Lepida et tristia/Dalla padella nella brace

Dalla padella nella brace

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Chi sarà lo sposo? La morte di un Re

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DALLA PADELLA NELLA BRACE

(Avventure di viaggio)



C
hi legge — se ha una carta d’Italia disegnata con una scala un po’ alta — tracci una linea retta fra S. Agata Feltria in terra di Romagna e il maraviglioso convento della Vernia, in Casentino, un luogo altrettanto famoso quanto ignoto agli Italiani che non siano lì del luogo. Quivi S. Francesco, il Santo nostro che rinnovò Cristo con nuova italica dolcezza e lietezza d’amore, ebbe le stimmate ad imitazione di N. S.; e le rondini della foresta selvaggia e sublime, che incorona il monte rupestre, col grido continuo vi dicono: «le sorelle nostre accompagnarono il Santo e si posarono sulle sue spalle, sulle sue mani, quando egli qui venne!» Tracci — dico — una linea e non vi troverà sentiero alcuno o villaggio. Bisogna montar l’Alpe, poi si cala in Casentino e si risale quindi la Vernia.

Per quella via noi passammo. [p. 26 modifica]

In linea retta, o meglio, a volo d’uccello, saranno a far di molto, un trenta miglia: invece, dovendo di continuo salire e scendere per i monti, la via si raddoppia e il fatto è che noi, partiti da S. Agata che le stelle erano ancora alte, giungemmo al convento a pena in tempo, giacchè dopo l’ave-maria il frate portinaio chiude, e chi è dentro è dentro, e chi è fuori si trova a mal partito e solo i grandi faggi gli possono dare ospitale ricovero, chè, lì d’intorno, per un raggio di più e più miglia, non v’è un casolare.

Noi si era in cinque, comprese le bestie: due somari, i quali nel paziente loro animo non debbono di certo aver benedetta la memoria di S. Francesco; una giovane signora la quale accampò certi suoi diritti per seguirmi in quel viaggio; la guida, che fa quattro, un vecchio ignorante, secco e sbilenco che amava più di star su l’asino che di camminare, ed io. Era il mese di luglio.

Quando si levò il sole eravamo già nel regno delle felci e delle ginestre. Rocca Pratifa si perdeva in lontananza: davanti l’Appennino deserto, selvaggio, e noi su e giù per sentieri che eran piuttosto tane e rompicolli, con certe pietre che le vie dell’Abissinia ci sono per nulla; e il sole dardeggiava su quelle rocce cineree, e non un filo d’acqua. E la domanda continua era: «O dov’è la Cella! o quanto manca alla Cella?» chè quivi la guida ci avea promesso la prima sosta e bel ristoro e buon soggiorno.

Vi giungemmo alle dieci, e non so come pensai a messer Ludovico Ariosto. È quello della Cella un paesaggio ariostesco: una conca di smeraldo, rotta dall’argento di un rivo, intorniata da neri abeti e faggi, bellissimi. Il nome intero della Cella è: Cella di Sant’Alberigo o Romitorio d’Acri, in orrida e profonda valle, allora sorrisa dal sole, sopra cui si eleva il monte a tre dossi della Cella. Abitarono quel romitorio i frati bianchi di [p. 27 modifica]di Camaldoli, sin dal mille. Oggi non frati, non campana, ma una grande ruina di cadenti edifici. Se vi fosse spuntata Angelica sul bianco palafreno, nessuna meraviglia: vi spuntò invece un villano che parlava mezzo romagnolo, mezzo toscano, e disse che vino non ne avea, ma avea una ricottina fresca e delle uova. Ci guidò per i labirinti di quel grande edificio in ruina, nè mai asciolvere senza vino parve più delizioso. Il luogo era dunque così ameno e singolare che si accolse la proferta del villano di fermarci quivi qualche giorno, al ritorno della Vernia: avrebbe allestita una stanza e: «Vi piacciono i lamponi e le fragole?» domandò. I boschi ne erano pieni e ce ne saremmo levata la voglia. Del resto, per non defraudare il Santo Vero, dirò che quello lì della Cella è uno dei pochi punti dell’Appennino che io abbia ritrovato coperto di verde e di bosco. Povero, pittoresco Appennino, ispiratore, io penso, di Ludovico Ariosto, quando trasognato lo attraversava — come più e più volte gli avvenne nel suo ufficio di messo estense alla Corte di Roma — e le verdi, dense solitudini popolava di dame erranti, di maghi e di eroi — povero Appennino, come mutato sei tu!

Le splendide foreste che ornavano le tue cime sono state distrutte. Esse fremevano in mancanza di fremiti umani, ai venti dei due mari che, dall’alto, lungi azzurreggiavano. Scomparse! Per quanto si stende l’occhio, monti brulli, falde che franano, o riarse al sole o lavate dalle piogge, che scendono minacciose ai subiti torrenti.

Per dissodare una breve conca, dove il grano giunge etico e a stento a maturità in sulla fine d’agosto, hanno atterrato le sacre piante che videro i secoli.

E quanta fosse la bellezza delle foreste dell’Appennino ne è saggio quella, veramente divina e meravigliosa, che s’erge sul pianoro della Vernia, dove nel nome di S. Francesco, è vietato uccidere pianta viva. E il signor Sabatier, nella sua Vita del Poverello d’Assisi, rivendica [p. 28 modifica]la gloria di quel bosco sacro e lo chiama fra i più belli d’Europa.

Proprio lì, presso la Cella, alcuni montanari con funi tese e orrendi colpi al tronco, abbattevano una quercia così grande che copriva con la sua ombra tutto un pendìo. La bella pianta, come cosa viva, fremeva pel gran tronco e per i rami alle percosse mortali e squassava, ad ogni tratto di fune, la chioma veneranda e magnifica. Non voleva morire.

Io chiesi a quei montanari se non conoscessero per caso il Nuovo Culto delle piante e la festa degli Alberelli, e gli annui discorsi bellissimi in onore alle piante che i direttori e le signore direttrici delle scuole elaborano con grandissima arte di stile.

Coloro mi risposero mortificati che non conoscevano tutti questi signori e nemmeno l’Arbor’s day. Non erano ancora arrivati lassù. Lassù — assicurarono — arrivava soltanto, e regolarmente, il signor Agente delle tasse. Bisogna dunque far legna da vendere.

E le scuri si levarono, inesorabili come il signor Agente.

Dalla Cella si monta sempre per certe forre chiuse e paurose sino in vetta del Fumaiolo.

«Oh non sarà mai detto che io sia giunto sin qui, che abbia studiato tanto latino senza vedere le sorgenti del Tevere, Tiberis, accusativo Tiberim» esclamai. «Oh, dove ascondi il sacro capo, fiume divino di Romolo e di Enea?»

Nessuna risposta: solo alcune giovenche e capre, solinghe alla pastura, come al tempo di messer Angelo Poliziano, e riparate sotto l’ombra d’un gran sasso, ci riguardavano co’ loro occhi solenni. E avrei avuto un bel [p. 29 modifica]cercare per quel gran ripiano erboso del Fumaiolo, se il villano della Cella che ne avea scorti fin lassù, non mi avesse guidato.

Per chi non lo sa le sorgenti del Tevere nulla hanno di interessante: bisogna scendere a un terzo di costa del Fumaiolo, e quivi, in un terreno scosceso e giallastro, che frana, sotto alcuni magri faggi tutti incisi di nomi, rampollano a breve distanza tre o quattro vene da cui si devolve l’acqua che fu ed è declinata da tante generazioni di scolari. I nomi incisi sulle piante erano quasi tutti di stranieri.

Al tocco si arrivò a Monte Coronaro: villaggio abbandonato ai piedi del bastione dell’Appennino, che divide i due versanti.

V’è però un’osteria discreta con stanzette pulite: si capisce che non siamo più in Romagna, ma siamo in Toscana: un bicchier di vino, una fetta di prosciutto e in via. La maggior fatica fu quella di passar l’Alpe. Poi si seguì per un’ora e più il crinale di un monte, sempre entro certe felci così folte e selvagge che montavano sopra la testa; e quel fruscio iroso delle rame che si spostavano al passaggio, metteva un senso di ribrezzo. Incontrammo due o tre alberi spaccati: in alto era inchiodata una croce di legno, nella spaccatura v’erano dei sassi.

— Perchè quei sassi? — mi domandò la compagna.

— Non lo so! — e ne chiesi la guida che precedeva silenzioso, studiando il passaggio.

— Niente — rispose, e pareva incerto della via.

Fu un gran sollievo quando si abbandonarono quelle felci e calammo giù in Casentino: luoghi più colti.

— Ecco la Vernia! — disse la guida e dirizzò il bastone contro l’alto monte che, tutto verde a forma di cono tronco ed uguale, lampeggiava di fronte, sotto il sole che già tramontava. [p. 30 modifica]

Nella valle deserta incontrammo alcune mandrie e tre pastorelle così vezzosamente atteggiate che richiamavano in mente una ben nota ballata del Sacchetti: co’ corpetti rossi, le grandi pamele sul capo alla moda di Toscana: guardavano de’ porci e l’una leggeva un libro alle altre che non mi vollero lasciar vedere per quanto io pregassi. E poi che selvagge! che screanzate quelle ragazze! Chiedemmo la via più breve per salire la Vernia perchè di giorno ne rimaneva ancor poco e ci risposero: «Fate il vostro pensiero!». Io non suppongo che la nostra spedizione nel complesso e noi in particolare avessimo avuto qualche aspetto di ridicolo: ma il vero è che non a pena ci fummo allontanati, si posero a ridere e con quel gusto che distingue il riso della donna quanto più futile ne è la cagione; e le loro risa e i loro motteggi — che suonavano sonori nel silenzio della aperta valle — ci accompagnarono per buon tratto. Del resto, o donne, o generatrici dell’uomo, bene provvide la Gran Madre affinchè voi giraste facilmente sul perno del riso ad ogni lieve soffiar di ridicolo! Non io dunque della natura mi dolgo, ma dei poeti e in quel giorno di Messer Franco Sacchetti che dettò quella sua ideale e leggiadrissima ballatella delle Pastorelle Montanine. In verità i poeti in fatto di donne scrissero troppo spesso con gli occhiali forniti loro dalle Muse cointeressate, e in sì fatto modo contribuirono ad imbrogliare la questione della donna, che di per sè non è semplice.

Si giunse, come già dissi, al convento che calava la sera, non però così tardi che non fosse rimasto nella dispensa della foresteria un buon pezzo d’agnello allo spiedo che i buoni padri ci offersero con quella ospitalità semplice che non obbliga e che vale più di ogni studiata cortesia. [p. 31 modifica]

Il dì seguente eravamo tutti amici: ospiti (chè molti ce n’erano) e frati. Io ebbi una stanzetta per me, pulita, semplice, fresca che era una delizia, senza specchio, ben inteso, e coll’inginocchiatoio: ma la mia compagna di viaggio si querelava del malo alloggio all’ospizio delle bizze, ove sono raccolte le donne, giacchè nel convento v’è clausura. E quel ricovero muliebre è detto della Beccia. Fu per questa ragione che anticipammo la partenza con gran rincrescimento de’ buoni padri, che ci vollero pur donare di molti scapolari, coroncine, medaglie, con le quali si era garantiti da mali incontri e da sventure. Certo che i soli amuleti a ciò non bastano e si richiede la fede intensa e la rassegnazione sincera. In questo caso l’effetto degli amuleti è assicurato.

Erano le due del dopo mezzodì quando partimmo: le cavalcature riposate e fresche, attendevano sellate e bardate sotto certi gran faggi al riparo del sole.

La colazione era stata eccellente e la guida si era munita di un paio di bottiglie di ottimo vino toscano come viatico più positivo del viaggio.

Non si poteva partire sotto migliori auspici: e avevamo deciso di pernottare a Monte Coronaro e il dì seguente percorrere la seconda tappa sino a S. Agata Feltria.

Rivedemmo la valle dove avevamo incontrato le pastorelle, ripassammo fra le odiose felci e domandai ancora: «che cosa sono quei sassi negli alberi?»

«Niente!» ripetè la guida «facciamo presto che non ci colga la notte sul bastione!»

Le grige case di monte Coronaro si distinguevano bene lontano, lontano di contro, e l’animo — non so perchè — sospirava di giungervi. [p. 32 modifica]

— Ci arriveremo in un’ora?

— Un’ora è poco: arriveremo a un’ora di notte, ma adesso siamo fuori da quelle maledette forre e poi sorge la luna. — Così insegnò la guida.

Si camminava allora su e giù per un greto biancastro e nudo tutto a mammelloni ed a frane, dove le ombre dei somieri si proiettavano lieve davanti. Era l’ombra del lume lunare. Procedevamo cautamente in quelle lattee penombre della luna nascente, in fila, e i due lumi di monte Coronaro splendevano come nelle fole dei bimbi. Non c’era altro rumore che il franare del greto al passo dei somieri.

— Troveremo la cena? — chiese la mia compagna.

— Certamente: e il vino è squisito — diss’io.

— E un pollo in padella e una frittata non mancano mai — disse la guida. Nè altro dicemmo.

Pure io guardava innanzi e non so perchè rabbrividii quando nel biancore vidi elevarsi un non so che era.

Era un cespuglio, un rovo! e respirai. Volevo domandare alla compagna: — Hai paura? — e mi seccava di fare quella domanda che pur ricorreva così insistente.

Quando Dio volle, il sentiero si fece più largo, più battuto, più colto; eravamo presso al luogo abitato e il lume che si vedeva da lungi ora disegnava (a pena un trarre di schioppo lontano) la porta di una bottega: il tabaccaio di monte Coronaro.

— Perchè ci sono quei sassi dentro gli alberi? — tornai per la terza volta a domandare.

— Perchè lassù — disse finalmente — hanno assassinato dei viaggiatori che andavano alla Vernia: dove li hanno trovati morti hanno piantato la croce e ognuno che passa butta un sasso nell’albero per devozione: ma è roba di anni, anni addietro.

— Non ci passerei più per quelle felci — mormorò la mia compagna. [p. 33 modifica]

— Ma vi sono dei banditi in giro? — domandai alla guida.

— Una volta: ma adesso è sicuro come in chiesa: niente, niente paura.

Gli zoccoli dei somieri sul selciato e l’arrestarsi sotto all’osteria chiamarono l’ostessa alla finestra.

— Perchè è chiusa la porta? — domandò la guida.

— Non lo sapete che è già sonata l’ora di notte? ora vengo ad aprire. Oh, Menico — sentii che diceva di dentro — va ad aprire.

E Menico — un bel giovanotto, alto, aitante, civile, il figlio dell’ostessa, ci venne ad aprire. «Buona sera loro!» disse squadrandoci per bene in volto.

Salimmo al primo piano ed entrammo nella cucina dell’osteria. L’ostessa e l’oste — un bell’uomo barbuto — stavano cenando.

Finalmente! e ci sedemmo, che proprio non ne potevamo più, sulle seggiole che ci erano state offerte: e l’uomo si era levato e apparecchiava la tavola e la donna a levare la fiamma dalle stipe e sbattere le uova, affettare il prosciutto, imbandire il fiasco, il cacio: e le faccende condiva di buone parole e gaie come si conviene ad un’ospite.

E la frittata, grande come una luna piena, e fumante fu levata dalla padella. La guida aveva già posto mano ad una enorme pagnotta e tagliava parsimoniosamente col coltello certe fette larghe che scomparivano nella bocca che si apriva grandissima fra le grinze del volto.

Eravamo felici: la felicità placida del riposo e del pasto conquistato con la fatica. [p. 34 modifica]

Il figlio dell’oste ci sedette accanto e domandò:

— Vengono lor signori dal bastione?

— Sì — diss’io.

— E non hanno incontrato nessuno?

— Nessuno: perchè?

La madre gli diè sulla voce:

— Vuoi star zitto? Tu non sai quando parlare e quando tacere: non ci badino e attendano a mangiare.

— Eh, già! — ribattè il giovane; — se fra poco hanno ad esser qui i carabinieri che vengono dalle Balze, capiranno anche loro!

Che c’era di nuovo? Ci guardammo l’un l’altro. E perchè i carabinieri?

— Ma niente! — disse l’ostessa; — è la solita pattuglia.

— Eh, sì! — ribattè il giovane. Non capite che è meglio parlar chiaro, mamma?

E si rivolse a noi e disse:

— È la polizia che dà la caccia a un bandito che è scappato delle carceri della Pieve di Santo Stefano (la frittata aveva perduto di sapore e la guida aveva sospeso di trangugiare il pane): con costui se ne sono uniti due altri e hanno commesso delle grassazioni; sa come fanno i banditi, vanno dai possidenti, domandano la roba e se trovano dei minchioni.... Se vengono a bussare qui — e si leva in piedi e va in un angolo e prende lo schioppo — li inchiodo tutti e tre: a buon conto invece dei pallini da caccia ci ho messo due palle....

La mia compagna era impallidita: anch’io mi sentivo poco bene: la guida ricusò il vino che gli volevo versare.

— Ma fanno proprio del male? — domandò la compagna con una voce che tradiva quello che le parole non dicevano. [p. 35 modifica]

— Eh, non so, — disse il giovane — ne hanno ammazzato uno la settimana scorsa e fa il terzo: mi devono incontrare a me, mi devono! — e digrignava i denti.

L’ostessa che s’accorse del pallore della mia compagna disse: — Ma qui in casa mia è sicura, sa?

— Ma è domani — scoppiò lei a dire — che dobbiamo riprendere il viaggio per tornare a casa!

— Stan di molto lontano?

— In Romagna!

— Corbezzoli! il viaggio dell’orto!

E la guida avea smesso del tutto di mangiare e si grattava la testa.

— E dove bazzicano questi malandrini? — chiesi io al giovane.

— Un po’ da per tutto: sul Fumaiolo, alla Cella.... Vivono come le bestie selvatiche.

— Dove siamo passati noi....! — rabbrividì la mia compagna. — Ma i carabinieri non dànno loro la caccia?

— Ma già — dissi anch’io — cosa stanno a fare i carabinieri?

Il giovane sorrise come uno che la sa lunga, e disse:

— Sentano bene: io sono guardia caccia dei principi di *** (e nominò una gran famiglia romana) e ogni inverno vado a una loro tenuta di Maremma: ho conosciuto il Tiburzi e il brigante Fioravanti come conosco loro: bene, sentano: i carabinieri i briganti non li prendono.

Io protestai:

— Ma se nei giornali si leggono dei fatti coraggiosissimi in cui i carabinieri....

— Tutte fole — disse il mio interlocutore con un sorriso di sicurezza assoluta. — Sa lei quando i carabinieri prendono o uccidono un brigante? Quando per combinazione ci vanno a batter contro col muso.

— Ma non li vanno a cercare? non li stanano?

— Che dite! La pelle preme a tutti. Non sa lei che [p. 36 modifica]un bandito non ha niente da perdere? ce l’hanno già la condanna addosso. Li vada, li vada a chiappare per quelle macchie (e indicava i vasti monti che nereggiavano fuor delle piccole finestre al lume lunare). Per dar loro la caccia bene, sa che cosa bisognerebbe fare?

— Che cosa? — chiesi io, e non mi sentivo niente bene.

— Bisognerebbe dislocare mezzo reggimento e far la battuta, come alla caccia del cignale: lasci dire a me che le so queste cose; è il mio mestiere. Oppure sa che cosa?

— Cosa?

— Aspettare l’inverno. Allora con la neve i birboni devono lasciare la macchia e calar giù, e così si possono prendere.

Io vedevo buio nel viaggio del domani: e quei leggiadri racconti di briganti avrei preferito udirli a casa mia.

— Ma una spia che indichi....

— Allora è un altro par di maniche.

Abbassò la voce e guardandosi attorno disse:

— E il caso di questa sera!...

Il padre lo guardava bieco.

— Ma sì — disse il giovane a voce alta — non li vedete che son gente per bene (e indicava noi). Che avete paura che ci tradiscano?

— Non si sa mai — disse cupamente il vecchio che pareva preoccupato.

E la madre aggiunse con tristezza:

— Tu, figliuolo, fai troppo a fidanza col tuo coraggio!

Io allora per rassicurarli dissi chi ero; ma il giovane che aveva da vero un aspetto franco e non imbelle, levò le spalle, fermò la mia mano che voleva estrarre il portafoglio per documentare le mie asserzioni, e disse: — O [p. 37 modifica]che non li conosco io i signori e le persone per bene? Dunque stiano a sentire e lei, signorina, si faccia cuore: ecco: l’indicazione l’ho data io al delegato di S. Piero in Bagno: e sono venuti stassera travestiti da contadini: c’è il delegato, che è uno che ha il muso duro, e quattro agenti. Hanno cenato qui e una mezz’ora prima che arrivassero lor signori, hanno preso alla spicciolata la via del bastione: è per questo che ho chiesto a lor signori se avevano veduto qualcuno per via, venendo qui.

— E perchè verso il Bastione? — chiese la mia compagna.

— Perchè i briganti — io lo so di sicuro — si sono rifugiati lassù....

— Fra quelle felci?

— Brava! lì presso c’è la casa d’un contadino che fa il manutengolo (Io guardavo la mia compagna che era smorta come un cencio e la guida che stava a bocca aperta senza però mangiare; e anch’io, suppongo, un aspetto molto allegro non lo dovevo avere). O lì, o lì presso devono essere, e se non era per babbo e mamma, ci volevo andare anch’io. Me l’han giurata, ma l’ho giurata anch’io a loro, e vedremo chi la vince!

— Tu tornerai in Maremma, tu! — disse il babbo.

— E presto — aggiunse la mamma,

— Zitto! — disse il giovane levandosi in piedi e tendendo l’orecchio nell’attitudine del cacciatore che avverte ogni piccolo suono.

— Che è? — e ci levammo anche noi in piedi.

— Niente, niente! — sono i due carabinieri che vengono di pattuglia dalle Balze: sono bene in ritardo!

Due passi sincroni udimmo anche noi sul selciato, e si fermarono alla porta dell’osteria.

Una voce grossa d’uomo canticchiò:

— Ehi, di casa! buona gente!

Al lume della luna e fra il silenzio dei monti i [p. 38 modifica]suoni più lievi acquistano un carattere paurosamente sonoro.

La mia compagna rabbrividì:

— Ecco i briganti, ci siamo — e mi si attaccò ad un braccio. Poco dopo fu battuto contro la porta di strada col calcio del fucile.

— Ma no, signorina, — disse il giovane — o non ha inteso che sono i carabinieri? — e si affacciò alla finestra con un: — Siete voi? ora vi vengo ad aprire.

Ma si ritirò facendo un gesto di malcontento che non prometteva niente di buono.

— C’è quell’imbecille di Villotti; avevo già capita la voce! — disse a’ suoi, e scese ad aprire.

Io voleva domandarne il padre, ma egli si era fatto già contro la porta.

Sentimmo levare i catenacci, barattare un saluto, poi due passi gravi, accompagnati dal tintinnar cupo delle armi, montarono le scale e apparvero i due carabinieri.

— Buona sera, ragazzi! — disse la donna.

— Buona sera a voi, e alla compagnia — aggiunsero vedendo noi.

Deposero i due fucili presso la porta con un «auf!» di sollievo, si stirarono le braccia e si accostarono al camino.

— Cara la mia Ceccona — disse l’uno dei militi andando appresso all’ostessa quasi da abbracciarla — hai una bottiglia proprio di quello fino che fa venir giù le lagrime dalla commozione? Sta attenta: questa te la pago io coi miei soldi, e se invece non me la dai, non ti faccio il buono per il sindaco di Verghereto, hai capito?

— Io — disse l’ostessa — ho questo qui da darti — e gli levava un bastone della fascina, contro il viso.

— Oh, come sei cattiva, Ceccona, questa sera! Si vede che Beppe non ti ha fatto buona compagnia stanotte.

— Gli è, vedi, Villotti — disse il figliuolo dell’oste [p. 39 modifica]— che se mamma ti dà con la scopa, io prendo lo scudiscio che è di nerbo di bue.

— Come sei cattivo anche tu! Dammi almeno la bottiglia.

— La bottiglia non te la diamo.

— E perchè mo’? Credi che non abbia soldi?

— Ti dico di no.

— Allora mezzo litro....

— Mezzo litro sì: ora te lo vo a spillare.

— E non ci aggiungere acqua, eh!

I due militi non facevano niente affatto onore alla benemerita arma. L’uno mingherlino, imberbe, con una faccia pallida, e due occhi spaventati, in nostra presenza non disse una parola: si sedette in disparte su di una cassa panca e rimase lì tutta la sera: pareva istupidito.

L’altro che parlava toscano, sotto cui però si indovinava il natio dialetto veneto, era un omaccio di mezza età, più adiposo che gagliardo, con un volto congestionato e affocato.

Lerci poi ambedue; la metà inferiore della divisa era coperta di polvere: la metà superiore di padelle, strappi e frittelle.

Lessi negli occhi della mia compagna l’impressione disgustosa prodotta dalla vista e dal contegno dei due militi: tuttavia in omaggio al vestito mi credetti in obbligo di essere con loro cortese e li invitai alla mensa dove sedevamo noi.

Non ci fu però bisogno d’invito; quello mingherlino non si mosse e ringraziò a pena: l’altro si sedette in modo che si sarebbe seduto anche senza invito. Offersi da bere e quegli tracannò il bicchiere colmo d’un fiato.

— Non gliene dia, non gliene dia — mi disse dietro le spalle il giovane che veniva su dalla cantina — ha qui il suo mezzo litro che gli è di troppo.

— Come sei cattivo, Menico, con me! Tu non mi vuoi più bene — mugolò il carabiniere. [p. 40 modifica]

— Senti: prima mi devi fare il buono — e gli porse un foglietto, penna e calamaio.

Lo sciagurato tracciava i segni sulla carta con mano vacillante che faceva pietà.

— Se tu tieni la carabina come tieni la penna — lo schernì il giovane — i banditi ti possono ballare la monferina davanti!

Ma quegli non udì o era troppo intento nello scrivere.

— Questo, veda, signorina — disse il garbato giovane alla mia compagna che ne lo domandava — è il buono che ci rilasciano i carabinieri quando si fermano qui a mangiare o a dormire per il servizio: loro bevono e mangiano quello che vogliono....

— A proposito, ragazzi — disse l’oste — volete voi cenare?

Lo scrivente fece cenno di no con la testa e l’altro milite disse che avevano mangiato due ore prima alle Balze.

.... quello che vogliono e non pagano niente: hanno tutte le fortune....

— Oh, sì! — grugnì stavolta il milite levando la testa dalla scrittura.

.... tutte le fortune: noi poi si va ogni tanto alla cassa del comune di Verghereto per farci pagare il nostro importo: si paga da vero un bel servizio: voi lo vedete.

Io mi sforzai di provocare il carabiniere ad un discorso possibile e sensato, e gli chiesi de’ malandrini, se li avessero veduti, se almeno sapessero dove bazzicavano; e tali domande le rivolgevo per sapermi regolare sul da farsi il domani: chè non era partito da pigliarsi a cuor leggero. Ma non riuscii a cavargli di bocca che poche e confuse parole.

Anche qui intervenne il giovane con sicurezza offensiva di parole che mi sorprese. Anche suo babbo gli diè sulla voce: [p. 41 modifica]

— Tu ne dici di troppe, stassera!

— State cheto, babbo, che io ho tutte le cose mie a posto e so quel che faccio e so quel che dico! — e a noi spiegò così:

— Che cosa vuole che lui sappia dove sono i banditi? Lui fa le sue pattuglie, poniamo come questa sera, dalle Balze a Monte Coronaro: se i banditi fossero a due passi, dietro una macchia, in una cascina, credano pure che lui non si scomoda per andarli a cercare. Lui fa la strada che gli è prescritta. Per far capire poi che è in pace con tutti e per schivare che loro lo prendano di mira, o mette il fazzoletto — bandiera bianca — in cima alla carabina; o viene qui cantando per tutta la strada, quant’è lunga, e per potere cantar meglio si mette in corpo un paio di fiaschi, senza il vetro, ben inteso.

Parlava quell’aitante giovane stando in piedi, con voce sarcastica tanto che io temeva ad ogni ingiuria che il carabiniere s’avesse a levare in piede e i due si azzuffassero: invece nulla. Colui crollava il capo e diceva ogni tanto: «Eh, sie!» oppure «non mi vuoi più bene, Menico!» e piuttosto fissava con insistenza me e la mia compagna.

Infine puntò il dito contro di noi e come avesse trovato le idee che cercava, disse:

— Loro due sono saltimbanchi, è vero?

Io e la mia compagna ci guardammo in volto sorpresi più che sgradevolmente alla domanda villana.

Cercai di persuadere che non eravamo saltimbanchi, e anche per prevenire una possibile ingiunzione di mostrare le nostre carte, levai dal portafoglio il libretto delle riduzioni ferroviarie con tanto di stemma sabaudo e di scritta: Ministero della P. Istruzione.

Speravo che la vista del documento avrebbe avuto forza di far ritrattare la poco lusinghiera asserzione: ma non fu così: il carabiniere non si commosse niente alla [p. 42 modifica]mia presentazione e insisteva che noi eravamo due saltimbanchi.

— A voi — mi disse con tuono prepotente — vi ho visto alla sagra di S. Piero far ballare l’orso, e quella bella biondina l’ho vista saltare su la corda.

L’ostessa si era accostata a noi col lume in mano e disse:

— Se vogliono venire a dormire, la stanza è pronta.

Demmo la buona notte e salimmo in una stanza del primo piano che ci era stata allestita. Era quanto di meglio ci rimaneva da fare per allora.

— Doveva proprio capitare quello sciagurato d’un carabiniere — disse la donna posando il lume che rischiarava a mala pena una stanzetta bassa, nuda, con un odore di chiuso e di reste di cipolle, appese ai travi, e da un lato occupata tutta da un letto così alto che per salirvi ci voleva la scala,

— Vedano — proseguì — quello lì è un prepotente, un cattivo, un poco di buono: con gli altri si prende la libertà di fare e di dire. Non ci è che mio figliuolo che lo faccia star a dovere e più gliene dice, più lui sta cheto. Un dì o l’altro finisce alla compagnia di disciplina. Loro però, a ogni buon conto, mettano il catenaccio all’uscio e non aprano, veh! Già non busseranno, ma dovessero anche bussare.... — e ci diè la buona notte.

Buona notte! Crudele ironia dell’augurio! Apro la finestra per dare aria a quell’antro e, tratto il catenaccio, lo scuro della finestruola stridette sui cardini e si aprì da per sè. Meravigliosa notte! La luna innondava di un bagliore purissimo la cupa valle: il Fumaiuolo, come un’immensa schiena chiudeva l’orizzonte, lasciando poco spazio al trasparente azzurreggiare del cielo. Sotto, digradavano i tetti d’ardesia delle poche casupole di Monte-Coronaro, immerse in un silenzio lugubre, a pena rotto dallo scalciare di qualche giumento nelle stalle. [p. 43 modifica]

Sentii un singhiozzare represso dietro di me. Era la mia compagna che piangeva.

— Oh, ci mancava questa e poi il terno è fatto!

— Come sei sgarbato, anche tu.

— Niente sgarbato, non sei stata tu a volermi seguire? — e cercai di persuaderla (e ogni persona sana di mente deve sapere quanto sia difficile persuadere con le parole e con la ragione una donna che piange) cercai di persuaderla che le lagrime non miglioravano affatto la nostra situazione, tutt’altro che conforme alla lietezza di una gita di piacere. La consigliai di buttarsi sul letto e di dormire.

— Ma domattina come faremo?

Era proprio quello che pensavo anch’io, e soluzioni non ne trovavo.

— Adesso riposa — dissi — che ho un mio progetto in mente che non può esser migliore.

Ella cadeva più dalla stanchezza che dal sonno, e, senza nemmeno svestirsi, salì e si buttò sul letto dove scomparve nella buca del pagliericcio.

Sentii le foglie del detto saccone scricchiolare, suonare, secondo che ella si voltava: poi più nulla: il sonno era sceso su di lei così pronto e profondo, quale la natura suole con speciale favore elargire al sesso che noi, con evidente eufemismo o metonimia, cioè significando il contenuto col nome del contenente, chiamiamo «gentile!...»

La prima cosa che io feci fu di mettere il catenaccio all’uscio e poi vidi se la rivoltella funzionava bene, giacchè, uomo per uomo, valgo anch’io per uno.

Il silenzio durò poco: i due carabinieri salirono nella stanza attigua alla nostra e sentii il giovane provvidenziale che a voce bassa ammonì:

— Ehi, ragazzi, qui dormono quei forastieri: non fate rumore se no vengo su io. [p. 44 modifica]

Durarono più di un’ora a spogliarsi: si sentiva che buttavano scarpe, abiti, giberna, daga alla rinfusa, sulle seggiole, per terra, senza alcun riguardo, e vociavano come fossero stati in piazza.

Finalmente li sentii sprofondare anch’essi entro il pagliericcio: il lume che trapelava dalle fessure della porta, si spense; e poco dopo due canne d’organo, abilmente alternate, porgevano la migliore garanzia che i due militi dormivano.

La luna si nascondeva oramai dietro il Fumaiuolo: l’orologio segnava un’ora dopo la mezzanotte.

La notte fu, anche per me, spesa in consulte angosciose. La frase non è mia, ma è tolta da quell’insuperabile libro dei Promessi Sposi: e fra i molti progetti ventilati ci fu quello di accompagnarci ai carabinieri, i quali al mattino si dovevano recare a S. Piero. S. Piero in Bagno è sulla via provinciale che unisce Toscana e Romagna e vi passa la diligenza ogni giorno. Ma a parte l’idea poco lieta di fare cinque ore di montagna con que’ due compagni non degni, si veniva a descrivere un raggio grandissimo che avrebbe richiesto danaro e tre giorni di tempo, là dove, ricalcando il battuto sentiero pel Fumaiuolo e per la Cella, a due ore di sole a far molto si poteva essere di ritorno a S. Agata. Ma confesso che l’idea di avventurarmi per quei boschi, per quelle forre dove non s’incontra anima viva, dove il primo uomo che spunta può essere il bandito che vi intima di scendere, non era punto piacevole.

Ad onor del vero debbo confessare che se fossi stato solo non mi sarei dato tanto pensiero, ma con una donna!... Già viaggiare con una donna è piacevole da un lato, ma dall’altro crea un’infinità di impicci di vario genere, come la mia situazione d’allora può dimostrare.

Si poteva battere un’altra via e farci per un buon pezzo accompagnare dal figlio dell’oste con la sua brava [p. 45 modifica]doppietta. La guida, vecchio e male in gambe com’era, non doveva porgere un gran baluardo, ma in lontananza figurava per uno e dovea aumentare la schiera e quindi incutere ai malandrini un certo rispetto. Ma non mai come allora mi parvero serie quelle, che sempre mi erano parse ridicole, parole dell’immortale Don Abbondio quando, al calare dei Lanzichenecchi, si reca al castello dell’Innominato e ragiona con Perpetua del pericolo che può addurre quella mostra di armi: «Non sapete che i soldati è il loro mestiere di prendere le fortezze?»

E se quei malandrini fossero stati come tanti banditi, diremo così, per bene, la cosa mutava aspetto. Sarebbe stata un’emozione da provare, e piacevolissima da raccontare. Si poteva tener loro questo discorso: «Ma sì, brava gente! ecco la borsa: ve la avrei data anche senza richiesta. I banditi mi sono sempre piaciuti dal tempo che leggevo Die Räuber dello Schiller. Anche il Byron li dipinge assai bene. La vita libera pei monti!...» Essi ci avrebbero fatto ala ai due lati del sentiero col cappellaccio in mano, e noi avremmo progredito alteramente sulle nostre cavalcature.

Ma dei banditi notoriamente sanguinari e con una taglia di mille lire non mi sorridevano.

Se altri partiti sapesse imaginare chi legge, lo avrei grado: chè io quella notte altri non ne trovai.

E quella luna il cui bagliore sfuggiva dietro il monte, e quelle canne d’organo che rompevano il silenzio notturno incutevano una ben singolare tristezza.

Mi addormentai finalmente anch’io.

«Il primo svegliarsi, dopo una lunga sciagura e in un impiccio, è un momento molto amaro».

Anche questo dice con la consueta acutezza il [p. 46 modifica]Manzoni, ed io quella mattina esperimentai la verità della sentenza.

— Poniamo che i malandrini — pensavo io fra me — sequestrassero la mia compagna, imponendo una taglia!...

(Questa supposizione si prestava a certi corollari di cui farò grazie a chi legge).

Come discesi nella stanza a basso, il sole era già alzato.

Una mattina fresca, deliziosa, trasparente, tutta olezzi e rugiada. Oh, come sarebbe stato piacevole riprendere il viaggio senza quei maledetti banditi!

— To’ guarda! dieci giorni di carcere starebbero proprio bene — dissi sdegnato al vedere le due carabine, lì in cucina nel posto medesimo dove le avevano lasciate alla sera.

L’ostessa stava facendo il caffè; sul tavolo avea preparato le tazze e una scodella di latte.

Vennero giù i due carabinieri e mi salutarono a pena.

— La mia sposa, voglio la mia sposa! — urlò l’ubriacone, battendo col pugno sul tavolo.

— Ecco la sposa! — disse la donna che pareva accostumata a quella frase, e portò due bottiglie e ne riempì un bicchiere da tavola, metà di rhum e metà di mistrà.

— Contento, così?

— Va bene! — e rivolto a me, credette opportuno aggiungere: — Sono rauco: del resto un bicchierino mi basta.

— Difatti.... — dissi io seccamente, e seguitai a pensare a’ miei casi, e quegli a bere.

— Dov’è suo figliuolo? — chiesi io accostandomi all’ostessa.

— È andato via col cane a caccia prima dell’alba — rispose sottovoce la donna. — Se c’era lui in casa, non glielo [p. 47 modifica]davo mica tutto quel liquore. Quel tristo lì credo che abbia un solo dispiacere, di non aver la gola lunga come quella di una cicogna. Ma zitto, non si faccia capire. Del resto la gente di polizia che ho conosciuta, dal più al meno, tutta così: bevono come pive. E proprio quella volta che bisogna star desti, giù vino a garganella!

Entrò in quel punto la guida con un’aria più melensa e con un fare più dinoccolato del solito.

— Ebbene? — gli chiesi.

— Le bestie hanno mangiato.

— Ho tanto piacere, e hanno anche dormito bene?... Imbecille — conchiusi fra me.

— E a che ora partiamo?

— Per me sono sempre pronto.

Già per lui è tutt’uno — dissi fra me; a lui i banditi non possono fare alcun male, soldi non ne ha....

— E passiamo per la Cella?

— Se non vogliamo passare per quelle macchie, possiamo pigliare una strada più scoperta e fare un sentiero più battuto. Andiamo alle Balze, di lì caliamo sul Senatello, e poi si va sempre pel greto del fiume, sino a Castel d’Elci: quando siamo a Castel d’Elci, siamo quasi a casa: adesso c’è una strada nuova....

Ma anche il vecchio idiota sembrava turbato: forse pensava al sequestro possibile dei suoi due asini: parve pensoso poi disse:

— Se a Sant’Agata avessimo avuto sentore di quest’impiccio, si poteva aspettare prima di metterci in viaggio: non è vero?

— E se conducessimo con noi il figlio dell’oste con lo schioppo? — chiesi io.

La mia idea non piacque alla guida.

— È più il pericolo che il beneficio: veda: i banditi fanno così: davanti sul sentiero viene fuori uno solo e dà l’ordine: ma dietro le macchie stanno gli altri che [p. 48 modifica]non si vedono. Se si ubbidisce, tutto va bene, ed è così che anche un bandito quando ha un buon nome e del sentimento, basta da solo a far smontare di sella anche una compagnia di venti persone, come è accaduto al ritorno della fiera di Verghereto (e qui i particolari del fatto narrati con quella prolissità che è speciale del linguaggio naturale del popolo), ma se vedono uno che a pena fa segno di volere resistere, fanno partire il colpo, e allora a chi tocca tocca; e quel giovane, che sarà anche bravo, mi ha l’aria di una testa calda. Senz’armi, in certi casi, è meglio: lasci fare a me, si fidi di me: noi pigliamo una strada dove gente cattiva non batte. Andiamo pian pianino: facciamo una bella colazione a Castel d’Elci e prima di sera siamo a S. Agata. E poi a questi banditi non ci creda: sarà qualche povero diavolo che si è dato alla macchia: se si incontrano basta averci rispetto. Ha visto coi cani come faccio io? li chiamo — To’ Fido! — e così fa lei coi briganti. Vuol dire che invece di buttarci un pezzo di pane, ci allunga un cinque lire e se ne vanno contenti. Dico bene? Non abbia paura! Vero signorina che non bisogna avere paura? — e il vecchio si rivolgeva alla mia compagna che appariva allora in sull’uscio.

— Oh, io non so, è un gran brutto impiccio: un’altra volta non ci vengo più con te: una settimana fa ci siamo avuti da affogare per andare a Venezia su quel maledetto piroscafo...., adesso....

Io avrei voluto e potuto osservare una seconda volta che era stata lei a volermi accompagnare sì nell’una che nell’altra gita, in omaggio ad un certo articolo del Codice civile che oramai sarebbe tempo di cambiare: ma per la ragione detta sopra, stimai prudente tacere.

La guida spiegò alla mia compagna l’itinerario nuovo per il ritorno con gran copia di particolari che a lei non importavano un bel niente, ed interruppe dicendo: [p. 49 modifica]

— Basta che si arrivi sicuri, senza far cattivi incontri, un po’ prima o un po’ dopo, è lo stesso.

Le domandai se avesse dormito bene la notte e mi rispose di sì.

— Un po’ fondi quei materassi, e ogni volta che ci si muove fanno un rumore....

La vista poi del latte munto, del burro fresco, delle croste di pane abbrustolito che l’ostessa avea allora posate, calde calde, sul desco, finì col rabbonirla del tutto: e si mise a mangiare con grande raccoglimento e soddisfazione.

Ed io che la vedevo immergere nel denso latte quelle fette di nero pane spalmate di burro e poi mangiarsele — se non avessi avuto altri pensieri allora per il capo — avrei meditato sull’opportunità, per ogni uomo che viaggi con donne, di portar seco sempre qualcosa di pronto e di efficace onde, come elle sono agevolmente immemori, scordino la causa del malumore e in qualche modo si riconfortino: al quale effetto allora valeva quel caffè e latte montanino.

E così stando, sentimmo a un tratto i due carabinieri che in quel mezzo di tempo erano saliti alla loro stanza, scenderne a precipizio, l’un dietro l’altro: afferrarono le loro carabine — lasciate, come ho detto, lì in cucina — e si buttarono giù per le scale.

— Che c’è — domandò la mia compagna levandosi in piedi.

— Che c’è? — domandai io all’ostessa.

Ma essa, senza darmi risposta, avea buttato via una padella che teneva in mano, e su per le scale al piano superiore.

Corsi alla finestra e vidi i due carabinieri che già avevano oltrepassato il villaggio e correvano disperatamente per la radura.

— Qui c’è del mistero, oh, che imbroglio! — pensavo [p. 50 modifica]tra me; e la mia compagna aveva interrotto la colazione e tremava come una foglia.

In quel punto la voce dell’ostessa disse dall’alto:

— Vengano a vedere, signori!

Salimmo su. E ci prese per il braccio, ci spinse alla finestra e indicando un punto lontano dalla parte del bastione, sclamò festosamente:

— Li han presi, li han presi! Vedono?

— Chi?

— I banditi! fossero almeno tutt’e tre! — sospirò poi. — Di qui non si vede se non un gruppo di gente.

— Dove?

— Là, guardi in direzione di quel grosso olmo sul poggio: vede un gruppo di gente? È il delegato con i suoi uomini, e c’è il mio figliuolo, e poi degli altri: li vede?

— E i carabinieri perchè ci vanno incontro? — domandò la mia compagna.

— Per dar man forte, ora che non ce n’è più di bisogno, i poltroni. Da qui a mezz’ora saranno qui.

Dalle capanne intanto di Monte Coronaro alcuni gruppi di gente si staccavano, e tutti movevano a quella volta. L’oste venne dove eravamo noi e disse alla sua donna:

— C’è anche Sbircio: li hanno acchiappati tutt’e tre, meno male: io non lo distinguo, ma il garzone che ha la vista buona, ha detto che c’è anche lui.

— Che il Signore sia benedetto! — sclamò la donna.

— A me della taglia di mille franchi che tocca al mio figliuolo.....

— e sacrosanta! — confermò il vecchio.

.... non importa un bel niente: voglio far tanta carità e dir tante messe; ma m’importa che abbiano catturato quell’infame dello Sbircio....

Anche noi ci sentivamo liberati da un gran peso, e la vecchia guida sorrideva dalla contentezza. [p. 51 modifica]

— Andiamogli incontro anche noi?

La compagna esitava:

— E se scappano?

— Per quello vedrà che non scappano — disse l’oste. — Pigliarli è difficile, ma una volta che hanno le mani dentro le manette....

Ci avviammo coll’oste; e, andando, egli ci spiegava così:

— Veda; lo Sbircio è proprio cattivo: gli altri due sono due poveri diavoli che non fanno male a nessuno: saranno tre anni che battono questi luoghi: si accontentano di andare dai possidenti e domandare un po’ di roba; ma con le buone, senz’arroganza e poi si appiattano per le macchie: i carabinieri li conoscono; fanno la loro pattuglia, e li lasciano stare: Vivi e lascia vivere, dico bene? Quante volte non sono venuti a mangiare anche da me! Ma quello Sbircio, che è quello che è scappato dalle prigioni della Pieve, gli è proprio un infame: un mese fa ha scannato una povera ragazza che badava le sue pecore sul Fumaiolo. Ma sono cose da farsi? Vuoi assaltare un inglese, un forastiero che viene a vedere le sorgenti del Tevere? Assaltalo, senza fargli male, però. Ma scannare la gente del paese da cui potete avere sempre bisogno, non va! Se non ci fosse la forza, lo si farebbe a pezzi quell’infame!

Non mi parve opportuno in quelle circostanze contrariare le idee liberali, le chiamerò così, del mio barbuto ospite, il quale proseguì:

— Il mio figliuolo è più buono di un pezzo di pane, ma certe prepotenze non le può sopportare. Una sera, pensi, all’ora che si andava a letto, capita lo Sbircio. Noi lo si conosce, e zitti.

Ordina da mangiare e mangia, ordina da bere e beve, ordina la stanza e gli si dà la stanza; hai avuto quello che vuoi? sta buono, sta contento. Dico bene? Che, che! Si alza e [p. 52 modifica]dice «Domattina, Menico (precise parole) mi farai trovare giù la tua cavalla sellata e stassera gli vai a dar la biada».

— La mia cavalla non te la do — dice lui.

— Tu me la darai — dice lo Sbircio.

Allora il mio Menico lo prende per il petto, l’altro fa per tirar fuori il coltello. Allora mi butto addosso io e lo teniamo lì fermo. Mio figlio lo voleva scannare, e lo Sbircio ruggiva: «Tu vuoi la taglia, vigliacco d’una spia!» È stata la mia donna a salvarlo, che ha detto: «Lasciatelo andare, volete rubare il mestiere alla polizia? non vi vergognate?» E lo abbiamo lasciato andare e abbiamo fatto male, perchè lo Sbircio da allora la giurò al mio figliuolo. Questa notte, quando noi siamo andati a letto, lui è scappato col cane e col fucile ed è andato lassù sul bastione a dar la caccia a quella bestia selvatica. Lui sì, vedano, ha il fegato sano, altro che quei poltroni di carabinieri....

E così ragionando, non senza qualche trepidazione eravamo, fra molti altri del luogo che ragionavano animatamente di quella cattura, giunti presso la compagnia dei banditi e delle guardie.

Riconobbi Menico col suo fucile e un bellissimo bracco che gli saltava accanto. Davanti procedevano i due carabinieri che avevano recato il soccorso di Pisa e tenevano la catena dei tre ammanettati. Dietro seguivano il delegato e le guardie.

— È ferito qualcuno? — domandai a Menico che, scortici a pena, ci era venuto festosamente incontro.

— 11 delegato si è buscata una palla: fortuna che l’ha sfiorato a pena, ma il tiro era buono, vero, Sbircio?

E si volgeva ad uno degli ammanettati che non rispose: ma rivolse due occhi che fecero voltare in dietro la testa alla mia compagna.

— Datti pace, Sbircio, per questa volta hai l’alloggio sicuro fin che campi. [p. 53 modifica]

Parevano i tre malandrini tre bestie feroci, prese alla taglia: pallidi, esterrefatti, con gli occhi dilatati e spauriti. Anche le guardie, con gli abiti stracciati, coperti di polvere, recavano nel volto le visibili tracce della sofferenza nella lunga attesa notturna, e della lotta accanita che avevano dovuto sostenere.

Mi accostai al delegato che camminava per ultimo con la fronte bendata col fazzoletto. Era un uomo di mezz’età, una fisonomia buona e aperta. Mostrò di accogliere con riconoscenza le nostre domande premurose.

— La ferita è niente: ma un centimetro più in dentro, ed era finita: mi dispiace perchè ho due bambini piccoli a casa. Vuol vedere che arma avevano? Dia qua.... — disse ad una delle guardie che teneva una carabina ad armacollo, e quegli gliela porse. — Guardi che arma stupenda di precisione!

E andando, ci facevamo raccontare l’appostamento notturno e come avvenne la cattura in casa del manutengolo.

— E quello non l’hanno preso?

— Quello lì è rimasto sul luogo: come si fa? Hanno fatto resistenza e abbiamo dovuto difenderci: un colpo è andato male e ha steso per terra quello che ne aveva meno colpa di tutti....

— Ma se era un manutengolo.... — dissi io.

— Veda, caro signore, qui non si può giudicare coi criteri assoluti con cui possono giudicare loro nelle grandi città e nei loro giornali: molte volte si è manutengoli per forza o per guadagnare qualche danaro: intanto lassù ci sono tre bambini e una donna che piangono attorno ad un morto, o moribondo che sia.

— Fra quelle felci?

— Fra quelle felci. È la vita che è fatta così! — concluse filosoficamente il delegato. — Gli manderemo su il prete di Monte Coronare con l’olio santo, se ci vorrà andare. [p. 54 modifica]

— Se gli do io la mia cavalla — disse Menico che aveva inteso — ci andrà. La mia cavalla in un’ora è su, e in mezz’ora è giù. Ma se no, no. Gli darà l’assoluzione coll’asperges da qui. Garantisco io!

Si era giunti al villaggio.

Il delegato sottrasse in una stalla i miserabili dalla curiosità e dalle ingiurie della gente: volevano sputar sul viso allo Sbircio: gli buttavano immondezze sul volto.

— Adesso me la darai è vero, la mia Ceccona, la bottiglia di vino fino? Se non me la dai, lo faccio scappare lo Sbircio.... — diceva il carabiniere all’ostessa.

— Per la bella fatica che hai fatto!

E noi, preso commiato da tutti, ci partimmo assai lietamente alla volta del grande ed erboso monte da cui, dal tempo di Enea troiano, volve continuamente l’acqua del fiume Tevere.

E benchè la colazione alla Cella dovesse, secondo ogni buona promessa, essere copiosa, pure volle la guida portar seco il pane e la frittata rimasta in cucina dalla vigilia. Oh, non era pagata? Gli si era destato un grande appetito.

E mentre gli asinelli salivano i botri del rupestre sentiero e scandevano gli aspri sassi, la mia compagna mi parlava festosamente delle fragole, dei lamponi, della ricotta fresca che ci attendevano alla Cella.

— Vogliamo portarne un bel cesto ai bambini e alla nonna, è vero?

Per mio conto pensavo che le manette in certi casi sono pure un grande istrumento di civiltà; e che se il secolo ventesimo perderà la cieca fiducia che il secolo decimonono ha avuto nell’alfabeto, riconfermerà però quella per le manette, bene applicate con giudizio, si intende!