Osservazioni sullo stato attuale dell'Italia e sul suo avvenire/Capitolo II
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CAPITOLO SECONDO
INFLUENZA DEL PASSATO
Pressochè tutti gli Stati, e tutte le nazioni europee camminarono sopra linee parallele, e durante un numero quasi identico di secoli, dalla barbarie cioè dei bassi tempi alla odierna civiltà. — Alcune camminarono con più celere passo di altre, aiutate o dalla propria loro indole, o da circostanze favorevoli, alcune rimasero e tuttora rimangono qualche poco addietro: ma tutte hanno la faccia volta verso la stessa meta; tutte incontrarono ostacoli pressochè identici e della medesima natura, li combatterono con armi simili, e ne trionfarono in modo più o meno completo, a prezzo di maggiori o minori sacrifizi. Quelle nazioni o quelli Stati, che ancora non raggiunsero il punto in cui trovasi il più gran numero delle nazioni e degli stati di Europa, sono però assicurate di raggiungerlo esse pure in breve, seguendo i passi delle prime, cioè delle più celeri. Le tappe sono per così dire segnate dalla storia, che ne addita come i popoli si aggrupparono componendo gli Stati, e tendendo per prima cosa ad ingrandirsi a dispendio dei vicini; i piccoli gruppi, essendo come stati assorbiti e trangugiati dai maggiori, scomparvero dalla scena, e come i capi delle nazioni deposero di quando in quando la spada per assestare i loro possessi ed afforzare la loro autorità. Tutti ebbero a combattere il medesimo avversario, il feudalismo. — Quei potenti baroni dell’età media, che avevano aiutato uno dei loro ad accumulare armati e ricchezze sufficienti per mantenersi al di sopra delle altre picciole nazioni, o per incorporarsele, diventarono ben presto rivali del capo da essi scelto e creato. — Allora cominciò la interna lotta delle monarchie contro i feudatarii, lotta lunghissima e tremenda, nella quale le monarchie trionfarono mediante l’abuso della forza unita alla perfidia e alla crudeltà, e di cui, se non tutte, buon numero almeno delle Case regnanti di Europa, porta la pena, nella diffidenza e nella secreta avversione che la loro autorità, e qualche volta il solo nome di Re desta nei popoli che loro obbediscono.
L’Italia sola ha tenuto altre vie; l’Italia sola ha una storia tutta propria. — Mentre le altre nazioni europee, formate di elementi barbarici e di pochi avanzi degli antichi popoli soggetti dell’Impero Romano, muovevano i primi passi verso la civiltà, l’Italia, già signora del mondo allora conosciuto, decadeva e deperiva. — Culla di quel popolo straordinario, che si era fatto una civiltà anzi tempo e prematura, ma grande e bella, l’Italia fu sempre una eccezione nella storia. — Essa non ha mai nè dimenticata nè intieramente abbandonata la romana civiltà; anzi ne serba tuttora quei brani che non contrastano al cristianesimo e alle moderne nozioni del diritto e della morale.
Le arti e le scienze, che le nazioni barbare versate dal Nord e dall’Oriente sulla intera Europa ignoravano assolutamente, furono sempre onorate e coltivate dagli Italiani. — I popoli della nostra penisola non caddero mai in quel profondo abisso d’ignoranza e di servitù necessario alla formazione di un potere assoluto ed iniquo nell’esercizio suo, ma che solo poteva farsi rispettare ed obbedire dalle orde germaniche, elemento predominante delle moderne nazioni. — Agli Italiani mancò la barbarie e le sue sfrenatezze, ma loro fecero difetto altresì la cieca obbedienza a capi avveduti ed ambiziosi, la brutale energia degli odi e della rapacità, la ignoranza dei propri diritti, tutte quelle passioni e quei vizi insomma che la Provvidenza volgeva ad uno scopo benefico, e di cui oggi vediamo e conosciamo i definitivi risultati.
Mentre le nazioni europee si sdegnavano e spogliavano di tutto ciò che non era virtù guerriera, e guerriere come erano divenute, tremavano sotto il giogo dei loro capi, più esperti, più accorti, più crudeli e snaturati delle nazioni stesse; gli Italiani, superbi della loro civiltà e della loro supremazia intellettuale e civile, guardavano ai barbari con disprezzo, e credevano annichilarli con beffe e motteggi.
Più tardi, quando impararono a temerli, impararono altresì a volgerli ai loro fini; e il sentimento nazionale, ai nostri dì sì possente, non essendo ancora svegliato, accadde che gli abitanti di una città italiana invocarono le armi dei nuovi popoli europei, per castigare un’altra delle città italiane, o per trarne vendetta, o per ridurla a non potersi sostenere da sè. — Quella civiltà così generalmente sparsa ed egualmente ripartita in tutta la nostra penisola, e in tutte le classi de’ suoi abitanti, si oppose sino da quei primi tempi all’ingrandimento di una parte di esse a prezzo della indipendenza delle altre parti; ed appena un cittadino predominava nella città sua e minacciava le città rivali, queste si riunivano per debellare l’ambizioso; e se a ciò non bastavano da sole, chiamavano le nazioni guerriere dal di là delle Alpi, adescandole con promesse di ricca paga o speranze di bottino e di accresciuto potere. — Il feudalismo stesso, che ebbe sulle prime una così gran parte nella formazione della nuova società politica dell’Europa, non potè svilupparsi in Italia fra quelle numerosissime città, che assorbivano ogni prosperità ed ogni operosità popolare, e riducevano ad inferiori condizioni i comuni rurali, vera e natural sede del potere feudale.
Le campagne italiane ebbero sempre poca parte nella vita politica, e quei signori stessi che dominarono in alcune città, e che corrispondono fra noi ai feudatari del Nord, erano cittadini, vivevano nelle città, dovevano assicurarsi il favore de’ loro concittadini; e se fallivano in ciò, erano quasi sempre rovesciati e distrutti, i loro beni confiscati, e le loro famiglie e i loro aderenti mandati in esilio.
Dalla dissoluzione dell’Impero d’Occidente sino ai giorni nostri l’Italia tenne sempre le stesse vie, e non ebbe mai pace. — I suoi popoli vissero costantemente stimolati ed accecati da passioni cupide o ambiziose, rivaleggiando fra di essi, e vendendo la propria indipendenza a chi distruggeva quella dei loro vicini. — L’Italia possedeva ricchezze, energia, operosità, intelligenza, genio per le arti e le scienze, monumenti, biblioteche, cognizioni, tesori insomma, quanto e forse più che il rimanente dell’Europa presa in massa a quei tempi. — Ciò di che difettava l’Italia, non era solo l’elemento di barbara vigoria, ma lo spazio. — Gli Stati, che in essa si formavano, non potevano svilupparsi ed estendersi a seconda dei loro bisogni; perchè a poche miglia del centro loro incontravano altri Stati, altre popolazioni egualmente ambiziose, egualmente operose ed intelligenti, spinte dalle stesse passioni e dagli stessi interessi, che disponevano dei mezzi medesimi, contro le quali si accendevano d’ira. — Tali infausti e ripetuti o, per dir meglio, perenni scontri e contatti, erano la cosa più opposta alla formazione e allo sviluppo di quel naturale istinto di nazionalità, che sì di buon’ora animò e fra di esse strinse le popolazioni provenienti da un tronco comune, ricoverate sotto il medesimo capo; e sebbene non distruggessero quell’altro sentimento ch’è l’amor di patria, e che si compone di tanti diversi elementi, lo falsavano, e lo diminuivano, riducendolo a ciò che ora chiamasi patriotismo di campanile, o municipalismo.
Queste disgraziate tendenze furono da noi seguite sino al principio del presente secolo. — Il popolo italiano, dotato d’intelligenza così pronta e così estesa, attraversò l’età di mezzo e l’era moderna, senza comprendere ciò che accadeva in ogni dove, e senza scoprire il motivo delle proprie sventure. — Maestro della intiera Europa in tutto ciò che si riferisce alle arti ed alle scienze, esso era rimasto ingolfato nella più profonda ignoranza di tutto ciò che compone la scienza politica. — Il carattere italiano aveva subito poche modificazioni. — In esso si ritrovava tuttora, nei primi anni del secolo decimottavo, quella pigrizia effeminata ch’è propria delle classi privilegiate, e di quelle nazioni che si sono innalzate al dominio delle altre, non colla sola violenza, ma con l’aiuto di una superiore civiltà.
I mirabili fatti dei Romani e del Romano Impero non erano da noi dimenticati, e li opponevamo con alterigia ai fatti moderni delle altre nazioni. — L’orgoglio umano è sempre destro nell’accomodarsi agli istinti ed alle circostanze di chi lo nutre e ad esso si appoggia. — Avvezzi da tanti secoli ad affidare alle altre nazioni tutta quella parte dei nostri interessi che richiedeva energia guerriera e materiale operosità, avevamo serbato il vecchio abito di considerare i fasti militari e la forza materiale come cose troppo basse e grossolane per noi, ed andavamo illudendoci col supporre che gli armati, da noi chiamati a vincere i nostri nemici, fossero tuttora le squadre mercenarie dei condottieri che ne servivano mediante rimunerazione pecuniaria, e di cui disponevamo a nostro capriccio, e secondo ne dettava la nostra avvedutezza e il nostro superiore ingegno. Gli effetti di una troppo prolungata civiltà pesavano sopra di noi. La giovine vigoria delle nazioni germaniche non ci aveva rinnovata la tempra qualche poco sdruscita. — Verso il finire dello scorso secolo, la coltura italiana abbondava nelle classi superiori della società, ma la qualità di essa non ne eguagliava la quantità.
Le arti e le lettere non brillavano nè per originalità, nè per profondità o gravità. Si credeva supplire a questi esausti pregi coll’imitazione degli stranieri, e con puerilità. — La fede religiosa aveva subito molti assalti, e non li aveva sostenuti degnamente, almeno fra la gente colta. — Ma la superstizione popolare nulla aveva deposto della sua intrinseca fierezza, nè della proverbiale sua cecità. — Insomma gli effetti di tanti secoli, vissuti senza che gli Italiani si proponessero un oggetto degno dell’operosità e dei sacrifizi di una nazione, cominciavano ad essere sentiti dagli Italiani stessi, che si erano insensibilmente ridotti ad occupare una situazione inferiore fra le nazioni dell’Europa, e questa situazione andava sempre più declinando. — Il legame che stringeva assieme gli abitanti di uno Stato e li costituiva in nazioni non era mai stato stretto da noi. — I Veneziani vedevano nei Genovesi i loro più fieri nemici e i loro più in tollerabili rivali. — I Lombardi temevano la rapacità dei Savoiardi e Piemontesi; ed il famoso detto dell’articiocco li spingeva a cercare ora nel Tedesco ed ora nel Francese un difensore contro il temuto conquistatore. — La piccola Toscana, lungamente spezzata in tanti Stati quante erano le sue città, non aveva cominciato a fondersi in uno Stato solo se non dopo l’installazione di un arciduca austriaco come suo sovrano. — Il papa aveva in ogni tempo dato agli Italiani il letale esempio di chiamare lo straniero a sostenere le sue pretensioni e a difenderlo dai signori romagnuoli. — Il regno di Napoli, invaso dai Normanni e dagli Angiovini, non aveva mai conosciuto indipendenze, e non sapeva ancora di far parte d’Italia. — La Sicilia, greca sulle prime poi saracena, aveva avuto una monarchia normanna separata dalla napoletana, ed adottava le memorie di quell’epoca come monumenti della propria indipendenza, ribellandosi costantemente contro la nuova Corte borbonica che imperava a Napoli. — Le abitudini e le virtù guerriere non erano mai state nè onorate nè seguite in Italia; e a poco a poco la molle influenza del nostro clima aggiungendosi alla effeminatezza che naturalmente risulta dal viver sempre negli agi, negli ozii, nel lusso, e lunge da ogni pericolo, la società italiana era diventata oggetto di sarcasmi e di motteggi per gli stranieri, e per quei pochi virili ingegni che di quando in quando sorgevano ancora fra noi. — Le gare letterarie e gli intrighi domestici, che sono i frutti della scostumatezza e della immoralità, simulavano tuttora in noi come un fantasma di energia, e davano alcune scintille di passione. Ma l’osservatore avveduto, che avesse percorso l’Italia nella seconda metà del secolo decimottavo, per conoscere il carattere de’ suoi abitanti e prevederne le future sorti, ne avrebbe fatto i più sinistri pronostici. — La società italiana sembrava giunta all’ultimo stadio della decrepitezza; e si poteva crederla destinata a presto scomparire dalla scena delle moderne società, abbandonando il ferace suolo e i tesori dei monumenti e delle memorie storiche, accumulati da tanti secoli, alle nazioni conquistatrici e vigorose che la circondavano. — Il nome d’italiano sarebbe diventato pei posteri ciò che sono per noi i nomi dei Celti, degli Etruschi, degli Armeni, e di tanti popoli un dì forti e civili, ma che non seppero rinnovarsi e rattemprarsi, accettando le nuove circostanze che richiedevano nuove doti e nuove facoltà.
A tal punto trovavasi l’Italia quando le prime idee di libertà civile e politica spuntarono in Europa. Gli abusi del potere assoluto, e gli eccessi delle aristocrazie, che persistevano a trattare i cittadini ed i villici come i feudatarii dell’età media avevano trattato i servi della gleba, vantando impudentemente gli stessi diritti e la stessa superiorità di natura, avevano, col lungo andare del tempo e il costante ripetere delle offese, acceso nel cuore delle classi oppresse un profondo ed indomabile sdegno. — I cittadini ed i popoli delle campagne non possedevano diritti confessati e riconosciuti nè dalla legge nè dall’aristocrazia. — La coltura di alcune arti ed industrie avevano sparso nei cittadini un certo grado di civiltà, che più non tollerava un trattamento adattato soltanto alle nature brutali ed incolte degli antichi servi. La riforma religiosa, già da qualche tempo vittoriosa in Germania, in Inghilterra e nella Svizzera, aveva combattuto e trionfato della ignoranza dei popolani, e sosteneva la santità dei loro diritti, promettendo ad essi una completa vittoria sui loro tiranni. — In Francia, la terra delle novità, la riforma religiosa non aveva goduto che di un momentaneo favore, e la mano pesante, spietata e mal destra di Luigi XIV aveva schiacciato i novatori, e condannate le loro dottrine. — Questo re, che fu chiamato grande perchè il suo regno durò lungamente, credeva di acquistare la divina indulgenza alla sua scostumatezza, vendicando il Signore delle pretese offese che gli facevano i riformisti, e costringendoli, coi supplizi e le torture, a fingere delle credenze che ad essi ripugnavano. — Ma quando la luce ha penetrato nelle menti umane, non v’ha nè forza nè violenza che valga a spegnerla. — La Francia sembrava tranquilla e sommessa; ma quella non fu che una breve tregua, e la resistenza, che si credeva soffocata per sempre, ricomparve a suo tempo e fu invincibile.
I governi della Germania non erano molto avversi alle nuove dottrine, per le quali speravano trovare nelle moltitudini un elemento di difesa contro i discendenti e gli eredi dei feudatarii e della loro autorità. — Giuseppe secondo e Leopoldo, furono certamente i più liberali fra gli uomini che sedettero sopra di un trono. — L’Italia ricevette regolarmente da essi le prime nozioni della civile libertà, e dei comuni diritti; e li ricevette come vanno ricevute le idee perchè producano i loro salutari e legittimi effetti, cioè senza il miscuglio di violenti e brutali passioni, senza lo sprone della vendetta, dell’ira e della crudeltà, che spingevano quasi in pari tempo i popoli della Francia ad adottare, o realizzare ed esagerare quelle nuove dottrine. — E credo sia stata nostra somma ventura che le idee, dette poi rivoluzionarie, ne giungessero per quella regolare e pacifica via; poichè non so se la sempre crescente dissolutezza dei costumi, lo scetticismo dei culti e la superstizione degli ignoranti, se la smunta e paralizzata energia, che andava vieppiù spegnendosi negli animi nostri, ne avrebbero concesso di conquistarle, come fecero i Francesi, e se, supposta pure tale nostra conquista, non saremmo divenuti preda di una breve frenesia di libertà, che ne avrebbe lasciato, dopo il febbrile suo eccitamento, più prostrati ed impotenti di prima. Che che ne sia, la Provvidenza volle risparmiarci questo pericolo. Quando l’eco della rivoluzione francese, e delle dottrine che ne decisero lo scoppio, ebbe varcato le Alpi, esse non portarono a noi, sudditi di Giuseppe primo, di Leopoldo e di Carlo Borbone, gran che di nuovo nè d’ignoto. — La parità delle nature e dei diritti, i doveri dei sovrani verso i popoli, la santità e la inviolabilità della legge, quando accettata e non imposta, la libertà religiosa e l’assurda tirannide di chi pretende comandare alle coscienze, i nuovi e svariati sistemi di pubblica economia e di finanze, tutte queste dottrine e gli innumerevoli loro corollarii, che piombarono come irresistibili proiettili sulla società europea, schiacciando e scompigliando e riducendo al nulla le antiche massime, le viete leggi e le guaste credenze, eransi gradatamente introdotte in Italia, ed avevano passo passo educato le classi colte. Il popolo poco vi badava, e rimaneva all’incirca quale era stato per l’addietro; ma la maggior parte di esso abitando le città, e le popolazioni della campagna essendo sempre rimaste al di fuori dei moti politici, nessuno si opponeva, e nessuno abbracciava impetuosamente le dottrine del secolo decimottavo.
Le passioni rivoluzionarie, che mettevano tutto a soqquadro in Francia, trassero su quel paese l’ira dei sovrani d’Europa, che consentivano bensì ad illuminare lentamente le classi più elevate dei sudditi loro, dalle quali non temevano eccessi rovinosi pel loro potere, ma che temevano il contagio della ribellione per le classi inferiori sempre inclinate alla violenza. — Le potenze del nord, del mezzodì e dell’oriente di Europa si allearono contro il popolo regicida, che dava agli altri popoli così terribili e così seducenti esempi; ed allora incominciò la importazione delle dottrine rivoluzionarie in tutta l’Europa, mediante le armi francesi. — Stretti e minacciati da ogni banda i Francesi, che tutto stavano distruggendo della loro secolare società, furono repentemente chiamati alla difesa del loro suolo, minacciato di pronta invasione da forze infinitamente superiori alle loro, da nemici collegati con tutte le vittime della rivoluzione dell’89. A quella notizia, a quell’appello alle armi, raddoppiarono le crudeltà contro i cittadini sospetti di non applaudire alla rivoluzione, e giunse al colmo il regno del così detto terrorismo. — Ma al tempo stesso, ed in pochi giorni, corsero sotto le armi moltitudini di ogni età e di ogni classe, risolute d’impedire ad ogni costo che la patria loro diventasse ciò che era divenuta l’Italia, preda dello straniero ed appannaggio di principi stranieri. — Il popolo francese era a quell’epoca in tale eccitamento di spirito e di passione, da tentare ed eseguire prodigi. — Legioni di cittadini mal vestiti ed in parte scalzi, quasi senza paga, perchè le finanze della rivoluzione francese erano per così dire rovinate, marciavano piene di entusiasmo e di ardore verso il confine, ne cacciavano i nemici, sbaragliavano e distruggevano interi eserciti di Austriaci, di Prussiani, di Inglesi, di Spagnuoli, ecc. e li inseguivano furibondi nei loro Stati. I soldati della repubblica francese erano consci di due missioni: vincere le armate della coalizione, assicurando con ciò la indipendenza, che è quanto dire la esistenza della patria loro; e chiamare alla riscossa colla sola loro presenza, colle loro parole e coll’esempio loro i popoli tuttora servi ed acciecati, che riempivano e componevano le schiere nemiche. — Tale duplice missione i Francesi la compirono, se non intieramente, in gran parte almeno. — I combattimenti si succedettero per molti anni, e le armi francesi trionfarono da per tutto e costantemente. — E sembrò propriamente che la Provvidenza considerasse allora la Francia come suo strumento pe’ suoi fini futuri, poichè in quel momento appunto vi suscitò un giovane dell’isola di Corsica, che fu posto al comando di un esercito e che diventò in breve un colosso di gloria e di potenza. — Napoleone Bonaparte tornava dall’Egitto, dove avea conquistato i primi allori, e ne tornava al rimbombo delle prime vittorie delle truppe rivoluzionarie sull’Europa coalizzata; si tratteneva pochi giorni a Parigi, e quei pochi giorni gli bastavano per distruggere gli ultimi avanzi di un governo odiato e sprezzato dagli onesti cittadini, e a stabilire in sua vece un’autorità regolare che servisse ai bisogni della guerra e lasciasse respirare il paese; indi si partiva acclamato freneticamente dai popoli, ed andava ad incominciare contro l’Europa la sua meravigliosa epopea.
Durante il primo Impero francese, l’Italia fu conquistata e tolta alle potenze che ne avevano fatto una provincia loro; ma nessuno pensò, nè l’imperatore dei Francesi, nè l’Italia stessa, ch’essa potesse o volesse far altro che cangiar padrone un’altra volta, come già tante volte aveva fatto. — La parte più illuminata della nostra penisola oscillava da qualche tempo fra il dominio francese e l’austriaco, mentre il mezzodì seguiva tuttora le sorti della Spagna, cioè formava come l’appannaggio del principe ereditario della Casa borbonica seduto sul trono spagnuolo. — La rivoluzione francese non ebbe in Italia grandi effetti, e non vi produsse quella commozione che si vide in altre contrade. — Gli ingegni più svegliati, arditi, ed amanti di cose nuove ripetevano enfaticamente gli assiomi e le massime rivoluzionarie, ch’erano state messe in così terribile pratica dai Francesi; ma le accettavano come dottrine filosofiche o legali, e non con quella entusiastica e robusta fede con cui le avevano concepite, confessate ed insegnate i Francesi. — Gli ingegni elevati, colti e profondi avevano scoperte e formulate quelle stesse verità prima ancora che la Francia le proclamasse; ma le consideravano come superiori alla intelligenza dei popoli, e pericolose alla salute sociale. — Le idee rivoluzionarie insomma, che formavano in Francia la regola imprescrittibile del vivere di ognuno, degli atti quotidiani, e di ogni umano sentimento, erano pei liberali italiani idee giuste, vere, ma astratte. — Il Francese voleva praticarle tutte, sempre e ad ogni costo; gli Italiani le credevano impraticabili. Per gli Italiani (mi si perdoni il ripeterlo) la principale conseguenza della rivoluzione e dell’Impero francese era il cangiamento di dominio, la ritirata dell’Austria, e la occupazione francese; e questi fatti già si erano prodotti altre volte.
Quando ebbero luogo le prime vittorie dei Francesi in Italia, la repubblica non si era per anco trasformata in Impero, e i conquistatori vestivano tuttora la foggia e parlavano il linguaggio di liberatori. — I liberali italiani composero dunque il partito francese, e gli amici delle viete cose, quelli che oggi chiameremmo conservatori, si strinsero intorno all’austriaco vessillo. Tale divisione degli animi durò sino al 1814 e 15, non per altra cagione, se non perchè era nata sotto l’impressione delle massime rivoluzionarie, che proferivano i conquistatori dell’anno primo e secondo di questo secolo.
In breve però tacquero quelle massime: cessarono le dimostrazioni repubblicane; i nomi, gli abbigliamenti, e le mobiglie che i Francesi avevano raccolto nelle memorie greche, latine, fenicie, frigie, galliche, ecc. fecero nuovamente luogo a nomi ed oggetti che meglio convenivano ai costumi moderni. L’Italia non assistette se non al tramonto di quella rivoluzione, che sembrava dovere svellere dalle radici il vecchio universo per sostituirvi un altro universo da essa creato. Le cose condannate come vecchie a scomparire dalla superficie del nostro globo rientrarono in breve sulla scena sociale, e nei luoghi da esse anteriormente occupati. L’osservatore superficiale che fosse giunto dal 5 al 15 di questo secolo in Europa, e l’avesse percorsa senza conoscerne la recente storia, altro non avrebbe veduto ed inteso, se non che una nazione belligera e potente si provava a conquistare le altre nazioni tutte, e sembrava vicina a raggiungerne l’intento. — Non avrebbe esso certamente sognato che quella nazione conquistatrice aveva giurato poc’anzi di distruggere il culto, la nobiltà, l’eredità delle ricchezze, la ineguaglianza delle condizioni sociali, la guerra stessa, e proclamata la legge agraria, e versata a torrenti il proprio sangue per raggiungere quell’intento.
Egli è fuor di dubbio che nè la Francia dell’impero, nè i paesi da essa conquistati e ad essa incorporati, nulla godevano di quella libertà, che pochi anni innanzi i Francesi tenevano come altrettanto necessaria alla loro esistenza, quanto lo era l’aria che respiravano. — I trionfi delle armi loro li distraevano dalle perdite fatte, ed erano il loro solo compenso. — Gli Italiani poi, che non avevano partecipato alla febbre rivoluzionaria dei Francesi, nè divise le loro infinite speranze, non erano caduti dalla medesima altezza. Quando erano diventati Francesi, essi avevano inteso soltanto che più non erano Austriaci, e non avevano prestata molta fede alle promesse di libertà illimitata che ad essi portavano i conquistatori. — Perciò accettavano il potere imperiale francese a un dipresso come avevano accettato l’austriaco. — I novatori o liberali e i conservatori non erano però più così precisamente ripartiti fra la Francia e l’Austria, come lo erano stati al primo apparire dei tre colori francesi. Partigiani dei Francesi erano quelli che amavano le novità, gli ambiziosi di titoli, di autorità e di fama, le imaginazioni fervide, che inclinano al lusso, allo sfarzo e a tutto ciò che abbaglia il volgo; gli amatori di conversazioni, di piaceri e di eleganze, fra i quali si possono noverare un gran numero di giovani e colte donne; gli animi guerrieri e le menti affette di scetticismo che vedevano con dolore la superstizione popolare e la suprema influenza posseduta da un clero ignorante e scostumato; infine tutti coloro che amavano veramente lo studio e le scienze, e che rifuggivano al tutto da quello spirito di aristocrazia austriaca, il quale non tiene in alcun conto il valore morale ed intellettuale dell’uomo, e non gli permette di contendere coll’antichità della prosapia, nè di pretendere ai privilegi a quella concessi.
Erano Austriaci i timidi che vedevano nella plebe un serraglio di belve pronte a divorarli, per poco si allegerisse il giogo che su di essa pesava. Codesto giogo essendo assestato sul collo mediante il chiodo della ignoranza, quei paurosi abborrivano dalle nuove dottrine, che insegnavano essere la istruzione primaria un bene a cui tutti i popoli avevano un imprescrittibile diritto, ed il distribuirlo un sacrosanto dovere delle classi educate e colte; i superstiziosi, che attribuivano alle scienze ed ai scienziati la funesta azione di accendere l'ira divina, la quale poi non meno cieca a parer loro della collera umana, si riverserebbe per certo anche sugli innocenti, confondendoli tutti nella sodisfazione di una barbara vendetta. — Partigiani degli Austriaci altresì erano coloro che, ricolmi essendo di titoli e di onori, non sofferivano il pensiero di rinunziare ad essi, o di vederli ottenuti da chi non li aveva ricevuti nascendo. — Certa classe di ambiziosi, che adoravano il potere assoluto perchè ne avevano esercitata qualche frazione, o speravano di esercitarla un giorno. — Gli animi chiusi ad ogni dolcezza come ad ogni altezza di sentimenti, insensibili alle altrui sofferenze; duri, egoisti, intolleranti d’ogni verità, e principalmente di quelle che hanno per oggetto il sollievo e il lento perfezionamento delle plebi. — E per ultimo ai partigiani degli Austriaci ora annoverati si unirono a poco a poco tutti quelli ambiziosi della opposta parte, la cui ambizione non era stata sufficientemente accarezzata e soddisfatta.
Questi furono in gran numero. Ad essi si strinsero pure tutti i malcontenti del governo francese. I parenti di tante vittime che avevano versato il sangue loro per gonfiar maggiormente la insaziabile ambizione di un uomo. I cittadini smunti dalle ingenti e sempre crescenti tasse; gli artigiani respinti in una umiliante e rovinosa inferiorità dai rivali artigiani di Francia; i capi delle famiglie che attribuivano la rilasciatezza dei costumi della giovane generazione al cattivo esempio e alla comoda moralità dei Francesi.
Per dirla in breve tutti quei malcontenti che ogni governo, ogni regime produce inevitabilmente, per la semplicissima ragione che è impossibile contentar tutti, e che tutti vogliono e pretendono essere contentati. Questo accumularsi del malcontento italiano contro il governo francese, era un continuo rinforzo al partito austriaco. Al primo apparire dei Francesi, molti li avevano accolti con entusiasmo e favore, perchè la pesante monotonia del governo austriaco li aveva stancati. Ma tutti, o pressochè tutti coloro che non si erano accostati ai Francesi per altra più seria e più degna ragione, erano di nuovo arruolati fra i partigiani dell’Austria, e più non aspettavano se non un’occasione propizia per dichiararsi tali, e per ricondurre al di quà delle Alpi gli antichi padroni. Se io scrivessi la storia degli anni 1814 e 15, mostrerei quali e quante misere passioni, quanti stolidi interessi, e quanti bassi intrighi contribuirono a procurarci quell’ultima rovina. La guerra di Russia portò all’estremo il malcontento degli Italiani. E la infausta campagna, che terminò colla quasi intera disfatta delle armate francesi e con una leva in massa dell’Europa contro l’esausta Francia, offriva agli Italiani la sospirata occasione di rientrare sotto il dominio austriaco.
La situazione politica dell’Italia non era però esattamente la medesima di quelle tante altre volte, in cui l’Italia era passata da un dominio straniero ad un altro, durante i molti secoli scorsi dalla caduta dell’Impero di Occidente ai di nostri. — Le nuove dottrine inoculate nelle popolazioni dai principi della Casa d’Austria, e da Carlo di Borbone, non erano rimaste assolutamente sterili ed inoperose.
Molti ingegni studiosi, ed inclinati alle speculazioni astratte, le avevano ricevute come dottrine filosofiche, di cui cominciavano a travedere la possibile applicazione. — Nelle file del nostro esercito non pochi erano saliti a condizione elevata, e dubitavano che l’Austria li conservasse in quella. Tutti riconoscevano che le promesse di libertà, portate in Italia dalle legioni repubblicane francesi, non erano state mantenute: ma le promesse medesime, fatte al popolo francese dal successore del governo repubblicano, avevano avuto la stessa sorte; e di ciò tanto gli Italiani quanto i Francesi davano la colpa alla smisurata ambizione dell’imperatore Napoleone. — Nacque da tale convinzione l’episodio dei cento giorni in Francia, e in Italia diversi tentativi per sottrarsi alla tirannide imperiale, mediante la conquista di alcune istituzioni liberali, e senza ricadere sotto la tirannide austriaca. — Si voleva ringiovanire e vivificare il governo napoleonico e quello dei suoi congiunti in Italia coll’introdurvi l’elemento animatore della libertà. — Questo desiderio, da pochi diviso perchè da pochi inteso, diede origine alle imprese di Gioachino Murat, e del vicerè Eugenio Beauharnais, siccome aveva dato origine in Francia alle esigenze liberali di Beniamino Cousbaut, Lafayette ed altri, che si sforzarono di conservare Napoleone togliendogli la illimitata autorità, mentre in Italia cercavasi di mantenere i luogotenenti dell’Imperatore, ma separandoli da lui e ponendoli alla testa di un governo costituzionale, altrettanto nuovo o sconosciuto ai proposti principi, quanto ai sudditi loro. — Ma nessuno, tranne l’imperatore stesso, intendeva che il regime imperiale era una cosa sola colla persona dell’Imperatore, e che togliendogli l’assoluto potere il Napoleone degli anni trascorsi più non esisteva. — Non si sapeva neppure quanto fossero piccoli i luogotenenti imperiali, e che a nulla potrebbero giovare quando diventassero dall’Imperatore indipendenti. — Ciò apparve troppo chiaramente dopo la battaglia di Waterloo, in cui Napoleone, spogliato di ogni assoluta autorità, si trovò per la prima volta diffidare di sè stesso e de’ suoi, e fu vinto dall’Europa coalizzata a vendetta.
In quel mentre l’Italia ricadeva sotto l’antico giogo. Ma qui pure debbo notare una circostanza che non si era manifestata in altre simili situazioni. Gli Austriaci avevano ripetute le promesse di libertà fatte dai Francesi agli Italiani nei primi anni di questo secolo. — Le libertà promesse nel 14 e nel 15 dagli Austriaci non erano le libertà rivoluzionarie dei Francesi, ma erano tuttavia libertà, libertà moderate, e perciò appunto dovevano essere più salutari e più durevoli. — Ebbimo promessa di un governo separato, e fino ad un certo punto indipendente da quello di Vienna: la Lombardia e la Venezia non sarebbero più provincie dell’impero austriaco, ma un regno (il regno Lombardo-Veneto) annesso all’Impero. — Le nostre imposte dovevano essere misurate secondo i bisogni del regno e non secondo quelli dell’Impero. Il nostro esercito difenderebbe i nostri confini, e manterrebbe l’ordine e la tranquillità interna.
Queste promesse fatte dalla Casa di Absburgo ai deputati dell’alta Italia, ch’eransi recati tanto a Vienna quanto a Parigi al tempo dei celebri congressi radunati per dare un conveniente assetto alle cose di Europa, furono proclamate in Italia dai partigiani del dominio austriaco, non già come parole e lusinghe che potevano essere realizzate e potevano altresì non esserlo, ma come benefizi già ricevuti, sicuri, impossibili a distruggersi, che stabilivano sopra salde basi quella libertà vanamente promessa dai Francesi. — Nulla si farebbe nell’alta Italia senza il consenso degli Italiani, e gli Italiani esausti di ricchezze e di sangue, che facilmente si stancano di ogni giogo, e che non conoscevano ancora altra forma di reggimento se non il giogo, accettavano volonterosi un giogo nuovo, purchè fosse loro levato il vecchio, di cui sentivano il peso e le ammaccature.
Nel rimanente d’Italia, i principi ch’erano stati cacciati dai Francesi mandavano le stesse promesse, ed ottenevano il medesimo facile successo. — In breve tutto fu combinato; e l’anno 1815, che vedeva Napoleone a sant’Elena, lasciava l’Italia nella identica condizione politica in cui trovavasi prima delle invasioni francesi. La Casa di Savoja, signora assoluta del Piemonte, del Genovesato, e dell’isola di Sardegna, il cui nome diventava quello dell’intero regno. — La Lombardia e la Venezia sotto il diretto dominio dell’imperator d’Austria, che vi teneva un arciduca col titolo di vicerè. Parma e Piacenza composte a ducato, per dare una corona alla figlia dell’imperatore d’Austria, che aveva tradito il marito quando lo tradirono la fortuna e gli alleati. — Modena e Reggio formarono un altro ducato, che fu presentato in dono ad un arciduca del ramo d’Este. — La Toscana rientrò sotto il comando de’ suoi antichi padroni, anch’essi austriaci. — Roma cessava di essere un dipartimento francese, e si ritrovava nuovamente l’ovile del sacerdote re, del successore di s. Pietro, e di tanti sovrani che nulla avevano avuto di santo. — Napoli dopo di avere barbaramente ucciso il re napoleonico, che tentava difendere il suo trono contro i Borboni, aveva tese le insanguinate sue mani alla real coppia di Ferdinando e Carolina; coppia degnissima in vero di quel lurido omaggio. — L’Italia era ridiscesa nel sepolcro. Fra tutte le promesse fatte agli Italiani dai loro antichi padroni, non una fu mantenuta. — Non so se gl’ingannati partigiani dell’Austria reclamarono e protestarono; ma suppongo il facessero sulle prime, poichè non andò guari che diventarono sospetti ed odiosi a quei principi ch’essi avevano riposti in seggio. — Dopo pochi mesi di assoluto dominio dall’una parte, e di simulata e cupa obbedienza dall’altra, ricominciarono i così detti liberali, ossia i malcontenti del francese dominio, a tramar congiure contro gli Austriaci. — Le prime congiure ebbero per autori alcuni soldati e generali del disciolto esercito italiano, che non potevano tollerare la vista dei reggimenti austriaci (da essi posti tante volte in fuga,) e si vedevano delusi nella speranza di comandare di nuovo a truppe italiane. — Queste più non esistevano, nè si vedeva nell’alta Italia altro uniforme che il bianco. — I generali Lecchi, Demeester ed altri furono scoperti, ed espiarono nelle carceri di Mantova il fallo di avere prestato fede alle parole della Casa di Asburgo. — E da quel punto in poi, la storia d’Italia non ebbe più da raccogliere altri fatti che congiure e supplizi.
La libertà civile e politica è tal bene, che basta averlo traveduto nell’avvenire o sperato soltanto, perchè non sia possibile il dimenticarlo e il rinunziarvi. — Di quella libertà gli Italiani non avevano provato che la speranza; il solo parlarne era stato loro qualche volta concesso; e perciò quando i regnanti austriaci e i borbonici ne proscrissero il magico nome, e si mostrarono gli incurabili despoti che erano, sono e saranno mai sempre, gli Italiani sentirono forse per la prima volta l’intollerabile peso delle catene, le maledirono, e si trovarono pronti ai più fieri sacrifici, purchè fosse loro dato di spezzarle.
Un pensiero balenò allora nella mente di quelli Italiani ch’erano stati traditi dall’Austria e dalle proprie loro passioni. La Casa di Savoia nulla aveva di comune nè coll’Austria, nè coi Borboni. — I tre fratelli che si succedettero rapidamente sul trono sardo non avevano prole maschile, ed il presuntivo loro erede era un giovane principe del ramo di Carignano, cresciuto lungi dalle Corti, educato in Francia come un semplice cittadino ed in mezzo ai figli dei cittadini, colto, di mente elevata, ed imbevuto delle moderne dottrine civili e politiche. — Se gli Italiani liberali di quell’epoca fossero stati meno impazienti, avrebbero aspettato per accostarsi a lui e spingerlo ad alte imprese, che il corso naturale degli avvenimenti lo avesse portato sul trono di Savoja. — Ma i cospiratori credono sempre che il tempo sia loro nemico, che il momento in cui cospirano sia il solo propizio alla realizzazione dei loro progetti, e che chi non opera presto, non opera bene. — Coloro che avevano prestato fede alle menzogne dell’Austria, e che mal celavano l’ira da cui si sentivano divorati contro i menzogneri, fissarono l’anno ventesimo primo di questo secolo per poca del nostro risorgimento e della loro vendetta. — Napoli, ch’era stata tradita non meno di noi, aveva aderito al loro divisamento, e promesso d’insorgere un dato giorno. — Il principe di Carignano esitava. — I suoi principii politici erano saldi e retti; ma la condizione sua era dilicata di troppo, e il suo carattere irresoluto.
I suoi migliori amici, gli uomini per ogni conto più considerevoli del Piemonte, l’illustre Santa Rosa, il principe della Cisterna, il marchese di S. Marsano, ed altri molti, insistevano perchè egli si dichiarasse apertamente il protettore delle libertà italiane; e incapace di resistere a tali istanze ed al suo proprio cuore, il principe di Carignano si arrendeva, e valendosi dell’assenza del re suo zio che avevagli affidato in parte il potere governativo, diede il segnale della insurrezione, e concesse agli insorti una costituzione; vale a dire promise loro che l’avrebbero. — Io non iscrivo la storia delle nostre congiure e delle nostre rivoluzioni dal 14 sino al 59. Faccio solo un cenno di questa, perchè fu il primo accordo stretto fra i liberali italiani, e la Casa di Savoja, e perchè dal 1821 in poi tutti gli Italiani che si sforzarono di dare al nostro paese la libertà e la vita si volsero con maggiore o minore insistenza, con maggiore o minor fiducia e successo ai rappresentanti di quella antica e reale stirpe.
La rivoluzione del 21 fu vinta come tutte le altre, perchè erano frutto di congiure, e perchè le congiure che debbono per natura essere limitate fra pochi individui, non hanno il carattere che le rivoluzioni debbono avere per trionfare; cioè la pubblicità e la universalità. — Le congiure ebbero felice ventura quando i popoli e le passioni loro obbedivano al comando di pochi, ed erano disposti a servire le cause che non intendevano. — Ai nostri giorni i popoli non si interessano e non si muovono se non per idee che essi intendono e per cose che evidentemente li concernano. — Ma una lunga e crudele esperienza poteva solo convincere i cospiratori della verità di questa sentenza; e sino a tanto che tale convincimento non ebbe penetrato tutti gli animi, si volle imputare ad alcuno la colpa dell’infelice esito di ciascuna di esse. — La rivoluzione del 21 fallì, e la colpa ne fu data al principe di Carignano. — Forse difatto egli fu cagione ch’essa fallisse in quel giorno ed in quel modo. — Egli si era arreso alle istanze de’ suoi amici, ben sapendo che con ciò giuocava la sua corona e l’avvenire d’Italia, che egli si proponeva di liberare quando fosse assunto al potere. — Appena scoppiata la rivoluzione, chiaro gli apparve ch’essa sarebbe repressa. — Due vie gli erano aperte. — Persistere nella condannata impresa, e cadere, perdendo ogni speranza di succedere allo zio, e di redimere l’Italia col potere che da quello egli doveva ereditare; oppure ritirarsi prontamente, abbandonando gli amici e maneggiandosi in modo che lo zio rimanesse incerto s’egli era stato con cognizione di causa ribelle, o s’era stato invece vittima della naturale debolezza del suo carattere e dell’audacia dei liberali. — Quest’ultimo partito poteva mantenerlo nel posto ch’egli occupava e gli lasciava qualche speranza di succedere al trono de’ suoi avi; ed a questo egli si attenne, traendo sopra di sè medesimo la diffidenza universale, cioè la diffidenza dei conservatori, della Corte, dell’Austria, e dei liberali. — Carlo Felice non gli perdonò mai il suo contegno nel 21, e lo trattò da quel tempo in poi come un uomo ch’ei tollerava per ragioni sue proprie, ma pel quale non aveva nè affezione nè rispetto. — La sua avversione al nipote era così evidente, che nessuno ardiva mostrargli quella considerazione ch’è dovuta ad un principe ereditario. Sarebbe esso escluso dalla reale successione? Tutti ne dubitavano, e molti ne erano convinti. — Ma Carlo Felice era anch’esso della Casa di Savoja. — Avverso alle nuove dottrine, superstizioso, bigotto e ligio al Papa ed al clero cattolico, di cuor duro e vendicativo, quasi sempre sordo alle voci della pietà, Carlo Felice abborriva l’Austria, e il dominio di essa in Italia. — L’Austria non risparmiò nè lusinghe nè promesse per indurlo a diseredare il nepote, ed a far suo erede il duca di Modena; un arciduca austriaco.
Essa ottenne ancora, per quanto si è detto, che il Papa unisse le proprie istanze alle sue; ma quanto più si mostrava ansiosa di escludere il principe di Carignano dalla successione dello zio, tanto più questo rifuggiva dal pensiero di dare all’Austria quella soddisfazione. — La lotta non fu lunga, ma accanitissima. — Pochi anni dopo il tentativo infelice del 21, Carlo Felice fu colpito da morbo letale. — Prevedendo il prossimo suo fine, egli chiamava intorno al suo letto gli uomini più rispettati della sua Corte e del Piemonte, e loro dichiarava che il principe di Carignano doveva succedergli, e che tale era l’ultima, la irremovibile sua volontà. — Carlo Felice morendo, compì un atto che doveva col tempo mutare le sorti d’Italia.
Un nuovo elemento, che contribuir doveva al risorgimento d’Italia, comparve in quel tempo sulla scena politica di questa nazione. Verso la Casa di Savoja cominciavano a volgersi gli sguardi dei liberali delle classi elevate e colte, che anelavano alla libertà e alla indipendenza del loro paese, ma che non avrebbero voluto comperarla a prezzo del disordine, del pazzo furore, e delle miserie che oscurarono il primo splendore della rivoluzione francese dell’89 e del 93. — In Italia non erano a temersi gli eccessi di furor popolare che la sete di libertà aveva svegliato in Francia. — La nostra plebe era pressochè indifferente alle generose nozioni della libertà e del patriottismo, e le classi educate, che avevano assistito alle sanguinose scene della repubblica francese, non ardivano scuotere dal suo letargo il nostro popolo, e preferivano vederlo indifferente, piuttosto che feroce o frenetico. — Ma all’epoca nostra non si compiono grandi rivolgimenti politici senza il popolare concorso. — Sebbene indifferenti alle idee di libertà, di diritto, di dignità e di onor nazionale, le nostre plebi conoscevano i loro materiali bisogni, e non si abbandonavano ciecamente fiduciose a chi non si mostrava capace e volonteroso di soddisfarli. — Chi prometteva ad esse l’alleviamento delle imposte e della coscrizione, e l’allargamento delle vie di lucro, ne disponeva a piacer suo; e i liberali italiani nulla potevano operare senza involgere il paese in momentanee, ma gravi difficoltà.— Erano dunque, per così dire, certi di non trovar favore nelle plebi, e di accendere la guerra civile insorgendo contro gli ultramontani oppressori, che avrebbero trascinate nelle fila dei loro armati le infime classi delle popolazioni. — Non so come i liberali italiani di quel tempo avrebbero trionfato di tale ostacolo, se il nuovo elemento di cui feci testè cenno non fosse felicemente intervenuto.
Primo a scoprirlo ed a valersene fu un avvocato genovese chiamato Giuseppe Mazzini. — Chi gli insegnasse il linguaggio del popolo, nol so; ma certo si è ch’egli seppe farsi intendere dalle masse popolari, e svegliare in esse sentimenti e passioni ch’erano rimaste intorpidite sino a lui. — Egli cominciò col volgere le sue parole al solo popolo, come alla sola classe degna della libertà, e capace di energici sforzi per ottenerla, lusingando così le passioni popolari, sempre pronte ad accendersi contro tutti quelli che per ricchezze e per natali stanno in una sfera più elevata, e godono piaceri ad esso inaccessibili. — I suoi scritti, che il Mazzini seppe spargere fra le plebi, contenevano poche idee, ma chiare, ed espresse con enfasi e calore. — Lo stile n’era talvolta ampolloso e poetico, troppo poetico per essere pienamente inteso dai suoi lettori; ma vi è un linguaggio che anche imperfettamente inteso possiede direi quasi un magico potere, e si fa accettare da uditori già accesi di entusiasmo. — Codesto linguaggio è cosparso di parole, il cui suono basta a svegliare le appassionate simpatie del popolo; e questo linguaggio era quello di Mazzini. — Egli parlava al popolo ch’ei chiamava gli oppressi; sebbene a quel tempo le classi popolari fossero quelle appunto sulle quali pesava meno ruvidamente l’oppressione straniera. — Egli parlava altresì ai giovani, agli ambiziosi, accertandoli che mediante un solo atto di coraggio o di audacia potevano acquistar fama, autorità, ed emergere dalla folla agli onori ed al potere; condannava tutto il passato, e chi al passato apparteneva o il passato studiava. — Egli chiamava la prudenza viltà, la moderazione debolezza. — Il titolo di Re costituiva un tiranno, e la sola forma di governo che convenisse ad un popolo degno della libertà era la repubblica. — Le imposte erano un furto legale mediante il quale si empivano le tasche dei re e dei cortigiani, alle spese e colla rovina dei popoli. — I nobili erano altrettanti piccioli tiranni, servilmente divoti al Sovrano, ed erano oltrecciò ridicoli, ignoranti, boriosi, deboli di corpo e crudeli. — E così mischiando e confondendo quelle cose e quelli uomini che il popolo abborriva, con quelle altre cose e quelli altri uomini su di cui voleva egli rivolgere lo sdegno e l’avversione popolare, faceva un gran fascio di ogni cosa e buona e pessima purchè avesse le radici nel passato. — L’universo secondo il Mazzini di quel tempo aveva sempre camminato per empie vie, progredendo di iniquità in iniquità. — Nel 89 e nel 93 dello scorso secolo, la nazione francese erasi ribellata contro l’universo e lo aveva vinto, dando per la prima volta alla umana famiglia insegnamenti ed esempi salutari e conformi alla giustizia ed alla verità. — Seguire le orme dei rivoluzionarii francesi era d’ora in poi il solo dovere che avessero i popoli.
Mazzini al suo primo apparire cercava di farsi un alleato di Dio; ma il suo Dio era quello dei rivoluzionarii francesi, e non quello che adorano i popoli d’Italia; era un Dio senza culto, senza ministri, senza tempii, e quasi senza leggi. Tutto il rimanente era una stupida e perfida superstizione, gettata sui popoli per accecarli, e renderli obbedienti ad un clero che si era fatto il primo strumento della tirannide dei re. Mi si farà osservar forse che tali dottrine nulla hanno di pellegrino nè di squisito; e sottoscrivo pienamente a tale giudizio.
Mazzini però sapeva con chi parlava, e quale scopo egli si proponeva di raggiungere. Si è parlato molto di Giuseppe Mazzini, e di lui furono portati i più opposti ed esagerati giudizi. Fu portato alle stelle come il salvatore e il liberatore d’Italia; come lo scopritore o l’inventore di nuove dottrine politiche atte a produrre la rigenerazione italiana; come un’eroe capace e pronto a tutti i sagrifici di cui potesse abbisognare il suo paese; un uomo dotato di tale potenza di azione sovra i popoli, che la sola sua presenza, e una sola parola ch’egli ad essi volgesse dovea bastare a trasformarli, infondendo in essi il suo meraviglioso coraggio e la sua energica risoluzione.
Altri non videro in Giuseppe Mazzini che un fanatico ambizioso e di limitato ingegno. Dissero le sue dottrine politiche false e viete, e lo accusarono di lusingare i popoli per renderli a sè stesso ligi, e per farli docili e ciechi strumenti della sua ambizione. Alcuni arrivarono sino a pensare, se pure nol dissero, che qualora il popolo italiano s’imbevesse realmente delle idee mazziniane, e imprendesse di realizzarle, minor male sarebbe per le classi colte e civili stringersi intorno al dominatore straniero, piuttosto che lasciarsi trascinare da una furibonda plebe in tutte le follie sanguinose che la rivoluzione francese non seppe evitare.
A me non ispetta di pronunziare fra così variali giudizi. Credo che le intenzioni di Giuseppe Mazzini fossero pure e rette, principalmente in quei primi tempi di ciò ch’esso chiama il suo apostolato. E credo altresì che le sue dottrine altro non sieno che un’eco delle dottrine rivoluzionarie francesi, ridotte a semplice teoria, e spoglie di quella violenza che l’azione e la resistenza degli oppositori sono atte a generare. Ma con queste dottrine false e viete, ma con questo suo parlare enfatico, ampolloso ed intralciato, Giuseppe Mazzini riescì nel corso di pochissimi anni a trasformare il popolo italiano, e ad ispirargli l’odio del dominio straniero, e l’amore della libertà e della indipendenza e quello della patria. Non so se Mazzini avesse la scienza dell’opera sua; ma quest’opera fu da esso condotta al suo fine con mirabile rapidità ed ordinamento. Quelle popolazioni, che per tanti secoli non avevano avuto altro oggetto che di procurarsi i comodi della vita, nè altro furore, se non contro coloro ch’erano favoriti dalla sorte, abiurarono repentinamente gli odi antichi e le antiche aspirazioni, per confondersi tutte in un solo amore ed un solo odio: amor di patria ed abborrimento dello straniero dominatore.
Chi avesse visitata l’Italia negli anni che seguirono dal 40 al 48 avrebbe creduto di sognare. Quelle popolazioni, sepolte nella secolare ignoranza, che è il più prezioso strumento di qualsiasi tirannide, quelle popolazioni indifferenti a tutto ciò che non toccava direttamente i loro materiali e ristrettissimi bisogni o interessi, quelle popolazioni molli ed effeminate, amanti dei loro comodi, dei loro ozi, e dei loro personali piaceri o passioni, sorde ad ogni voce che tentasse ispirar loro l’amore di un bene non tangibile, quali sarebbero la libertà, l’indipendenza, la gloria; quelle popolazioni erano trasformate. Un non so che di fiero nobilitava quelle fisionomie pur sempre belle, ma per lo addietro troppo sensuali e piuttosto accorte che intelligenti.
Gli ozi e gli amori più non assorbivano tutti i desideri della gioventù. Le proscritte parole di patria e di libertà, erano sopra tutte le labbra, e si vedeva che ivi erano spinte dai cuori. L’ignoranza, quella piaga letale imposta dal dispotismo agli schiavi, e così poco conforme al naturale degli Italiani, l’ignoranza, non era stata nè combattuta nè vinta regolarmente e scolasticamente; ma alcune idee fondamentali e chiaramente espresse dai discepoli del Mazzini erano bastate a distruggerne i più perniciosi effetti e a mettere questa stessa ignoranza in sospetto di mala cosa. Quasi in tutte le provincie italiane, e da tutte le classi sociali, si sapeva oramai quali erano a un dipresso i confini naturali d’Italia, e quali i diritti ed i doveri di tutti coloro ch’erano nati fra codesti confini. Si sapeva che il mondo abitato si divide in nazioni; che i popoli componenti queste nazioni sono fra di loro stretti da comuni interessi, diritti e doveri; che la sventura d’Italia era stata la ignoranza di queste verità, e l’aver sempre scambiato l’amore del luogo natio per l’amore di patria, nutrendo come legittimi e doverosi sentimenti la gelosia e la rivalità fra Italiani di diverse provincie, e una rispettosa fiducia negli stranieri che opprimevano una parte qual si fosse d’Italia. — Si sapeva che la ignoranza di codesti fatti era stata imposta e rigorosamente mantenuta dallo straniero, onde impedire all’Italia di vivere la vita delle nazioni indipendenti, e frazionarla in diverse greggie di schiavi.— Si sapeva che a cangiare simile stato di cose erano mestieri sagrifizi numerossissimi di ogni genere, e si sapeva che il rimanere nella condizione presente, piuttosto che esporsi a maggiori sventure o sottoporsi a costosi sagrifizi era vergogna e disonore. — Si sapeva che il maggior bene a cui debba aspirare un popolo è l’onore; la maggiore sciagura che a lui sovrasta, la perdita di quello. — Tutto ciò si sapeva e si teneva religiosamente per vero; e tali nozioni avevano siffattamente accese le passioni popolari, che ogni altro eccitamento era diventato inefficace e vano. Il pensiero del poco conto in cui il carattere degli Italiani era tenuto all’estero, era come una sferza che lacerava costantemente i nostri cuori, e il bisogno di riscattare il nostro buon nome riscattando la nostra libertà, diveniva di giorno in giorno più imperioso, e non ne lasciava più posa.
Tutto ciò era stato operato da alcune parole di Giuseppe Mazzini; e quando l’Italia avrà veramente riconquistato il seggio cui ha diritto fra le grandi nazioni europee, i nostri posteri dovranno scrivere quel nome sopra tavole di marmo, e ricordarsi sempre di quanto a lui si deve.
Quelle nozioni erano accompagnate, come già dissi, da non poche idee esagerate o radicalmente false. — L’odio o il disprezzo per tutto ciò che altre volte era tenuto in grande onore, siccome la nobiltà, la religione, e la monarchia. — Nessun governo tranne il repubblicano poteva rispettare la libertà dei popoli, ed ogni re era naturalmente e necessariamente un tiranno. — A chi si provava di richiamare al vero questi fervorosi ed inesorabili repubblicani, si rispondeva con degli squarci di Alfieri o delle strofe di Berchet. — L’idea dominante sopra tutte le altre in quell’epoca era la necessità della espiazione ed il valore del sacrifizio, sicchè se uno spirito benefico fosse venuto ad offrirci in grazioso dono la libertà e la indipendenza, senza chiedere da noi altro concorso che la nostra accettazione, credo che avremmo respinto il dono, e certamente avremmo sentito rancore verso il donatore. — Volevamo la indipendenza e la libertà, ma volevamo più ancora mostrarcene degni.
Un’altra scuola di liberalismo italiano era sorta contemporaneamente a quella di Giuseppe Mazzini. I fondatori, e le dottrine di essa in nulla rassomigliavano nè a Mazzini, nè a’ suoi insegnamenti, se non se nel concetto fondamentale e generale di tutti, ch’era la liberazione d’Italia, la di lei concentrazione in un solo Stato, e la imprescrittibile legittimità de’ suoi diritti alla indipendenza e alla libertà. — La scuola di cui parlo non si volgeva al popolo, e non sarebbe stata da questo ascoltata nè intesa. — Era una scuola di filosofia applicata alla speciale condizione d’Italia ed al suo avvenire. — Nata in Piemonte, da piemontesi, dispiegava essa quella saggia moderazione, quel rispetto per le cose del passato, che non impedisce di sostituire ad esse le cose del presente e del futuro, che sono più conformi agli attuali bisogni, quella fermezza e quel patriottismo che distinsero per tanti anni il liberalismo piemontese da quello di quasi tutto il rimanente d’Italia. Capi di questa scuola erano Gioberti, Rosmini, Balbo, e molti altri di minor fama, ma forse di non minore ingegno e di non minore virtù.
Non so quali frutti avrebbe prodotto quella scuola, se fosse stata sola a scuotere gli Italiani dal loro letargo; ma contemporanea e per così dire parallela a quella di Mazzini, essa si trovò riempire un vuoto che il Mazzini non poteva colmare, e che al momento dell’azione non sarebbe stato trascurato senza gravi danni del paese. — La scuola filosofica liberale di cui parlo ebbe d’altronde per effetto di persuadere alla gente colta e prudente d’Italia, che la liberazione della patria non era un sogno di fanatici repubblicani, ai quali nulla si poteva togliere perchè nulla possedevano; bensì l’oggetto delle speranze, delle aspirazioni, degli sforzi di uomini che meritavano il titolo di maestri di color che sanno. — Così si riconciliava colle idee rivoluzionarie quella classe di Italiani che vi era stata sino allora invincibilmente avversa, ossia i timidi, che avevano sempre tenuto come impossibile il buon successo di una sollevazione popolare a mano armata contro l’esercito regolare e la tirrannide dell’Austria, e di amici quasi esclusivi dell’ordine e della pace.
Con ciò cessava l’ultimo ostacolo alla perfetta concordia e alla unanimità delle volontà italiane.
Così disposti ci avvicinavamo al 48. — Le nostre classi elevate non avevano piena conoscenza della trasformazione accaduta nelle classi inferiori, o per dir meglio ne ignoravano tutta la estensione e la importanza. — I più giovani rampolli delle nobili famiglie italiane erano in gran parte scritti nei ruoli della Giovane Italia; ma, siccome accader doveva, essi erano alieni da quelle esagerazioni che esercitano una irresistibile azione sulle immaginazioni non assistite da un’intelligenza coltivata. — Questi membri del nostro patriziato e della Giovane Italia ad un tempo erano come l’anello che univa quelle due frazioni dei liberali italiani. — Il loro concorso però non era dubbio in tutto ciò che i loro congiunti volessero intraprendere in favore della patria. — Da un capo all’altro della nostra penisola si sognava un sogno solo: l’indipendenza e la libertà.
Dal 31 al 48 si erano tentate molte insurrezioni, parziali e popolari, alle quali avevano cooperato varii dei giovani discendenti delle nostre più nobili famiglie. — Tutte queste insurrezioni, figlie di congiure ordite all’estero dai nostri profughi, il cui capo era sempre Giuseppe Mazzini, avevano avuto il più infelice successo, e il sangue dei nostri patrioti aveva cosperso tutti i patiboli d’Italia. — I primi rivi versati avevano accresciuto l’ira dei popoli contro i principi, e reso più che mai inaccessibile l’abisso che divideva questi da quelli. — Ma passo passo la disperata natura di quei tentativi apparve ai cospiratori ed agli insorgenti, e il buon senso degli Italiani insegnò loro che persistendo su quella via essi servivano le inique mire dei loro padroni, camminando ad una completa ed assoluta distruzione, che lascerebbe quelli nell’incontestato esercizio del loro odiato potere. — Era necessario trovare altri mezzi, altre vie, era necessario giungere allo scopo.
In quel frattempo i liberali che accostavano le Corti, si sforzavano di eccitare nel cuore dei principi una generosa ambizione, che trovasse alimento nell’operare o per lo meno nel contribuire al risorgimento ed alla esaltazione della comune patria. — Si diceva ad essi: che cosa è un trono di secondo o di terzo ordine mantenuto colla forza straniera, e sul quale siete costretti ad obbedire i comandi di chi dispone di quella forza, a fronte della gloria di essere veramente il liberatore, il salvatore, il padre insomma della vostra patria? — Se bene vi riflettete vi sentirete preso dalla nobile ambizione di abdicare una corona che non portate se non a prezzo dell’onore del paese, e non consentirete a conservarla, a riprenderla, se non quando vi sarà presentata dagli Italiani rinati alla indipendenza ed alla libertà, e che sapranno essere a voi dovuto questo loro risorgimento.
Così per certo due lombardi, Menotti ed il Misley, avevano parlato al duca di Modena nel 1830 e nel 31. — Il duca era ambizioso, crudele, e di nulla curante tranne degli interessi suoi. — Esso aveva creduto scorgere nella via additatagli dai due imprudenti giovani un mezzo di allargare i suoi confini e di accrescere la propria importanza. — D’altronde, mostrandosi inclinato ai consigli di quei due, il duca era quasi certo di conoscere le trame che ordivano i liberali; e siccome la finzione non gli costava, finse, e trasse nell’agguato i nuovi suoi amici. — Ognuno conosce il risultato di quelle mene. — Menotti espiò sul patibolo il fallo di aver prestato fede ad una creatura dell’Austria; e Misley con molti altri andarono ad ingrossare le fila di quelli emigrati, a cui la Francia e l’Inghilterra furono per tanti anni larghe di ospitalità. — Ma all’avvicinarsi del 48, l’aspetto delle cose era qualche poco emendato. — Nel prender possesso delle sacre chiavi, Pio IX aveva pronunziato parole che risuonarono in tutti i cuori italiani e li scossero profondamente. Pio IX si dichiarava italiano, amico della libertà e della indipendenza di tutti i popoli, ed alieno da ogni violenza. — Ciò bastò perchè gli Italiani vedessero in lui un nuovo Messia da Dio mandato pel loro riscatto. — Vi fu chi pensò a dargli su l’Italia intera il poter temporale ch’egli esercitava sovra picciola parte di essa. — Alcuni membri del clero, chiari per ingegno e per dottrina, scrissero libri di filosofia e di politica, in cui splendeva il più puro e il più razionale liberalismo. — Il solo difetto di quei libri era il non essere scritti in modo da farsi leggere da molti. — Carlo Alberto era tuttora sul trono di Piemonte, e già da vari anni aveva manifestato l’animo suo tutto italiano e liberale. — Leopoldo regnava in Toscana, mentre Lucca era tuttora sotto il dominio del giovanetto che ivi aspettava la morte della arciduchessa Maria Luisa alla quale doveva succedere, lasciando Lucca a Leopoldo. A Napoli Ferdinando di Borbone, assorto dagli amori della famiglia, dai piaceri della tavola, e dagli scrupoli religiosi, sembrava incapace di partecipare attivamente in nessuna intrapresa, sia per coadiuvarla, sia per opporvisi, e lasciava supporre che la naturale indolenza, ed il peso degli anni avessero spento in lui quella innata crudeltà e scelleraggine, che mai non aveva abbandonato nessun membro della iniqua sua razza.
I liberali si divisero gli animi di quei sovrani, e si accinsero a muoverli verso la nobile passione del patriotismo. — Il popolo italiano poca parte poteva prendere a tali tentativi, e vi sarebbe rimasto completamente indifferente qualora fosse stato tuttora ciò ch’era al principio di questo secolo. — Ma Mazzini lo aveva destato, e i liberali delle classi colte lo sapevano desto, sicchè non dubitavano che il primo grido di fuori lo straniero metterebbe a tutti in mano le armi.
E così si andava innanzi, lavorando ed aspettando una occasione per operare.
A persuadere Carlo Alberto di consacrarsi alla salute ed alla liberazione d’Italia, non era mestieri nè degli sforzi, nè delle istanze dei liberali. — Il re di Piemonte non aveva avuto durante la vita sua altro desiderio, altro scopo alla sua ambizione. — Appena gli fu svelato l’accordo stretto fra i liberali delle varie provincie d’Italia, ch’egli abbracciò con trasporto le loro viste, le loro speranze, e pose sè stesso, la sua famiglia, la sua casa e la sua corona, al servigio dell’indipendenza italiana.
Dinanzi a lui si apriva un nuovo orizzonte; ed era quello stesso dei sogni di sua gioventù. — Egli vi si precipitò baldanzoso, senza dare al passato un ultimo sguardo.
Gli Austriaci, sempre pronti a chiamare su di essi i colpi della avversa fortuna, nulla avevano imparato di quanto si leggeva a chiare note nel contegno degli Italiani. — Gli Italiani gemevano da più di 30 anni sotto il ferreo giogo della Casa di Absburgo; vi obbedivano perchè non era loro possibile la resistenza. — Dunque sin tanto che il giogo della Casa di Absburgo non scemerebbe nè di peso, nè di rigore, la obbedienza degli Italiani non poteva venir meno. — E per accertarsi che il giogo della Casa di Absburgo non diventava più leggiero, l’Imperatore ed i suoi ministri vi aggiunsero nuove catene. I pieni poteri delle polizie e dei loro agenti, i tribunali militari, dinanzi a cui erano condotte persino le donne, la esorbitanza delle imposte, tasse, multe, prestiti volontarii o forzosi, che in nulla differivano gli uni dagli altri, i sequestri, le prigionie, gli ostacoli sempre crescenti allo sviluppo del commercio e della industria in Italia, quel trattar sempre l’Italia come paese conquistato, cioè come si trattavano i paesi conquistati quando la Casa di Absburgo era salita sul trono imperiale, senza riconoscere nè rispettare in essi alcuno dei diritti da Dio concessi a tutte le umane incivilite creature: componeva ciò che chiamavasi il sistema del governo imperiale, e gli Italiani tutti intendevano omai quanto era odioso, iniquo, inumano quel sistema. — Ma gli Austriaci si ridevano delle nozioni che gli Italiani avevano sì di recente acquistate. — I nostri argomenti sono le palle dei nostri cannoni, dicevano a chi tentava far loro intendere che gli Italiani del 40 non erano più quelli del 15 e del 20; e con questi argomenti metteremo in iscompiglio tutto il sapere di questi nuovi dottrinarii, rivoluzionarii, ecc. E così andarono diffatti calcando sempre la via che conduce gli oppressori al precipizio, sino all’anno 47, quando l’iniquità della tirannide austriaca aveva raggiunto il culmine della sfacciata sua forza, e non poteva andare più in là. — I liberali sparsi nelle varie contrade d’Italia, sicuri del concorso popolare, fiduciosi nella simpatia e nell’appoggio del Pontefice, soddisfatti delle disposizioni in cui credevano che l’esempio di Pio IX avesse posto gli animi del gran duca di Toscana e del re di Napoli, istrutti della prontezza e dello zelo con cui Carlo Alberto risponderebbe al primo appello degli Italiani, i nostri liberali, dico, decisero di tentare la sorte senza aspettare nuovi insulti e nuovi danni.
Le cinque giornate del marzo 1848 in Milano furono il primo colpo portato alla grandezza della Casa di Absburgo, e ad esse rispose l’Italia tutta con applausi, con offerte di aiuto, e con dichiarazioni energiche in favore della libertà e della indipendenza italiana. — Leopoldo di Toscana e Ferdinando di Napoli proclamarono subito una costituzione, che solennemente giurarono di conservare e di rispettare in ogni caso; e Carlo Alberto, che già da qualche tempo li avea preceduti su quella via, si accinse a compire l’opera gloriosa dei Milanesi, cacciando colle armi sue, e come si sperava con quelle di tutta Italia, l’Austriaco dalla intera penisola. — Carlo Alberto soleva dire: l’Italia farà da se; e noi tutti ripetevamo quelle nobili parole, senza esaminare se esse fossero l’espressione di un patriottico desiderio, o di una ben fondata convinzione.
Ognuno conosce la dolorosa storia del 48 e del 49; ma pochi la giudicano con mente posata e scevra da pregiudizii, come da spirito63 |
Ma le catastrofi pari a quella del 48 e del 49 non accadono mai, se non per un numeroso concorso di circostanze le quali tendono tutte ad un medesimo risultato.
In questo nostro particolar caso le circostanze che ne procacciarono la rovina sono evidenti; ma perchè numerose e richiedenti, da chi le considera, certa quale tensione dell’intelletto, riescono poco gradite alle moltitudini, che preferiscono attribuire le sventure nazionali al tradimento di chi le regge; appunto come vedono ciò accadere sulle scene teatrali.
Gli Italiani non avevano in comune che una sola passione o due al più: l’odio dello straniero dominio, e l’amore ossia il desiderio della libertà. — Ma non erano punto fissati intorno alla condotta da tenersi per assicurarsi il possesso di un tanto bene, quando lo avessero ottenuto. — Sembrava difatti che lo avessero afferrato, e con quella inclinazione alle illusioni, che forma gran parte del carattere italiano, noi tutti credemmo di aver conquistata l’indipendenza e la libertà, quando vedemmo i soldati austriaci abbandonare umiliati ed impauriti la città di Milano, ed i principi satelliti dell’Austria prodigarne le costituzioni ed i parlamenti, mentre stavano pronti alla fuga per poco che i sudditi loro non si mostrassero soddisfatti delle concedute istituzioni. — Gli Italiani si tennero sicuri della loro libertà, ma si sentivano disorganizzati, e desideravano di costituirsi nel modo migliore. — Non si pensava allora a contentarsi del possibile, dell’eseguibile, del praticabile; si voleva giungere col primo passo alla costituzione più perfetta, a quella cioè che presentava maggiori garanzie di libertà, di uguaglianza civile e sociale, di prosperità, di gloria, e di una vita comoda. — Si voleva una costituzione che trasformasse questa nostra terra in un paradiso, non riflettendo che il paradiso è la patria degli angeli, e che non v’hanno molti di questi sul nostro globo. — Chi voleva una federazione, e fra i federalisti, chi voleva una federazione sul modello della germanica, chi la voleva a modo della elvetica. — Nel settentrione d’Italia una imponente maggioranza voleva mantenere la Casa di Savoja e Carlo Alberto sul trono, che si ambiva soltanto di far più grande. — Altri ricordavano il 21, o ciò che ne avevano udito raccontare; e dando le loro interpretazioni di quei fatti misteriosi, come verità storiche documentate ed accettate dal mondo intero, sognavano tradimenti e gridavano: non vi fidate dei traditori. — V’era chi ripeteva le viete massime del Mazzini, e credeva di vincere il mondo e la sorte con poche parolone alto-sonanti, e vuote di significato; v’era chi sognava l’Italia del medio evo, le repubbliche di Venezia e di Genova, il vestire alla foggia del 500, e le parlate degli eroi di Alfieri. — V’era chi sognava la repubblica francese del 93, e protestava che nulla di grande si fonderebbe in Italia, se non si aprivano certe arterie, dalle quali doveva sgorgare molto sangue corrotto. V’era chi sognava il primato di Gioberti, ed un papato universale politico sotto Pio IX. — Insomma varii ed innumerevoli erano in quel tempo i pensieri e i voleri degli Italiani; ma fra tanti e sì svariati pensieri e sistemi nulla vi era di eseguibile, e sembrava che gli Italiani si fossero spogliati di ogni senso pratico.
Se loro si additavano gli ostacoli, che dovevano necessariamente opporsi alla realizzazione delle loro utopie, vi rispondevano che la parola ostacolo era per essi vuota di senso, che non vi era cosa impossibile per chi voleva fortemente, ecc. — Se loro si chiedeva che cosa avrebbero fatto quando l’Europa tutta si fosse dichiarata risoluta a finirla con una nazione che si suppone sempre intenta ad introdurre novità pericolose per la civile società, essi stringevansi nelle spalle, e dicevano in tuono di compatimento, che la nazione italiana si componeva di circa 26 milioni di esseri, che si alzerebbero come un sol uomo quando fosse mestieri dare all’Europa una salutare lezioncina, e che ad un popolo così unanime, così valoroso e risoluto in favore di una idea, non v’era esercito, nè assocciazione di eserciti che potesse resistere. — Si pronunziavano sentenze in tuono cattedratico ed entusiastico, e si credeva aver profferito verità sacrosante, argomenti irresistibili. — Ai pericoli che ne circondavano, alla rovina che stava per piombare su di noi, nessuno pensava. — Gli Austriaci avevano abbandonate quasi tutte le città dell’alta Italia, e quelli fra i principi delle altre parti d’Italia che non li avevano seguiti sembravano trasformati in altrettanti liberali, smaniosi di sagrificare sè stessi e le loro dinastie per eontribuire al risorgimento d’Italia. — Tutto ciò era stato operato dagli Italiani, dalla loro risolutezza o dal loro valore.— Che più v’era da gemere? Come avevano già vinto, vincerebbero ogni volta che il bisogno della vittoria fosse loro dimostrato.
Intanto gli Austriaci si concertavano coi principi loro satelliti, si riavvicinavano al Pontefice, e ne guadagnavano l’animo incerto e titubante; ed intanto l’Europa assisteva al nostro dramma senza neppure fingere di interessarsi in favor nostro, e simulava ne’ suoi fogli periodici di considerarne come impazziti per l’inaspettato apparente trionfo, ch’essa non avrebbe permesso qualora lo avesse considerato come vero e reale. — Presto si vedrebbe a che cosa si ridurrebbero questi nostri trionfi; ma qualora gli Italiani acquistassero veramente la libertà e la indipendenza, toccherebbe alle savie e bene ordinate nazioni dell’Europa il porli in tutela, e l’impedire che le loro pazze teorie e la loro tracotanza ponessero a soqquadro la civiltà e la quiete di questa parte del mondo.
Nessuno pensava di prestarci aiuto; nessuno desiderava vederci liberi e contenti; ma forse meritavamo questa generale malevolenza, poichè ne andavamo superbi e soddisfatti. — Non abbiamo bisogno nè di amici nè di alleati. — Bastiamo a noi stessi; ed insegneremo all’Europa ciò che siamo e ciò che possiamo. — Così parlavamo; e mi ricordo di un tempo in cui la maggiore nostra paura era quella di essere aiutati a nostro dispetto da qualche potenza educata alla scuola di Don Quisciotte.
Suonava l’ora dei rovesci. — Con mirabile valore e con deplorabile spensieratezza, la piccola armata piemontese ed alcune improvvisate legioni di volontarii, a cui si unirono i corpi universitarii, si cimentavano contro l’intera forza dell’impero austriaco, accresciuta ancora da non pochi Russi, che vestivano per obbedienza al loro Czar l’uniforme bianco. — Già il Borbone aveva deposto la maschera, e richiamate le truppe, che la paura di una rivoluzione lo aveva costretto a mandare nell’alta Italia. Già il Pontefice aveva fatto riflessione che gli Austriaci essendo cattolici erano suoi figli non meno degli Italiani, e che la nostra guerra essendo per conseguenza una guerra fratricida, egli non poteva parteciparvi, e richiamava pure le sue truppe. — Il gran duca di Toscana o non ne mandava, o ne mandava così parcamente, che non potevano recare gran danno al nemico nostro. — Attoniti e scorati per sì sfacciato ed inaspettato abbandono, i difensori che ne rimanevano, combattevano eroicamente, ma sentendosi già vinti. — In pochi giorni l’Austriaco toccava le porte di Milano, e dinanzi a lui andavano ritirandosi i nostri soldati umiliati ed impotenti.
I Lombardi fremevano, ed avrebbero preferito seppellirsi sotto le rovine delle loro città, piuttosto che vederle nuovamente occupate dall’odiato oppressore. — L’Italia tutta fremeva; ma i suoi fremiti erano vani. — I popoli non improvvisano le grandi risoluzioni. — Di nulla erano convenuti gli Italiani, se non di combattere e di vincere per prima cosa, e di pensar poi al modo di mettere la vittoria a profitto. La sorte delle armi ne era stata avversa, e non sapevamo far altro che fremere, sognare tradimenti, e maledire i traditori. — Chi voleva cacciare il Borbone, il Pontefice, il gran Duca, e persino Carlo Alberto, e costituirsi in republica. — Chi voleva ricondurre o per amore o per forza i principi sulla via del dovere; e rifuggivano dal pensiero della repubblica. — Mazzini imputava le nostre sventure alla fiducia che avevamo riposta nei Principi, e li dichiarava tutti, o traditori, o condannati ad incessanti disfatte per le colpe loro e per quelle dei padri.
L’ira contro le potenze europee, che ci vedevano cadere sotto la insanguinata scure dell’Austria senza stenderci la mano e salvarci; l’ira contro Carlo Alberto, al quale si attribuiva in quei giorni di avere pel primo profferite le mal augurate parole, l’Italia farà da sè, era generale, e si sarebbe potuto credere che il paese non avesse mai divisa l’erronea credenza nelle proprie sue forze.
Poniamo fine a queste dolorose ricordanze. — L’Italia non compianta ricadde sotto gli antichi ed abborriti dominatori, che si prefissero di opprimerla con sì pesante giogo, che più non potesse neppur sognare nuove rivoluzioni. L’Italia non cadeva tutta in un giorno stesso. Due città resistettero più a lungo delle altre, e in queste due città, che Mazzini o i suoi discepoli reggevano con forma popolare, la diplomazia esercitava poca influenza, e forse non ambiva di esercitarne una più grande. Voglio parlare di Roma e di Venezia: esse non caddero nel 48, ma bensì nel 49; ed in esse l’Italia diede per quella volta almeno gli ultimi aneliti di vita civile e libera.
Anche Brescia, lasciata in balìa del suo municipio, che è quanto dire di sè stessa, chiuse le sue porte agli Austriaci, armò tutti i suoi cittadini, senza eccezione di sesso o di età, e si preparò ad una eroica ma disperata resistenza. Per ben tre giorni gli Austriaci irrompevano dalle porte nelle strade della città, ed appena impegnati in queste le ingombravano dei loro cadaveri, da tutte le case, da tutte le finestre, dai tetti rovinando su di loro micidiali proiettili d’ogni sorta.
Ma Brescia dovette cessare dalla pugna quando non ebbe più munizioni con cui tenere a distanza il nemico, e quando non ebbe più difensori che non grondassero del proprio sangue.
Gli Italiani diedero cospicua prova di animo valoroso e divoto alla patria; ma ciò non basta a costituire ed a fondare una nazione. — I Polacchi furono sempre ammirati pel singolare loro valore, ma non col solo valor militare si acquista un seggio fra le nazioni civili, libere ed indipendenti; e la storia del popolo polacco basterebbe a convincerne di ciò quando noi fossimo già a sufficienza.
Per undici anni ancora gli Italiani furono trattati come gli Iloti dell’antichità. — Derisa e non curata dall’Europa, martoriata, oppressa, straziata, e munta da’ suoi padroni, l’Italia sembrava oramai condannata ad eterna ed ignominiosa servitù; e gli stranieri così opinavano — Deve esservi, dicevano essi, qualche nascosto difetto, qualche pecca originale nel carattere degli Italiani; poichè ogni loro sforzo per diventare indipendenti e per ricostituirsi in nazione riesce vano; e sappiamo oggidì che non si cade se non perchè si difetta della forza necessaria per reggersi. È inutile tentar nuove prove, soggiungevano talvolta, e dovete rassegnarvi ad uno stato di cose ch’è evidentemente il solo cui siate propri.
L’Italia sola non aveva accettata la crudele sentenza; e protestava contro di essa con parole e con atti ogni qual volta le se ne presentava la opportunità. In quelli undici anni l’odio dell’oppresso per l’oppressore, e viceversa, giunse all’apice della violenza. Ma se a ciò si fossero limitati i nostri progressi, saremmo tuttora schiavi. Un genio benefico sorse presso ad un principe veramente liberale e patriota, nel tempo stesso che un amico d’Italia saliva al supremo tere e prendeva a reggere la più possente e la più energica fra le nazioni europee. — Una segreta alleanza fu giurata fra l’imperatore dei Francesi, e il re Vittorio Emanuele, sotto la ispirazione del conte Camillo di Cavour. — Ma ciò non sarebbe bastato, se una radicale alleanza non avesse composto in un sol corpo e in una sola volontà gli Italiani tutti. — Cavour si fece capo di una nuova scuola politica in Italia. — Egli fece brillare agli occhi degli Italiani queste verità semplici ed incontestabili: per conquistare la indipendenza e la libertà è necessario esser forti; e la unione può solo creare la forza.
Questa così ovvia verità fu prontamente afferrata dagli Italiani, che l’accettarono e la confessarono da quel momento in poi come un dogma, cioè con fede religiosa. — Tutto il passato apparve allora agli occhi nostri sotto un aspetto tutto nuovo. Le nostre sventure più non furono da noi imputate nè ad una sorte avversa e capricciosa, nè al tradimento di chi doveva guidarci. — La vera e patente origine delle nostre incessanti sciagure era appunto il difetto di unione e di unità di vedute, di scopo e di azione. — Sembrava che la segreta cagione dei nostri rovesci ne fosse stata tutto ad un tratto rivelata; e da quel momento in poi ogni gara, ogni rivalità, ogni differenza di opinioni, di tendenze, di gare politiche, fu condannata come delitto verso la comune patria. — Nessuno tentò più di volgere a suo talento gli avvenimenti che si succedevano, e una cosa sola si volle considerare: quale fosse la volontà della maggioranza degli Italiani. — Questa volontà non trovò più oppositori. — Anche i partigiani dell’assolutismo repubblicano di Mazzini sospesero la crociata bandita dal loro maestro contro ogni forma di governo che non fosse repubblicana. — La forma di governo che sarebbe più accetta al maggior numero degli Italiani, quella che sembrerebbe più atta a tenerli tutti uniti, e a crear loro interessi comuni, quella che all’Italia susciterebbe il minor numero di nemici possibile: quella sarebbe la forma di governo contro cui nessuno ardirebbe protestare. — E quando si parlava in tal modo, già si sapeva che la forma di governo necessaria al dì d’oggi era la monarchica. — Alcune città delle Romagne e della Lombardia avrebbero accettata la repubblica di buona voglia, quando questa fosse stata l’oggetto della preferenza di tutta Italia; ma i due principali Stati italiani, quelli che disponevano di eserciti, senza i quali sarebbe stata follia l’intraprendere cosa alcuna contro la dominazione straniera, il napoletano ed il sardo erano affezionatissimi alla forma monarchica, e non l’avrebbero scambiata colla repubblicana, se non vi fossero stati costretti. — L’Europa d’altronde non lo avrebbe concesso; e gli italiani cominciarono a travedere, che le dichiarazioni e le proteste repubblicane dei nostri emigrati politici erano in gran parte la cagione della diffidenza che l’Europa manifestava verso di noi, e del poco conto in cui ne teneva.
L’unico scopo a cui tendevano tutti gli italiani, era il costituirsi in nazione indipendente; e tutto ciò che facilitava il compimento di questo voto era da tutti accettato senza discussione e con trasporto.
Un fortunatissimo concorso di circostanze contribuì alla nostra salvezza. — L’avere sul trono di Francia un amico fedele, che conosceva l’Italia, e sapeva che cosa si poteva sperare, anzi aspettarsi da essa quando fosse pervenuta a rompere le sue catene e a costituirsi in nazione. — Questo amico sapeva altresì che l’Italia, ridotta al misero stato in cui l’avevano precipitata, e la mantenevano i suoi dominatori, non poteva muovere il primo passo verso l’indipendenza senza l’aiuto di una nazione già costituita, sviluppata e forte. — Questo aiuto iniziatore egli era in grado di darnelo, ed avea deciso che non ne mancherebbe. — L’avere alla testa di buona parte dell’alta Italia un re liberale, irremovibilmente schiavo della propria parola, animoso, risoluto ed onesto. — L’avere questo re alla direzione de’ suoi consigli un ministro come il conte dì Cavour, sagace e destro maneggiatore delle cose politiche, divoto alla salute della patria italiana, che seppe apprezzare le generose intenzioni ed il genio politico dell’imperatore Napoleone, come aveva saputo apprezzare il sincero amor patrio del re Vittorio Emanuele, e come egli medesimo era apprezzato da quei due; che sapeva persuadere e dirigere gli italiani di tutte le provincie d’Italia e di tutti i partiti. Intorno a Cavour si stendeva un’atmosfera di fiducia, tutta nuova per gli italiani, che da tanti secoli erano avvezzi a diffidare e a sospettare di ognuno. — Cavour fu l’anello che legò vicendevolmente Napoleone e Vittorio Emanuele, e questo all’Italia; Cavour fu l’iniziatore della spedizione sarda in Crimea, l’inspiratore del congresso di Parigi, ove per la prima volta i diritti degli italiani furono discussi seriamente, e finalmente riconosciuti. — Cavour aveva fuso gli l'Italiani in un solo pensiero: quello di cacciare al di là delle Alpi lo straniero, e di costituirsi in nazione; e quando l’Austria, insospettita di quanto macchinavasi contro di essa tra la Francia e l’Italia, si accinse a distruggere, cioè a conquistare quel piccolo Piemonte che aveva l’audacia di dichiararsi protettore dell’Italia tutta, e suo nemico, Cavour, che aspettava una occasione propizia, si volse ad un tratto a Napoleone e all’Italia. — Tutti risposero alla sua voce. Napoleone condusse immediatamente i suoi eserciti nell’alta Italia, e gli italiani tutti insorsero contro i loro signori, e protestarono di voler essere italiani liberi ed indipendenti sotto il governo della Casa di Savoja. — Mentre ancora si combattevano gli austriaci, le principali città d’Italia, e gli stati italiani, mandavano deputazioni al re Vittorio Emanuele e al suo ministro, per chiedere di essere annessi al regno dell’alta Italia.
La pace di Villafranca sembrò sulle prime porsi come insuperabile ostacolo all’adempimento dei voti degli italiani; ma in breve quella infausta illusione si dissipava. — Mentre la diplomazia stabiliva a Villafranca e a Zurigo, che l’Italia rimarrebbe a un dipresso qual era prima del 59, che la Lombardia sola sarebbe annessa al Piemonte, che la Venezia sarebbe lasciata all’Austria, che i duchi e i principi scacciati rientrerebbero al possesso dei loro stati, e che tutti i sovrani d’Italia compreso l’imperatore d’Austria, formerebbero una confederazione sotto la presidenza del romano Pontefice; mentre Napoleone dettava tali condizioni, ed il nuovo ministero di Vittorio Emmanuele le accettava, le annessioni dei ducati, della Toscana, delle legazioni si compivano, e si rendeva impossibile il ritorno dei principi. — Si temeva che l’imperatore dei Francesi si adirasse contro questa audace resistenza a’ suoi voleri; ma tale resistenza sanzionata dai plebesciti delle provincie, che volevano l’annessione, fu giudicata legittima e giusta.
Più tardi l’Umbria, la Sicilia e il napoletano invocarono l’annessione; e Garibaldi co’ suoi mille andò a mettere in fuga i soldati borbonici, che impedivano l’aperta manifestazione della volontà popolare.
L’imperatore Napoleone aveva proclamato due principii, ch’egli imponeva all’Europa di rispettare. Eran questi, la onnipotenza del suffragio universale, ed il non intervento. — Tutto ciò ch’erasi operato in Italia era stato sancito dai plebisciti, ossia dal suffragio versale, ed il principio del non intervento non permetteva all’Europa di opporvisi. — Questi principii, che furono la nostra egida, Napoleone li proclamò in favor nostro; e ciò solo dovrebbe bastare ad assicurargli la nostra indelebile riconoscenza.
Ma la cessione della Savoja e del contado di Nizza fu per gli italiani un seme di discordia e di malcontento. — Col tempo impareremo a benedire quel sacrifizio come il vero fondamento della nostra indipendenza.
Gli italiani vogliono innanzi tutto, ed è ben naturale che così sia, vogliono, dico, ottenere l’intento loro; ma le loro forze non essendo sempre adequate alla grandezza dei loro concetti, essi o implorano o accettano l’aiuto di chi si dice loro amico; e questo aiuto gli italiani sognano sempre che abbia ad essere gratuito. — Se loro si chiede schiettamente un compenso, essi si sdegnano, e si tengono per sciolti da qualsiasi obbligo di gratitudine. — Essi non vedono essere il puntuale pagamento del compenso richiesto e convenuto la sola via per raggiungere e per conservare la loro indipendenza. — Dio ne liberi dal peso di un debito non definito e non pagato! Quel peso è come un fantasma minaccioso, che si frappone in perpetuo fra il beneficato e ogni atto di indipendenza ch’egli sta per compiere.
Benedetto invece quel benefattore che fissa il prezzo dell’opera sua, e che ricevutolo, si tiene per soddisfatto, e dichiara il beneficato sciolto da ogni debito verso di lui! Ciò pattuiva il conte di Cavour coll’imperatore Napoleone, perchè l’imperatore doveva alla Francia di non sottoporla a sacrifizi senza compenso, e perchè il conte di Cavour voleva che l’indipendenza italiana non fosse più illusoria, ma vera e durevole, non quale era stata tante volte, il passaggio da una ad un’altra dominazione. — Abbiamo saldato il nostro debito verso la Francia; e sebbene dobbiamo ad essa i più sinceri sentimenti di gratitudine, non dobbiamo nè ad essa, nè ad altra potenza non italiana, il sacrifizio della benchè menoma frazione della nostra indipendenza.
La nostra nazionalità conta oggi sette anni di vita; e questi sette anni di goduta libertà, di pubblica tranquillità e di moderazione ne hanno fruttato il riconoscimento di tutte le potenze europee. — Ne hanno fruttato un bellissimo esercito, una marina considerevole, un sistema di ferrovie che rilega fra loro tutte le parti d’Italia, e facilita l’accomunarsi delle varie popolazioni e dei loro interessi: cospicui abbellimenti nelle principali città, e la universale simpatia dell’Europa, a tal segno che quando all’aprirsi della penultima stagione estiva chiedevamo all’Austria di cederne quella parte della patria nostra ch’essa teneva tuttora schiava, l’Europa tutta sciamò essere la nostra domanda giusta e legittima, e dovere la Venezia esser ceduta all’Italia.
Chi ne avrebbe detto dieci anni sono, che i nostri diritti sarebbero oggi così spontaneamente confessati e sostenuti da quelle potenze, che per lo addietro dileggiavano le nostre pretese, i nostri sforzi sempre vani?
La sorte delle armi non ne fu, quanto lo avevamo sperato, propizia, e l’imperizia e l’inesperienza dei grandi comandi, e delle grandi battaglie, tanto dei capi militari di terra, quanto di quelli di mare, nè costò molto sangue, e ne fruttò poca gloria. — Ma nessuno si ingannò sulle cagioni di cotesti nostri problematici successi; e il valore dell’esercito intero, l’eroismo dei nostri soldati di marina, risplendettero così straordinariamente durante la guerra, che gli stranieri ne rispettarono dopo questa assai più che noi facevano per lo passato, e ne tributarono meritate, ma non aspettate lodi. — La Venezia è omai nostra col consenso dell’Austria stessa; e quel formidabile quadrilatero, perenne minaccia alla nostra libertà ed indipendenza, diventa ora per noi un baluardo quasi inespugnabile contro qualsiasi futuro tentativo d’invasione.
Tale è il passato che ne condusse, attraverso tante catastrofi e peripezie, al felice e glorioso nostro presente. — Ma il carattere dei popoli si compone delle passioni e dei costumi acquistati sotto l’influenza del loro passato. — Il passato può essere completamente distrutto, e trasformato in un presente tutto opposto a quello; ma le traccie del passato esistono nel carattere e nelle abitudini popolari che in esso si formarono. — Quando il passato più non esiste, ed ha dato luogo ad un presente che in nulla gli somiglia, le tendenze morali ed intellettuali create da quello più non convengono a questo. — Per noi del resto la necessità di spogliarci di quegli avanzi del passato è singolarmente evidente, in quanto che siamo stati educati dai nostri dominatori per compiacerci negli ozi della schiavitù, e per essere indegni della libertà. — Siamo stati educati a diffidare e a sospettare di tutto e di tutti; a stancarci di tutto ciò che dura da qualche tempo, a biasimare e criticare ogni cosa, a giudicare degli uomini e delle cose colla nostra imaginazione piuttosto che col freddo criterio; ad esaltarci fuor di misura per tutto ciò che riveste un aspetto drammatico di sublimità e di eroismo, senza esaminare se la sostanza corrisponde all’apparenza. — Siamo stati educati ad impiegare parole ampollose ed enfatiche, e a prenderle per l’espressione di sublimi concetti, a confondere l’enfiagione della vanità colla coscienza della nostra irresistibile forza, e non dubitare della nostra superiorità, e dei trionfi ch’essa ne assicura; e quando invece di trionfi raccogliamo rovesci, ad esagerarli, a darci in preda all’abbattimento e alla disperazione, e ad imputare altrui le sventure che la nostra imperizia e la nostra inesperienza ne hanno procurato. — Siamo stati educati a disprezzare la scienza e gli studi necessari ad acquistarla, e a vantarci del nostro ingegno svegliato, che conosce ogni cosa per intuizione, senza condannarsi alla noia dell’imparare. — Siamo stati educati da chi voleva mantenerci schiavi, in modo tale da renderne incapaci di costituirci in nazione libera ed indipendente; incapaci compiere i doveri del cittadino, come di sacrificare le private ambizioni e i privati interessi alla salvezza e alla prosperità della comune patria.
Il nostro principale studio deve essere omai di spogliarci di tutte le letali influenze del passato.
Ricordiamoci che il nostro passato fu un’era di schiavitù, e che il popolo educato alla schiavitù deve trasformare sè stesso, se vuol diventare atto a godere della libertà e della indipendenza.