Lepida et tristia/La morte di un Re
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LA MORTE DI UN RE
Allora non era convinto amico della Società per la Pace e gli istinti atavici parlavano potentemente in me: ma forse più che atavici erano malvagi istinti naturali, che troviamo in tutti i bambini, anche in quelli destinati alla grassa pace della sacrestia.
I miei di casa si meravigliavano come io potessi stare per delle ore con un pupazzo in una mano e un pupazzo nell’altra, e non capivano che era un re che parlava ad un altro re suo rivale, vinto, stretto in catene davanti a lui.
Ma in simili casi la concione avrebbe potuto durare delle giornate, tanti erano gli argomenti che il trionfatore avea a sua disposizione per ischiacciare e vilipendere il vinto re! Io non ero malvagio, ma i miei re erano terribilmente feroci, e inesorabili. Quali diritti esercitavano mai!
Un’altra cosa ricordo ancora, cioè che i miei re riposavano delle fatiche belligere in grandi e sontuosi pranzi, i quali corrispondevano a punto a quelli che non si facevano a casa mia, ma erano bensì nel mio desiderio. Sua maestà di cartone era un principe molto vendicativo, ma era anche un goloso eminente.
⁂
Un bel giorno, non ricordo da chi nè come, mi venne regalato un piccolo falco; un falchetto.
Ora quando venne il falco i re furono messi in riposo, anzi furono dimenticati. La polvere cadde su di loro; lo scudiero non venne ad avvertire i nobili signori che già il sole era levato e illuminava la nera foresta sonora: e i palafreni bardati scalpitavano e i mastini odoravano la caccia.
Il senso di profonda soddisfazione che mi invase ai nuovo possesso, evidentemente doveva provenire da questo: cioè che ora possedevo un re autentico, non di cartone, ma vivo; un re dell’aria; un re anzi prepotente e crudele, ma che adesso si trovava sotto la mia giurisdizione assoluta, astretto in catena e sul quale io certamente avrei avuto finale vittoria. Era il medesimo giuoco che continuava, soltanto che la finzione aveva una parvenza di realtà.
⁂
Li avea visti spesso nel cielo i falchi o, più esattamente, me li avevano indicati.
Nel cielo lucido del mattino avea visto certi uccelli che un più trionfal giro volgevano nel cielo: poi si libravano in alto e disparivano nella superba profondità dell’azzurro. Ne avea chiesto ai villani e quelli, sospendendo il placido lavoro della vanga: — Son falchi! — dicevano, — tutta l’aria ubbidisce a loro: quando ci sono quei signori lassù, non vedrai altri uccelli volare e cantare.
Ora un falco stava in mia balìa e lo contemplavo con avida curiosità per iscoprire il segreto della sua potenza. Lo avrei pensato più grande, come un tacchino almeno o un pavone. Era un piccolo re, grosso come una colomba. «Sei un piccolo re!» gli dissi.
Piccolino era infatti, liscio, grigio, con due zampe aduste come due ferri da calza; immobile, con la testa piatta ritirata fra le penne. Immobile come una mummia, supremamente indifferente alle mie ispezioni.
— Dico a lei, signor falco, ha inteso? le ho detto che lei è un piccolo, anzi ridicolo re! — e siccome quegli pareva non tener conto alcuno delle mie parole, tanto mi accostai col dito che lo toccai. Non lo avessi mai fatto! Quel re disprezzava le parole, ma non ammetteva scherzi di mano. Fulminee vidi aprirsi due alacce smisurate che pareva impossibile dovessero star rinchiuse in quel piccolo corpo, e in pari tempo mi ritrassi con la mano ferita; il dosso della mano portava l’impronta di cinque scalfitture, dove il sangue segnò cinque tracce di avvertimento. Come ebbi a lungo contemplata la mia ferita, mi riaccostai al falco, ma con molta prudenza, e lo vidi con regale solennità immobile come prima; solo l’ala rientrava come da per sè quasi serpe che rimbuca, e quattro lunghi e sottili aghi adunchi si ritraevano nei loro alveoli.
I suoi occhietti gialli, tondi, si movevano solo essi, e seguivano ogni mio gesto, come l’imagine nello specchio segue chi vi si affaccia, e col muover delle pupille si moveva un becco breve ma uncinato, di cui prima non mi era accorto, e dava alla fisonomia un aspetto grifagno.
Compresi allora come il piccolo animale, uguale nell’aspetto agli altri uccelli, ne fosse diverso per delle qualità segrete che prima non avea sospettato.
Pensieri di rappresaglia si agitavano nel mio cervello. — Io ti punirò di morte, — dissi con voce di giudice che sentenzia, ma la mia voce risonò a vuoto nello stanzone melanconico, ma era una voce dolce la mia, egli invece mi avea colpito senza emettere un suono.
Gli enumerai con persuasione tutti i suoi torti: — Voi siete un violento, un rapace, un masnadiero dell’aria, voi avete, signor falco, spogliato tanti nidi, lacerato e ucciso tanti innocenti augelletti i quali cantavano la gloria del Signore e provvedevano il vitto ai loro piccini! Gran perfidia fu la vostra, signor falco, ma ora siete in mia balìa e ne sconterete bene la colpa senza alcuna remissione o pietà.
Così fermato il proposito della pena, dopo essermi assicurato che il falco era ben legato, corsi in cerca di un bastoncello e feci per colpirlo.
Ma il falco stette: solo si contorse nell’atto superbo e magnifico con cui sogliono effigiarsi le aquile negli stemmi, e le pupille perforanti saettarono un senso: — Vile!
Ed io non lo percossi.
⁂
Come la mia piccola anima si mutasse, io non so. Ma ricordo che dopo essermi aggirato due o tre volte per la stanzaccia, sentii nascere in me per il prigioniero una grande pietà e una viva ammirazione; ma sopra tutto un indistinto desiderio di farmelo amico, di allearmi a quella sua indomita fierezza, a quella sua forte malvagità.
— Ti faccio grazia della vita per ora, e ti porterò da mangiare, — gli dissi.
E con tale proponimento mi recai da un certo tale, esperto di cacce con l’archibugio e con le panie, e lo richiesi quale fosse il nutrimento dei falchi.
— Cuore e fegato, — mi fu risposto.
Cuore e fegato ebbe, e ben lo seppero i polli della cucina che in quel giorno vennero trovati privi delle interiora, con gran dispetto della fantesca e sorpresa del gatto — un onestissimo e moderatissimo gatto — che mi guardava con le sue fosforescenti pupille come a dire: — ecco un altro che usurpa il mio mestiere di rubare!
Corsi in soffitta e presentando quella superba imbandigione, mi lusingavo di ottenere almeno un cenno di ringraziamento. Non fu così.
Non si degnò nemmeno di chinarsi per toccare quei cibi. — Quando avrai fame mangerai e quando avrai sete berrai, — dissi allora.
⁂
Era azzurro il cielo fuori della finestra; un cielo fondo, pieno di libertà e di silenzi. Ma il falco aveva abbassato sulle terribili pupille le due palpebre gialle e grinzose e rimaneva ritto, rigido, regalmente rigido. Lo contemplai, non un atto per istrappare la catena!
Piano piano, me gli accostai. — Povero falco, — dissi, — vuoi la libertà? — e feci per lisciarlo.
Fu come prima, un istante: si voltò, si rabbuffò, le ali si spiegarono, le cortine delle pupille si alzarono e folgorarono le pupille. Questa volta la mia mano portava, oltre ad un’altra copia di solchi, uno strappo sanguinoso. Mi aveva ferito col becco, in modo che mi fece subito conoscere senza aiuto di storia naturale quale differenza interceda tra il becco degli uccelli di rapina e gli altri suoi pennuti fratelli. La notte dormii con la mano fasciata, e al mattino corsi su in soffitta a vedere che ne fosse del falco.
Il falco non aveva mangiato; il cuore e il fegato imputridivano ai suoi piedi.
— Tu vuoi morire, bestiuola mia, se non mangi, — gli dissi e ogni mia esortazione cadde a vuoto. Le palpebre gli si chiudevano con una non so quale solennità e pareva ed era immobile. Molta tristezza vinse la mia piccola anima infantile e quel dì non giocai.
Andai nell’orto a trovare dei lombrichi i quali strisciavano i loro umili anelli sulla terra; presi larve di insetti, bachi, piccole lucertole, che godevano sul muricciuolo il dolce sole, e fatto di questi innocenti animaluzzi un cibreo che giudicai appetitoso, lo offersi al mio falco. Non mangiò ne meno allora.
⁂
Al mattino seguente era ancora lì, rigido, fermo. Ne ebbi pietà e gli dissi: — Vedi che ti voglio bene e solo desidero che tu ti faccia buono e che noi diventiamo amici!
Ma poi vedendo che non dava alcun segno, e meravigliandomi come potesse vivere senza cibo, ne ebbi alquanto sgomento.
E l’Ave Maria del terzo giorno cantava melanconicamente nel vespero dall’alto di un campanile, quando il falco cadde di botto; le gambe sottili non sorressero più l’esile corpo, e l’esile corpo si era rovesciato all’improvviso. Corsi e con trepidanza paurosa lo toccai; strinsi sotto le piume quel piccolo corpo che non si scosse. Era morto.
Egli, il re dell’aria, aveva vinto su di me.
Allora mi accostai alla finestra col falco fra le mani e, alla luce che ancor pendeva nell’aria, a lungo cercai tra quelle penne di trovare il segreto della sua ferocia, come fanno i bimbi che cercano nei balocchi infranti il segreto del loro moto; ma non ve lo trovai, e da allora ne ebbi grande tristezza.