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dalla padella nella brace 27

di Camaldoli, sin dal mille. Oggi non frati, non campana, ma una grande ruina di cadenti edifici. Se vi fosse spuntata Angelica sul bianco palafreno, nessuna meraviglia: vi spuntò invece un villano che parlava mezzo romagnolo, mezzo toscano, e disse che vino non ne avea, ma avea una ricottina fresca e delle uova. Ci guidò per i labirinti di quel grande edificio in ruina, nè mai asciolvere senza vino parve più delizioso. Il luogo era dunque così ameno e singolare che si accolse la proferta del villano di fermarci quivi qualche giorno, al ritorno della Vernia: avrebbe allestita una stanza e: «Vi piacciono i lamponi e le fragole?» domandò. I boschi ne erano pieni e ce ne saremmo levata la voglia. Del resto, per non defraudare il Santo Vero, dirò che quello lì della Cella è uno dei pochi punti dell’Appennino che io abbia ritrovato coperto di verde e di bosco. Povero, pittoresco Appennino, ispiratore, io penso, di Ludovico Ariosto, quando trasognato lo attraversava — come più e più volte gli avvenne nel suo ufficio di messo estense alla Corte di Roma — e le verdi, dense solitudini popolava di dame erranti, di maghi e di eroi — povero Appennino, come mutato sei tu!

Le splendide foreste che ornavano le tue cime sono state distrutte. Esse fremevano in mancanza di fremiti umani, ai venti dei due mari che, dall’alto, lungi azzurreggiavano. Scomparse! Per quanto si stende l’occhio, monti brulli, falde che franano, o riarse al sole o lavate dalle piogge, che scendono minacciose ai subiti torrenti.

Per dissodare una breve conca, dove il grano giunge etico e a stento a maturità in sulla fine d’agosto, hanno atterrato le sacre piante che videro i secoli.

E quanta fosse la bellezza delle foreste dell’Appennino ne è saggio quella, veramente divina e meravigliosa, che s’erge sul pianoro della Vernia, dove nel nome di S. Francesco, è vietato uccidere pianta viva. E il signor Sabatier, nella sua Vita del Poverello d’Assisi, rivendica