Pellegrino Rossi e la rivoluzione romana - Vol. I/Capitolo VI
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CAPITOLO VI.
Effetti della morte di Pellegrino Rossi.
Giudizi su di lui.
I deputati Pantaleoni e Fusconi, appena spirato Pellegrino Rossi, erano rientrati nell’aula, ove la notizia si era rapidamente propagata, destando in tutti una impressione profonda di stupore, e - perchè nasconderlo? - di spavento.
Nel momento in cui la notizia si era diffusa il segretario deputato Marcosanti leggeva il processo verbale dell’ultima seduta, quella del 26 agosto. Il presidente avvocato Sturbinetti, rimasto fortemente turbato, e presso il quale numerosi si recavano i deputati per dare suggerimenti, o per chiedere che si farebbe, era molto imbarazzato. Il Pantaleoni e altri tumultuarono presso di lui, chiedendo che si sciogliesse l’adunanza e lo Sturbinetti obiettava che, per farlo, bisognava dirne la ragione; e siccome quasi tutti quei deputati tremavano, quasichè l’uccisione del Rossi dovesse addurre per conseguenza l’eccidio di tutti i rappresentanti del paese, e non volevano che si facesse commemorazione dell’estinto, per tema di eccitare il furore popolare, così il presidente finì per adottare il più acconcio temperamento1: ordinò che si facesse l’appello nominale, dal quale risultando che i deputati presenti erano trentasette — mentre, perchè la seduta fosse legale, avrebbero dovuto essere cinquantuno — egli dovette dichiarare sciolta l’adunanza.
Erano le due e un quarto pomeridiane2.
Frattanto, giù, sulla piazza, la folla si era diradata, in parte stupefatta, in parte attonita, in piccola parte soddisfatta: e si può affermare, con fondamento di esser nel vero, che pochissimi furono coloro che dell’orrendo eccidio fossero commossi; per quanto questo fatto possa essere deplorevole, pure fu cosi. E se si rifletta a tutto ciò che era antecedentemente avvenuto, a tutto ciò di che io feci cenno, se si ripensi che quell’uomo, per il cumulo di circostanze indicate, era antipatico e impopolare, odiato fieramente dagli esaltati o esagerati che si voglia dire, secretamente, ma tenacemente odiato dai reazionari e papalini - come proverò in seguito - si comprenderà, senza grande sforzo, l’indifferenza della popolazione e della civica. Contro la quale furono lanciate allora, ma più che allora, dopo e fino ai giorni nostri, accuse di ogni maniera, non solo dagli scrittori della fazione papale - che cercano, quasi tutti, di nascondere, sotto il velame di ipocriti compianti, la gioia loro cagionata dall’uccisione del Rossi, onde essi avrebbero, fra breve, raccolto il frutto - ma anche, e più ferocemente, dagli storici di parte moderata. E siccome per lungo tempo hanno costoro menato il mestolo della politica in Italia, così hanno esercitato pure non piccola influenza a dare uno speciale e fazioso indirizzo alla storia di quel triennio, creando leggende partigiane, che, oggi, al lume di irrefragabili documenti, vanno distrutte, per riedificare sulle ruine di quelle la venerata immagine della verità storica. I moderati, colpevoli di aver spinto il Rossi ad assumere il potere in quella pericolosissima condizione di cose, colpevoli di averlo lasciato solo, con quattro o cinque mediocrissimi gregari, in quella difficilissima situazione, in cui io penso che sarebbero rimasti soccombenti anche i valorosi capitani, i moderati, che, con la morte del Rossi, videro annientata anche la più lieve speranza di fare argine all’irrompente e furiosa fiumana della democrazia, furono ingiusti, allora e dopo, imputando agli altri la loro stessa tepidezza, gli altri accusando della propria inettezza e pusillanimità.
Difatti, risulta dagli atti processuali, che il maggiore Villanova-Castellacci coi suoi ottocento civici erano stati posti sulla piazza della Cancelleria, a disposizione della Presidenza della Camera, secondo i cui ordini dispose le sentinelle, ai cui ordini il battaglione stette schierato sotto le armi fino oltre a sera e fino a che non ricevette dal Comando generale l’ordine di rinviare i pelottoni ai rispettivi quartieri3.
Ora, che colpa avevano quei civici e i loro ufficiali se di nulla furono richiesti, se non ricevettero ordini? Che colpa avevano essi se i ministri colleghi del Rossi non erano tutti presenti al loro posto nell’aula, se essi si perderono d’animo e di cervello, se non si riunirono subito a consiglio in una sala del palazzo, se non deliberarono subito, con la calma e la fermezza e la energia che sarebbero state necessarie, le provvisioni più urgenti, e, fra queste, quella urgentissima di fare occupare il palazzo da una parte di quei civici e inviare gli altri, a pelottoni, in pattuglie, nei dintorni, con ordine di eseguire arresti di legionarii, di riottosi e tumultuanti, ove se ne incontrassero, se non chiamarono subito al palazzo della Cancelleria il Colonnello Calderari coi suoi duecento carabinieri? La verità vera, che trapela, per quanto essi si sforzino di nasconderla, dalle deposizioni stesse del Massimo, del Montanari, del Pantaleoni, del Minghetti, del Fusconi, del Pizzoli, la verità vera è che tutti i ministri ebbero paura e per tre o quattro ore, proprio nelle prime ore che erano le più propizie e le più preziose per l'azione energica del governo, anzichè riunirsi, disparvero e non cominciarono che tardi a raccogliersi al Quirinale attorno al Principe, il quale, è giusto riconoscerlo, mostrò in quei due giorni, 15 e 16, più energia dei suoi ministri.
La condotta del duca Mario Massimo di Rignano fu inqualificabile. Egli era, in quel giorno, investito di due portafogli, di quello dei lavori pubblici, e, interinalmente, di quello della guerra; ed egli era, anche interinalmente, Comandante generale della guardia civica. Piaccia ai lettori di ascoltare le parole di quest’uomo, il quale, per gli altissimi e militari uffici cui era preposto, solo che avesse avuto, non dico più energia, ma appena minor fiacchezza di quella che ebbe, avrebbe potuto ridare, almeno pel momento, al governo l’autorità e la forza che aveva perduta e impedire molti degli sconci che in quel resto di giorno accaddero. Egli e i suoi colleghi non avrebbero potuto, anche con la più grande energia, impedire - io ne sono convintissimo lo svolgimento logico di quella situazione, ma avrebbero fatto il loro dovere, ciò che per debolezza e timore non fecero.
«Nel ministero» - depone il Duca di Rignano - «tutti credevano che, al più, contro il Rossi tutto si restringerebbe a chiassi da strada e da tribuna e non potemmo sicuramente prevedere un assassinio quale si verificò... In tali disposizioni, senza che io 0 altri del ministero - almeno che io sappia - avessero avviso di ciò che stava per succedere. Rossi all’una e un quarto del 15 novembre andò alla Camera. Io sarei andato poco dopo; perchè doveva prima andare a casa a prendere delle carte (!)... Più tardi (?) io a piedi (?) andavo alla Cancelleria. Là vidi la civica sotto le armi e un muoversi piuttosto turbato di gente: mentre entravo nel portone, due civici, fra cui ricordo il curiale Onesti, mi presero sotto il braccio e mi trassero quasi a forza (!) verso via del Pellegrino e mi dissero che Rossi era stato ferito e che era pericoloso penetrare nel palazzo. Ordinai allora al Capitano aiutante maggiore civico Bianconi che entrasse e mi procurasse notizie del Rossi. Quegli, molto in orgasmo, entrò e tornò, dicendomi che il Rossi era moribondo. Allora fui esortato a tornarmene a casa per la mia salvezza: e vi andai. Poco dopo (?) andai al Quirinale, ecc.» 4.
Se anche questo racconto esprimesse tutta la verità - e or ora vedremo che ne nasconde una buona parte - quel ministro dei lavori pubblici e della guerra, quel Generale comandante tutta la guardia civica che va a prendere alcune carte a casa, in un giorno così solenne e procelloso e proprio nel momento in cui i suoi colleghi vanno alla Camera, quel ministro, quel Generale che tiene vettura del proprio, che gira sempre in vettura e che appunto in quel giorno e in quel momento si avvia alla Camera a piedi, produce una impressione che - lo ripeto non si sa come qualificare.
Ma v’ha di peggio assai.
Il Maggiore Villanuova-Castellacci racconta: «Stavo alla testa della civica schierata e non nel portone del palazzo all’arrivo di Rossi: udii fischi e urli, e il Capitano Bianconi mi avvertì che persona mandata dal ministro Duca di Rignano mi voleva parlare per la via del Pellegrino. Corsi colà e trovai il Duca di Rignano stesso, a piedi, che nella massima agitazione mi chiese che fosse avvenuto. Io gli dissi che avevo udito i fischi; quindi fu spedito a verificare il Capitano Bianconi, il quale narrò che il parroco Nina, aveagli detto che portava l’olio santo al Conte Rossi, mortalmente ferito, e così sapemmo questo esacrabile delitto. Io stesso allora, che avevo udito da qualche giorno voci contro il Rossi e contro il Rignano, invitai questo a porsi in salvo, domandandogli come dovessi regolarmi; ed egli, stringendomi la mano, mi disse; Regolatevi con prudenza (!)»5.
Ecco tutti gli ordini che la civica ebbe dal suo Generale in quel terribile momento!
E poi gli scrittori moderati se la prendono con la Civica!
Il Marchese Giovan Pietro Campana, Tenente colonnello del VII battaglione civico: «Era di guardia, col battaglione, a piazza Farnese. Passeggiava e si spinse fino alla prossima piazza della Cancelleria; non entrò però nel portone. A una certa ora giunsegli notizia dell’uccisione del Rossi e allora gli avvenne di osservare, dinanzi al quartiere di piazza Farnese, il Duca Massimo che, a passo celere e tutto pallido in viso, dalla parte di Santa Lucia si avviava verso la Trinità dei Pellegrini, e lo accompagnò pochi passi»6.
Ma dal ministro della guerra e Generale della guardia civica fuggente non ebbe alcun ordine neppure lui!
Il curiale Arcangelo Onesti, indicato dal Rignano, narra: «.....e quasi subito uno disse; hanno ammazzato il ministro Rossi. In quel momento arrivava il Duca di Rignano a piedi. Io avendo qualche servitù con lui, lo presi pel braccio e lo tirai quasi a forza per via del Pellegrino e gli dissi quel che era avvenuto; egli rimase sorpreso e sgomentato e mi commise di andare a verificare meglio; lui mi aspettava lì. Andai, verificai, tornai dal Rignano che mi attendeva e lo accompagnai al suo palazzo»7.
E un altro testimonio aggiunge: «A piazza Tartarughe appresi dal chiavaro Mannucci e da un tal Iacoucci che Rossi era stato ucciso. In quel momento vedemmo passare il Duca di Rignano e il curiale Onesti che pallidi andavano verso la casa del Duca»8.
Fatto sta che questo ministro della guerra e dei lavori pubblici, questo Generale della guardia civica non andò a vedere il suo Sovrano, non intervenne al consiglio dei ministri, che si adunò poco prima dell’avemaria, mandò una lettera in cui designava come suo successore nel comando della civica il valoroso Colonnello Giuseppe Gallieno e se ne partì quella stessa sera per Napoli9.
Fatto sta che, mentre i capi del partito democratico costituivano una specie di Comitato di salute pubblica al Circolo popolare, mentre i legionarii, con alcuni dragoni e con molto popolo, andavano, con bandiere, acclamando all’Italia, alla libertà, alla costituente italiana avanti a tutte le caserme tanto dei carabinieri, quanto delle milizie di linea, per eccitare gli uni e le altre a fraternizzare col popolo, i ministri erano spariti e il primo a portare al Papa l’annunzio del terribile avvenimento fu il minutante Rufíni e, dopo di lui, monsignor Pentini. Soltanto dopo le quattro pomeridiane, riavutisi del primo spavento, i ministri Montanari, Guarini e Cicognani si recarono al Quirinale dove trovarono i Cardinali Soglia Ceroni e Vizzardelli e tennero consulta col Papa, il quale, più che turbato e commosso, era e si mostrava adirato. Fu chiamato il Colonnello Calderari, il quale, titubante e perplesso, disse di non esser sicuro che i suoi carabinieri avrebbero, in caso di necessità, fatto fuoco sul popolo. A quel consiglio era presente monsignor Pontini.
Allora intervenne il fatto che prova la presunzione del Montanari e che io traggo tale quale, senza metterci nè sale, nè olio, dalle carte di monsignor Pentini, e che è avvalorato da altre testimonianze.
È accertato che, sulle prime, quel rimasuglio di consiglio di ministri rassegnò le proprie dimissioni nelle mani del Papa, proponendo di mandare subito un corriere di gabinetto al Generale Zucchi a Bologna per chiamarlo a Roma e, probabilmente, alla testa degli svizzeri.
Intanto che il Rufini correva al ministero di polizia per far partire immediatamente per Bologna il conte Zampieri10, e molto sdegnato il Papa declamava — e, veramente, non a torto — che tutti lo abbandonavano, «il professore Montanari, pentito e dolente di perdere il ministero, posizione che gli dava l’appunto di mensili scudi trecento - così scrive monsignor Pentini - pensò proporsi per successore del Conte Rossi nel ministero dell’interno, sfoggiandosi in millantazioni che avrebbe sostenuto e difeso nelle Camere il Santo Padre, purchè lo nominasse a quel ministero. E malgrado che monsignor Pentini gli facesse rimarcare l’assurdità della cosa e che era un complicare maggiormente le cose con questa nomina incoerente e parziale della sua persona, pure, in quei momenti di orgasmo e d’incertezza, riusci a farsi nominare come interino ministro dell’interno, senza che però volesse, potesse o facesse cosa alcuna, tenendosi solo la nomina in tasca, senza affatto mostrarsi in pubblico e dandosi solo moto quale forsennato, or borioso della sua nomina, or convulso della incertezza di poterla sostenere e conservarsi il mensile assegno di scudi trecento, nulla faceva all’infuori di ingenerare maggiore confusione ed imbarazzi»11. Infatti, ad un’ora di notte, il Rufini, appena disposto per la partenza del conte Zampieri, tornò al Quirinale per ricevere gli ordini del nuovo ministro Montanari, ma non lo trovò e non trovò che egli avesse lasciato ordini, «ma lui deve ritenere che ne abbia dati all'avvocato Pietro Pericoli e desume ciò dall’avergli il Pericoli detto il giorno appresso essere egli stato nominato direttore della sezione di polizia»12.
Il Pericoli, d’altronde, afferma «che il Montanari non si fidò del Calderari, per cui egli crede che questi la sera del 15 non ricevesse ordini da alcuno»13; mentre è evidente che se il Montanari non si fidava del Calderari, e voleva in qualche modo provvedere alle urgentissime difficoltà del momento, doveva dare il comando dei carabinieri a un ufficiale fidato - al Tenente colonnello Lentulus, per esempio - ma servirsi della forza dei carabinieri subito; perchè il pericolo, in quell’ora, stava negli indugi.
Comunque, è chiaro che quegli uomini, inferiori alle gravissime circostanze, non fecero nulla, non seppero far nulla e, a diminuire, non a cancellare, la loro responsabilità, aggiungerò che se, fossero stati assai più forti, energici e sapienti di quel che realmente erano, non avrebbero potuto impedire la rivoluzione: l’avrebbero forse potuta, tutta al più, ritardare di qualche giorno.
La sera, di fatti, avveniva, in parte, l’affratellamento delle milizie regolari col popolo; mentre un gruppo di centoventi, o centotrenta, fra fanatici e facinorosi — non più di cencinquanta —14 percorrendo le vie più frequentate della città, e non rispettando neppure lo strazio della famiglia Rossi, passando e soffermandosi avanti al palazzo di Malta, andavano cantando, sopra un motivo in voga a. quei giorni, una improvvisata e bruttissima strofetta:
Benedetta quella mano |
Quel gruppo di forsennati, di tratto in tratto, sollevava a braccia ora lo scultore Filippo Trentanove, ora il vetturino Antonio Ranucci detto Pescetto, ora lo scultore Sante Costantini, ora il mosaicista Felice Neri, creduti autori dell’uccisione del Rossi; giacché - e mi pare di averlo avvertito di già - pochi sapevano chi fosse stato il vero feritore di Pellegrino Rossi e alcuni, in buona fede, credevano che fosse stato il Costantini, altri il Ranucci, altri il Trentanove, altri il Neri.
In quella stessa sera giungeva a Roma il deputato avvocato Giuseppe Galletti, che era già stato due volte ministro di polizia e che godeva tuttora di una larghissima popolarità, perchè antico liberale e condannato politico e perchè benvoluto per l’affabilità dei suoi modi.
Le rappresentanze dei Circoli, riunite al palazzo Fiano, ove aveva sede il Circolo popolare e che in quella sera era affollatissimo di cittadini, approvarono un indirizzo al popolo, che fu subito stampato e all’indomani distribuito a migliaia e migliaia di esemplari. In quell’indirizzo — che il popolo doveva, il mattino appresso, recare, in solenne e pacifico corteo, al Papa — erano fissati i principii fondamentali per base del nuovo ministero; sotto la qual denominazione si intendeva di fissare il programma del ministero veramente liberale e veramente italiano — secondo gl’intendimenti della trionfante democrazia — che il Papa doveva nominare all’indomani. Riferisco qui quei principii fondamentali, che erano in diretta opposizione al programma del ministero Rossi:
Come effettuatori di questo programma i Circoli, a nome del popolo, designavano al Pontefice quali nuovi ministri il Conte Terenzio Mamiani della Rovere, il Conte Pompeo di Campello, il dottor Pietro Sterbini, il dottor Sebastiano Fusconi, l’avvocato Giuseppe Lunati, e l’avvocato Giambattista Sereni, tutti deputati.
Inoltre si domandava la nomina dell’avvocato Giuseppe Galletti a Generale dell’arma dei carabinieri.
Giunti a questo punto gli storici dottrinari e subiettivi, i papalini tutti, i moderati in gran parte, irrompono in grandi furie e vuotano i cassoni delle loro declamazioni contro quei liberali, contro quel popolo che compiva, con quegli atti, una vera rivoluzione, che commetteva una violenta infrazione dello statuto, una vera ribellione contro il Sovrano.... e giù, a grandine, su questa intonazione.
Ma tutto ciò era vero, come era logico e naturale, perchè quella era una rivoluzione. Ma, certamente, ma, senza dubbio, la grande maggioranza della popolazione romana — e i fatti di pochi mesi dopo mostrarono che essa aveva in ciò consenziente la maggioranza delle popolazioni dello stato — faceva e intendeva fare un pacifico rivolgimento di piazza lui, in reazione al rivolgimento di palazzo fatto dai Cardinali il 29 aprile di quell’anno: la reazione aveva trascinato Pio IX fuori della via per la quale si sarebbe potuta conseguire la redenzione d’Italia e la rivoluzione voleva ricondurvelo. E i principii fondamentali contenuti in quell’indirizzo, per un senso di rispetto verso il Pontefice, erano indicati come se dovessero servire pei ministri, ma realmente, nel pensiero e nelle intenzioni degli uomini più colti ed intelligenti di quel partito, quei principii fondamentali erano stati scritti proprio pel Papa, proprio perchè servissero di norma a lui; e perciò, nei due ultimi paragrafi, si domandava la esecuzione delle deliberazioni della Camera intorno alla guerra dell’indipendenza e la intera adozione del programma Mamiani, proprio per ricordare al Papa che di quelle deliberazioni, legalmente e legittimamente votate, non una da lui e dal suo potere esecutivo era stata effettuata, per ricordargli che dal programma Mamiani, approvato legalmente dai Consigli deliberanti, lui, il Pontefice, e il suo potere esecutivo, avevano illegalmente deviato. Proprio per rammentare al Papa che lui primo aveva violato e continuamente violava, da sei mesi, la costituzione; per rammentargli che ne era uscito e che bisognava rientrarvi, in quella conculcata costituzione, erano stati scritti i principii fondamentali. Inutili quindi le declamazioni.
Ora, lasciando stare che i due primi paragrafi di quei principii fondamentali fossero vaghi, indeterminati, così campati in aria fra le nebbie della platonica costituente montanelliana e delr arcadica federazione giobertiana, prodotti ideali, inconsistenti e vaporosi di sogni febbrili, lasciando stare che fossero inattuabili; i due ultimi paragrafi erano chiari, positivi, concreti e il domandare che i concetti in essi contenuti fossero fondamento alla politica romana era un diritto costituzionale e legittimo del popolo17.
Inutili, dunque, proprio, tutte quelle misere declamazioni!
Pio IX, temporeggiando e destreggiandosi, aveva sperato di sfuggire, mediante il suo illustre gerente responsabile Pellegrino Rossi, alle ultime conseguenze della contraddizione personificata in lui fra il principe liberale e italiano da un lato e il dogmatico e cattolico Pontefice dall’altro: ma la logica della storia era apparsa inesorabile nuovamente sulla scena, il ministro del Papa, recalcitrante alle conseguenze del sillogismo, era stato miserevolmente ucciso e, appunto perchè incautamente e troppo energicamente si era assunto l’ingrato ufficio di gerente responsabile di quella odiosa politica anti-liberale e anti-nazionale, era stato ucciso senza compianto: il titubante Don Abbondio doveva ormai decidersi: la contraddizione doveva finire, o con l’Italia e con la libertà, o colla Chiesa e col dogma; la logica storica così ineluttabilmente imponeva. Ma per decidersi risolutamente e con coraggio occorreva avere l’alto intelletto e la energica coscienza - non dirò di Gregorio VII e di Innocenzo III ma solamente di Bonifacio VII o di Eugenio III; e Pio IX — poveretto! — piccolo di mente e d’animo era quello che era, onde potè pensare di protrarre ancora la decisione che gli stava sopra e l’opprimeva.
Cosi, a notte avanzata, quando i Circoli avevano preso le loro decisioni, quando la piccola orda di forsennati, cessando dal suo briaco imprecare, si era dispersa nelle taverne, quando, avanti a tutte le caserme, le milizie si erano affratellate col popolo, quando il ministro Montanari, non avendo provveduto a nulla, si dibatteva, come disse il Pentini, fra i suoi desiderii del bene e la sua inettitudine e impotenza a far qualche cosa. Pio IX aveva mandato a chiamare Marco Minghetti, con cui ebbe il colloquio a cui in nota ho accennato e dopo il quale l’autorevole rappresentante di Bologna si ritirò, riservandosi «di raccogliere nella notte pensieri ed amici e di andargliene a riferire al mattino».
Veramente il Minghetti non dice nei suoi Ricordi, e neppure nella deposizione sua davanti al giudice processante, quali fossero gli amici con cui si abboccò durante la notte e le prime ore del mattino susseguente; certo egli favellò a lungo col Pasolini, come si rileva dalla lettera indirizzata dallo stesso Pasolini al Minghetti il 2 ottobre 1850 e da questo riferita nei suoi Ricordi18. Vide, forse, anche il Fusconi e il Bevilacqua.
Comunque, l’economista bolognese è costretto a confessare che «l’impresa si mostrava piena di ostacoli; nessuno osava in quel momento contrapporsi arditamente alla corrente; tutti paventavano la fine del rossi. Ad ogni modo, presa ogni più accurata informazione e fatte pratiche durante la notte, andai al mattino al Quirinale»19.
Ma qui trovò già adunati i presidenti dei due Consigli e parecchi membri dell’una e dell’altra Assemblea, i quali di prima mattina, non ostante il colloquio avuto dal Papa col Minghetti, per ordine del Papa stesso erano stati invitati dal ministro Montanari a recarsi al Quirinale alle ore otto e tre quarti20.
Ciò che là avvenisse lo narra diffusamente il deputato Fusconi nel suo esame. «Nella mattina del 16 mi trovai con parecchi deputati bolognesi, Minghetti, Bevilacqua, e si convenne di andare al Quirinale, per sentire dai ministri che si operasse in proposito all’assassinio Rossi. Incontrammo il Marchese Potenziani che ci disse desiderare il Papa vedere i membri dei due Consigli. Al Quirinale trovammo parecchi membri delle due Camere: Montanari ministro ci disse che il Papa intanto si sarebbe abboccato coi presidenti e vicepresidenti dei due Consigli e, allora, Muzzarelli presidente e Pasolini vicepresidente dell’Alto Consiglio, Sturbinetti presidente ed io vice presidente della Camera entrammo dal Papa. Egli era agitatissimo per tanta perdita: Muzzarelli e Sturbinetti cercavano calmarlo, ma Sua Santità si mostrava sempre maggiormente inquieto21. Allora io proposi a Sua Santità che ci concedesse di intenderci cogli altri membri delle due Camere che si trovavano al Quirinale. Il Papa approvò quella proposta e ci licenziò. Raccoltici cogli altri, si risolse esser partito più conveniente d’ogni altro il proporgli di affidare la composizione di un nuovo ministero al signor Galletti, siccome quegli che doveva essergli affezionato e che tre volte era stato ministro di polizia. Il Papa, cui fu mandata questa proposta, rispose che si fossero fatte le pratiche necessarie a ciò. Io e il signor Minghetti ci recammo all’albergo della Minerva, ove trovammo il signor Galletti, dal quale mi sembra che, nel primo abboccamento, ci venisse dichiarato che sarebbesi recato da Sua Santità per fargli osservare tutte le difficoltà a cui si sarebbe andati incontro22. Nel tornare al mio albergo vidi i cartelli affissi sulle mura delle vie e in cui chi suggeriva una cosa, chi un’altra e, fra i nomi designati al ministero, vidi il mio e, conoscendo la mia insufficienza e le difficoltà, mi ritirai in casa e ivi mi trattenni fino ad ora tarda. Ma la mancanza di notizie e il fragore d’armi mi trassero ad andare all’ambasciata di Toscana. Là v’era monsignor Boninsegni malato, che io curavo. Il ministro Bargagli mandò uno dei suoi familiari a prender notizie; quegli tornò, dopo qualche tempo, e narrò essersi fatta violenza al Quirinale e avere per conseguenza Sua Santità nominato un ministero composto di Galletti, Sterbini ed altri»23.
Quanto al Minghetti, egli narra nella sua deposizione, che «uscito dal Quirinale alle 11 circa del giorno 16 con animo di ritornarvi, perchè allora non v’era folla, nè tumulto; quando tornò trovò che la piazza era già ingombra di popolo e le porte del palazzo chiuse, per cui egli retrocesse e andò, crede, a casa»24.
I fatti di quel giorno sono notissimi: la dimostrazione popolare, imponentissima e forse anche un po’ imbronciata, ma, ad ogni modo, pacifica, o per un malinteso, o per soverchio zelo degli svizzeri, che, primi, trassero sul popolo, si mutò in una ribellione che stette, li li, per produrre l’invasione del Quirinale. Finalmente il Papa, dopo lunga e ostinata resistenza, nella quale la sovraeccitazione nervosa gli diede forza e coraggio di dimostrarsi più energico di tutti quelli che gli stavano intorno, il Papa che, quantunque circondato da quasi tutti gli ambasciatori esteri, non aveva a sè vicino nè il Pasolini, nè il Minghetti, nè il Fusconi, nè il Pantaleoni, nè il Farini, nè l’Orioli, nè il Becchi, nè il Massimo di Rignano, nè alcuno de’ suoi antichi consiglieri, cedette alle pressioni del popolo e nominò il ministero Rosmini-Galletti25.
La contraddizione era proprio finita e per sempre. Otto giorni dopo, Pio IX fuggiva celatamente da Roma e riparava a Gaeta. E, di là, costretto a rinnegare tutto il suo passato, malediceva r amnistia, la riforma, la costituzione; egli aveva scelto: tornava prete, restava quel che, ineluttabilmente, doveva restare: restava Papa; in nome degli interessi politici del Papato, invocava gli aiuti di quattro eserciti stranieri, i quali, seminando le stragi e gli esterminii dinanzi a loro, sottomettessero i suoi sudditi, che avevano scelto essi pure ed erano restati ciò che dovevano restare, liberali ed italiani e che, dopo avere solennemente dichiarato finito il dominio temporale dei Papi, con disperata energia, con mirabile valore, si opponevano alla sua restaurazione.
A riassumere i principali giudizi che di lui portarono gli uomini più eminenti del tempo suo e i più valorosi storici che scrissero dopo, dirò, anzitutto, che del Rossi favella, in più luoghi della sua ultima opera, il Rinnovamento civile d’Italia, Vincenzo Gioberti, ma non senza una punta di passione, avvegnachè appaia chiaro che egli tanto più ama Pellegrino Rossi quanto più lo sapeva avversatore del ministero Pinelli e da questo avversato; di quel ministero Pinelli contro cui sono addirizzate, in tuttaquelropera, le ire del Gioberti, il quale, in quel libro, spesso diviene passionato ed ingiusto. «Ma la parte positiva e coetanea delle cognizioni è oggi trasandata in Italia, come ogni altro genere di nobili studi» - scrive l’autore del Primato - «e non conosco chi, alla nostra memoria, l’abbia avuta a dovizia, eccetto Pellegrino Rossi. Se non che, costretto dall’amor patrio a spatriare da giovane, trattare i negozi e dettar nella lingua di contrade forestiere, l’italianità dei pensieri fu per avventura in lui meno vivida che da tanto ingegno altri poteva aspettare. Oltre che, essendo stato condotto dai tempi e necessitato dalla fortuna a conversare e stringersi coi liberali conservatori, se col valido intelletto seppe fuggirne le preoccupazioni, si intinse però alquanto del colore di quelli e forse non avverti appieno l’indole democratica dei tempi che corrono. Tuttavia per acume passò di gran lunga tutti i suoi coetanei e rese qualche immagine, in questo secolo ottuso, dei tempi del Machiavelli. Di che fanno buon testimonio non solo i suoi scritti, ma le sue azioni; imperocchè, ambasciatore di Francia, favori le riforme, attraversate dal governo che lo spediva; ministro di Pio IX, dopo i disastri campali del Quarantotto, ravvisò nella lega politica l’ultimo rifugio della povera Italia; e agli eroici ma vani sforzi che fece per indurvi Torino e Napoli dovette l’odio dei faziosi e la morte»26.
E, subito dopo il giudizio del Gioberti, mi piace riferire quello di un uomo insigne, che del Gioberti fu avversario fierissimo in giovinezza, suo continuatore in vecchiezza, il quale scrisse: «Se Pio IX, tornato in Roma per le armi italiane (gliene fu offerto il modo; e forse le sole pratiche sariano bastate), vi avesse, con più senno e meno avventatezza, ripigliato il primo indirizzo per ordinarvi, di concerto con gli altri principi, il suo stato, secondo le ragionevoli aspirazioni dei popoli, si sarebbe, per avventura, avviata l’Italia, con migliori auspicii, a quella unità, la quale, quantunque oggi irrevocabilmente compiuta, si risente tuttavia, e si risentirà lungamente, dell’essere stata più precipitata che fatta. L’opera era ardua, ma non impossibile; e Pellegrino Rossi era forse in Europa l’unico uomo capace di assistere il Papa a recarla in atto. Ma, spento quell’abilissimo per nefando assassinio, diretto appunto a troncare quel salutare concetto, fu tutta colpa del Vaticano se questo non si ripigliasse, quando la Provvidenza ne offeriva l’occasione e quasi ne imponeva il dovere»27.
«La sera del 19 novembre io ero a Roma» — scrive uno dei più ardenti carbonari, dei più caldi agitatori di quel tempo, Giovanni La Cecilia — «sebbene affranto dal correre a rompicollo, vidi il cavaliere Bargagli, cercai di rintracciare Filippo De Boni, lo Sterbini, Goffredo Mameli ed alcuni napoletani che mi istruirono per filo e per segno del nefando complotto che spense il ministro Rossi; potrei rivelarlo ed indicare le circostanze, le lunghe fila, la mano segreta e molto potente che diresse la congiura, i nomi degli esecutori che vivono ancora; ma non sarei più storico, invece un denunziante. Lo dirà fra cinquant’anni la storia della rivoluzione italiana: io serbo il segreto e vado innanzi. Fu utile e necessaria la morte del Rossi? io rispondo no: prima perchè trovo infame assassinare un uomo, anche malfattore; eppoi il ministro Rossi voleva per l’Italia, che amava, libertà temperata, ed una confederazione di stati come primo passo verso l’unità... Ma i piani del Rossi contrariavano le ambizioni di coloro che volevano fare un bel boccone dell’Italia e Rossi fu spento di pugnale! È un periodo di letale storia italiana che oggi rimane ancora sepolto fra le tenebre; un giorno, palesata, desterà orrore, e disprezzo fra i nostri posteri verso certi creduti padri della patria»28.
Perchè il fatto dell’uccisione del Rossi, così terribile già in sè stesso, era un fatto clamoroso, straordinario, e per l’alta dignità onde l’ucciso era investito, e per il luogo dove l’eccidio fu compiuto, e per le drammatiche e misteriose circostanze fra le quali era seguito. Per tutte queste ragioni, quindi, quella uccisione diè l’adito immediatamente ad una tessitura di leggende che meravigliosamente crebbero sotto il lavoro della fantasia popolare e sotto il soffio delle concitate e dissennate passioni dei partiti, i quali, per cieco furore, non discernevano il vero e si incolpavano vicendevolmente del barbaro fatto.
Quindi parecchi scrittori di parte repubblicana credettero allora, fors’anco in buona fede, e poi ripeterono, l’uccisione del Rossi essere stata opera del partito albertista, che voleva fare dell’Italia un sol boccone, per servirmi dell’espressione del La Cecilia, il quale era uno di coloro che ingenuamente credevano a quella leggenda. E fra questi B. Del Vecchio, autore di uno scritto, importante, cinquant’anni fa, sull’Assedio di Roma, il quale asseriva «... Ma il partito al Rossi più avverso era l’albertista, capitanato da Gioberti (!). Rossi voleva la federazione de’ principi d’Italia, ed il Piemonte, il quale tutte le speranze italiane voleva rivolte a Casa di Savoia, gridava contro la politica di lui; e tutto il giornalismo piemontese gli si era scagliato addosso, faceva ogni estremo per atterrar un sistema opposto e nemico alle vedute del proprio governo. Non v’è dubbio che la condotta ostile della stampa piemontese e quella de’ missionari albertisti che a tutta voce gridavano pro Carlo, dette vita a quel famoso articolo della Gazzetta di Roma che feriva al cuore il partito albertista, sfrondato per esso d’ogni prestigio appo le genti d’Italia. Pochi giorni dopo la comparsa di quell’articolo, che fu ai primi di novembre, si aprono le Camere in Roma, ed il ministro pontificio. Rossi, già ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, cade trafitto d’un pugnale sulla scala medesima del palazzo de’ deputati. Egli è a notare che, correndo questo tempo, non erasi parlato giammai di repubblica nello stato romano. Ora s’egli è vero, siccome ne accennano le storie, che i rovesci politici nascono e si compiono sotto l’impressione d’un fatto grande o piccolo ch’ei sia, noi dovremmo convenire che la morte del Rossi sia stata cagionata più presto dal furore albertista che da fredda mano repubblicana. Perocchè qualora i repubblicani avessero creduto solo ostacolo al loro trionfo la vita di quest’uomo, per certo avrebbero profittato della gioia feroce spiegata dal popolo per questo misfatto, ed avrebbero, io dico, inaugurato lo stemma repubblicano senza frapporre indugio alcuno al compimento dei loro disegni; e, per lo contrario, solo i repubblicani si dolsero della morte di Rossi, non tanto considerando la sciagurata fine di lui, quanto perchè la sua morte avrebbe immaturamente accelerato lo sviluppo di un ordine di cose a cui credevasi abbisognare altro tempo ed altre vicende»29. A questa opinione inclina anche il Cattaneo, per il quale «la morte di Pellegrino Rossi era desiderata ad un tempo medesimo dai prelati, dai regi e dagli unitari»30; quindi, in altro luogo dei suoi scritti, ove parla delle «occulte congreghe mosse da tante contrarie e perverse ambizioni», e allude alle pretesche e alle alberaste, aggiunge: «in quelle inesplorate tenebre giace l’arcano della morte di Rossi: e già, un anno prima che egli cadesse, veniva additato all’odio del popolo romano come pubblico nemico da quella fazione regia che alla sua morte sali al potere in Roma. Questo è certo»31.
Giudicarono, invece, sul fondamento dell’antico motto cui prodest?, possibili autori, o, quanto meno, mandanti della uccisione del Rossi, i prelati e i gesuiti, il Ricciardi, il Torre, il Filopanti, il Leopardi, il Vecchi, il Rusconi, il Pinto, il Miraglia da Strongoli, il Borie, il Pianciani, il Gabussi, il Perfetti, avvegnachè il partito reazionario giubilasse qua ipocritamente, là apertamente dello scellerato omicidio e avvegnachè dal rivolgimento che susseguì alla morte del Rossi derivassero la fuga del Papa, la intervenzione straniera e la restaurazione del potere assoluto teocratico.
Ma, a questi storici e scrittori di parte liberale o democratica, rispondono di rimpatto gli storici e scrittori papalini, che il partito democratico salì appunto al potere, passando sul cadavere del Rossi e che perciò coloro cui l’uccisione dell’illustre statista giovò furono appunto i repubblicani e che, pertanto, fra questi vanno cercati, e non fra i clericali, gl’interessati uccisori del ministro di Pio IX. Di questa opinione, dal più al meno, sono il Balleydier, il Lubienscki, il D’Arlincourt, il De Brèval, il D’Amelio, il De Saint-Albin, lo Spada, il Croce, il Balan e il D’Ideville.
Ora, in tanta disparità di opinioni e in così vivo palleggio di accuse, a cui sono spinti dalle passioni di parte i vari narratori, io che scrivo oggi, dopo cinquant’anni dai fatti, dopo avere accuratamente esaminato, pagina per pagina, il mastodontico processo compilato contro gli uccisori e i pretesi uccisori di Pellegrino Rossi ed altri processi affini e dopo avere con molto zelo raccolto, di qua e di là, attestazioni edite ed inedite autorevolissime, io, modesto scrittore fra tanti - di cui molti uomini di grande valore - desideroso di far conoscere a chi mi legge la verità vera quale essa mi è apparsa, debbo dire che la uccisione di Pellegrino Rossi fu eseguita - come ho già accennato - da un manipolo di democratici e ripeto, probabilmente Carbonari, ma debbo insistere nel dire che le trame contro la vita di Pellegrino Rossi furono più d’una e mosse dai due opposti partiti.
E a raffermarmi in questa mia convinzione, oltre le ragioni già addotte e cioè le chiare ed espresse parole del Rossi nell’articolo della Gazzetta di Roma del 14 novembre e la sparizione misteriosa e inesplicabile delle carte segrete del Rossi da monsignor Pentini consegnate nelle mani di Pio IX, aggiungo qui testimonianze autorevolissime e decisive.
«Pellegrino Rossi fu trucidato dal pugnale dei repubblicani; ma quel pugnale era stato aguzzato» - così scrive l’abate Filippo Perfetti - «dalle infinte dei papisti. Rossi fu sacrificato alla più tremenda divinità dell’Erebo: alla Paura, e quel giorno scoppiava una rivoluzione senza speranza d’avvenire. Ma che fare? I preti hanno giustificata la paura dei repubblicani»32.
«Esso», cioè il Vaticano, «che aveva maledetto e difficoltato di soppiatto, nel suo primo apparire, il concetto di Pellegrino Rossi, pure esacrando il misfatto orribile, non fu scontento del suo effetto; ma i più impudenti dei suoi adepti ne mostrarono così aperta soddisfazione che si osò perfino dirnelo complice: tanto quello riusci a suo profitto»33. Cosi il Padre Curci, non sospetto di carbonarismo per certo. Al quale fa eco un altro scrittore pienamente ortodosso che afferma «... e il Rossi era esecrato dagli armeggioni forestieri e non meno dai monsignori romani che vedeansi tassati al pari dei laici»34.
Si oda ora il Cretinau-Joly, il paladino audace dei gesuiti e del gesuitismo. «In più d’una occasione io ho dovuto parlare del signor Rossi e discendendo nel fondo della mia coscienza di scrittore, io credo di non avere a rimpiangere alcuno dei giudizi che la condotta politica di lui mi ha dettato... L’assassinio di cui egli è stato vittima a Roma per opera dei demagoghi, che in altra epoca egli aveva tanto incoraggiato, tanto servito, tanto patrocinato, è uno di quei delitti mostruosi di cui le sole società segrete conoscono il mistero. Questa morte tanto nobile quanto deplorabile, riscatta molti errori commessi: ma se il 15 novembre essa fu il segnale della proscrizione del Papa, esso fu, sarà forse una fortuna per la Chiesa. Il signor Rossi, ministro a Roma, ministro dirigente nelle circostanze in cui Pio IX si trovava, poteva salvare la persona del Pontefice, ma sicuramente egli avrebbe più tardi compromesso, annientato l’unità, l’indefettibilità della Sede apostolica. Con idee preconcette e soventi volte espresse nelle sue opere e nei suoi discorsi, con quella finezza italiana che non urta mai gli ostacoli per tema di infrangerli troppo presto, il signor Rossi era inclinato a servirsi di tutti i temperamenti per allontanare una soluzione. Egli aveva dato affidamenti alla idea rivoluzionaria. Se questa idea non avesse trovato un pugnale per esprimere e tradurre nel sangue collere di energumeni, il signor Rossi, per effetto del suo spirito, fatto scettico a forza di aver conosciuto e praticato gli uomini, sarebbe stato trascinato a secolarizzare il governo pontificio. Dio non l’ha permesso e, siccome le sue vie non sono cognite, come i suoi pensieri non sono i nostri pensieri, secondo le parole della Sacra scrittura, Dio ha, per così dire, coronato delle palma dei martiri un uomo la cui ultim’ora è stata una gloriosa smentita a tutta la sua vita»35.
E ora piaccia ai lettori di udire un altro testimonio, che non è rivoluzionario davvero neppur lui.
«Li 20 agosto 1852» - notò monsignor Pentini, in uno dei suoi mezzi foglietti, scritti tutti di sua mano — «Giulio Neri mi disse che Galli36 aveva detto in sua presenza e con la presenza del signor Antonio che la uccisione di Rossi era stato un miracolo della Beatissima Vergine. Vedi infamia!»37
E, in un altro mezzo foglio: «N. B. li 2 giugno 1851, monsignor Arnoldi e il collega (?) si espressero che era stato un miracolo la uccisione di Rossi e che quel pugnale era stato il principio della salvezza, ecc., e dicevano che cinque erano stati i miracoli, cioè, morte di Rossi, sera del 16 novembre, la proclamazione della repubblica, 30 aprile e giorno della battuta a Parigi38. Cosi il P. mi disse: E chi sa lui pure dove ci avrebbe portato se .....»39.
La gravità e l’importanza di quest’ultima frase coi suoi relativi puntini di reticenza, frase dal Papa stesso pronunciata, conversando con monsignor Pentini, non sfuggirà all’avveduto lettore.
Ma monsignor Pentini, nella rettitudine della sua coscienza e nella minuziosa precisione dei suoi ricordi, è inesorabile; quindi aggiunge, nello stesso foglio, un’altra nota: «Monsignor Quaglia, in casa sua alla Mola Micara, presso Corneto, la sera del 4 novembre 1853 (presente il Pentini, il cav. Antonio Neri, la famigia Bruschi, il canonico Sbrinchetti, ecc.), a lui Pentini, che diceva miracolo l’essere stata evitata la strage del 16 novembre, senza cedere alle pressioni di 16000 persone armate, rispose che ben altri miracoli vi erano stati, cioè l’uccisione del Conte Rossi (!!!), l’avere le Potenze fatta l’unione per rimettere il Papa e l’avere Garibaldi portati via con sè i 4000 rivoluzionari armati (!!!) ecc.» 40.
Ho riferito testualmente la nota, compresi i tre punti ammirativi fra parentesi.
D’altra parte i giornali legittimisti, bonapartisti e clericali francesi, alla testa di essi il famoso Univers, uscirono pieni di diatribe contro l’Italia e gl’Italiani a causa dell’uccisione del Rossi. Quelle declamazioni, quelle invettive erano riprodotte da tutti i giornali europei - specialmente austriaci e tedeschi - nei quali poteva penetrare l’influenza reazionaria e gesuitica; intanto che il signor D’Harcourt, ministro di Francia, inviava il 16 e il 17 novembre al suo governo, a Parigi, dispacci sommamente ingiuriosi pei Romani e per gl’Italiani.
«Io non potei leggerli» - scrive Giorgio Pallavicino - «senza sdegno e scrissi all’arrogante diplomatico la lettera seguente, pubblicata nell’Opinione:
- Signore,
Nei vostri dispacci del 16 e 17 novembre al ministro degli affari esteri, voi qualificate di assassinio la violenta morte del signor Rossi. Ebbene, io mi impegno di provarvi, a voi rappresentante della sovranità popolare, che il signor Rossi non è stato assassinato.
Allorchè il ministro di un principe italiano, che rifiuta ostinatamente di salvare l’Italia facendo guerra all’Austria, è ferito di un colpo mortale di pieno mezzogiorno; allorchè il moderno Bruto non è arrestato, e le guardie nazionali, che sono sul posto, lo lasciano fare; allorchè la popolazione resta fredda e muta avanti a questo fatto; allorchè l’Assemblea nel suo palazzo, sui gradini del quale la vittima è spirata, continua gravemente la lettura del suo processo verbale e non vi è fatta la minima menzione all’avvenimento durante tutta la seduta; allorchè la guardia civica, la gendarmeria, la linea, la legione romana in uniforme, con la loro musica e i loro tamburi in testa, si congiungono col popolo; allorchè l’autorità non appare in alcun modo; allorchè il direttore di polizia, stimolato a prendere provvedimenti, si rifiuta e si ritira... (io copio il vostro dispaccio parola per parola), è necessario bene concludere, se si ragiona secondo i principii proclamati dalla Repubblica francese, che il signor Rossi è stato giudicato e condannato dal popolo. Questa volta il traditore (sempre ragionando secondo i vostri principii) avrebbe subito la pena del tradimento e l’uomo che lo ha ucciso non avrebbe fatto che eseguire, a suo rischio e pericolo, il decreto del popolo. Quest’uomo potrebbe essere carnefice, giammai assassino. Vox populi, vox Dei. Voi aggiungete che è ben difficile concepire alcuna combinazione, o alcuna probabilità per ristabilire l’ordine, dopo ciò che è avvenuto.
Ma, signore, dove è pur tuttavia il disordine? Io ripeto le stesse vostre parole: «Il popolo si reca al Quirinale con un programma che consiste nel congedare il ministero retrogrado, a riunire una costituente, a dichiarare solennemente la guerra all’Austria», ecc. E allora l’intero ministero dà le sue dimissioni e si propone una lista ministeriale, a capo della quale figurano i signori Sterbini, Galletti e Mamiani, gli uomini più ragguardevoli fra i Romani. Il Papa accetta questa lista. Eccovi una combinazione, non solo possibile, ma già effettuata. Ecco l’ordine, mi sembra. Per stabilire quest’ordine, non è stata necessaria nè la dittatura, nè lo stato d’assedio: Roma è tranquilla. Si, o signore, Roma è tranquilla, perchè essa è forte, perchè essa è grande.
Il non voler vedere in un popolo che si leva unanime, per rivendicare il diritto di nazionalità, questo diritto che la Francia repubblicana ha proclamato alla faccia del mondo con la stampa e coi programmi dei suoi uomini di stato, non voler vedere, dico, in questo popolo che un mucchio di cospiratori è stoltezza, o mala fede.
Voi vi rammaricate che il governo della Repubblica non abbia dato, nel momento, qualche appoggio al Sovrano Pontefice: voi aggiungete che è impossibile assistere a spettacolo più triste pei Francesi di quello di cui voi siete stato testimonio oculare. Ma quale appoggio dunque poteva dare la Repubblica tricolore a un principe che, spaventato dell’opera propria, di cui non ha voluto le conseguenze, non vuole nè un ministero largamente liberale, nè costituente, nè guerra con l’Austria, condizione questa indispensabile per ottenere l’indipendenza italiana? La Rivoluzione di febbraio non ha detto, per mezzo del manifesto del signor Lamartíne: «Soccorso ai popoli che faranno generosi sforzi per ricuperare la libertà: essi possono contare sul coraggio, sulle simpatie, sul patriottismo della Francia»?
Si stenta a credere che quei vostri dispacci, che si crederebbero l’opera del signor Guizot, o del Principe di Metternich, siano destinati a darci esempio della diplomazia di un paese, dove si son fatte tre sanguinose rivoluzioni in nome del popolo. E intanto proprio a questo son giunti, non dirò i Francesi, che io amo ed onoro, ma il signor Bastide, ministro degli affari esteri in Francia, e voi signor D’Harcourt, suo degno rappresentante in Italia,
Gradite, signore, l’assicurazione della mia perfetta considerazione41.
- Torino, 7 dicembre 184S.
Un emigrato lombardo.
Questa nobile lettera del Marchese Giorgio Pallavicino non poteva essere nè più inesorabilmente logica, nè più patriotticamente efficace.
Il generoso lombardo metteva in splendida luce tutte le fragranti contraddizioni fra le pompose e altisonanti parole del governo repubblicano francese e le opere reazionarie della sua diplomazia e, riferendosi al modo con cui quel clericalissimo legittimista D’Harcourt aveva rappresentato e colorito i fatti dei giorni 15 e 16 novembre, ne traeva le conseguenze che logicamente se ne potevano trarre: se le cose stavano così come le narrava il signor D’Harcourt, Pellegrino Rossi era stato giudicato legittimamente e legittimamente condannato e messo a morte.
La lettera del Pallavicino, come era naturale, levò rumore. Nel parlarne, a mente calma, dopo trentanni, nelle sue Memorie, l’antico prigioniero dello Spielberg, soggiunge: «Questa lettera, forse imprudente, ma certo inspirata a sentimenti onesti e generosi, spiacque a molti in Piemonte» e al National Savoisien, il qual giornale scrisse un violento articolo contro il Pallavicino. L’Opinione del 22 rispose all’articolo del National Savoisien con queste parole: «Noi conosciamo Giorgio Pallavicino e sappiamo che è lontanissimo dall’approvare un assassinio: ma nel leggere i dispacci del signor D’Harcourt al suo governo ove i fatti sono, da capo a fondo, falsati bruttamente e ove si vorrebbe malignamente gettare su tutta una nazione un misfatto individuale, egli non ha potuto a meno di prendere la penna e, volgendosi al signor D’Harcourt, tenergli presso a poco questo raziocinio: se i fatti sono tali quali li esponete voi e se sono vere le dottrine politiche proclamate dalla Francia, voi mentite nel qualificare di assassinio la morte violenta del signor Rossi, mentre voi stesso provereste che non fu assassinato, ma colpito da una sentenza implicitamente pronunciata dal popolo, ed esplicitamente sanzionata dall’unanime suffragio del medesimo».
Anche il Marchese Giorgio Pallavicino rispose nello stesso senso al National Savoisien42. Ma con tutta la lettera del Pallavicino, il quale non lodava l’assassinio del Rossi, questo fatto sanguinoso restava brutta macchia nei rivolgimenti italiani di quel triennio e, perciò, appunto perchè fatto brutto, nessun partito volle assumerne la responsabilità, anzi ogni partito si adoprò a darne imputazione al partito avversario. Il che prova evidentemente come la coscienza pubblica, pure essendo in massima parte ostile all’estinto, riprovò la feroce violenza che lo tolse così brutalmente di mezzo.
Ma i maggiori scrittori italiani, allora e poi, giustamente si indignarono, siccome il Pallavicino, che gli oltraggiatori stranieri di questa povera Italia volessero far ricadere la colpevolezza di quello sciagurato episodio sopra l’intera nazione.
«Brutto fatto» — scrive uno storico eminente, molto meno rammentato e lodato di quel che meriterebbe, Giuseppe La Farina — «dalla universalità dei cittadini riprovato e condannato, che, di poi, i nemici di libertà, con insigne malizia, ingrandirono, esagerarono e misero a carico di Roma, anzi di tutta Italia. Ho detto che l’ucciditore del Rossi rimase allora ignoto, nè per ricerche e inquisizioni che si sien fatte è stato scoperto di poi; il che basta a provare come e’ fosse dalla pubblica opinione condannato; imperocchè non tace, nè si nasconde, ma si mostra e si vanta chi fa opera, onde possa a lui venir premio e lode»43.
E per quelle accuse esagerate e rivolte a tutta la nazione italiana infuriava il rottissimo spirito di Gabrio Casati il quale scrivendo a quell’illustre italiano che fu Antonio Panizzi, esclamava: «... e perchè si griderà tanto contro tutta una nazione per la morte di Rossi, che si può attribuire ad un fanatico partito poco numeroso, e non ugualmente contro l’assassinio di Blum44 commesso in onta al diritto delle genti ed applaudito dall’esercito, molto più in numero che non tutti gli esaltati d’Italia raccolti in uno? Egli è che il guai ai vinti è pur triste verità». E tanto addoloravano il Casati quei giudizi che, un mese dopo, tornando sull’argomento, il valoroso uomo riscriveva al Panizzi: «Checchè ne sia e dell’esaltazione di alcuni energumeni e dell’assassinio di Rossi, che fu troppo severamente giudicato a danno dell’intera nazione, mentre di assassinii se ne ebbero in Francia, in pochi anni, una dozzina; i marescialli austriaci commettono essi impunemente assassini! a loro beneplacito; il capriccio e la violenza sono la loro legge» ecc.45.
Quelle accuse che tanto cuocevano ai cuori dei patriotti o che muovevano a indignazione il Pallavicino e il Casati, ripetute su tutti i toni, in tutte le lingue, specialmente nella francese, per opera degli storici libellisti D’Arlincourt, Balleydier, De Breval, Lubienscki e De Saint-Albin, penetrarono perfino nelle storie scritte da uomini seri e spassionati. Cosi il generale Schönals, autore di un libro, importante sotto il punto di vista militare, sulle guerre del 1848-49, parlando di Pellegrino Rossi e del suo ministero, scriveva: «Prima liberalissimo, cattolico e professore, poi protestante, e di nuovo cattolico. Conte, pari di Francia e ambasciatore a Roma, quest’uomo straordinario conosceva il forte e il debole del Papato, ed era, forse, il solo, che, per la gagliardia del suo carattere e del suo spirito, avesse potuto tener testa al Mazzini. Ma il vecchio della montagna non esitò punto sui mezzi di attacco contro il suo temibile avversario. Quando il Rossi, benché prevenuto, sali arditamente i gradini del Campidoglio per aprire l’Assemblea nazionale, fu ferito da un assassino con un colpo di pugnale nel petto e spirò subito. Quantunque attorniato di soldati e di guardie civiche, il feritore riuscì a fuggire»46.
Così le calunnie insinuate, li per li, negli immediati racconti del signor d’Harcourt e del corrispondente dell’Univers, si erano diffuse, erano penetrate nella coscienza pubblica e vi avevano prodotte le prime e profonde impressioni desiderate; poi avevano trovato alimento fruttifico nei commenti esagerati tessuti sopra un isolato atto di gioia o di approvazione, avvenuto a Livorno, per quella uccisione, e sui vanti che alcuni perversamente sciocchi si diedero di aver compiuto quell’omicidio.
A Livorno, dove imperava ormai non già la democrazia, ma la demagogia, la sera del 18 novembre, allorchè vi giunse la notizia della morte del Rossi, più migliaia di persone si erano raccolte attorno ad una bandiera tricolore e avevan fatto suonare a festa le campane e si eran recate alla residenza del console romano, a casa del La Cecilia redattore del Corriere Livornese e quindi al palazzo ove aveva sede il governatore Carlo Pigli.
Là questi era stato costretto a parlare — e parlava volentieri lui e, talvolta, anche a vanvera — alla folla acclamante alla costituente e all’Italia, al Montanelli e al Guerrazzi: ed aveva sconsigliatamente detto: «Il ministro Rossi non era amato dall’Italia, solamente pei suoi principi! politici. Dio nei suoi arcani consigli ha voluto che egli cadesse per mano di un figlio dell’antica repubblica di Roma: Dio custodisca l’anima sua e la libertà di questa povera Italia»47.
Un altro illustre patriotta e scrittore italiano così acutamente giudica le intenzioni, il ministero e l’opera di Pellegrino Rossi:
«Rossi voleva riedificare il primato papale, dandogli a barbacane, non la monarchia Sabauda, come era stata intenzione del Gioberti, ma la Borbonica; voleva raffrenare gl’istinti generosi, irrequieti e bellicosi della democrazia, creando, ad esempio di quel che fece Filippo d’Orléans in Francia, una borghesia taccagna e paciona: voleva rimettere a nuovo il governo pontificio con quanto più potesse di modernità col lascia passare della benedizione papale. I quali intendimenti gli rovesciavano addosso le ire dello universale. Caricare di due milioni di più la proprietà dei conventi, ordinare telegrafi, fondare uffici di statistica e cattedre di economia politica, togliere l’amministrazione degli spedali alla Sacra Consulta, riformare i tribunali, questa per i preti era la demagogia al naturale. Costoro vedevano in Rossi il professore bolognese giacobino del Quattordici, dalla persecuzione papale rifuggitosi nella Repubblica di Calvino: vedevano in lui il cittadino di Ginevra professante dottrine elveziane, il filosofo eclettico mandato a Roma da Luigi Filippo a mettere su Gregorio XVI contro i Gesuiti francesi. Stendere la mano al Borbone di Napoli, perseguitare Garibaldi e il frate Gavazzi, scrivere nel diario del governo contro il Piemonte, questa era pretta reazione agli occhi dei liberali, che tenevano per politico proteiforme cotesto ribelle italiano e repubblicano svizzero divenuto francese, quando la monarchia Orleanese lo allettò con croci, pariato, ambasceria e contea, e di francese rifatto italiano, quando la Repubblica del 4 febbraio lo lasciava terra terra. Il Contemporaneo giornale di Sterbini, l’Epoca giornale di Mamiani, il Don Pirlone frizzante Charivari romano, fondato dall’arguto e giudizioso galantuomo Michelangelo Pinto, tutti questi echi della opinione liberale a Rossi diedero addosso.
«Apparteneva egli a quella generazione di statisti, che si dicono positivi e sono visionari, che si immaginano fare le rivoluzioni senza forza rivoluzionaria, conciliatori dell’irreconciliabile, padri di disarmate Minerve»48.
E, poco dopo, sulla morte del Rossi, melanconicamente aggiungeva:
«Contemporaneo di Washington e non di Bruto, io non glorifico codesti modi di spacciare il nemico politico, che la civiltà presente, quantunque ancora rugginosa di molta barbarie, non tollera più; e nemmeno mi lagno che a noi apostoli di progresso più che agli indietreggiatori chiedasi conto severo di ogni crimenlese di civiltà. Rossi, ancora più che ai democrati in odio ai preti per la guerra intrapresa alle pie mangerie, non poteva lungamente tenere lo stato; e sarebbe caduto, argomento di più della impotenza del Papato a reggere in qualsivoglia più mite temperie di libertà; ma anche vivendo cent’anni tartassatone della democrazia italiana, non poteva mai farle tanto male, quanto ne fece il suo morire di ferro; il quale evento della nostra immacolata rivoluzione, diede agognato pretesto di screditarla ai sepolcri imbiancati della reazione, agli assassinatori di Carducci e di Blum, agli ipocriti feroci che versano il sangue umano a fiumi»49.
E avea ragione di sdegnarsi il toscano Montanelli perchè grande fioritura di rabeschi, dai più fini ai più grotteschi, fu ricamata sul tenue canevaccio delle sciocche parole del toscano Pigli.
E così a quelle prime calunnie si aggiunsero i nuovi amplissimi commenti, con accuse cervellotiche, con infinite insinuazioni, le quali, sotto nuove e svariate forme, con sempre più vivi e più oscuri colori, passarono dalle tinte della scuola raffaellesca, malamente usate dal Balleydier, a quelle giorgionesche, strapazzate dal De Brèval, per venire a quelle più cariche della scuola del Tiziano, sciupate dal D’Arlincourt, e per finire in quelle più fosche di Gherardo dalle Notti — senza sprazzi di luce di verità — adoperate, con quel garbo con cui una scimmia può imitare Niccolò Paganini, dal Padre Antonio Bresciani.
Tutte quelle calunnie avevano generato la tanto desiderata trina di leggende, onde rimase avvolto, per tanto tempo, il truce fatto.
Ora contro queste leggende calunniatrici o di tutto un popolo o di tutto un partito, che pur contava nelle sue file molti e molti uomini per ingegno, per virtù, per abnegazione onorandissimi, si diedero a protestare, come meglio seppero e poterono, parecchi storici e scrittori del partito liberale e del democratico.
«L’uccisione di Rossi» - scriveva il Mazzini - «fatto deplorabile ma isolato, eccesso individuale, rifiutato, condannato universalmente, provocato forse da una condotta imprudente, di origine ad ogni modo ignota, fu seguito dall’ordine il più mirabile»50. E, nella famosa lettera ai signori Tocqueville e Falloux, più esplicitamente: «Lasciate da banda l’assassinio, tante volte ipocritamente citato, di Rossi. La Repubblica, decretata il 9 febbraio 1849, non deve scolparsi di un fatto accaduto il 16 novembre 1848, quando la parte principesca, la parte dei moderati settatori di Carlo Alberto, teneva il campo e cacciava e condannava ad assoluto silenzio gli uomini di fede repubblicana; nè alcuno in Italia accusa le vostre rivoluzioni di procedere dall’assassinio, perchè il Duca di Berry cadea di pugnale e cinque o sei tentativi di regicidio si succedevano nel volger di due anni in Parigi»51.
Il Saffi, che a lungo ragiona, e con acutezza e con calma serena, di tutte quelle congetture e insinuazioni ed accuse, sagacemente conclude:
«La morte di Rossi fu soggetto di varie e incerte imputazioni, perocchè nessuno degli astanti diede allora, nè mai furono potuti raccogliere, in seguito, certi indizi dell’uccisore. Molti ne gittarono la responsabilità sui gesuiti, sulla fazione clericale, sui corrotti clienti della romana Curia, nemici antichi del nuovo ministro, e offesi nei loro privilegi ed abusi dalle contribuzioni imposte e dalle riforme meditate da lui. I contrari partiti pigliarono pretesto da quel sangue a screditarsi reciprocamente. Gli avversari del nome italiano, in Italia e fuori, fabbricarono calunnie di congiure e di complicità, dandone carico agli uomini e alle opinioni politiche che raccolsero il governo delle cose romane dopo quel triste avvenimento. I giornali della reazione europea, inesausta fiumana di menzogne, divenute ridicole per ismodata impudenza, gli oratori ipocriti delle Assemblee francesi, gli scrittori che vendono le sozzure della loro penna pel vii denaro ch’è loro gittato a premio di prostituzione, gridarono a lungo e gridano ancora, malgrado la luce de’ fatti, de’ documenti e delle date, contro l’empietà di una repubblica inaugurata coll’assassinio.
«Quanto alla complicità degli oppositori del Rossi, vedemmo ch’ei s’apprestavano a combatterlo apertamente nell’arringo parlamentare, nè le invettive de’ loro giornali offrono argomento contr’essi; chè anzi lo adoperarsi con tanta intensità ad atterrare la reputazione politica del ministro, prova com’ei non prevedessero che una mano violenta avrebbe loro sgombra la strada con la morte dell’uomo. Nè chi è consapevole di un macchinato delitto rivela l’animo suo, nè pubblica cose le quali possano essere rivolte contr’esso, quasi indicio di complicità. Gli uomini che bestemmiarono per le stampe il nome del Rossi poterono contribuire ad accendere le passioni che, condensate nell’impeto di un animo feroce, produssero il delitto; ma ciò non implica deliberato proposito ne’ medesimi di sospingere la loro opposizione sino ad una tale estremità.
«Quanto alla repubblica, proclamata tre mesi più tardi, vedremo che alla medesima fu aperto l’adito da una serie di avvenimenti del tutto inopinati quando il Rossi fu spento; e sorse promossa da uomini interamente estranei agli interessi e alle tendenze del partito che dirigeva il movimento di Roma a que’ giorni; e vedremo anche quanto la parte repubblicana e l’istinto popolare avessero a combattere contro gli inganni, le minaccie e le resistenze interposte all’attuazione del nuovo partito politico. Fare della morte del Rossi il fondamento degli sviluppi posteriori della rivoluzione, è supporre preveduti dagli uomini, che dieder mano in seguito alla medesima, risultati di cose non derivate da quel delitto, ma da altre cagioni più vaste, per trarne argomento d’imputarlo ai medesimi e calunniarne un partito, è miserabile sofisma de’ nemici della libertà.
«Certo una cospirazione di pubblico odio esisteva contro il ministro di Pio IX52, perocchè ei si fosse imprudentemente cacciato in mezzo all’urto delle passioni suscitate dalla lotta fatale tra l’Italia e il Papato. Ma l’assassinio di lui, se pure fu l’effetto dell’odio nazionale o non piuttosto d’altra più nera vendetta, dee considerarsi come opera indipendente di una volontà individuale, trasportata da falsi ed appassionati giudizi, e come accidente esteriore alle condizioni preesistenti e al corso necessario della questione italiana; nè ciò importa responsabilità collettiva di popolo, nè offre titolo alcuno di riprovazione contro le idee e i fatti politici che si svolsero, da poi, per leggo naturale dell’antagonismo tra la Nazione e il Papato.
«Sarebbe egli giusto, perchè la protesta dell’Inghilterra contro la reazione religiosa e politica di Carlo I, accendendo l’animo fanatico di Felton a pensieri di violenza, spinse costui a torre la vita al Duca di Buckingham siccome a nemico del suo paese, il complicare nella responsabilità e nella condannazione di quel fatto individuale il popolo inglese e i sentimenti, i diritti e i doveri che lo spingevano nelle vie di emancipazione spirituale e temporale che lo hanno condotto a rappresentare una si gran parte del lavoro della civiltà europea? Anche a quel delitto furono cercati complici ne’ partiti che agitavano a que’ dì l’opinione pubblica dell’Inghilterra. Felton, a chi gli domandò i nomi degli istigatori e de’ complici suoi, rispose, scotendo il capo, non averne avuti altri che la sua coscienza. Se l’assassino del Rossi fosse stato tratto in giudizio e avesse avuto animo e coraggio simili a quelli dell’uccisore del Duca di Buckingham, non credo ch’egli avrebbe potuto dare diversa risposta»53.
E, se le furiose passioni di parte non avessero tratto tutti i feroci ultramontani di Europa e tutti gli scrittori più arrabbiati della sètta loiolesca a mentire, sapendo pure che quelle che essi spacciavano per verità, erano menzogne, non si sarebbe, per un quarantennio, continuato ad attribuire a coloro che ressero tre mesi dopo la repubblica romana la colpa e la responsabilità dell’uccisione di Pellegrino Rossi, quando già, fin dal 1849, Ferdinando De Lesseps che non era italiano, che non era carbonaro, che non era mazziniano, in omaggio alla verità storica, aveva stampato: «nè è cosa più esatta il dire che la repubblica romana è solidale dell’assassinio del signor Rossi, di quello che sarebbe rendere la nostra repubblica del 1848 responsabile dei delitti del ’93. La repubblica romana, che, d’altronde, io non sono stato incaricato di riconoscere, è succeduta, per suffragio universale, al governo che era stato l’erede diretto dell’omicidio del signor Rossi, ed essa fu proclamata da un’assemblea che aveva il mandato di scegliere la forma di governo che le converrebbe. Questo è un fatto: io non debbo qui discuterne le conseguenze»54.
Qual meraviglia, quindi, se un ardente patriotta, un caldo repubblicano, ma uomo probo, era spinto dalla passione a declamare, nel 1850, dopo aver lodato «l’altissimo ingegno di Pellegrino Rossi, discepolo del Guizot, utilitario e materialista», dopo avere aspramente biasimato la politica, gli atteggiamenti e le provvisioni di lui e dopo aver lodato anche il pugnalatore «quando gli sgherri che si chiamavano giudici mandavano nelle Romagne i migliori giovani al patibolo, allora bisognava gridare all’assassinio! quando la tirannide dei Papi affogava nel sangue ogni idea di patria ed era legge il sospetto, giudice la spia, allora bisognava gridare all’assassinio! Ma gli uccisori di Cesare furono deificati; e la morte dell’eroe, caduto ai piedi della statua di Pompeo, non fu mai detta un assassinio. Forse Rossi era più grande o men reo di Cesare?55»
Giuseppe Garibaldi, il quale spesso nelle sue Memorie, narrando i casi della straordinaria sua vita, scrive poche linee con lo stesso impeto col quale tante volte condusse le sue giovani schiere all’attacco alla baionetta, favellando intorno agli avvenimenti di quei giorni, dopo discorso delle persecuzioni a cui il Generale Zucchi assoggettava in quel momento lui e i suoi centocinquanta seguaci, dice:
«E qui, per dovere di storico, mi tocca accennare ad uno di quegli uomini cui l’Italia della monarchia e dei preti innalza monumenti. Erano le cose nello stato suddescritto, quando una daga romana cambiava il nostro destino; da proscritti ci faceva acquistare il diritto di cittadinanza e ci apriva un asilo sul continente».
E, detto, poscia, che egli, discepolo di Beccaria, è nemico della pena di morte e biasimata quindi la daga di Bruto, e osservato che «gli Armodii, i Pelopidi ed i Bruti che liberarono la loro patria da’ tiranni, non sono poi mostrati dalla storia antica con i colori sì sudici» che sono in uso oggi, il Generale prosegue:
«La vecchia metropoli del mondo, degna in quel giorno della gloria antica, si liberava di un satellite della tirannide, il più terribile, e bagnava del suo sangue i marmorei gradini del Campidoglio. Un giovane romano aveva ritrovato il ferro di Marco Bruto!
«Lo spavento della morte di Rossi aveva annientato i nostri persecutori, e non si fece più parola della nostra partenza»56.
Queste parole il Generale Garibaldi le aveva, probabilmente, scritte fra il 1868 e il 1872, quando preparava quelle sue Memorie. In quelle poche linee il grand’uomo aveva riflessi, con fedeltà fotografica, i pensieri e i sentimenti suoi del 1848. Forse qualcuno dei suoi familiari gli fece osservare come quelle parole fossero troppo crude, forse gli fece osservare che i ventidue anni trascorsi dal 1848 al 1870 avevano apportato luce nuova di documenti per cui quel giudizio, il quale poteva avere apparenza di verità nel 1848, sembrava soverchiamente severo, forse anco ingiusto, nel 1870; sono supposizioni mie e che sorgono in me quando, sotto quelle parole del Generale, leggo una nota che ha quasi faria di un pentimento, o almeno, di una attenuazione che risponda ad obiezioni fattegli da qualcuno. Ecco che cosa dice la nota: «Un figlio di Rossi ha servito meco in Lombardia, ed è un distinto e valoroso ufficiale. Il di lui padre sarà stato un genio, come alcuni vogliono descriverlo; ma genii ed uomini onesti devono servire la causa del proprio paese, e il Papato in quei giorni la tradiva»57.
Ma il giudizio dell’Eroe, il cui animo era generosissimo, ha questo massimo valore: esso dimostra nei sentimenti di questo grandissimo Italiano, così genuinamente e quasi brutalmente da lui riprodotti, quali fossero, nel 1848, i sentimenti di tutti gl’italiani che avevano l’animo esagitato dalla febbre patriottica. Perciò, se profonda era nella coscienza di tant’uomo la convinzione che Pellegrino Rossi, con la sua politica asservita al Papato, tradisse la causa nazionale, se quella grande coscienza — nello stato di passione in cui si trovava — poteva approvare il colpo che toglieva di vita il Rossi, facilmente si spiegherà l’imparziale e obiettivo studioso di quella storia le condizioni delle coscienze di coloro che prepararono e compirono l’uccisione di Pellegrino Rossi, facilmente comprenderà, come, alla fin fine, coloro credettero, in buona fede, di fare, dal punto di vista loro, opera meritoria di patriottica redenzione. Per dare un’idea delle fiamme che divampavano in quell’ambiente oda il lettore che cosa scriveva Cesare Correnti sulla situazione che avea prodotta la morte del Rossi, il rivolgimento del 16 novembre e la fuga di Pio IX; «Pio IX se ne è fuggito da Roma, come un disertore. E veramente disertò la causa della giustizia da quel dì che niegò di prender parte alla guerra santa dell’indipendenza e non osò maledire l’assassino croato, stupratore delle donne e ladro sacrilego delle chiese. Povero Pio IX! Egli era stato mandato a rigenerare la cristianità, ed a liberare l’Italia, ed ora, aggirato da perfidi consigli, abbandona il suo posto e rifiuta la gloria di essere il secondo salvatore... Perdoniamo al traviato, preghiamo per lui...»nota.
E, dopo avere, in tutti i successivi Bollettini, lodata Roma, la popolazione e la civica di Roma e il ministero Mamiani, nel Bollettino 9 soggiunge, parlando degli atti di Pio IX, rifugiato a Gaeta:
«Di là scrisse, se pure scrisse proprio lui, un decreto non controfirmato da alcun ministro responsabile, nominando una Commissiono governativa e annullando tutto quello che aveva concesso dopo il 16 novembre. Ora come può codesta Commissione, senza mandato determinato, senza nomina legale, accordarsi con lo statuto concesso irretrattabilmente da Pio IX ai suoi popoli? Il Parlamento, dopo un atto tanto strano e inconsiderato, non avrebbe potuto dichiarare ribelle alle leggi fondamentali dello stato il fuggitivo Pontefice? Ma invece, con moderazione che è lodevole, perchè usata verso un uomo buono, comunque ingannato, verso un uomo che noi tutti abbiamo amato passionatamente, si accontentò di dire; il capo del potere esecutivo, non sappiamo come, nè perchè, ci manca; egli trovasi sotto guardia di una potenza più che sospetta; noi lo consideriamo come prigioniero e, però, come si usa in simili casi, nominiamo una reggenza che governi in suo nome, finché egli possa restituirsi alla sua sede.
«E la reggenza è nominata, Roma non perdette un istante la sua calma; il popolo è confidente e tranquillo, le province 58 concordi e tutti pensano a ricominciare, con forze ringiovanite, la guerra santa dell’indipendenza. Sapete che? Abbiamo scoperto che Roma aveva inventato Pio IX e che Pio IX, l’apostolo della civiltà cristiana, non è altro che Roma stessa.
«Un’èra nuova comincia per l’Italia, la quale, dopo tanti secoli, ritrova la sua magica Roma»59.
Ecco come giudicava un uomo dell’ingegno e del patriottismo di Cesare Correnti quel rivolgimento romano che segui alla morte di Pellegrino Rossi e che molti storici si sono sbracciati e si sbracciano a descrivere come la più iniqua e la più torbida delle rivoluzioni!
Nè soltanto i radicali, gli esaltati, i patriotti più ardenti così severamente giudicavano, a quei giorni, in quel tumulto di passioni ardentissime, l’antico ambasciatore di Francia, ma anche uomini vecchi, autorevoli e di principii temperatissimi.
Il Conte Ilarione Petitti, economista e giureconsulto di vaglia, senatore del Regno, scrivendo, sui primi di ottobre, da Torino a Roma ad Ottavio Gigli, deputato alla Camera romana, direttore di una effemeride assai in voga e diffusa nelle famiglie, intitolata L’Artigianello, nella fine di quella lettera scriveva: «Amico altra volta e collega all’Istituto del Rossi, avrei potuto tentare forse io pure un ufficio presso lui per voi ma non oso, temendo ora anzi pregiudicarvi, in ispecie dopo i miei articoli contro Pio IX.
«Non so cosa possano più sperare costì da un rinegato che ne è alla sua sesta patria e che non dispero vedere un giorno andare a servire il Gran Turco.
«Aspettiamo l’intimata della mediazione o, per meglio dire, della mistificazione, la quale non sarà che un solenne fiasco.
«Intanto abbiamo 120 000 uomini pronti; è un po’ più che l’armata pontificia e toscana, i due potenti aiuti coi quali, in virtù della lega, vorrebbero qui alcuni che ricominciassimo la guerra.
«Addio, mio carissimo, amatemi e credetemi
E siccome potrebbe obiettarsi da alcuno che l’avversione del Petitti non prova molto contro il Rossi, perchè egli era piemontese e i piemontesi dovevano avere, a quei giorni, il dente avvelenato contro l’avversatore del progetto di lega escogitato dal Rosmini, così addurrò il terribile giudizio, pronunciato intorno all’insigne carrarese da un uomo, per dottrina, per ingegno, per amor di patria venerando e per giunta frate e per soprassello siciliano.
Il Padre Gioacchino Ventura il quale, come accennai, era a Roma il rappresentante diplomatico del governo provvisorio siciliano, così scriveva al ministro degli affari esteri a Palermo, in data del 5 marzo 1849: «sia l’Eccellenza Vostra convinta che, senza la serie dei fatti che si sono succeduti negli ultimi tre mesi in Roma, e che una politica di moderazione e di legalità non potè certamente approvare nel momento in cui si compivano, la causa italiana era irreparabilmente perduta.
«Sin dal passato ottobre, dietro prove certissime che ne aveva, ho avvertito cotesto governo che una lega segreta si era stretta tra l’Austria, il Piemonte e Napoli contro il principio democratico, che diveniva sempre più forte e minaccioso in Italia.
«Il ministero Pinelli di Torino era alla testa di questa congiura monarchica contro i popoli. Il ministero Gioberti, che gli succedette, ne subì la intera eredità funesta, senza il beneficio dell’inventario.
«Il disgraziato ministro Rossi era in Roma l’anello di unione, ed il veicolo della corrispondenza fra i gabinetti indicati. Imposto al Papa, più che proposto, dalla camariglia, questo ministro funesto non era conosciuto dal Papa per quello che era, nè per l’uso cui doveva servire.
«Io però che, per averlo due anni trattato, aveva avuto occasione di pesarne la leggerezza dei talenti politici, e la profondità della perversità del cuore, non poteva ingannarmi; e perciò, nel passato agosto, quando incominciò a trattarsi di consegnare in mano a Rossi il governo pontificio, piansi, pregai Pio IX ad allontanare da sè e dallo stato si grande calamità. Dissi che, di tutti gli sbagli fatti da Pio IX, sarebbe questo il più ruinoso, e che Rossi sarebbe il Polignac e il Guizot della monarchia pontificia.
« . . . . . . . . . . . . . . .
«Frattanto la infelice sua morte, che nessun uomo di sentimento e di onore può sicuramente approvare e che è stato il primo avvenimento che ha attirato sopra Roma le censure egli anatemi dell’universo, ha risparmiato la guerra civile in Roma, ha ucciso il principio reazionario nel personaggio in cui crasi incarnato e che tutto lo rappresentava, ed ha scompigliato il complotto monarchico di cui ho testè fatto menzione.
«Al medesimo modo, tutti gli uomini saggi hanno censurato, chi come disastroso, e tutti come prematuro, l’ardito decreto della decadenza del Papa e della proclamazione della repubblica: eppure questo decreto ha messo al nudo l’intrigo sardo-austriaco-napoletano che la morte di Rossi avea costretto a cangiar colore, ma non aveva interamente distrutto.
«Obbligato il ministero di Piemonte a dichiararsi intorno agli avvenimenti di Toscana e di Roma, è venuto esso medesimo a discoprire, al cospetto del mondo scandalizzato, che la triplice alleanza, sotto il pretesto di ristabilire il Granduca di Toscana, e il Papa in Roma, avrebbe fatto occupar Roma dal Re di Napoli, la Toscana dal Piemonte, le Legazioni dall’Austria: e se questo tenebroso mistero d’iniquità giungeva a compiersi, la permanenza dell’austriaco in Italia sarebbe stata assicurata, e le costituzioni politiche sarebbero state annullate o ristrette.
«Gli affari di Lombardia sarebbero stati composti diplomaticamente, con quella giustizia e con quella saggezza con cui la diplomazia suole sciogliere le grandi quistioni degli stati, cioè negli interessi dei principi, e in danno dei popoli: e l’assolutismo restaurato in Italia, e rafforzato quindi in Francia ed in Germania, avrebbe finito col trionfare in tutta quanta l’Europa.
«Ora, l’essersi in Roma proclamata la repubblica; l’essersi fatto lo stesso a Livorno, e il doversi fare anche lo stesso nel rimanente della Toscana, avendo destato nella opposizione parlamentaria di Torino il pensiero di mettere alle strette il verno reale e dichiarare le sue intenzioni rispetto all’Italia centrale, ha fatto conoscere che il gabinetto sardo era d’accordo con l’Austria e con Napoli per intervenire ostilmente contro il principio democratico di Toscana e di Roma, ha smascherato Gioberti, e lo ha esposto al ludibrio ed alla esecrazione del mondo ed avrebbe sbalzato dal trono anche Carlo Alberto... se questo principe non si fosse affrettato a dichiarare che Gioberti aveva operato incostituzionalmente e senza saputa del Re, nell’avere spedito truppe piemontesi in Toscana, ecc.»61.
Ora, per quanto in queste informazioni, date al governo siciliano dal Padre Gioacchino Ventura, vi fosse, evidentemente, un po’ di esagerazione, non v’ha dubbio alcuno che esse, nel loro complesso, erano vere.
Le esagerazioni erano di due specie: una riguardava la triplice alleanza monarchica, l’altra si manifestava negli oscuri, anzi tetri apprezzamenti intorno al Rossi.
Nella prima la esagerazione consisteva nel credere che il ministero Pinelli prima e quello Gioberti poi, pur proponendo e sostenendo la intervenzione armata piemontese in Toscana e a Roma, nell’interesse e pel mantenimento del principio monarchico costituzionale, procedessero d’accordo con il governo austriaco, del che non v’ha ombra di documento o di prova, ed è assai dubbio se, data l’adesione del Re Ferdinando II a quel progetto, i ministri piemontesi ne avrebbero accettata la cooperazione. Quei supposti e temuti accordi con l’Austria erano sospetti, giustificabili in quei terribili momenti di angoscia e di patriottica trepidazione, ma privi di ogni fondamento e ai quali, pur tuttavia, prestava fede anche il Padre Ventura, come tanti altri valentuomini, a quei dì, vi prestavano fede.
Ma nondimeno v’era in quelle informazioni del Padre Ventura un gran fondo di verità, essendo noto allora, notissimo oggi il disegno del Gioberti, da lui stesso ripetutamente confessato, specie nel Rinnovamento civile d’Italia62, il disegno, cioè, di «recare ai regnanti di Firenze e di Roma il soccorso delle armi piemontesi, anche disdetto, anche mal gradito e respinto», imperocchè egli pensasse e dicesse «non essere contro i popoli che si dirigevano le armi, ma contro un pugno di faziosi che si imponeva tirannicamente con la violenza ai medesimi; non essere a temere conflitto fraterno, perchè i demagoghi sarebbero fuggiti, e la immensa maggioranza, la universalità dei buoni cittadini sarebbesi levata a fugare i tiranni piazzaiuoli ed accogliere con festa i soldati del Piemonte; questo acquistare autorità, benemerenza presso le popolazioni italiane, osservanza e riguardi dalle potenze straniere, pigliando così risolutamente ad esercitare quell’ufficio egemonico che la Provvidenza voleva a lui assegnato per il risorgimento, per la pacificazione e la ricostituzione d’Italia; essere anzi nel Piemonte medesimo un obbligo sacrosanto di così procedere, perchè l’interesse supremo della causa della nazionalità e dell’indipendenza, alla quale recava si gran nocumento lo sfacelo politico e morale di si importanti regioni, richiedeva che il campione di quella causa in ogni modo si adoperasse a farla trionfare; l’Austria non avrebbe osato, non avrebbe potuto opporsi e, cosi, tacitamente, avrebbe dovuto riconoscere l’egemonia italiana del regno subalpino, ecc.»63.
Dunque esagerazioni si, ma fondamento di verità altresì nelle informazioni del Padre Ventura. Il quale se, nei suoi giudizi, sul Rossi, forse esagerava — sebbene, probabilmente, in buona fede — le tinte, trovava anche li un fondamento non piccolo di verità negli intrighi diplomatici di Pellegrino Rossi, al Padre Ventura, che era uomo di ben alto intelletto e, per il suo ufficio, ormai addentro abbastanza nelle cose della diplomazia italiana, in gran parte noti. Imperocchè il Padre Ventura era, senza dubbio, informato dal Bargagli ambasciatore toscano e dal Pareto legato piemontese, ambedue residenti in Roma, che «il Rossi aveva fatto disdire all’aperto, a Pio IX, le promesse fatte di partecipare alla lega progettata dal Rosmini, infondendogli nel debole animo la paura che lo assentirvi produrrebbe iattura alla religione e al principato temporale della Chiesa. Antonelli che, ucciso Rossi, avea preso a padroneggiarne la mente, era giunto, usando le stesse arti, a fargli sospendere la pubblicazione di un manifesto redatto dal Rosmini, nel quale il Papa favellava da Gaeta ai suoi popoli benigno e conciliativo, lasciando intendere che, come potesse aver securtà di esercitare l’autorità sua in Roma con libertà piena, vi farebbe ritorno, serbando intatto lo statuto»64.
Ai giudizi addotti fin qui moltissimi altri potrei aggiungere desumendoli dagli autori citati in una precedente nota intorno agli intendimenti, agli atti, all’opera di Pellegrino Rossi ministro e quasi dittatore, per due mesi, a Roma e sulla morte di lui; dei quali fatti mi pare di avere sufficientemente chiarito il lettore, rimettendolo, il meglio che per me si potesse, entro quell’ambiente infiammato, fra il cozzo violento di quelle violentissime passioni e, con la scorta dei maggiori elementi che mi fu dato raccogliere, perchè, da sè, esso possa formarsi un concetto approssimativamente esatto del tempo, dello spazio e degli uomini in mezzo ai quali quel dramma sanguinoso si svolse.
L’esame, che imprenderò or ora e che proseguirò e finirò nel secondo volume, di tutto il colossale processo contro gli uccisori del Rossi e dei processi che con quello hanno affinità, non arrecherà ai miei lettori nessuna nuova luce sui fatti che riguardano il ministero del Rossi e dei quali mi sto occupando.
Quell’esame darà ai miei lettori il bandolo della matassa misteriosa, e fin qui inestricabile, per la storia; quell’esame svolgerà innanzi ai loro occhi tutta la trama e vedranno come, da chi, dove, quando fosse stabilita 1'uccisione di Pellegrino Rossi; quell’esame porrà in luce tutto ciò che v’ha di falso nel Sommario o Ristretto compilato dal giudice processante avvocato Domenico Laurenti e quanta parte avesse la politica e quanta il gesuitismo in quella processura e come avvenissero i dibattimenti e in qual modo, nel giudizio, amministrasse la giustizia il supremo tribunale, che si intitolava, per derisione certamente, della Sacra Consulta.
Per quel che riguarda Pellegrino Rossi, il viaggio in mezzo al processo non potrà che confermare una circostanza di fatto da me già messa in evidenza ed è questa: che l’ambiente romano era ostilissimo all’infelice statista.
Il quale apparve, o fu realmente - tale è il modestissimo giudizio mio - in quel tragico momento storico, inferiore non soltanto alla sua fama, ma altresì alla misura che egli già aveva dato dell’altissimo ingegno suo anche in materia di stato. Inferiore nella visione, comprensione ed estimazione di quella drammaticissima situazione; inferiore nei modi tenuti e nei mezzi adoperati nel fronteggiarla.
Nel primo caso la inferiorità sua, derivante anzi tutto, principalmente — giova ripeterlo alla sazietà — dal suo fatale dottrinarismo, non diminuisce la potenza dell’ingegno, in lui maravigliosamente pieghevole a tutto, perchè inferiori nella visione, comprensione e valutazione del momento storico si mostrarono, al pari di lui, altissimi ingegni quali Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini, Giuseppe Ferrari, Terenzio Mamiani e tutti gli uomini più insigni che avesse l’Italia a quei giorni. Certo — e lo ripeto fu errore gravissimo e colpa nel Rossi — poichè gli errori degli uomini di stato, pei funesti effetti che recano ai popoli, divengono colpe — l’avere avversato la lega proposta dal Rosmini, quantunque io, per me, gliene darei venia; convinto come sono — contro il parere di molti autorevoli storici — che, anche col favore del Rossi, quella lega non si sarebbe ugualmente conchiusa; ma, allora, nel tempo in cui egli governava lo stato romano, fu errore quello, quella fu colpa di fronte ai suoi contemporanei.
Nel secondo caso, poi, la inferiorità al proprio ingegno e alla propria fama dimostrata dal Rossi nei mezzi e nei modi adoperati per fronteggiare quell’asperrima situazione, se da un lato fa torto alla soverchia presunzione che egli dimostrò di sè stesso, fa onore, dall’altro lato, alla sua soverchia, forse, e troppo dottrinaria lealtà costituzionale.
Troppo presunse di sè, attorniandosi in quel ministero di mediocrità e di nullità, in un momento in cui avrebbe fatto duopo che al fianco suo fossero stati tutti i maggiori ingegni che lo scompaginato e fiacchissimo nucleo moderato allora noverasse; e se coloro, sentendosi impotenti sotto quel nembo, invitati a partecipare al grave carico del potere, si fossero rifiutati, egli avrebbe operato da saggio ad allontanarne dalle sue sole spalle l’insopportabile peso; sebbene io creda che, anche unito ai migliori della piccola fazione sua e anche adoperando maggiori precauzioni e maggiore energia, egli e i colleghi suoi si sarebbero palesati impotenti e sarebbero stati travolti dalla fiumana irresistibilmente irrompente delle popolari passioni.
Troppo ossequente alle esteriorità del sistema costituzionale, Pellegrino Rossi, per serbarsi scrupoloso osservatore delle forme, a fine di non accrescere la nomea di reazionario che già lo avvolgea, non prese le precauzioni che avrebbe potuto e dovuto, non si fece scortare dai carabinieri, non ordinò che la guardia civica occupasse l’atrio, che facesse ala nella scalea e, troppo essendosi fidato e troppo alto disprezzo avendo mostrato pei suoi nemici — che eran tanti! — cadde miseramente trafitto.
Nel complesso fu dimostrato chiaramente dai fatti che, se Pellegrino Rossi aveva — e senza dubbio — le qualità necessarie a dirigere il timone di uno stato costituzionale in tempi ordinati e tranquilli, non aveva però in sè la forza di dominare costituzionalmente una bufera come quella che si era addensata su Roma; ed è evidente che, se non fosse stato ucciso, in quella stessa sera del 15 novembre, lui vivo e ministro, a Roma sarebbe avvenuto un conflitto sanguinoso fra i carabinieri e una parte delle milizie di linea da un lato e i legionari, i dragoni, una parte della civica e del popolo dall’altra.
E allora, invece dell’aureola di martire, o almeno di vittima, che avvolse e avvolge ancora il suo nome, questo sarebbe rimasto scritto accanto a quello dei Polignac e dei Guizot, perchè, come essi, egli sarebbe caduto, scivolando nel sangue cittadino.
Vittima delle sue dottrine, desideroso di applicare quella du juste milieu alla procella, ostinato nel volere conciliare ciò che era stato dimostrato assolutamente inconciliabile, lui che aveva detto lo statuto papale una guerra legalizzata fra i sudditi e il sovrano, volle farsi puntello di quello statuto, quando il Papa l’aveva già violato e lo violava da quattro mesi e ora che i sudditi di quello si apprestavano, a volta loro, a violarlo. Deciso ad avventurarsi sui trampoli della contraddizione, ormai patente anche ai più ingenui e ai più illusi, lui che aveva scritto che lo slancio generale per la guerra d’indipendenza era irresistibile e che i governi italiani che non lo secondassero vi perirebbero, ora si assumeva, per compiacere Pio IX, che la guerra d’indipendenza non aveva mai voluto e non voleva, ad avversare la lega col Piemonte, e anche con arti abbastanza subdole, se pure il Rosmini, il Bargagli, il Pareto e il Padre Ventura erano bene informati, cosa della quale io, per me, dubito, perchè temo — più che io non creda, giacchè elementi per crederlo positivamente, non ne ho — che fosse Pio IX, il quale si raccomandasse al Rossi di allontanare da lui il calice amaro della guerra all’Austria e temo che il ministro ossequente si prestasse all’intrigo, il che aumenterebbe la colpa di Pellegrino Rossi.
Ad ogni modo, volendo governare con vela adatta alle onde tranquille una nave in balia di un mare in tempesta, volendo reggere il timone dello stato in nome di un partito che non era mai organicamente esistito, o che, in ogni ipotesi, allora non esisteva più, contro una corrente che trascinava, con logica fatalità, uomini e cose, contro le aspirazioni — fossero anche erronee — della grande maggioranza degli Italiani, contro l’opinione pubblica, contro la coscienza della nazione, contro la legge della storia, Pellegrino Rossi cadde vittima del suo dottrinarismo, delle sue illusioni, dei suoi errori, dando la nobile e preziosa sua vita, intrepido e magnanimo, per un miraggio, che a lui era sembrato cosa salda, per una meteora, che i suoi occhi, ottenebrati dalle preconcette e per tutta la vita carezzate teorie, scambiarono per un alto e patriottico ideale.
A quei giorni» — acutamente osserva un forte ingegno romagnolo — «furono similmente uccisi il ministro Latour a Vienna, il Lamberg in Ungheria, il Lichnowschy a Francoforte, senza che la loro morte provocasse emozione di sorta: ma quella di Pellegrino Rossi sconvolse tutte le coscienze. Qualche gran cosa era con lui crollata: a distanza di diciotto secoli, il pugnale che avea colpito Cesare per trafiggere, invano, l’impero, scannava Rossi uccidendo il Papato»65.
Sì: il pugnale inconsciente di Luigi Brunetti, spezzando la carotide di Pellegrino Rossi, spezzava addirittura ogni residuo di vincolo fra l’Italia e il Papato, colpiva al cuore il dominio politico dei Pontefici, dimostrato non solo incompatibile con la unità d’Italia, ma, per inevitabile necessità storica della istituzione, più che per libidine imperatoria di uomini, primo e fatale nemico dell’unità della patria.
La storia successiva, dal 15 e 16 novembre 1848 fino al 20 settembre 1870, ha provato la fatalità provvidenziale di quegli avvenimenti: i decrepiti superstiti del dottrinarismo strepitino e declamino a lor posta: il fantasma insanguinato di Pellegrino Rossi stette, provvidenzialmente, dal 15 novembre 1848 fino al 20 settembre del 1870, rampogna inesorabile, ostacolo insormontabile fra l’Italia e il Papato66.
Note
- ↑ Il deputato — moderato — dott. Sebastiano Fusconi depone: «... andai a lavarmi le mani; quando tornai si leggeva il processo verbale: interrogai il mio vicino Pantaleoni e mi rispose che si faceva quella lettura per aver tempo di avvisare i diplomatici e fare anche allontanare le molte signore e per evitare inconvenienti nello sgombero delle tribune» (Processo cit., deposizione Fusconi, foglio 6080 a 6131).
- ↑ Vedi il processo verbale di questa seduta, che io allego fra i Documenti, al n. LIV.
- ↑ Processo di lesa maestà cit., deposizioni Villanova-Castellacci, foglio 2857 a 2876 e foglio 7679 a 7683; deposizione Cloter, foglio 3886 a 3899.
- ↑ Dal Processo cit., deposizione Massimo, fog*lio 3683 a 3691.
- ↑ Processo cit., deposizione Villanova-Castellaccí, foglio 2857 a 2876.
- ↑ Processo cit, deposizione Campana, foglio 5988 a 5991.
- ↑ Processo cit, deposizione Onesti, foglio 5390 a 5398.
- ↑ Processo cit., deposizione D’Orazio, foglio 5420 a 5445.
- ↑ L'Italie rouge par le V. D’Arlincourt, Paris, chez tous les Libraires, 1850, pag. 128. G. Spada, op. cit., vol. II, cap. XVIII, pag. 511. Cfr. con Lubienski, op. cit., pag. 245, e con tutti i giornali di Roma di quel tempo. Il Minghetti narra come egli accorresse, per recare aiuti al Rossi, dall’aula nella camera in cui esso era stato ricoverato; ne trovò chiuso l’uscio, tornò indietro e «cercai del Montanari, del Duca di Rignano , non mi venne fatto di ritrovarli» (Ricordi, vol. II, pag. 123).
- ↑ Processo cit., deposizione Rufini, foglio 4040 a 4062.
- ↑ Carte di monsignor Pentini nella biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, busta 20, c. 24. Naturalmente io, per parte mia, faccio tutte le riserve sugli apprezzamenti di monsignor Pentini circa alle cause che poterono spingere il professor Montanari ad offerirsi al Papa quale ministro dell’interno, perchè quelli sono giudizi al tutto subiettivi, contro i quali testifica tutta la ulteriore lunga ed onorata vita del Montanari; ma adduco le parole del Pentini per ciò che riguarda la constatazione del fatto che egli si offrì ed insistè per essere incaricato a reggere il ministero dell’interno in quel tremendo momento d’anarchia e che si mostrò inetto e impotente nella difficile e pericolosa bisogna.
- ↑ Processo cit, deposizione Rufini, foglio 4040 a 4062.
- ↑ Processo cit., deposizione Pericoli, foglio 5015 a 5030.
- ↑ Io che scrivo, ricordo benissimo, e come fosse ora, quella esiqua e torva accozzaglia composta di una trentina di legionarii in panuntella, di un’ottantina di popolani, di otto o dieci dragroni, di quattro o cinque carabinieri, preceduta da poche faci resinose, la quale cantando quell’orrida strofetta e levando quell’acclamazione, passò, verso un’ora o un’ora e mezzo di notte, per via delle Muratte, ove, a quel tempo, nel palazzo dei Sabini, dimorava la mia famiglia.
- ↑ La costituente a cui alludevasi era quella del Montanelli e il progetto dell’Atto federativo era quello deliberato nel Congresso presieduto dal Gioberti a Torino.
- ↑ Il Consiglio dei deputati aveva nel luglio e nell’agosto deliberato moltissime provvisioni por l’ampliamento dell’esercito, pel suo ordinamento, pel suo armamento, e di quelle provvisioni, parecchie dello quali erano state approvate anche dall’Alto Consiglio, non una era stata mandata ad effetto.
- ↑ Il Minghetti chiamato dal Papa, come or ora accennerò, la sera stessa del 15, scrive che in quel colloquio, in cui si parlava della necessità di formare un nuovo ministero, «... occorreva che Sua Santità permettesse al ministero nuovo, qual ch’esso fosse, di mostrarsi francamente liberale e nazionale, imperocchè sarebbe difficile guidare la cosa pubblica senza una chiara manifestazione di concetti» (M. Minghetti, Miei ricordi, vol. II, pag. 125), il che significava che anche l’illustre statista bolognese riprovava la politica seguita. da parecchi mesi, dai due ministeri Fabbri e Rossi, significava che anche lui, l’illustre dottrinario, implicitamente riconosceva che quella l’ente tumultuante in piazza — salvo i modi e gli eccessi — nella sostanza aveva ragione.
- ↑ M. Minghetti, Miei ricordi, vol. II, pag. 123 e 124.
- ↑ M. Minghetti, Miei ricordi, vol. II, pag. 125.
- ↑ Vedi fra i Documenti, al n. LV, il biglietto scritto dal ministro Montanari al presidente dell’Alto Consiglio.
- ↑ Il Pasolini, nell’accennata sua lettera rammemorativa al Minghetti, afferma che il Muzzarelli e lo Sturbinetti dicessero al Papa disonorevoli parole quasi a lode dell’omicidio Rossi. Ma, come si rileva dalla deposizione del Fusconi, che riferisco di sopra, non pare che questi confermi menomamente quell’accusa del Pasolini.
- ↑ La logica della situazione si imponeva in guisa che, uomini moderati, della tempra del Minghetti, del Pasolini, del Fusconi, eran costretti, loro malgrado, a indicare come uomo atto a formare un ministero in quel momento e a governare, in quei difficilissimi giorni, con speranza di evitare l’anarchia, quel Galletti che, insieme al Mamiani e allo Sterbini, era, in quel quarto d’ora, uno dei tre uomini più popolari di Roma e dello stato romano.
- ↑ Processo cit., deposizione Fusconi, foglio 6085 a 6131.
- ↑ Processo cit., deposizione Minghetti, foglio 6131 a 6150. Pier Silvestro Leopardi, che stimava il Minghetti «uomo di colto ingegno e di rottissime intenzioni e capace di stare intrepido dinanzi ai cannoni», lo biasima perchè si lasciò prendere dal panico della situazione (P. S. Leopardi, Narrazioni storiche citate, cap. LXXII, pag. 363).
- ↑ A tutti sono note le dimissioni date da parecchi deputati, dopo la partenza del Papa. Senza esaminare se il dare le dimissioni, ossia fuggire, sia un buon metodo di combattimento, del che — trattandosi di una questione in gran parte subiettiva — erano giudici quei signori, importa, per la storia, vedere se e come potessero dirsi rappresentanti del popolo ed anche degli elettori inscritti nelle liste quei deputati dimissionari. Vediamolo, sulla scorta dei verbali delle elezioni dei 100 collegi elettorali dello stato romano nel 1848, esistenti, raccolti in apposita busta, come già dissi, all’Archivio di stato di Roma. Il Duca Massimo di Rignano era stato eletto con 61 voti su 428 inscritti; l’avvocato Clemente Giovannardi con 71 voti sopra oltre 460 inscritti; il Marchese Carlo Bevilacqua rappresentava 57 elettori su 417 iscritti; il Conte Giovanni Massei 47 votanti sopra 411 iscritti, il Conte Giovanni Marsili 46 sopra 610; il Marchese Annibale Banzi 28 su 492 e l’avvocato professore Andrea Pizzoli 26 su 519. E bisogna leggere la lettera di dimissione del Pizzoli, per vedere con qual tono parlasse delle intenzioni dei suoi elettori e del Mandato ad esso affidato questo rappresentante di ventisei voti su cinquecentodiciannove elettori iscritti! Dicevo dunque il vero io quando affermavo che il partito dottrinario o moderato, benchè composto di egregi uomini e di alcuni illustri come il Minghetti, il Farini, o valorosissimi come il Pasolini, il Pantaleoni, non esisteva come partito organico e vitale negli stati romani; quando affermavo che esso sorse artificialmente nella luna d miele di Pio IX., visse effimeramente per la potente influenza di Pellegrino Rossi e si dissipò completamente dopo la morte di lui!
Detto ciò, per dovere di scrittore obiettivo e per rimettere le cose a posto, in omaggio alla santissima verità, sul fondamento di documenti e di cifre, io non solo non mi associerò alle considerazioni che, a proposito del partito moderato romano, fa il Conte D’Ideville, ma anzi quelle considerazioni dovrò relegare, per conto mio, fra i tanti avventati ed erronei giudizi da cotesto scrittore messi fuori, con imperdonabile leggerezza, e di alcuni dei quali ho fatto menzione. Potranno esser vere la inesperienza, la inettitudine e la debolezza di quegli uomini, ma non sono vere la loro ambizione, le loro ipocrisie e gl’intrighi di cui il D’Ideville li accusa, in una nota a pag. 163 del suo libro Le Comte Pellegrino Rossi, ecc, più volte citato.
- ↑ V. Gioberti, Del rinnovamento, ecc, già citato, vol. II, cap. VII, pagina 205. E nella stessa opera vedi nel vol. I, cap. I, pag. 160 e seg.; cap. II, a pag. 215, 218, 219 e passim.
- ↑ C. M. Curci, Il Vaticano regio tarlo superstite della Chiesa cattolica, Firenze-Roma, fratelli Bencini editori, 1883, cap II, pag. 57.
- ↑ G. La Cecilia, Memorie storico-politiche cit, vol. V, pag. 241-42. È evidente, il La Cecilia esagera a sè stesso e ai suoi lettori l’importanza delle notizie avute e si dice in grado, perchè, in buona fede, ci crede, di rivelare la verità, mentre è evidente dallo studio che io ho fatto del processo e che parteciperò tutto ai miei lettori, che il La Cecilia era tratto dalle sue supposte esatte informazioni fuori della via dritta.
- ↑ B. Del Vecchio, L’assedio di Roma, nei Documenti della Guerra santa d’Italia, Tipografia Elvetica. pag. 50 e 51.
- ↑ C. Cattaneo, Scritti politici ed epistolari cit., pag. 405.
- ↑ C. Cattaneo, op. cit., pag. 259. Le quali cose se sgombravano certe allora all’illustre lombardo, che giudicava da parteggiante contemporaneo a traverso alle lenti affumicate della passione, non sono affatto certe per la storia scritta dai posteri.
- ↑ F. Perfetti, Ricordi di Roma, Firenze, G. Barbèra, 1861, § IV, pag. 49.
- ↑ C. M. Curci, Il Vaticano regio, ecc., già citato, cap. II, pag. 57.
- ↑ C. Cantù, Della indipendenza italiana. Cronistoria. Torino, Società tipografica-editrice, 1873, vol. II, cap. XXXXVI, pag. 1434.
- ↑ J. Cretinau-Joly, Histoire du Sonderbund già citata, vol. I, pag. 92, in nota.
- ↑ Il Galli a cui allude doveva essere il pro-ministro delle finanze Angelo Galli.
- ↑ Carte di monsignor Pentini, nel museo del Risorgimento alla biblioteca Vittorio Emanuele di Roma, busta 21, cart. 6.
- ↑ Allude alla sommossa, sollocata, del 13 giugno 1819 a Parigi, promossa da Ledru-Rollin e da altri deputati radicali.
- ↑ Carte di monsignor Pentini, busta 21, cart. 6.
- ↑ Carte di monsignor Pentini busta 21, cart. 6.
- ↑ G. Pallavicino, Memorie pubblicate per cura di sua moglie, Torino, E. Loescher, 1886, vol. II, pag. 39 e seg.
- ↑ G. Pallavicino, Memorie cit., vol. II, pag. 43 e 44.
- ↑ G. La Farina, Storia d’Italia cit., vol. II, pag. 584.
- ↑ Roberto Blum, uno dei capi del partito unitario radicale tedesco, si trovò a Vienna, nell’ottobre del 1848, ove era stato inviato in missione dalla Dieta nazionale di Francfort, di cui era deputato. Egli combattè con gli insorti viennesi contro le milizie imperiali guidate dal maresciallo Windischgrätz. Arrestato il 4 novembre e processato militarmente, fu condannato a morte l’8 novembre e fucilato il 9 successivo, ossia legalmente assassinato, perchè egli era, nella sua qualità di membro della Dieta germanica di Francfort, indiscutibilmente inviolabile.
- ↑ Lettere ad Antonio Panizzi di nomini illustri e di amici italiani, pubblicate da Luigi Fagan, Firenze, Barbèra, 1880; Lettera di Gabrio Casati da Torino, in data 5 dicembre 1848 (pag. 195), e altra dello stesso, parimente da Torino, in data 12 gennaio 1849.
- ↑ Souvenirs d’un vétéran autrichien sur la guerre d’Italie dans les années 1848-1849 par le général Schönals, traduit de l’allemand par Rodolphe De Steiger, Paris, Librairie militaire de J. Corréard, 1834, tomo II, pag. 183, L’avveduto lettore avrà scorto da sè le varie inesattezze in cui cade l’autore relativamente al Rossi, e come egli creda che l’assemblea dei deputati si riunisse al Campidoglio, ecc. Cfr. con T. Flathe, op. cit., lib. III, cap. II, pag. 881.
- ↑ Risposta di Carlo Pigli all’apologia di F. D. Guerrazzi, Arezzo, Filippo Borghini editore, 1802, pag. 103 e seg. Cfr. col Corriere Livornese del 18 marzo 1848, il quale, le dimostrazioni di esultanza dei Livornesi per la morte del Rossi e le parole del governatore commentava con le seguenti linee: «Tutto questo non perchè i Livornesi applaudissero alla morte dell’uomo, ma a quella di un principio politico: la sua fine eccitava compassione, rammarico, ma i suoi sentimenti... destavano sdegno».
- ↑ G. Montanelli, Memorie cit., pag. 413 e 414.
- ↑ G. Montanelli, Memorie cit., pag. 422.
- ↑ G. Mazzini, Scritti, ecc., vol. VII, pag. 35.
- ↑ G. Mazzini, Scritti cit., pag. 77.
- ↑ Sulle ragioni della impopolarità, giusta o ingiusta, o in parte giusta e in parte ingiusta, onde era avvolto Pellegrino Rossi a quei giorni e sull’odio pubblico contro di lui attestano, oltre tutti gli scrittori citati, M. Pinto, Don Pirlone a Roma, Torino, Alessandro Fontana, 1850, e Pie IX et la Révolution, Pietroburgo, 1852, cap. II, pag. 70 e seg.; Q. Filopanti, Sintesi della storia universale e specialmente d’Italia, Bologna, società Azzoguidi, 1883, vol. IV, cap. LVIII, pag. 139 e 140; B. Grandoni, Storia inedita, dal giugno 1848 al luglio 1849 — il manoscritto autografo è presso di me, scrittore di questo volume — fasc. III, pag. da 3 a 7; G. Ricciardi, Cenni storici cit., pag. 207 e seg.; C. A. Vecchi, La Italia già cit., vol. II, lib. X, pag. 314 e 315; G. Gabussi, Memorie cit., vol. II, pag. 198 e 225; F. Torre, Memorie storiche cit., vol. I, pag. 98 e seg.; F. Ranalli, Le storie italiane già citate; A. Brofferio, Storia del Piemonte dal 1814 ai giorni nostri, Torino, Magnaghi, 1851, parte III, vol. III, cap. III; Histoire de la révolution du 1848, Paris, Pagnerre libraire-éditeur, 1861; R. Rey, Histoire de la renaissance politique de l’Italie, Paris, Michel Lévy, 1864, lib. III, cap. VII, pag. 200 e seg.; P. Veroli, Le celebrità del giorno, Firenze, Lorenzo Ducei, 1861, pag. 370 e 372.
Fra gli storici posteriori, Nicomede Bianchi, Carlo Matteucci e i suoi tempi, Torino, Fratelli Bocca, 1874, pag. 176; N. Nisco, Storia civile del Regno d’Italia, Napoli, Morano, 1885, vol. I, cap. XIV, pag. 123 e seg.; L. Zini, Storia popolare d’Italia, Milano, Guigoni, 1863, vol. II, App., pag. 321; A. Zobi, nella Introduzione al Saggio sulle mutazioni politiche ed economiche d’Italia dal 1859 al 1868 Firenze, Eredi Botta, 1870; H. Hamel, Histoire de France depuis la révolution, ecc., Jouvet et C., 1889, tomo I, pag. 246; Domenico Berti, Cesare Alfieri, Roma, C. Voghera, 1877, pag. 117 e seg.; Webb Probyn, L’Italia dalla caduta di Napoleone I all’anno 1892, traduzione autorizzata, Firenze, Barbèra, 1892, cap. VII, pag. 105 e seg.; A. Dechamps, Eugène Cavaignac Lacroix et Verboekhoven, 1870, tomo II, parte II, cap. VI, pag. 118 e seg; Taxile Delord, Histoire du second Empire (1848-1869), Paris, Germer Bailliére, 1869, cap. IV, pag. 145 e seg.; F. F. Perrens, op. cit.; A. De La Forge, op. cit; C. De Mazade, art. cit.; J. Zeller, Pie IX et Victor Emmanuel, Paris, Didier et Cie, 1879, cap. IV pag. 114 e seg.; H. Martin, Daniel Manin cit., lib. III, pag. 215: G. De Puynode, art. cit.; G. Boglietti, art. cit.; H. Baudrillart, art. cit.; e, ultimo, fra quelli da me veduti, l’operoso, amoroso e inteligentissimo storico e raccoglitore di materiali della storia del risorgimento italiano, C. Tivaroni, L’Italia durante il dominio austriaco, Torino, L. Roux e C., tomo II, L’Italia Centrale, 1893, pag. 948 e seg., e nel tomo III, L’Italia Meridionale, parte X, pag. 577 e seg.Fra i contemporanei e posteriori storici solo in parte ammettono la impopolarità del Bossi, ma, ad ogni modo, ne fanno ricadere tutta la colpa non su lui e sugli errori della sua politica, ma sulla iniquità dei demagoghi e dei rivoluzionari suoi avversari A. D’Amelio, La rivoluzione romana al giudizio deql’imparziali, Napoli, società della Biblioteca cattolica, 1859, lib I, cap. XII; G. Spada, Storia cit, vol. II, cap. XVIII; D’Arlincourt, Italie rouge cit., cap. IX, pag. 128 e seg.; A. Balleydier, Histoire cit., vol. I, pag. 175 e seg; G. De Bréval, Mazzini giudicato da se stesso e dai suoi, traduz. di F. Giuntini, Firenze, Sansone Coen, 1853, cap. V, pagina 97 e seg.; Beaumont-Vassy, Histoire des Etats européens depuis le Congrès de Vienne, Etats italiens, Paris, Amyot, 1850, cap. XXV, pag. 351 e seg; M. O. D’Haussonville, op. cit., vol. II, pag. 187 e seg.; F. Fernandez De Cordova, Mis memorias intimas, Madrid, successori De Ribadeneyra, 1889, tomo III, cap. VIII, pag. 211; A. E. Cheubuliez, art. cit. del 1849; A. De Broglie, art. cit.; C. Bon-Compagni, Introduzione e Discorso cit.; O. Raggi, Prefazione cit.; A. Courtois. art cit.; E. Renaudin, art. cit.; J. Garnier, art. cit.; R. Bonfadini, art. cit.; D. Silvagni, La Corte e la società romana cit., vol. III, pag. 613 e seg.; e H. D’Ideville, opera citata qua a lá, in molti luoghi, ma specie nei due ultimi capitoli.
- ↑ A. Saffi, Storia cit., cap. XIII, pag. 416 e 117.
- ↑ F. De Lesseps, Ma mission à Rome - mai 1849 - Mémoire presenté au Conseil d’état, Paris, Giraud, rue de la Paix, 1849, pag. 117.
- ↑ B. Miraglia da Strongoli, Storia della rivoluzione romana, Torino, Sebastiano Franco e figlio, ISòO, parte II, cap. I.
- ↑ G. Garibaldi, Memorie autobioqrafache, Firenze, Barbèra editore, 1888, Secondo periodo, cap. V, pag. 213 e 214.
- ↑ G. Garibaldi, op. e loc. cit.
- ↑ Cesare Correnti, Bollettini dell’emigrazione 1848—49, ristampati a Milano dal dott. Francesco Vallardi, 1876, bollettino 2 in data 30 novembre 1848.
- ↑ Cesare Correnti, Bollettini cit, bollettino 9 in data 19 dicembre 1S48.
- ↑ Questa lettera autografa dal Petitti indirizzata al Gigli, in data del 1° ottobre, e sequestrata a questo, in una perquisizione fattagli nel 1850, dalla polizia pontificia, esiste nel Processo cit., foglio 1700 a 1701. Quando parla della mediazione alludo a quella interposta, per gherminella diplomatica, dall’Inghilterra e dalla Francia fra l’Austria e il Piemonte e che doveva esplicarsi nelle riunioni della Conferenza di Bruxelles, e la quale riuscì, come moltissimi, insieme al Petitti, prevedevano, ad una vera e propria mistificazione, quale geneticamente era giá.
- ↑ G. La Massa, Documenti sulla guerra siciliana, Torino, 1850, vol. II pag. 144 e seg. Cfr. con G. Gabussi, op. cit., pag. 181 e seg.
- ↑ V. Gioberti, in molti luoghi del Rinnovamento, specie vol. I, cap. XII.
- ↑ V. Bersezio, Il regno di Vittorio Emanuele II — Trent’anni di vita italiana, Torino, L. Roux e C. editori, 1880, vol. IV, pag. 293 e 294. Ho voluto adoperar le parole dell’illustre storico piemontese, ingegno meravigliosamente pieghevole e insigne nei più disparati generi di letteratura, perchè egli ha, con sapiente e fedele sintesi, raccolto in poche linee il qual che si fosse programma giobertiano, dall’illustre autore del Primato sciorinato diffusamente e nei suoi discorsi parlamentari e nel suo Rinnovamento.
- ↑ N. Bianchi, Storia della diplomazia, ecc., cit., vol. VI, cap. I, pag. 33 e 34; il quale autore cita in appoggio delle sue parole accusatrici del Rossi il dispaccio del Bargagli del 20 ottobre al ministro degli esteri a Firenze, e quello confidenziale del Pareto del 28 ottobre al ministro degli esteri a Torino.
- ↑ A. Oriani, La lotta politica in Italia, Torino-Roma, L. Roux e C., 1892, lib. V, cap. III, pag. 451.
- ↑ Dal punto di vista papalino sta benissino l’iscrizione dettata da Salvatore Betti nel piccolo monumento eretto al Rossi nella chiesa di S. Lorenzo e Damaso: «Causam optimam mihi tuendam assumpsi», ma, dal punto di vista storico e nazionale, occorrerebbe cambiare e dire: «Causam pessumam mihi tuendam assumpsi». E allora avrebbe senso il Miserebitur Deus che, nella iscrizione del Betti, sussegue. Di fatti, se la causa, per cui morì Pellegrino Rossi, al cospetto di Dio fosse stata ottima, Dio non doveva perdonarlo pietoso, ma, nella sua infinita giustizia, premiarlo del suo martirio; mentre, se, per erroneo giudizio, in buona fede, Pellegrino Rossi aveva sostenuta, fino al sacrifizio della vita, una causa cattiva, allora sì che occorreva la misericordia di Dio, la quale, riguardando alle ottime intenzioni, non agli errati apprezzamenti del Rossi, l’anima di lui accogliesse sotto la candida ala del suo perdono: e, quindi, allora stava bene Miserebitur Deus: Iddio avrà pietà di me.
E ciò sia detto «non per odio d’altrui, nè per disprezzo», ma per la verità, la quale è una sola... anche in latino.