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dalla padella nella brace 43


Sentii un singhiozzare represso dietro di me. Era la mia compagna che piangeva.

— Oh, ci mancava questa e poi il terno è fatto!

— Come sei sgarbato, anche tu.

— Niente sgarbato, non sei stata tu a volermi seguire? — e cercai di persuaderla (e ogni persona sana di mente deve sapere quanto sia difficile persuadere con le parole e con la ragione una donna che piange) cercai di persuaderla che le lagrime non miglioravano affatto la nostra situazione, tutt’altro che conforme alla lietezza di una gita di piacere. La consigliai di buttarsi sul letto e di dormire.

— Ma domattina come faremo?

Era proprio quello che pensavo anch’io, e soluzioni non ne trovavo.

— Adesso riposa — dissi — che ho un mio progetto in mente che non può esser migliore.

Ella cadeva più dalla stanchezza che dal sonno, e, senza nemmeno svestirsi, salì e si buttò sul letto dove scomparve nella buca del pagliericcio.

Sentii le foglie del detto saccone scricchiolare, suonare, secondo che ella si voltava: poi più nulla: il sonno era sceso su di lei così pronto e profondo, quale la natura suole con speciale favore elargire al sesso che noi, con evidente eufemismo o metonimia, cioè significando il contenuto col nome del contenente, chiamiamo «gentile!...»

La prima cosa che io feci fu di mettere il catenaccio all’uscio e poi vidi se la rivoltella funzionava bene, giacchè, uomo per uomo, valgo anch’io per uno.

Il silenzio durò poco: i due carabinieri salirono nella stanza attigua alla nostra e sentii il giovane provvidenziale che a voce bassa ammonì:

— Ehi, ragazzi, qui dormono quei forastieri: non fate rumore se no vengo su io.