Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/107


dalla padella nella brace 29

cercare per quel gran ripiano erboso del Fumaiolo, se il villano della Cella che ne avea scorti fin lassù, non mi avesse guidato.

Per chi non lo sa le sorgenti del Tevere nulla hanno di interessante: bisogna scendere a un terzo di costa del Fumaiolo, e quivi, in un terreno scosceso e giallastro, che frana, sotto alcuni magri faggi tutti incisi di nomi, rampollano a breve distanza tre o quattro vene da cui si devolve l’acqua che fu ed è declinata da tante generazioni di scolari. I nomi incisi sulle piante erano quasi tutti di stranieri.

Al tocco si arrivò a Monte Coronaro: villaggio abbandonato ai piedi del bastione dell’Appennino, che divide i due versanti.

V’è però un’osteria discreta con stanzette pulite: si capisce che non siamo più in Romagna, ma siamo in Toscana: un bicchier di vino, una fetta di prosciutto e in via. La maggior fatica fu quella di passar l’Alpe. Poi si seguì per un’ora e più il crinale di un monte, sempre entro certe felci così folte e selvagge che montavano sopra la testa; e quel fruscio iroso delle rame che si spostavano al passaggio, metteva un senso di ribrezzo. Incontrammo due o tre alberi spaccati: in alto era inchiodata una croce di legno, nella spaccatura v’erano dei sassi.

— Perchè quei sassi? — mi domandò la compagna.

— Non lo so! — e ne chiesi la guida che precedeva silenzioso, studiando il passaggio.

— Niente — rispose, e pareva incerto della via.

Fu un gran sollievo quando si abbandonarono quelle felci e calammo giù in Casentino: luoghi più colti.

— Ecco la Vernia! — disse la guida e dirizzò il bastone contro l’alto monte che, tutto verde a forma di cono tronco ed uguale, lampeggiava di fronte, sotto il sole che già tramontava.