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28 dalla padella nella brace

la gloria di quel bosco sacro e lo chiama fra i più belli d’Europa.

Proprio lì, presso la Cella, alcuni montanari con funi tese e orrendi colpi al tronco, abbattevano una quercia così grande che copriva con la sua ombra tutto un pendìo. La bella pianta, come cosa viva, fremeva pel gran tronco e per i rami alle percosse mortali e squassava, ad ogni tratto di fune, la chioma veneranda e magnifica. Non voleva morire.

Io chiesi a quei montanari se non conoscessero per caso il Nuovo Culto delle piante e la festa degli Alberelli, e gli annui discorsi bellissimi in onore alle piante che i direttori e le signore direttrici delle scuole elaborano con grandissima arte di stile.

Coloro mi risposero mortificati che non conoscevano tutti questi signori e nemmeno l’Arbor’s day. Non erano ancora arrivati lassù. Lassù — assicurarono — arrivava soltanto, e regolarmente, il signor Agente delle tasse. Bisogna dunque far legna da vendere.

E le scuri si levarono, inesorabili come il signor Agente.

Dalla Cella si monta sempre per certe forre chiuse e paurose sino in vetta del Fumaiolo.

«Oh non sarà mai detto che io sia giunto sin qui, che abbia studiato tanto latino senza vedere le sorgenti del Tevere, Tiberis, accusativo Tiberim» esclamai. «Oh, dove ascondi il sacro capo, fiume divino di Romolo e di Enea?»

Nessuna risposta: solo alcune giovenche e capre, solinghe alla pastura, come al tempo di messer Angelo Poliziano, e riparate sotto l’ombra d’un gran sasso, ci riguardavano co’ loro occhi solenni. E avrei avuto un bel