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32 | dalla padella nella brace |
— Ci arriveremo in un’ora?
— Un’ora è poco: arriveremo a un’ora di notte, ma adesso siamo fuori da quelle maledette forre e poi sorge la luna. — Così insegnò la guida.
Si camminava allora su e giù per un greto biancastro e nudo tutto a mammelloni ed a frane, dove le ombre dei somieri si proiettavano lieve davanti. Era l’ombra del lume lunare. Procedevamo cautamente in quelle lattee penombre della luna nascente, in fila, e i due lumi di monte Coronaro splendevano come nelle fole dei bimbi. Non c’era altro rumore che il franare del greto al passo dei somieri.
— Troveremo la cena? — chiese la mia compagna.
— Certamente: e il vino è squisito — diss’io.
— E un pollo in padella e una frittata non mancano mai — disse la guida. Nè altro dicemmo.
Pure io guardava innanzi e non so perchè rabbrividii quando nel biancore vidi elevarsi un non so che era.
Era un cespuglio, un rovo! e respirai. Volevo domandare alla compagna: — Hai paura? — e mi seccava di fare quella domanda che pur ricorreva così insistente.
Quando Dio volle, il sentiero si fece più largo, più battuto, più colto; eravamo presso al luogo abitato e il lume che si vedeva da lungi ora disegnava (a pena un trarre di schioppo lontano) la porta di una bottega: il tabaccaio di monte Coronaro.
— Perchè ci sono quei sassi dentro gli alberi? — tornai per la terza volta a domandare.
— Perchè lassù — disse finalmente — hanno assassinato dei viaggiatori che andavano alla Vernia: dove li hanno trovati morti hanno piantato la croce e ognuno che passa butta un sasso nell’albero per devozione: ma è roba di anni, anni addietro.
— Non ci passerei più per quelle felci — mormorò la mia compagna.