cadavere, o in San Giacomo erano penetrati i cospiratori incaricati di uccidere il Rossi; e, nell’un caso o nell’altro, i giovani chirurgi di San Giacomo erano stati quelli che avevano dato lezioni di anatomia all’uccisore di Pellegrino Rossi.

Ed ecco l’obbietto della persecuzione contro quei tre infelici chirurgi, rei soltanto di essere chirurgi, d’esser giovani e di essere stati caldi di idee repubblicane. A quali resultati conducesse questa inquisizione il lettore vedrà nel successivo svolgimento del processo.

Intanto, dopo il costituto del dottor Ceccarini, venne, il 18 febbraio, interrogato il dottor Pestrini nel modo che segue:

«Un uomo della apparente età di oltre vent’anni, statura giusta, smilzo, carnagione bianca colorita, capelli castagni-scuri in quantità, fronte giusta, occhi cerulei, naso grande, piccoli baffi castagni con pochissima barba uguale, mento regolare. Cesare Pestrini e non Piastrini, come comunemente mi chiamano, fu Luigi, romano, ventiquattro anni, chirurgo, fu arrestato nel caffè presso San Giacomo, mentre indossava la veste di sostituto dell’ospedale stesso: non ha avuto mai che fare coi tribunali: ignora il motivo del suo arresto. Conosce il dottor Giovanni Ceccarini suo compagno e collega. Non nega le affermazíoni di questo, cioè di averlo incontrato presso il palazzo della Cancelleria il giorno 15 novembre, da cui lui proveniva, e avendo incontrato il Ceccarini e il dottor Donni disse loro: Vengo adesso dal palazzo della Cancelleria ed hanno ucciso il ministro Conte Pellegrino Rossi. Si trovò all’ingresso della Cancelleria e descrive la posizione, addosso al muro, dirimpetto alla scala, serrato fra molta gente ignota. Sceso il ministro udì un sibilo cupo che poterà anche ritenersi una fischiata; ma siccome la carrozza gli impediva la visuale, non potè vedere ciò che [p. 364 modifica]accadde. Non ricorda di essere uscito quella mattina dall’ospedale col dottore Corsi, che conosce, ma gli pare di essere uscito solo.

«È falso il deposto di coloro che lo vogliono fare uscire col dottor Corsi: lui pranzò a S. Giacomo alla prima tavola che è alle 11 1/2 e finisce un quarto d’ora dopo mezzogiorno; quando uscì indossava il cappotto civico, il berretto e la daga: e questa è la verità. Ammonito: la verità l’ho detta. Dettogli che dalle testimonianze risulta che egli indossava la panuntella, dice: io la teneva sotto il cappotto. Del resto risponde spesso che non se ne ricorda e il giudice lo redarguisce e lo ammonisce a lasciare i mendacii e i sotterfugi. Nega assolutamente che qualcuno gli dicesse: questo è abito d’estate e avrete freddo e nega ugualmente di aver risposto: non importa, non abbiamo avuto paura delle palle, così non abbiamo paura del freddo; bisogna oggi o vincere o morire. Nega di aver avuto fucile e ventriera: ammonito, risponde: quod dixi, dixi. Contestategli le contrarie testimonianze: Io dico assolutamente di no. Se fosse solito indossare la panuntella; no. Perchè la indossasse in quel giorno? Dopo aver guardato in aria molto pensieroso: "perchè mi piacque in quel giorno vestire in quel modo." Ammette che alla Cancelleria vi fossero parecchi, a gruppi di due e di tre, con la panuntella. Non sa descrivere, come il giudice vorrebbe, le due ali sul passaggio del ministro Rossi. Conosce il Grandoni, il cui corpo aveva sede a S. Claudio dei Borgognoni, ma lui non vi appartenne, perchè, tornato di Lombardia, faceva solo servizio nel battaglione civico di Campo Marzio. Non riconobbe alcuno dei vestiti con la panuntella a piazza della Cancelleria. Conosce Luigi Brunetti e gli parve di averlo veduto entro il cortile del palazzo della Cancelleria, vestito con la panuntella. Conosce il solo Sante Costantini. Non conosce nè Ranucci, nè Montesi, nè Poggioli, nè i Canavacci, nè Francesco Costantini, nè Neri. Non vide Sante Costantini in quel giorno alla Cancelleria. Conosce il Bezzi, ma non ci ha mai avuto amicizia. Nega che all’Ospedale di S. Giacomo, dopo la morte del Rossi, siasi fatta una allegria»57.

Il contegno fermo, risoluto, quasi audace tenuto da questo [p. 365 modifica]giovine come quello ugualmente energico e quasi provocante adoperato dal dottor Luigi Corsi non si smentì mai in nessuno dei due, durante tutta la lunga inquisizione contro di loro.

Al costituto Pestrini segue quello del dottor Corsi:

«Un uomo della apparente età di oltre 20 anni, statura piuttosto bassa, smilzo, carnagione oscura, capelli neri, fronte giusta, occhi castagni, baffi neri leggeri e barba castagno-scura intorno al mento regolare, naso e bocca giusti. Si chiama Luigi Corsi del vivente Francesco Angelo, nato a Soriano di Viterbo, da tre anni circa domiciliato in Roma, ha 23 anni, studente di chirurgia in S. Giacomo in Augusta. Non ebbe mai a fare con la giustizia, e ora è arrestato. Appartenne come milite volontario alla legione universitaria; dopo la capitolazione di Vicenza, tornò, da Bologna, a Roma, ove giunse il 12 o 13 novembre. Vestiva quella legione il costume detto alla tiragliola — che non ha che fare con la divisa dei legionarii reduci da Vicenza. Sotto la repubblica fu nominato chirurgo assistente all’ambulanza municipale di S. Gregorio. Nega di avere indossato la panuntella, perchè neppure la possedeva. Conosce Sterbini, ma non ha avuto intime relazioni con lui. Sentì nominare Grandoni, ma non lo conosce neppure di vista. Conosce semplicemente di vista Luigi Brunetti. Non conosce nè i Caravacci, nè i Costantini, nè Ranucci, nè Poggioli, nè Montesi: di vista conosce il Bezzi, ma non gli ha mai parlato; non conosce Neri. Conosce naturalmente i dottori Ceccarini e Pestrini. Sa che essi furono arrestati ed era voce che il Ceccarini fosse imputato di avere insegnato all’uccisore del Rossi come si doveva colpire, cosa non creduta da quanti conoscono il Ceccarini, ritenuto incapace di ciò. Passò per la piazza della Cancelleria, ma poi andò a pranzo da un suo parente canonico Battaglia, ove era anche una sua pro-zia Rosa Buzzi e la donna di servizio Rosa Centofanti. Il canonico abita a piazza della Pace, n. 13; si posero a pranzo a un’ora pom. Non solo non ricorda con chi usci e a che ora quella mattina dall’ospedale, ma non ricorda neppure se quella mattina vi andò; era disarmato, non aveva nè daga nè ventriera: non ricorda se usci col Pestrini, anzi non si accompagnò affatto in quel giorno a lui. Se uscendo gli fosse fatto rimarco da qualcuno: negativamente. Ammonito a non dir menzogna: la verità l’ho detta.

[p. 366 modifica]«Contestategli le risultanze contrarie: Io non ho ricorso e non ricorro a sotterfugi e mendacii: nego assolutamente quanto mi si dice risultare a mio carico. E rinego ancora58.

Ma la prova più evidente che, mentre il Cecchini lavorava alla istruttoria, più o meno legale, per stabilire le responsabilità nell’omícidio del Conte Pellegrino Rossi, l’assessore di polizia e il Capitano Galanti conducevano innanzi un’altra istruttoria, al tutto tenebrosa, per lo stesso reato, si ha nel seguente rilievo fatto nel processo, sotto la data del 20 febbraio 1850:

«Si riproduce ed allega un rapporto del Capitano Galanti sull’arresto di Alessandro Testa, romano, operato dalla polizia come complice dell’omicidio Rossi: si unisce il verbale di perquisizione domiciliare, ecc. Il rapporto è accompagnato da una lettera dell’assessore generale di polizia in cui è detto che il Testa è ritenuto complice dell’assassinio. Si uniscono i pacchi suggellati, contenenti le carte sequestrate in casa del Testa»59.

Cosi, mentre il processante avvocato Cecchini sottopone a un secondo costituto il dottor Ceccarini perchè riconosca tutti i gioielli e oggetti di valore sequestrati nella sua camera a S. Giacomo e che furono depositati presso di lui dalla signora Braun, a cui egli esprime il desiderio che siano quegli oggetti restituiti e, per essa, ancora assente, al viceconsole americano60, egli riceve anche alle Carceri Nuove, il 22 febbraio, le risposte di Alessandro Testa, di cui nessun atto e nessun testimonio aveva fin qui fatto cenno nel processo e che è sbucato fuori, all’improvviso, dalle fucine della polizia.

«Un uomo dalla apparente età di oltre 30 anni, capelli biondi, fronte alta, occhi turchini, ciglia bionde, barba intera, baffi rossi, carnagione colorita, mento regolare, naso giusto, bocca idem: una cicatrice sopra l’occhio sinistro. Alessandro Testa, figlio del vivente Clemente, di anni 32, romano, sorvegliante ai lavori pubblici di beneficenza. Suo padre era impiegato pontificio alla prefettura delle acque e strade; ha moglie ed un figlio. Mai fu arrestato e inquisito. Fu arrestato l’11 corrente febbraio, che era il penultimo di carnevale, fra le due e le tre pom., sotto il [p. 367 modifica]palazzo Doria al Corso, mentre discorreva con due calafati. Non ha appartenuto a corpi militari. Partì nel marzo 1848 colle legioni romane, ma non credeva di dover andare alla guerra, ma di doversi fermare a Ferrara: ma quando seppe della Enciclica papale del 29 aprile, nel luglio (?) tornò a Roma.

«Lui non formò parte di quella porzione di reduci costituitasi in corpo separato sotto il Grandoni. Non indossò la divisa legionaria che due o tre volte, salvo il vero, e non ricorda quando nè perchè. Se fosse dato ordine di indossarla in qualche circostanza da qualcuno, lo ignora. Conosce di vista Grandoni. Conosce Luigi Brunetti, ma non ci ha avuto amicizia. Conosce Antonio Ranucci detto Pescetto ed è un vero assassino: ha avuto occasione di conversare a lungo con lui a Tor di Quinto. Lui aveva avanzata un’istanza al Papa, prima della sua partenza, per un impiego. Sul finir di novembre fu chiamato al ministero dei lavori pubblici dal notissimo Sterbini che lo inviò a Tor di Quinto, dove andò il giorno di santa Barbara e vi trovò i fratelli Costantini e Ranucci, factotum tutti tre del ministero insieme a Ciceruacchio: vi era gran disordine lassù, fra quelle parecchie centinaia di lavoranti; lui, per la parte che lo riguardava, cercava di mettere ordine. Dopo un paio di giorni andò sul posto il ministro Sterbini con un ingegnere vecchio e vista la situazione da lui data la lodò e l’approvò e lo nominò assistente ai lavori per conto del ministero a paoli cinque al giorno: ebbe una sola delle promessegli gratificazioni e fu di scudi cinque. Queste disposizioni non piacquero ai Costantini e al Ranucci, i quali mi proposero di stabilire un sistema di furto, facendo figurare nelle note più lavoranti di quelli che effettivamente vi erano: mi rifiutai: ma essi attuarono il loro disegno. Allora io e Clemente Bini, altro assistente, inoltrammo al ministro un rapporto firmato a cui unimmo i libretti giornalieri. E poi io andai anche a parlarne a Sterbini e c’era presente Domenico Ascenzi, caporale a Tor di Quinto e che abita a Ripetta n. 39: ne fu dolente lo Sterbini, che prediligeva il Ranucci e i due Costantini: mostrò di volerli punire se il fatto era vero, cosa che egli non poteva credere: mandò poi Ciceruacchio e il dottore Pietro Guerrini a verificare i fatti, che resultarono veri. Ranucci e Sante Costantini inveirono contro di lui: "Ma tu meriti un premio — gridavano — per il rapporto che [p. 368 modifica]hai fatto; ma a noi ci fai un baffo sui c...; perchè Sterbini bisogna che con noi stia zitto, e non ci può far niente e sappiamo noi il perchè. Prega Dio che te la mandi buona; sennò farai la morte del Rossi. Noi abbiamo visto e letto tutto e Sterbini bisognerà che faccia quel che vogliamo noi." E di fatti così fu: ed essendosi egli recato dallo Sterbini, lo ricevette con pessimi modi, gli disse che tacesse, che non gli facesse il dottore e a chiare note gli fece conoscere che il tasto di quelle persone non gli si poterà toccare; onde egli si persuase che realmente Ranucci e i due Costantini avessero preso parte all’omicidio Rossi, del quale essi si millantavano sotto la repubblica, dicendosi salvatori della patria, facendo bene intendere che Sterbini era stato il primo capo di questo misfatto. I Costantini e Ranucci si vantavano di avere avuti molti altri complici, ma lui non glieli intese mai nominare, nè intese dire da loro dove e come fosse organizzata la cosa. Crede che anche Cesare Agostini di Foligno ci fosse dentro per qualche cosa. Lui il giorno 15 novembre stava a casa con sua moglie Adelaide, ma non ricorda se ci fosse presente alcuno»61.

La importanza di questa deposizione, che può veramente chiamarsi una rivelazione, come non può sfuggire al lettore di queste pagine, così, e tanto meno, sfuggì all’occhio sagace del giudice Cecchini, il quale, coadiuvato efficacissimamente dal suo collaboratore Capitano Giovanni Galanti, in poco meno di quattro mesi, aveva raccolto attorno a sè una compagine di elementi importanti per la processura di cui egli era incaricato.

Per inoltrarsi nei sinuosi e tenebrosi meandri di quelle congiure, per scendere negli abissi di quella miniera, in cui giaceva nascosto il tesoro della verità, si offrivano ormai agli sguardi scrutatori del giudice processante tre fili lievissimi di luce, seguendo i quali egli sperava, da un momento all’altro, di vedersi aperta dinanzi qualche parte integrale del vero: i tre fili di luce, che potevano convertirsi in tre filoni auriferi, erano: la congiura legionaria in azione sulla piazza della Cancelleria, intorno a cui bisognava addoppiare e triplicare le investigazioni; il mistero della camera anatomica dell’ospedale di San Giacomo, [p. 369 modifica]dove occorreva cogliere qualcuno di quei tre chirurgi, e magari tutti tre, nell’atto di insegnare ai congiurati, incaricati di uccidere il Conte Rossi, il colpo maestro sul cadavere; il formicolio dei trecento lavoranti e dei relativi caporali e assistenti, agitantisi, lassù, a Tor di Quinto, sotto la direzione di Ciceruacchio; lassù, fra quelle schiere di facinorosi, sotto la scorta di quel libero e dotto parlatore che era quel provvidenziale Alessandro Testa, così opportunamente scovato fuori dal Capitano Galanti, si dovevano ricercare le traccie della vasta cospirazione legionaria, ordita, in antecedenza all’uccisione del Rossi, al fienile di Ciceruacchio stesso fuori di porta del Popolo.

Con questi intendimenti, il giudice Cecchini, novello Giasone, si accingeva, all’entrare della quaresima del 1850, alla agognata scoperta del vello d’oro, non senza gettare, di tanto in tanto, un pensiero e uno sguardo a quel misterioso giovane smilzo e macilente della vigna Mattei, perchè gli sarebbe dispiaciuto assai che la sua penetrazione di inquisitore, la sua intuizione di investigatore dovessero ricevere una smentita e che quell’impenetrabile e irreperibile Giuseppe Montesi non ci avesse proprio da entrare per nulla nell’omicidio di Pellegrino Rossi!

Diavolo!... ingannarsi!... lui!





Note

  1. Nell’intraprendere l’esame e la critica del grande processo contro gli uccisori e i pretesi uccisori di Pellegrino Rossi debbo qui, pubblicamente, rendere le più vive azioni di grazia all’illustre amico mio Teodorico Bonacci che, essendo Guardasigilli, mi accordò la facoltà di studiare il processo, e al chiarissimo avv. comm. Enrico De Paoli, sovraintendente del Regio Archivio di stato di Roma, il quale, con ogni sorta di sapienti cortesie, mi agevolò il faticoso lavoro.
       Caldi ringraziamenti debbo rivolgere ancora al doti Giuseppe Coletti, conservatore degli Archivi Capitolini, all’avv. cav. Raffaele Ambrosi e al dott. Attilio Luciani della Biblioteca Vittorio Emanuele, al Conte dott. Alessandro Moroni, bibliotecario dell’Alessandrina, e a tutti coloro che, gentilmente, o con un indizio, o con una notizia, mi coadiuvarono nei miei studi sul complesso argomento che impresi a trattare.
  2. Processo, foglio 1 a 10.
  3. Processo, foglio 10 a 17.
  4. Processo, foglio 17 tergo.
  5. Processo, foglio 17 a 20.
  6. Processo, foglio 21.
  7. Processo, deposizione Sereni, foglio 6337 a 6343.
  8. Processo, verbale d’apertura del pacco, foglio 21 a 31. Così rimane sfatata la leggenda che nella tasca del petto dell’abito di Pellegrino Rossi si rinvenisse l’autografo del discorso, che egli aveva preparato e che doveva leggere per la inaugurazione della nuova sessione del Consiglio dei deputati. Quel discorso era invece nel portafogli di Pellegrino Rossi. Sopra tale argomento scrisse un articolo nel fasc. II del Politecnico del febbraio 1807, R. Bonfadini, articolo che sarà anche bellissimo, ma tutto intessuto essendo di vuoto e postumo declamazioni dottrinarie e subiettive, nessun nuovo o serio elemento fornisco allo studioso, tanto più che il programma che il Rossi esponeva in quel discorso era già noto ed era già stato lodato e giudicato.
  9. Processo, lettera Angelilli, foglio 27.
  10. Processo, foglio 38.
  11. L’avvocato F. Cecchini era nato in una delle frazioni del comune di Preci, mandamento di Norcia, nell’Umbria. Era uomo di pronto ingegno e reputato abilissimo nel sistema suggestivo e, perciò, dal presidente della Commissione dei processi politici fu scelto a condurre la procedura importantissima contro gli uccisori di Pellegrino Rossi.
  12. Processo deposizione Tozzi, foglio 38 a 60.
  13. Processo, deposizione Sprega, foglio 38 a 60.
  14. Processo, deposizione Palmieri, foglio 84 a 96.
  15. Processo, deposizione Lodovico Buti, foglio 127 a 136.
  16. Processo, deposizione Righetti, foglio 137 a 142; deposizione Ferdinando Buti, foglio 143 a 148; deposizione De Cesaris, foglio 149 a 157.
  17. Processo, deposizione Deck, foglio 157 a 172.
  18. Processo, deposizione Ganni, foglio 176 a 181.
  19. Il Capitano Giovanni Galanti divenne celebre per il suo zelo feroce e per le sue arti volpine nelle persecuzioni dei liberali in tutto il decennio 1849-1859. A lui venivano affidate tutte le missioni più difficili di arresti, perquisizioni, ecc. Durante il periodo dei grandi processi (1849-1851) egli percorreva le prigioni, interrogava abilmente i prigionieri, prometteva indulgenza, affidava di impunità, eccitando a rivelazioni, vero segugio di reati politici, e facendo rapporti nei quali si mostrava esagerato coloritore.
  20. Processo, rapporto riservato Galanti, foglio 185 a 186.
  21. Processo, deposizione Manni, foglio 196 a 206.
  22. Processo, deposizione Bozzoli, foglio 218 a 226.
  23. Processo deposizione Gioacchino Pieruccioni, foglio 235 a 240.
  24. Avverto il lettore che questo punto della data delle riunioni al fienile di Ciceruacchio è d’importanza somma; perchè effettivamente tali riunioni non avvennero prima, ma dopo la morte del Rossi e, nondimeno, i due processanti Cecchini e Laurenti, seguendo le false indicazioni del turpissimo rivelante impunitario Bernasconi, e fondandosi sopra la deficienza di memoria di cinque o sei fra i cinquanta testimoni su tale argomento interrogati, vorrebbero stabilire, contro la verità, che le riunioni al fienile del Brunetti avvenissero in due periodi diversi, le prime nell’ottobre e novembre 1848 e le seconde nel marzo e aprile 1849.
  25. Processo, deposizione Luigi Pieruccioni, foglio 241 a 214, e deposizione Menghini, foglio 271 a 273.
  26. Ed era proprio cosi, come meglio si vedrà in seguito. Filippo Capanna, preposto nel febbraio, come quegli che era uomo energico, intelligente ed attivissimo, al servizio di sicurezza pubblica dal governo repubblicano, non sapendo come frenare i furti e sapendo essere in Roma sette od ottocento ladri, nella primavera del 1849 chiese ad Angelo Brunetti la cooperazione dei più energici e risoluti suoi amici. E fu allora che si riunirono un cento o centoventi giovani, al fienile di Ciceruacchio, armati di pistole, ordinati in pattuglie e inviati a percorrere di notte la città. Tutto ciò risulterà evidente da numerose ulteriori testimonianze.
  27. Processo, deposizione Guarnaccia, foglio 260 a 211.
  28. Processo, deposizione Di Niccola, foglio 278 a 282.
  29. Processo, deposizioni Anessi, foglio 187 a 193 e foglio 244 a 247; deposizione Graziani, foglio 286 a 296; deposizione Antonelli, foglio 307 a 309.
  30. Processo, deposizioni Corteggiani, Meluzzi Giovanni, Marconi, Cecchini e Meluzzi Domenico, foglio 309 a 332.
  31. Processo, deposizione Macarone, foglio 349 a 360.
  32. Processo, dispaccio Assessorato polizia, foglio 363 a 367.
  33. Processo, foglio 368 a 382.
  34. Processo, deposizione Grassi, foglio 382 a 384.
  35. Processo, prima deposizione Cecchetti, foglio 385 a 400. È cosa degna di nota che questo testimone, che è il primo che accenni alla cospirazione della Salita di Marforio, sulla quale poi dirà tante cose, in questo esame nomini, oltre il Colonnello, il solo Giovanni Galeotti e non dica parola dei fratelli Facciotti.
  36. Processo prima deposizione Nina, foglio 402 a 407.
  37. Processo rapporto riservato Galanti, foglio 407 a 409.
  38. Processo, nuovo rapporto riservato Galanti, foglio 436 a 440.
  39. Processo, costituto Francesco Costantini, fog-lio 412 a 426.
  40. Processo, deposizione De Paolis, foglio 426 a 435.
  41. Processo deposizione Cimarelli, foglio 440 a 447.
  42. Processo, deposizione Spacca, foglio 448 a 450.
  43. Processo rapporto Mazzocchio, foglio 450 a 452.
  44. Anche per chiamare innanzi a sè o preti o frati il giudice processante è costretto a chiederne prima il permesso all’Eminentissimo Cardinal Vicario, che, in nome e rappresentanza del Papa, aveva su di essi speciale inviolabile giurisdizione.
  45. Processo, deposizione Furiani, foglio 462 a 471.
  46. Processo, ordinanza Cecchini, foglio 536 a 514.
  47. Processo, rapporto polizia, foglio 544 a 571.
  48. . Ecco la prova evidente dell’istruttoria segreta per l’omicidio Rossi fatta dalla polizia.
  49. Processo, primo costituto Ceccarini, foglio 503 a 523.
  50. Processo, primo costituto Grandoni, foglio 523 a 535.
  51. . Noti il lettore la contraddizione in cui cade il Neri, il quale, dopo avere asserito che la ressa della gente sul portone gli impedì di entrare, egli dice che vide il Grandoni con molti vicentini nel punto che dalla scala grande del palazzo dava accesso alla sala del Consiglio dei deputati. Chi conosco la topografia del palazzo della Consulta comprende subito che il Neri, stando sul portone, non poteva assolutamente e in nessun modo vedere la scala, la quale si apre a destra di chi entri e che poi volga sulla sua sinistra e percorra almeno dieci passi dell’atrio.
  52. Processo, primo costituto Neri, foglio 511 a 589.
  53. Processo, primo costituto Sante Costantini. foglio 589 a 603
  54. Processo, deposizioni Orlandi o Bastianelli, foglio 603 a 619 e foglio 623 a 631.
  55. Processo, deposizioni Claudi, Tibaldi, Andreani e Bracucci, foglio 669 a 761.
  56. Processo, foglio 701 a 723. La medaglia era d’oro, con l’iscrizione: Benemerenti. La lettera era litografata, perchè accompagnava medaglie d’oro e d’argento anche ad altri cittadini; le parole speciali usate in questa indirizzata al Grandoni erano scritte in inchiostro giallastro e sono quelle in corsivo. Gli speciali servigi a cui alludesi riguardavano l’energica opera del Grandoni nella Commissione municipale di vettovagliamento e foraggiamento delle milizie della repubblica, durante l’assedio e perciò in momenti difficili.
  57. Processo, primo costituto Pestrini, foglio 761 a 800.
  58. Processo, primo costituto Corsi, foglio 818 a 847.
  59. Processo, rilievo sull’arresto di A. Testa, foglio 848 a 858.
  60. Processo, secondo costituto Ceccarini, foglio 858 a 875.
  61. Processo, primo costituto Testa, foglio 876 a 907