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dalla padella nella brace 31


Il dì seguente eravamo tutti amici: ospiti (chè molti ce n’erano) e frati. Io ebbi una stanzetta per me, pulita, semplice, fresca che era una delizia, senza specchio, ben inteso, e coll’inginocchiatoio: ma la mia compagna di viaggio si querelava del malo alloggio all’ospizio delle bizze, ove sono raccolte le donne, giacchè nel convento v’è clausura. E quel ricovero muliebre è detto della Beccia. Fu per questa ragione che anticipammo la partenza con gran rincrescimento de’ buoni padri, che ci vollero pur donare di molti scapolari, coroncine, medaglie, con le quali si era garantiti da mali incontri e da sventure. Certo che i soli amuleti a ciò non bastano e si richiede la fede intensa e la rassegnazione sincera. In questo caso l’effetto degli amuleti è assicurato.

Erano le due del dopo mezzodì quando partimmo: le cavalcature riposate e fresche, attendevano sellate e bardate sotto certi gran faggi al riparo del sole.

La colazione era stata eccellente e la guida si era munita di un paio di bottiglie di ottimo vino toscano come viatico più positivo del viaggio.

Non si poteva partire sotto migliori auspici: e avevamo deciso di pernottare a Monte Coronaro e il dì seguente percorrere la seconda tappa sino a S. Agata Feltria.

Rivedemmo la valle dove avevamo incontrato le pastorelle, ripassammo fra le odiose felci e domandai ancora: «che cosa sono quei sassi negli alberi?»

«Niente!» ripetè la guida «facciamo presto che non ci colga la notte sul bastione!»

Le grige case di monte Coronaro si distinguevano bene lontano, lontano di contro, e l’animo — non so perchè — sospirava di giungervi.