Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/104

26 dalla padella nella brace


In linea retta, o meglio, a volo d’uccello, saranno a far di molto, un trenta miglia: invece, dovendo di continuo salire e scendere per i monti, la via si raddoppia e il fatto è che noi, partiti da S. Agata che le stelle erano ancora alte, giungemmo al convento a pena in tempo, giacchè dopo l’ave-maria il frate portinaio chiude, e chi è dentro è dentro, e chi è fuori si trova a mal partito e solo i grandi faggi gli possono dare ospitale ricovero, chè, lì d’intorno, per un raggio di più e più miglia, non v’è un casolare.

Noi si era in cinque, comprese le bestie: due somari, i quali nel paziente loro animo non debbono di certo aver benedetta la memoria di S. Francesco; una giovane signora la quale accampò certi suoi diritti per seguirmi in quel viaggio; la guida, che fa quattro, un vecchio ignorante, secco e sbilenco che amava più di star su l’asino che di camminare, ed io. Era il mese di luglio.

Quando si levò il sole eravamo già nel regno delle felci e delle ginestre. Rocca Pratifa si perdeva in lontananza: davanti l’Appennino deserto, selvaggio, e noi su e giù per sentieri che eran piuttosto tane e rompicolli, con certe pietre che le vie dell’Abissinia ci sono per nulla; e il sole dardeggiava su quelle rocce cineree, e non un filo d’acqua. E la domanda continua era: «O dov’è la Cella! o quanto manca alla Cella?» chè quivi la guida ci avea promesso la prima sosta e bel ristoro e buon soggiorno.

Vi giungemmo alle dieci, e non so come pensai a messer Ludovico Ariosto. È quello della Cella un paesaggio ariostesco: una conca di smeraldo, rotta dall’argento di un rivo, intorniata da neri abeti e faggi, bellissimi. Il nome intero della Cella è: Cella di Sant’Alberigo o Romitorio d’Acri, in orrida e profonda valle, allora sorrisa dal sole, sopra cui si eleva il monte a tre dossi della Cella. Abitarono quel romitorio i frati bianchi di