Le opere di Galileo Galilei - Vol. II/Il compasso geometrico e militare (Favaro)/Difesa contro alle calunnie ed imposture di Baldessar Capra
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DIFESA
CONTRO ALLE CALUNNIE ED IMPOSTURE
DI
BALDESSAR CAPRA.
DIFESA
DI GALILEO GALILEI
NOBILE FIORENTINO,
Lettore delle Matematiche nello Studio di Padova,
Contro alle Calunnie et imposture
DI BALDESSAR CAPRA
MILANESE,
Usategli sì nellqa Considerazione Astronomica sopra la nuova Stella
del M DC IIII. come (et assai più) ne publicare
nuovamente come sua invenzione la fabrica, et
gli usi del Compasso Geometrico, et
Militare, sotto il titolo di
Usus et fabrica Circini cuiusdam proportionĭs, etc.
CUM PRIVILEGIO.
IN VENEZIA, M DC VII.
Presso Tomaso Baglioni.
GALILEO GALILEI
A I LETTORI.
Io non credo, prudenti lettori, che verun altro dolore a quello si agguagli, il quale l’animo di persona ben nata, tra costumi onesti allevata, ed in virtuosamente operare sempre occupata, affligge e tormenta, quando dalla malignità di temerario calunniatore, senza alcun suo demerito, dell’onore, con le proprie azioni virtuose meritato e conseguito, non meno inaspettatamente che ingiuriosamente si vede spogliare.
È stimata la perdita de i figliuoli apportatrice di sommo cordologlio; ma chi ben considera, che altro perde chi de i figliuoli resta privo, che quello, che non pure in poter di ogn’uomo, ma dell’impeto di ogni fiera è in potestà di produrre e di rigenerare? Si dorrà forse alcuno, e non senza urgente cagione, nel vedersi spogliare e denudare di ogni sustanza e di tutte le sue facultadi: ma che? se gliene sortì il padronaggio per eredità, qua! più legittimo dominio vi ebbe sopra, che qualunque altro a cui la sorte o il caso solamente tal possessione contese?
e se per propria industria ne fece aqquisto, non si doglia altrimenti implacabilmente, restandogli ancora il modo di poter fare il secondo, con maggior lode di quella con che ne fece il primo guadagno. Dirà forse alcuno, acerbissimo essere il duolo della perdita della vita: anzi pur, dirò io, questo esser minor de gli altri; poi che colui che della vita ci spoglia, ci priva nell’istesso punto del poterci noi più né di questa, né di altra perdita lamentare. Solamente in estremo grado di dolore ci riduce colui, che dell’onore, della fama e della meritata gloria, bene non ereditato, non dalla natura, non dalla sorte o dal caso, ma da i nostri studii, dalle proprie fatiche, dalle lunghe vigilie contribuitoci, con false imposture, con fraudolenti inganni e con temerarii usurpamenti ci spoglia; poi che restando noi in vita, ogni virtuosa persona, non pur come tronchi infruttuosi, non solo come mendici, ma più che i fetenti cadaveri ci sprezza, ci sfugge, ci aborrisce.
In questo di miserie ultimo ed infelicissimo stato ha, con fraude inau- dita e con temerità senza essempio, procurato Baldessar Capra milanese di ridur me, col publicare ultimamente e dare alle stampe come sua propria invenzione e come parto del suo ingegno (che così nel? opera sua lo chiama) il mio Compasso Geometrico e Militare, da me solo, già io sono dieci anni, immaginato, ritrovato e perfezionato, sì che altri non ve ne ha parte alcuna; da me solo da quel tempo in qua conferito, participato e donato a molti grandissimi Principi e ad altri nobili Signori; e finalmente da me solo un anno fa stampatone le operazioni, ed al glorioso nome del Serenissimo Principe di Toscana, mio Signore, consecrate. Nella seconda lettera a car. 4 b.1Del quale Strumento, non solo il sopranomato Baldessar Capra si fa autore, ma ne predica me (e tali sono le sue parole) per usurpatore sfacciato, e però meritevole di arrossirmi con mio sommo obbrobrio, ed indegno di comparire nel conspetto di uomini letterati ed ingenui. Nella quale insolentissima impresa io non so giudicare a quale di queste tre qualità del Capra si deva il primato, se alla temerità, alla ignoranza, pure alla pazzia; e però tal giudizio lascio io alla prudenza vostra, discreti lettori, dopo che questa mia scrittura avrete letta: e solo proporrò, somma essere stata la sua temerità, poi che non si è peritato in questa medesima città di Padova, dove comunemente da 15 anni in qua abitiamo, stamparmi in faccia l’opera dal mio libro puntalmente trasportata; in questa città, dico, dove da dieci anni in qua ho fatti fabricar 100 di questi miei Strumenti, ed egli li ha veduti, dove io a lui medesimo ed a suo padre, già molti anni sono, alla presenza di terze persone, ho mostrato questo Strumento e diverse sue operazioni; e dove finalmente esso si ha da terza persona fatto prestare uno di questi miei Strumenti per studiarlo e procurar d’intenderlo, e molti mesi l’ha ritenuto nelle mani; le quali cose tutte ampiamente saranno più a basso dimostrate. Che somma sia la sua ignoranza in queste scienze, non più lungo tempo ricerco per farvi toccar con mano di quello che nella lezione di questa scrittura consumerete. Ma nè a questa, nè a quella cede in grandezza la pazzia di costui, essendosi egli persuaso, o che io non fussi per conoscere il suo furto e le sue calunnie, o che io fussi per dissimularle, o che io fussi per tollerarle, o che non si fusse per poter trovar compenso da manifestarle, reprimerle e castigarle.
Ma perchè nel giustificar la causa mia io non ho cosa che sì mi pregiudichi, quanto la grandezza medesima dell’eccesso del Capra, la quale, superando ogni immaginabile verisimile, non può nell’umano intelletto, nella prima apprensione, non suscitare qualche dubitanza intorno al vero; io, prima che ad altro descenda, toccherò due cagioni, le quali, s’io non m’inganno, sono state delle più potenti a far precipitare il Capra in questa disonorata operazione. La prima sono state le suggestioni del mio antico avversario, invido inimico non sol di me, ma di tutto ’l genere umano, quello la cui mordace e mendace lingua, apparecchiata sempre a lacerare e dilaniare tutti i buoni, sempre occupata in consultare diabolici trattati, fa che assai fortunati si stimano e chiamano coloro, li quali, conoscendo lui, da lui non sono conosciuti, non essendo al mondo altro schermo contro il veleno di questo basilisco, che il non esser da lui veduto: costui, che altre volte con altre sue machine ha tentato il mio precipizio, ha, per mio avviso, concitato il Capra, già per propria inclinazione contro di me male affetto; e pensando più a sfamare le sue ingorde brame, fameliche del mio disonore, che al pericolo al quale col suo perverso consiglio esponeva l’amico, l’ha finalmente ridotto, confermato e mantenuto nell’esecuzione di questa opera vergognosa. L’altra cosa, che ha allettato ed assicurato il Capra a questa impresa, è stata la mia connivenza, e l’avere io dissimulate altre sue arditissime calunnie ed imposture publicate contro di me nella Considerazione Astronomica circa la Nuova Stella del 1604, stampata da lui più di due anni sono; le quali, per non li avere io risposto, nè permesso che altri per me risponda, hanno tant’oltre promossa la confidente sua petulanza, che finalmente non si è peritato di osar tant’oltre. Ma poi che la sua importunità ha vinta la mia sofferenza, io per palesare la sua obliqua affezione verso di me, cominciata e continuatasi poi gran tempo, verrò insieme a raccontare, anco per mio scarico dalle altre sue calunnie, quanto sin qui ho taciuto.
Cominciò dunque con l’apparir della nuova Stella del 1604 a germogliare ed a farsi vedere quella prava affezione del Capra verso di me, che per avanti aveva solamente sparse le sue radici, e fatto cespo sotto ’l terreno assai tenero e facile ad impinguarsi del succo avvelenato, che dal putrido concime dal suo pessimo cultore e consultore, o pessimi cultori e consultori, in lui discolava. Ed essendo egli ed il suo maestro, che per pratticare le operazioni del quadrante facevano ogni notte diverse osservazioni, stati in Padova i primi ad accorgersi di quella nuova apparizione, sì che da loro per mezo dell’Illustrissimo Sig. Iacop’ Alvigi Cornaro, gentil uomo veneziano, non meno per nobiltà di sangue che per molte sue veramente regie condizioni illustre e cospicuo, a me ne passò l’avviso; venne il detto Capra in opinione, per quanto io credo (ned è la mia credenza iperbolica, come appresso farò palese) che quanta intelligenza io ho delle cose celesti, col tramesso dell’annunzio del suo nuovo scoprimento, facesse nella mia testa tragitto, e quivi trasportasse quanto io sopra la nuova Stella in tre mie lunghe lezioni a più di mille uditori feci sentire: ed a ciò credere m’induce Tessersi da i suoi maligni consultori, li quali l’applauso universale delle mie lezioni veder e sentir non potevano, sparsa voce, e tuttavia mantenersi, che quanto io di buono dissi, fu per li avvisi ricevuti dal Capra e suo maestro, e che io per me, senza le loro lezioni, non ero atto a parlar in quella maniera di materie così alte. Nè furno in somma li avvisi e le loro lezioni altro, che l’intender io da terze persone come loro erano stati i primi osservatori dell’apparizion della nuova Stella; il qual primato se deve esser tenuto in così grande stima, sarà bene che quelli che nelle scienze matematiche aspirano a qualche nobil grado di gloria, trapassino tutte le notti della lor vita in osservar con gran vigilanza sopra i colmi delle case loro se qualche nuova stella apparisce, acciò che altri, a i quali il caso frisse più favorevole, non riportassero la palma di così glorioso scoprimento. Sapevo benissimo che questa era per esser una delle maggior lodi che il Capra fusse per guadagnarsi in tutto il corso de i suoi studii matematici, e perciò non volsi defraudarlo di quel merito che se li perveniva, e nella mia prima lezione sopra la Stella nuova, presente lui e suo maestro, dissi con parole di laude come loro ne erano stati i primi osservatori in questa città: onde non ho potuto poi a bastanza meravigliarmi, perchè egli si sia contro di me doluto, nel suo libro stamnato sodivi la detta Stella, che io non abbia resa la adoria a chi si doveva. Ma notisi, in cortesia, quanto il desiderio di appuntar, ben che irragionevolmente, le azioni mie avanzi nel Capra la volontà di deporre un vero che non porti in fronte qualche macchia per l’onor mio; poi che, non potendo egli negare che io non attribuissi al suo maestro il vanto d’essere stato il primo che in Padova osservasse la nuova Stella, passa sotto silenzio la onesta menzione che io feci di ciò, e m’impone a mancamento che io non nominassi l’Illustrissimo Sig. Cornaro, il quale fu solamente semplice relatore di quanto il Capra li aveva detto avere insieme con suo maestro osservato. Veggasi quello che in questo proposito scrive nel libro della nuova Stella, a car. 7 b, dove in ultimo conclude con queste parole: Da questo cavasi una conclusione necessaria, cioè che l’Eccell. Galileo habbia havuto il tempo, et il loco di questo nuovo portento dall’lllustr. Cornaro, del che nondimeno non ne ha lui fatta alcuna menzione nelle sue lezioni. Ma se io nominai il suo maestro, da cui ne fui fatto avvisato per mezo del Sig. Cornaro, perchè tacer questo, e biasimarmi perchè io non nominassi il detto Signore?
Ma per seguire quello che è il mio presente intento, cioè di mostrare con quali, in parte frivolissime, ed in parte falsissime imposture, costui sino da quel tempo procurasse di avvilire l’onore e la riputazion mia, considerisi prima la incivile, anzi villanesca, e temeraria sua maniera di operare, mentre che, per farsi campo da potermi lacerare, si piglia ardire di por mano a stampar quello che si immagina che io abbia detto nelle mie lezioni e quello che non ho voluto publicare io con le stampe. Bisogna dunque che altri vada molto circonspetto nel parlare alla presenza di questi tali, li quali, quasi spie del mondo, quello che altri, o trasportato dal corso delle parole, o per inavvertenza, o pur per ignoranza, si lascia uscir di bocca, molto sottilmente raccolgono, ed al-l’orecchie dell’universo fanno pervenire. Adunque i privilegii e le abilità, che il tempo concede alli studiosi, di poter accorgersi de gli errori, emendarli, una, due e cento volte rivedere, limare e castigare li scritti proprii, saranno dalle petulanti e vigilanti censure di costoro aboliti ed’annullati? Io non so in quali scuole abbia il Capra imparato questa bruttissima creanza: dal suo maestro alemanno non credo certo, perchè, facendosi egli scolare di Tico Brae, aveva da quello potuto imparare, ed al suo discepolo mostrare, quali termini usare si devino nel publicare non solamente le cose dette da altri, ma le già communicate e mandate attorno con scritture private; ed ambidue, come studiosi del medesimo autore, potevano avere appresa la modestia da quello, il quale, volendo inserir ne’ suoi scritti alcune cose di un amico suo, che ancor viveva, e pure in materia della nuova Stella di Cassiopea, prima ne ricercò il consenso da lui, e poi, dovendole addurre, premesse a quelle in sua scusa queste parole: Scio etiam bona authoris venia id fieri, ut nonnulla, licet non publicata, immisceam, ipsemet enim per literas id mihi libenter concessit; e pure non adduceva tali cose per biasimarle o contradirli. Ma perchè devo io dubitare se il Capra sapessi, queste azioni esser di pessima creanza? anzi è pur chiara cosa ch’egli ha stimato atto ancora di malignità il porsi a mordere le cose da i suoi proprii autori già stampate e publicate, dolendosi egli nel principio de i suoi Tirocinii Astronomici della temerità de i critici, e scrivendo queste parole: Quandoquidem in hac vitae tragicomoedia ea est humanae miseriae calamitas, ut si quis iuvandi mortales studio, vel ab amicis impulsus aliquid publici iuris faciat statini non desint, qui illum vel iute vel iniuria carpere velint, etc. Ma, oh vista umana di talpa ne’ proprii difetti, di aquila e di serpente nell’altrui operazioni, oh mente nostra offuscata ed affascinata da i proprii affetti ed interessi! Biasima questo poverello nella corruttela di questo nostro secolo le vigilanti insidie de i critici, che sempre in guisa di rapaci avvoltoi stanno su le ali apparecchiati per buttarsi addosso a i parti novelli appena usciti di sotto le penne de i padri loro, e lacerargli co i mordaci rostri, e battergli co i pungenti artigli, sì che, per loro oppressi nel primo volo, non possino spiegar le ali verso il cielo, e goder gli spaziosi campi dell’aura popolare; e non si accorge come egli, stimolato da vie più fameliche brame, trapassa ne gli altrui nidi, e rompendo la scorza de i parti ancora non nati, lacera i piccoli figli, le cui tenere membra, per meglio formarsi, invigorirsi e consolidarsi, sotto l’amato caldo del paziente padre venivano ancora covate. Biasima dunque in altri il Capra la mordacità contro le opere già da i loro proprii autori stampate, e tollera in sè stesso la impazienza di non poter aspettar che io stampi le mie; anzi spinto da bramosità di lacerarle, impaziente e pauroso pur di perdere sì belle occasioni, si risolve arditamente a publicarle, e dilaniarle poi egli medesimo.
Questa è veramente, giudiziosi lettori, audacia grandissima; ma pure piccola, tollerabile e scusabile la rende un’altra temerità immensa, e per avventura senza esempio, usata contro di me da costui: il quale, non avendo sentito nelle mie lezioni cosa alcuna degna della sua mordacità, e pur bramando di lacerarmi, ba scritto che io abbia dette cose le quali mai dalla mia bocca non uscirno; sì come appresso con infinita ammirazione vi farò toccar con mano. Ed avvertite cbe io non vi produrrò per grande argomento della sua malignità quello che egli, a car. 52 della sua Considerazione Astrononomica, attribuendomi a gran nota, introduce molto a sproposito di quel luogo, e solo a proposito della sua mordacità, ciò è, che io apertamente non mi dichiarassi circa ’l tempo dell’apparizion della Stella nuova, e che io confusamente dicessi quella trovarsi circa 18 gradi di Sagittario con quasi due gradi di latitudine boreale; replicando pur di nuovo il medesimo a carte 63, ed attribuendomi a grave mancamento l’aver confuso il giorno ottavo col nono e col decimo, sì che non fusse possibile sapere da me se la Stella apparse alli 8, alli 9 o alli 10; soggiugnendo che questo si doveva con diligenza descrivere, e replicando di nuovo che io non posi precisamente il luogo suo rispetto all’eclittica. Le quali cose, quando ben fussero vere, come leggerissime e non necessarie all’intento delle mie lezioni, che fu di provare solamente come la Stella nuova era fuori della sfera elementare, per il che dimostrare niente importava il determinare il giorno della sua apparizione, nè anco scrupolosamente assegnare il suo sito rispetto all’eclittica, proveriano molto maggior mancamento nella modestia del Capra che nella dottrina delle mie lezioni; ma essendo di più false, oltre alla immodestia, notano il suo prolatore per falsidico e temerario. Nè io dissi confusamente il giorno della prima apparizione della Stella; anzi le prime parole della mia prima lezione furon queste: Lux quaedam peregrina die 10 Octobris primo in sublimi conspecta est. Vero è che poco dopo, avendo io parlato della congiunzione di Giove e di Marte, che fu il giorno 8, e dovendo replicare che il 10 fu veduta la Stella, dissi: Die itaque octava, quinimo die decima, observata fuit, correggendo immediate la scorsa della lingua. E queste furno le confusioni circa ’l tempo della sua prima apparizione: mancamento che con la sua piccolezza dimostra l’immensità della malignità di chi lo nota. Quanto poi al sito, io non so perchè in un ragionamento corrente, e dove niente era necessario di offuscar la mente de gli ascoltanti con gradi e loro frazioni, non bastasse, anzi fosse meglio, dire: in 18 gradi in circa di Sagittario, con 2 gradi in circa di latitudine, in luogo di dire: in 17 gradi, 41 minuti di Sagittario, con 1 grado, 51 minuti di latitudine boreale. Ma se si deve esser così severo critico in queste precisioni, perchè non si è posto il Capra a riprendere in Tico Brae, prima il medesimo Ticone, e poi tanti autori segnalati, le scritture de i quali sono da lui registrate nei Proginnasmati, li quali sono così poco scrupolosi nell’assegnare il luogo ed il tempo dell’apparizione della Stella di Cassiopea? Poi che l’Illustrissimo Principe Wilhelmo Landgravio di Assia, come si vede nei Proginnasmati di Tico Brae, car. 491, mandando al medesimo Tico le sue osservazioni intorno alla nuova Stella di Cassiopea, scrive così: Anno salutiferi partus 1572, die 3 decembris, monente Electore Saxone, primum vidi et observavi Stellam novam, ipsa Venere maiorem et clariorem, in asterismo Cassiopeae. E nell’investigare il vero sito di detta Stella, si vede, nel raccor la sua ascension retta, e nello stabilire la sua declinazione col mezo delle molte osservazioni fatte dal medesimo Principe con esquisitissimi strumenti, diversità, circa le ascensioni di più di due gradi, e nelle declinazioni di 37 minuti in circa.
Progim. car. 506.Taddeo Hagecio, boemo, nel suo libro inscritto Dialexim de novae et prius incognitae Stellae, etc., nell’assegnare il tempo, dice averla la prima volta veduta intorno alla Natività di N. Signore.
Progim. car. 535.Gasparo Peucero, in una sua lettera delli 7 dicembre 1572, scrive: Has ut submitterem fecit novum Sidus, quod in septimanam quartam sub asterismo Cassiopeae conspicamur haerere, etc.
Progim. car. 536.Paulo Hainzelio scrisse: Quod lumen ego die 7 novembris in decima domo primum conspexi.
Progim. car. 544.Michel Mestlino scrive: Anno superiori 1572, prima mensis novembris hebdomada, nova quaedam Stella in sedili Cassiopeae, marginem Galaxiae attingens, apparere coepit.
Progim. car. 553.Cornelio Gemma scrisse: Hanc Stellam incepisse 9 die novembris.
Progim. car. 565.Girolamo Munosio, spagnuolo, matematico, professore in Valenza, non scrive del tempo più precisamente, se non che, certo cognoscit quod secundo novembris 1572 haec Stella nondum apparuerit.
Progim. car. 297.L’istesso Brae non si assicura di affermare altro, se non che incominciò ad esser veduta circa finem anni 1572, utpote mense novembri, prope huius primordia, vel saltem in prima eius triade.
E circa il luogo poi della medesima Stella, si troverà, ne i medesimi autori, diversità di molti minuti.
Ma quando bene il luogo della Stella nuova non mi fusse anco stato così precisamente noto quando io feci le mie lezioni (il che fu non molti giorni dopo la sua apparizione), saria stato da riprendere il non mi essere assicurato di volere sino ad un minuto determinare il suo sito? o pur da lodarmi di non aver ardito di assegnare quella precisione a capello, che non si può conseguire senza una diligentissima e molte volte replicata osservazione? sì come nel legger le diversità de i luoghi assegnati a quella di Cassiopea ed a questa da diversi osservatori, si fa manifesto. Ma, Dio immortale, come riprende in me il Capra la negligenza in una precisione di una Stella l’altr’ieri apparsa, e non condanna la sua grande ignoranza nell’assegnare il diametro visuale dell’antichissima luna da’mille e mille misurato? il quale esso, a car. 94, dice in cielo non occupare più di mezo grado, che sono 30 minuti; e pure è noto da i libri di tutti gli astronomi, come la luna in diversi giorni del mese occupa ora 30, ora 31, ora 32 e 33 e 34 minuti del suo cielo, e talvolta anco meno di 29. Questo sì che è errore inescusabile, ed argumento certo di somma ignoranza. Nè minor di questo fallo sarà quello che egli scrive a car. 205, dicendo così: Ma sopra tutte le ragioni il non haver questa Stella alcuna paralasse, è evidentissima demostradone che non possi essere se non fra le stelle fisse, nel qual loco la paralasse per la sua picciolezza non e sensibile. Pone dunque nelle stelle fisse alcuna paralasse; nè si accorge, nè intende ancora, come nelle stelle fisse nè vi è, nè vi può esser paralasse, essendo quelle gli ultimi ed altissimi corpi visibili, in relazion de i quali le stelle inferiori, e molto a noi vicine, fanno la diversità di aspetto, detta da li astronomi paralaxe.
Queste cose, dico, discreti lettori, non vi propongo io per il principale argomento della minima scienza e somma arroganza mostrata dal Capra nel suo libro sopra la nuova Stella; ma vi chiamo ad ascoltare attentamente quanto mi occorre dirvi circa quello che egli nel medesimo libro scrive a car. b6: dove, ben che quanto quivi racconta niente faccia al suo proposito, ma solo sia introdotto per tassarmi, scrive che io abbia detto nelle mie lezioni, la nuova Stella essere stata in linea retta con la lucida della Corona boreale e con la lucida nella coda del Cigno, e poi trapassa a condennare come imperfetto ed inutile il modo col quale io dissi di essermi accertato della immobilità di detta Stella, perchè sempre mantenne la medesima retta linea con due stelle fisse. Ora, io non dissi mai che la Stella nuova fosse in linea retta con la lucida della Corona e con la coda del Cigno, ma sì bene con la lucida della Corona e con la prima delle tre nella coda di Elice; ma perchè egli ha per avventura creduto che Elice voglia dir Cigno e non Orsa, quello che è stato errore della sua ignoranza, ha voluto ascriverlo per fallo e per inavvertenza mia. E che io non ponessi mai la nuova Stella in retta linea con la Corona e col Cigno, oltre alle testimonianze che potrei produr di moltissimi che furno presenti alle mie lezioni, e che sino al presente ne hanno memoria, si trova ancora appresso di me la copia di una quasi epitome delle mie lezioni, scritta in forma di lettera dal M. Reverendo Sig. Antonio Alberti, Arciprete di Abano, al Clarissimo Sig. Giovanni Malipiero, sino alli 17 del mese di dicembre, che fu due mesi avanti la publicazion del libro del Capra, della quale ne sarà qui a basso trascritta quella parte che fa al presente proposito, riscontrata ed autenticata come nel fine di questo discorso si vede. Ma quello che più importa, e che rende la temerità del Capra senza essempio, è questo:
Un mese avanti che il Capra stampasse il suo libro fu dall’Illustrissimo Sig. Iacop’Alvigi Cornaro, e sopra un poco di carta li diede due interrogazioni, e le lasciò a detto Signore, acciò me ne domandasse in suo nome. Venne immediate il medesimo Signore a trovarmi insieme con l’Eccellentissimo Sig. Francesco del Clarissimo Sig. Taddeo Contarini, gentil uomo di nobilissimi costumi, ed oltre all’intelligenza delle leggi, della filosofia e della sacra teologia, di poesie toscane leggiadrissimo scrittore, e mi portò la poliza con le interrogazioni, la quale si trova ancora appresso di me; le cui parole precise son queste:
Si dubita se stia bene a dire, che la nuova Stella con la lucida della Corona boreale e con la lucida della coda del Cigno faccino sempre una retta linea; e che più, facendo le sudette stelle, o vero altre che fussero, una retta linea, come sia possibile che si conservi la retta linea, variando la nuova Stella la sua altezza.
Sopra di che io risposi a quei Signori, che non mi meravigliavo che al Capra giugnesse nuovo questo modo di osservare la immobilità di una stella col referirla a due fisse, con le quali si trovi in retta linea, essendo egli ancor giovine e principiante in questi studii; ma dissi che restavo bene con qualche ammirazione, come ciò non fusse noto al suo maestro, senza saputa del quale non era credibile che il Capra avesse fatte le interrogazioni, essendo che di simil modo di osservare ne sono poco meno di 50 essempi posti in Tolomeo al cap. 1 del lib. 7 del suo Almagesto: e soggiunsi, che averei anco potuto scusare il detto suo maestro dal non aver ciò veduto in Tolomeo, la cui lezione, per esser difficilissima, non è per le mani di ogn’uno; ma non potevo già scusarli dal non aver simil maniera di osservare veduta in Tico Brae, del quale si fanno descendenti in dottrina, e dal medesimo molto celebrata nella scrittura di Michel Mestlino fatta sopra la Stella nuova del 1572, il cui sito, immobilità e carenzia di paralasse con altro egli non osservò che con un filo, trovandola sempre in linea retta con due coppie di stelle fisse; e di più diedi a quei Signori in nota il luogo di Tico Brae ne i suoi Progimnasmati acciò lo mostrassero al Capra, il qual luogo è a car. 544. Quanto poi all’altra parte, li risposi esser falso che la nuova Stella fosse in linea retta col Cigno e con la Corona, ma li dissi che era in retta linea con la Corona e con la prima delle tre nella coda dell’Orsa maggiore, detta Elice; e di più, accostatomi con i medesimi Signori ad un globo celeste, che sopra una tavola avevo, feci loro vedere come il medesimo cerchio massimo passava per il luogo della nuova Stella e per la Corona e per la coda di Elice; soggiugnendo, che l’istesso era esser nel medesimo cerchio massimo, che nella medesima linea retta.
Questo che io risposi fu dall’Illustrissimo Sig. Cornaro riferito al Capra, ma però senza profitto alcuno della sua temerità e della sua ignoranza; non restando egli con tutto questo di stampare, un mese dopo, il libro già preparato, con le medesime imputazioni contro di me; perseverando pure in asserire che io dicessi, la nuova Stella essere in retta linea con la Corona e col Cigno; e persistendo nella medesima ostinazione, che l’osservar il sito e l’immobilità di una stella col referirla ad altre con le quali si trovi in retta linea, sia, al dispetto di Tolomeo, e prima di lui di Ipparco e di Aristillo e di Democare, e dopo di Ticone e di Mestlino e di altri infiniti, sia, dico, un modo fallace ed imperfetto. Oh temerità inaudita, oh ignoranza ostinata! Or quale schermo avrem noi contro alle calunnie di costui, qualvolta ei voglia imporne qualche menzogna, già che non solo il non aver detta una follia, ma il replicare a lui con l’intervento di più testimoni di non averla nè detta, nè immaginata, non basta a raffrenar la sua sboccata penna, che non trascorra in falsamente ed arrogantemente importaci? Ma notisi dal discreto lettore l’inavvertenza di costui congiunta con la malignità, poi effe si è immaginato di poter far creder altrui, che io troppo inverisimilmente abbia equivocato nel conoscer il Carro, conosciuto insin da i buoi, o almanco dai boari, e dir ch’io l’abbia cambiato col Cigno, costellazione da quella non men lontana e diversa di quel che un orso vero sia da un vivo cigno. Ma ponghiamo le attestazioni attenenti a questo luogo, e poi passiamo più avanti.
Estratto dalla lettera del M. Reverendo Sig. Antonio Alberti,
Arciprete d’Abano, scritta li 17 Dicembre 1604.
Ma si fa chiaro anco per le seguenti ragioni, che nè anco può esser sotto 7 del della Luna. Prima, se fosse nella regione elementare, amor che in parte altissima, haverebbe diversità di aspetto; il che non è, perchè l’Eccellentissimo Sig. Galilei sopranominato l’ha diligentissimamente osservata in linea retta con la prima stella delle tre nella coda dell’Orsa maggiore et con la lucida della Corona, et l’ha sempre in quella linea retta ritrovata, etc.
Adì 15 d’Aprile 1607, in Padova.
Affermo et attesto io Giacomo Alvise Cornaro, come è la verità, che circa un mese avanti che Domino Baldissera Capra stampasse il suo trattato sopra la Stella nuova, mi dette sopra un poco di carta due interrogationi, acciò che io da parte sua le mostrassi al Sig. Galileo Matematico, et ne pigliassi da lui risposta. Le quali interrogationi in somma contenevano questo: prima, se era ben detto che la Stella nuova facesse linea retta con la coda del Cigno et con la lucida della Corona boreale; et l’altra, quanto fusse sicuro modo questo, di conoscere il sito o moto d’una stella con l’osservare con quali altre fosse in linea retta, non si potendo mantenere la medesima retta, variando altezza la nuova Stella. Al che rispose il detto Signor Matematico, che quanto all’osservare il moto o sito d’una stella, cioè dove sia collocata, et se habbia altro moto che le fisse, quello del vedere con quali fisse faccia linea retta era un modo sicurissimo et usato da Tolomeo e dalli altri Astrologi avanti et doppo di lui; et più mi mostrò et dette in nota il luoco di Tico Brae, il quale mette per eccellentissima la regola di Mestlino, il quale col filo osservò et ritrovò il sito della Stella nuova del 72. Et circa l’altra dimanda mi rispose, che la Stella nuova del 1604 non faceva retta con la coda del Cigno et con la Corona, ma con la coda dell’Orsa et con la Corona; mi mostrò anco di più ciò esser vero sopra un Globo celeste; et a tutto questo fu presente ancora il Signor Francesco Contarmi, et il tutto fu da me puntalmente riferito al detta Capra il giorno seguente. In fede di che ho fatta la presente testificatione di propria mano, siggillata con il mio siggillo.
Io Giacomo Alvise Cornaro affermo ut supra. |
Condanna dunque il Capra nel sopracitato luogo il modo dell’investigare la immobilità Nella Consid. Astronomica sopra la Stella Nova a car. 197 di una stella con l’osservare se persiste sempre in linea retta con due medesime fisse, e dice: Questo modo non essere in tutto sicuro, perche, se bene quando la Stélla nuova era alquanto elevata faceva una retta con due fisse supposte, vicina poi all’orizonte per la refrazione de i vapori non poteva fare detta linea retta; dal che ogn’uno, che mediocremente intenda le primizie dell’astronomia, potrà chiaramente comprendere come il Capra non intende niente questo modo di osservare la immobilità di una stella, il qual ei piglia ad impugnar come fallace. Ha creduto il Capra, come dalle sue parole necessariamente si raccoglie, che io e gli altri astronomi, avendo osservate tre stelle in linea retta, per accertarci se alcuna di esse ha moto proprio, ritorniamo poche ore dopo ad osservar di nuovo se quelle mantengono la medesima linea, nel qual riscontro potendo accader fallacia, rispetto alle refrazioni ed all’aver le dette stelle mutato sito sopra l’orizonte, non si deve stabilire alcuna certa scienza: ma chi vi ha detto, M. Capra, che tra l’una e l’altra osservazione si devino traporre alcune poche ore? o chi sarà quello di così grosso ingegno che creda, nè anco il moto di Giove, non che quello di Saturno, o di altra, se si trovasse, stella più pigra, potersi avvertire con osservazioni sì poco distanti di tempo? ci vogliono, non ore, ma giorni, settimane, mesi, anni ed anco secoli tra l’una e l’altra osservazione, prima che possiamo asseverantemente stabilire che una stella non abbia moto diverso dalle altre. Asserì Tolomeo, le stelle fisse non mutarsi tra di loro; perchè? Perchè tutte quelle triplicità, che egli trovò rispondersi per retta linea, furno molte centinaia di anni avanti da Aristillo e Timocare, e poi da Ipparco, ritrovate nelle medesime rette; ed io dissi che la Stella nuova non mostrava di aver moto proprio, perchè, avendola ritrovata da principio in retta linea con le dette due fisse, molti giorni e settimane dopo, e non alcune ore, si era mostrata nella medesima retta: nelle quali osservazioni, che hanno, per vita vostra, che fare le refrazioni? E chi mi vieta di far le osservazioni quando la Stella sia nelle medesime altezze sopra l’orizonte? Riprendete dunque il vostro niente sapere ed il vostro niente intendere, e non le operazioni ottimamente da me, e prima da tutti gli altri astronomi, fatte.
Credo, giudiziosi lettori, aver sin qui assai apertamente dimostrata la malevola disposizione del Capra verso di me, cominciata a discoprirsi più anni sono, anzi pur senza alcun freno di modestia traboccata con una troppo licenziosa audacia nelle false imposture contro di me, le quali sin qui avete intese. Or qui lascio a voi pensare, quali creder si possa che siano state le calunnie, le maledicenze e le insidie sparse, vomitate e machinate contro alla riputazion mia, ed in palese ed ascosamente, da costui e da i suoi pessimi consultori, pratticando 14 o 15 anni nella medesima città, e vedendomi ogni giorno: che se con tanta falsità e con tanta impudenza non si è ritenuto di publicar le sopranarrate imposture, in modo che non poteva non esser sicuro che all’orecchie mi erano per pervenire, quali credete che siano stati i suoi concetti ne i ragionamenti privati, e quali le calunnie che averà creduto di potere in questo ed in quel particolare ascosamente imprimere? Ma perchè parrà forse ad alcuno impossibil cosa che nell’animo del Capra si sia così saldamente radicato un odio intestino contro di me, senza avergliene io data qualche grave occasione, offendendo o lui, o suo padre, o altro suo intrinseco, o con fatti, o con parole, e che non possa l’inimicizia naturale dell’ignoranza contro la virtù per sè sola esser stata bastante a provocarmi così aspramente la rabbia di costui; non voglio restar di dire come io non mi sono con loro abboccato, in tutto ’l tempo che sono stato in questa città, più di tre o quattro volte, e ciò solamente per qualche loro beneficio. E credo, se ben mi ricorda, che il primo abboccamento fosse con il consegnare a suo padre per scolare nella scherma il M. Illustre Sig. Conte Alfonso di Porcia, gentil uomo furiano. La seconda volta fui col padre e col figlio in casa dell’Illustrissimo Sig. Iacop’Alvigi Cornaro, pregato da loro per mostrargli il mio Compasso ed alcune sue operazioni, come più a basso nell’attestazione del medesimo Sig. Cornaro si vede. Terzo, sentendo essere in mano dell’Illustrissimo Sig. Orazio de i Marchesi del Monte un ordine di un grandissimo Principe di procurar di avere un certo segreto, e che non si guardasse a spesa alcuna, e venendo detto Signore ad informarsi da me se io conoscessi un tale nominato da quel Principe per uomo che possedesse il segreto desiderato, gli dissi che sì, ma che egli allora non era in queste parti; e così mi licenziai dal detto Sig. Orazio: immaginandomi poi che il medesimo segreto potesse essere anco appresso M. Aurelio Capra, padre di questo mio avversario, mi abboccai seco per intendere se avesse il detto segreto, e se, avendolo e potendo riceverne da un grandissimo Principe una larghissima recognizione, si saria contentato di comunicarglielo; mi rispose di sì; ed io subito fui a trovare il Sig. Orazio, dicendoli che avevo trovato un altro, che possedeva il segreto desiderato, e che stimando che a quel Principe poco importasse l’avere il segreto più da quella persona che fu da lui nominata che da altri, e giudicando il detto Sig. Orazio il medesimo, condussi Sua Signoria dal Capra, e li lasciai nel maneggio di questo negozio, il quale credo anco che sortisse con satisfazione dell’una e dell’altra parte. E questo è quanto io mi ricordo avere avuto che trattare con costoro; da i quali trattamenti veg-gasi se ho demeritato di esser così mal trattato da loro. Ma a che mi vo io affaticando in voler con altre deposizioni giustificarmi di non lo aver mai offeso? Qual più intero testimonio devo io cercare in confirmazione dell’animo mio bene affetto verso di lui che la tolleranza avuta da me più di due anni continui, che la sua Considerazione Astronomica, nella quale così falsamente e mordacemente mi pugne, vadia intorno senza mia risposta, potendo io così facilmente purgar me e mostrare al mondo le sue falsità, non meno nel detrarre a me, che nella sua dottrina? il che però non ho mai voluto fare, nè mai l’averei fatto, se la ostinata, incomparabile ed incomportabile sua temerità non avesse finalmente con questa sua ultima azione vinta, anzi sforzata, la mia sofferenza. Ma che dico io di essermi voluto astenere dal rispondere e scoprire le sue inezie e malignità? diciamo pure (e forse con maggior nota della mia riputazione, che con laude della mia indulgenza) dell’avere io vietato che sia data alle stampe una lettera, in forma di apologia, scritta da un mio scolare in mia difesa, intorno alle calunnie e inezzie del Capra poste da lui contro di me nella detta Considerazione Astronomica: la quale apologia con bellissimo artifizio fu composta subito dopo la publicazione della detta Considerazione, e nel portarmela il detto mio scolare a rivedere, la ritenni appresso di me, ed ancora la ho, nè volsi che fusse publicata, compassionando al giovine Capra, e sperando pure che dal padre o da altri suoi amici dovesse, senza tanto suo rossore, esser corretta e per l’innanzi modificata la sua arroganza. Ed acciò che alcuno non credesse quanto ho adesso detto essere una finzione, sarà nel fine di questa difesa nominata la detta lettera apologetica presentata da me avanti gli Illustrissimi Signori Podestà e Capitano di Padova, e da loro Signorie Illustrissime veduta, riconosciuta e per fede del proprio autore autenticata: dove ancora saranno nominate ed autenticate tutte le altre scritture ed attestazioni fatte in Padova, che in questa difesa da me saranno prodotte, delle quali gli originali resteranno nella cancelleria dell’Illustrissimo Sig. Podestà, per esser mostrati a chi volesse vedergli; e le altre fedi che produco e che sono fatte in Venezia, presentati gli originali, e riconosciuti da gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori, saranno da loro Signorie in simile maniera autenticate.
Questa mia così umana e lunga sofferenza, questa mia dissimulazione de i villaneschi affronti fattimi da costui, la quale in ogn’altro avria finalmente, col rimorso della coscienza, suscitato un ravvedimento de i proprii falli, e raddolcita ogni amarezza, la quale, essendo internata nel suo gusto, le operazioni mie onorate non senza nausea sentir gli faceva, ha per il contrario talmente gonfiata la vanissima sua follia, promossa l’arroganza, inanimita l’audacia, smorsata la temerità ed inacerbito il veleno che tutti i sensi, e più la lingua, gli occupa, ma sopra tutto il resto (e ciò per concession di Dio) offuscatogli così ogni lume di mente, e tolto, per suo castigo, ogni giudizio e discorso, che, reputando egli la mia tolleranza una timidità, la mia dissimulazione una stolidità, il mio disprezzo delle sue sciocchezze una mia crassissima ignoranza, si ha lasciato trasportare in questa sua ultima abominevole, infame e detestabile operazione; nella quale si è creduto e persuaso di poter non solamente diffamar me, ma burlare ed aggirare tante e tante altre persone che della verità del fatto sono benissimo consapevoli. Quale sia stata questa sua sì vergognosa azione, restami finalmente di far manifesto al mondo: e qui mi perdonerete, lettori pii e del giusto amatori, se forse con troppo tedio vi terrò occupati in leggere questa mia difesa; e mi scuserete se troppo minutamente anderò ancora ritrovando gli errori di costui, per far costare, la sua ignoranza non cedere un pelo alla temerità ed alla pazzia.
Dico dunque, che sono già dieci anni che, avendo io ridotto a perfezione un mio strumento, da me chiamato Compasso Geometrico e Militare, cominciai a lasciarlo vedere a diversi gentil uomini, mostrandone loro P uso e dandogli lo Strumento e le sue operazioni dichiarate in scrittura: il quale Strumento è stato così aggradito, che da quel tempo in qua, per satisfare a molti Principi e Signori di diverse nazioni, mi è convenuto farne fabricare in questa città oltre al numero di cento, senza quelli che in Urbino, in Firenze ed in alcuni luoghi di Alemagna sono di mio ordine stati lavorati; sì che poche restano le provincie di Europa, nelle quali da miei scolari non siano stati di tali Strumenti trasportati. E finalmente, parendomi cosa assai pericolosa, che venendo questa mia invenzione in tante mani, potesse incontrarsi in alcuno che se la attribuisse; anzi pure essendo io un anno fa stato fatto avvertito, che quando io non ci avessi preso provedimento, qualcun altro si sarebbe fatto bello delle mie fatiche; mi risolvetti a stamparne le operazioni: il che feci qui in Padova sono già 13 mesi, credendo in questa guisa aver precisa la strada a i latrocinii di coloro che, trapassando la vita in ozio, vogliono con l’altrui vigilie suscitarsi fama di literati. Ma poco mi ha questa mia provisione giovato: poi che Baldessar Capra, milanese, in questa medesima città, dove da 12 o 14 anni in qua dimora, trasportando il mio libro di toscano in latino, ed alcune frivolissime cose aggiugnendovi, lo ristampa tre mesi sono, facendo sè di tale invenzione autore, e dichiarandone me per impudente usurpatore. Oh ardire, oh temerità! Ma perchè molte circonstanze, che sono intorno a questo maneggio del Capra, aggravano infinitamente il suo delitto, e rendono questa azione vergognosissima, non voglio tralasciarle, ma produrle, e con fedi autentichissime confermarle.
E prima, che io abbia cominciato da dieci anni in qua a far fabricare di questi Strumenti, e li sia andati di anno in anno communicando e participando con Signori di diverse nazioni, potrà esser certo quasi in tutte le provincie di Europa dove questa mia scrittura arriverà, ritrovandosi in ciascuna di esse o pochi o molti di questi miei Compassi, trasportativi da Signori li quali in Padova da me gli hanno ricevuti con il loro uso in voce ed in scritto. Imperò che, oltre a quelli che hanno avuti, in Italia i Serenissimi di Toscana e di Mantova, e l’Illustrissimo ed Eccellentissimo Sig. Duca di Cerenza; in Germania, il Serenissimo D. Ferdinando Arciduca d’Austria, gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Filippo Landgravio di Assia e Gio. Federico Principe di Olsazia; in Polonia, gl’illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Cristoforo Duca di Sbaras, Gabriello e Giovanni Conti di Tencim, Raffaello Lenscinshi; in Francia, gl’Illustrissimi Signori Francesco Conte di Noaglies e Gilberto Gasparo di Senteran; molti se ne ritrovano in mano di altri Signori ne i sopradetti luoghi e quasi in ogn’altra provincia di Germania e di Francia, e più in Fiandra, in Inghilterra e Scozia, presso tanti gentil uomini che troppo lungo sarebbe il nominargli tutti. Onde, solamente per soprabondante cauzione, mi è parso a bastanza, delle molte che averei potuto in questo luogo produrre, metter solo tre attestazioni: una del Clarissimo Sig. Gianfrancesco Sagredo, una dell’Illustrissimo Sig. Iacopo Badovere, gentil uomo Francese, e la terza, poco più a basso, del M. Reverendo Padre Maestro Paolo de i Servi, Teologo della Serenissima Signoria di Venezia; li quali sono dieci anni che veddono da me questo strumento, ed otto e nove anni fa ne ebbero uno per uno, insieme con l’uso. Porrò appresso la fede dello artefice, il quale in Padova da dieci anni in qua me ne ha fabricati circa 100.
1607, Adì primo di Giugno, in Venezia.
Faccio fede io Giovanfrancesco Sagredo cieli’ Illustrissimo Sig. Niccolò haver, già nove in dieci anni in circa, havuto dall’Eccellentissimo Sig. Galileo Galilei, Lettor delle Matematiche in Padova, uno de’ suoi strumenti, chiamato da lui Compasso Geometrico et Militare, et un altro simile poco dopo, con alcune divisioni un poco mutate et con altre estese a maggiori numeri: il quale strumento è quello stesso a punto, del quale l’anno passato ne stampò l’uso sotto questo titolo: Le Operazioni del Compasso Geometrico et Militare di Galileo Galilei, etc.; la qual dichiarazione hebbi in scrittura et in voce, insieme con lo strumento, al sopradetto tempo, et ancora si ritrova appresso di me. Et in fede della verità ho fatta la presente di propria mano.
Io Giovanfrancesco Sagredo sopradetto scrissi manu propria.
Adì 13 di Maggio 1607, in Padova.
Io Giacomo Badovere Francese espongo et attesto come è la verità, che sendo io, già nove anni passati, alloggiato nella propria casa et in compagnia del Sig. Galileo Galilei Fiorentino, Lettor delle Matematiche in quello Studio, et imparando da esso Galilei le scienze Matematiche, non pure viddi diversi de' suoi Compassi Geometrici et Militari, ma ne fui gratificato di uno, et di più della sua dichiarazione, mostrandomi in oltre le regole che teneva intorno al modo del comporlo et segnare le sue divisioni, intorno alle quali in quel tempo era occupato, et ne mutò et migliorò alcune da quello che ne gli altri suoi Compassi, prima fatti fabricare sino a quél tempo, haveva posto. E più, viddi, mentre dimorai nel medesimo luogo, come molti de i medesimi strumenti furono dal sopradetto suo Autore communicati a diversi Gentil'huomini di diverse nazioni: il quale strumento e il medesimo che questo, le cui operazioni sono state l’anno passato da119 Autore stampate qui in Padova sotto il titolo di Le Operazioni del Compasso Geometrico et Militare di Galileo Galilei, etc. E di più, havendo lasciato l’altro mio in Francia, ne ho circa quattro mesi sono havuto un altro dal medesimo Autore con la sua dichiaratione stampata. In fede di che ho fatta la presente attestatione manu propria.
Io Giacomo Badovere scrissi. |
Adì 24 di Maggio 1607, in Padova.
Depongo et affermo io Marcantonio Mazzoleni di Domino Paulo Mazzoleni come è la verità, che da dieci anni in qua ho continuamente lavorati all'Eccellentissimo Sig. Galileo Galilei, Lettor delle Matematiche nello Studio di Padova, de' suoi Compassi Geometrici et Militari, secondo l’ordine et le divisioni datemi da lui sino dal principio; de' quali gne ne ho fabricati dua di argento, uno che mi disse esser per il Serenissimo Arciduca Ferdinando d'Austria, et l'altro per uno de gl'Illustrissimi et Eccellentissimi Landgravii di Assia, et altri di ottone circa il numero di cento per diversi altri Signori, suoi scolari. Et più affermo, molti di questi Compassi essere stati veduti in casa mia, dove lavoro, dal Sig. Baldessar Capra, Milanese, pratticandovi lui da quattro anni in qua spesse volte; dal qual Signor Baldessar non ho mai sentito dire che tali compassi fussino invenzion sua. Et in fede della verità ho fatta la presente attestazione da potersi produrre in ogni luogo, come verissima che essa è.
Io Marcantonio Mazzolcni sopradetto scrissi di propria mano. |
E che questa quantità di Strumenti siano stati da me fatti fabricare in questa città in tutto questo tempo, è stato benissimo saputo dal Capra; ma pure, quando ei volesse dissimulare o negare questa notizia, non potrà egli certo negare quello che di sopra è stato deposto nella fede di Maestro Marcantonio, ciò è che egli, praticando da quattro anni in qua frequentemente nella sua bottega, abbia veduto fabbricare più di 30 di tali miei Strumenti, nè però li ha mai conosciuti per sua invenzione. In oltre non potrà negare come, già sono cinque anni, egli e suo padre mi fecero pregare dall’Illustrissimo Sig. Iacop’Alvigi Cornaro, in casa del quale molto familiarmente praticavano, che io fussi contento di lasciar loro vedere questo mio Strumento e le sue operazioni, il che io feci, richiestone dal detto Signore, in casa sua, come dalla sottoposta sua fede si fa palese: nella quale si vedrà ancora come, due anni sono, il padre del Capra pregò instantemente il medesimo Signore, che fusse contento di prestargli uno de i miei Strumenti, che appresso detto Signore ancor si ritrova, dicendo che Baldessar, suo figliuolo, vi voleva fare attorno studio, e procurar d’intenderlo ed anco fabricarsene uno per sè; il che gli fu da detto Signore conceduto, come appresso s’intende.
Adì 6 d’Aprile 1607, in Padova.
Faccio fede io Giacomo Alvise Cornaro, appresso tutti quei luoghi dove la presente attestazione di mia propria mano et siggillata con il mio siggillo fosse presentata, qualmente è la verità che ’l Signor Aurelio Capra Milanese ed il Signor Baldessarre, suo figliuolo, già circa cinque anni sono, mi ricercamo con instanza eli io pregassi il Sig. Galileo Galilei, Matematico di questo Studio, che volesse esser contento di far loro vedere alcune operazioni del suo istrumento, chiamato da lui Compasso Geometrico et Militare; il che feci io qua in casa mia, dove fui dal Sig. Galileo compiaciuto, il quale alla mia presenza mostrò alli detti diverse operationi sopra, il detto suo istrumento. E di più affermo come li medesimi Aurelio e Baldessarre, circa due anni sono, mi ricercorno con instanza grande ch’io volessi prestar loro uno detti detti compassi del Sig. Galileo, che da esso, suo inventore et autore, io hebbi, asserendo Baldassarre volervi far sopra studio et fabricarsene uno per se, nel che furono da me compiaciuti, prestandoli io il detto Strumento; che e quello stesso del quale l’anno passato ne fu dal suddetto Signor Galileo Galilei stampato l’uso, sotto questo titolo: Le Operazioni del Compasso Geometrico et Militare di Galileo Galilei, etc.; il quale Strumento, doppo haverlo li detti Aurelio e Baldassarre tenuto appresso di loro alquanti mesi, mi restituirono: e tutto questo con pura et intiera verità. In fede di che ho fatto di mia propria mano la presente attestazione questo giorno sopradetto.
Io Giacomo Alvise Cornaro sopradetto. |
Da queste cose dunque è manifestissimo, che non solamente il Capra, in sua conscienza, sapeva benissimo, da gran tempo in qua, che questo Strumento era mia invenzione e non sua, ma sapeva di più che diversi ancora in questa città sapevano come lui questa verità conosceva ed ammetteva; poi che in mano mia e dell’Illustrissimo Sig. Cornaro, e cento volte in mano dell’artefice, aveva, nello spazio di molti anni passati, veduto questo strumento, nè mai per suo l’aveva conosciuto o nominato: e con tutto questo non si è peritato o vergognato di stamparlo adesso per cosa sua, ben che io medesimo in questo medesimo luogo ne stampassi finalmente l’anno passato le operazioni; anzi di più, scorto dalla medesima impudenza ed imprudenza, subito finita di stampar la sua opera, ne mandò (ed il portatore fu suo padre) una copia al medesimo Sig. Cornaro, acciò che Sua Signoria Illustrissima vedesse quello che ’l suo ’ngegno avea saputo effettuare. La qual copia restata appresso detto Signore, e partitosi il Capra, fu considerata; ed accortosi Sua Signoria Illustrissima come era il mio libro trasportato in latino, mi mandò subito a chiamare, essendo la mia casa contigua a quella di Sua Signoria, e non senza sdegnose esclamazioni mi fece vedere la insolenza usata dal Capra; ed incontrando più minutamente questo libro col mio, e di più abbattendoci nelle parole ingiuriose che in quello si veggono contro di me, spinto da nobile sdegno contra costoro, i quali della sua cortesia si erano serviti per istrumento da machinar sì vergognosa truffa, li scrisse, rimandandogli il lor libro indietro, la seguente lettera:
al m. magnifico signor aurelio capra.
- Molto Magnifico Signor honorandissimo.
Partita Meri I’ altro V.S’. molto Magnifica da me, andai trascorrendo il libro posto in luce da nuovo dal Signor suo figliuolo, donatomi da lei: nel quale trovando trasportate dal volgare in Latino tutte le operationi del Compasso Geometrico et Militare del Signor Galilei, stampate da lui l’anno passato, mi posi con grande ansità a leggerlo, credendo certo di trovare, come era ben ragionevole, alcuna honorata menzione del suddetto Autore. Ma mi avvenne in contrario: perciò che, incontrando in un ingiurioso modo di parlare Ad Lectorem in dishonore del mio amatissimo et honorandissimo amico, tenuto da me, come da altri Gentil’huomini et Principi, in suprema stima per la incomparabil sua dottrina et altre degne qualità che in lui risplendono, son andato pensando a qual fine si possi esser impiegato il Signor Baldassarre in così fatta azione di mala creanza, ponendo mano nelle opere altrui, senza riguardo d’alcun convenevole rispetto che doveva bavere; ne al fine ho saputo trovar altra causa che la sua mala volontà, mostrata ancora contra il Signor Galileo in altro suo libro publicato già sopra la Stella che apparve l’anno 1604: della quale continuata malevolenza senza ragione ho sentito e sento sì gran dispiacere, che non posso restare di non dolermene con V. S., che ha assentito ad operatione disconvenevole a Gentilhuomo ingenuo. Nè più a lungo le dico per non moltiplicare in parole et ufficii dispiacevoli, abborriti sopra modo da me in ogni caso, et sopra tutti in questo che convengo fare con V.S., che è stata sempre in molta mia stima: alla quale rimando con questa anco il libro che ella mi diede, per non mostrare dì consentire a cosa ch’io abborrisco. Di casa, li 4 Aprile 1607.
Giac. Alvise Cornavo. |
Io poi immediatamente procurai di avere un altro di quei libri: e tornando con maggior diligenza a rileggerlo, per veder pur se vi era scritto quello che mi pareva impossibile potervi essere, e vedendo sempre più la cosa chiara e manifesta, stetti gran pezzo in dubbio se io sognavo o se pure ero desto; e soprapreso da stupore, da sdegno e da travaglio insieme, un presentaneo soccorso mi fu dalla fortuna apparecchiato; e questo fu un numero grandissimo di nefandissimi errori sparsi per tutta quell’opera, nel volere il suo mentito autore o mascherare alcuna delle cose copiate dal mio libro o pure introdurvene alcune altre non copiate da quello: la quale crassissima ignoranza stimai (si come è poi seguito) potermi esser per saldissimo argumento, quando tutte le altre giustificazioni mi fussero mancate, a far costare la verità, col dichiarar lui impudente, e non meno stolto, usurpatore delle invenzioni mie. E su questa speranza raccogliendo alquanto gli spiriti, e cominciando a pensare al modo che io dovessi tenere acciò che al mondo venisse in luce la verità, nè rimanesse una mia tanta ingiuria impunita, presi per il migliore di tutti i partiti il trasferirmi a Venezia avanti a gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori dello Studio di Padova, ed a quelli espor il mio aggravio, sicuro che la prudenza e giustizia loro non solo averebbe abbracciata questa mia causa, ma non averebbe lasciato incastigato un tale affronto; il quale non tanto la mia persona privata, ma il publico luogo che tengo in questo Studio ed appresso la vigilanza di lor Signorie Illustrissime ed Eccellentissime con grave nota macchiava. Andai dunque il dì 7 di aprile, che fu il sabbato avanti la domenica delle Palme, a Venezia, ed il Lunedì Santo comparsi avanti li sopradetti Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori; a i quali esposi la mia querela e mostrai l’uno e l’altro libro, ciò è il mio, stampato e publicato sotto li 10 di giugno del 1606, e l’altro del Capra, stampato e publicato li 7 di marzo del 1607, adducendo a loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime autentiche prove come quella era opera mia, e più facendoli vedere le parole ingiuriose con le quali dal Capra venivo diffamato. Sopra di che determinarono detti Signori di scrivere una lettera a gl’Illustrissimi Signori Rettori di Padova, il Sig. Almorò Zane ed il Sig. Giovanni Malipiero, ricercando lor Signorie Illustrissime che facessero immediate torre in nota tutti i libri del Capra che si trovavano tanto appresso il libraio quanto appresso lo stampatore ed autore, a i quali sotto gravi pene si proibisse il darne più fuora alcuno sino a nuovo ordine di loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime, e di più, che facessero citare il detto Capra a dover comparire la mattina delli 18 di aprile (dando luogo a i giorni Santi, ed alle feste della Santissima Pasqua) avanti le porte del Collegio in Venezia, dove sariano ridotti detti Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori, per dover produr sue ragioni circa il sopranarrato fatto. Furno esequite le lettere, sospesi e tolti in nota i libri, de i quali 440 ne manifestò il libraio che li fece stampare, che fu D. Pietro Paolo Tozzi, e 48 disse trovarsene in mano dell’autore; il quale fu parimente citato per dover comparire, come di sopra.
Presentatici dunque il giorno 18 predetto avanti le porte del Collegio, il Sig. Paolo Ciera, Segretario de gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori, di ordine di loro Signorie ci disse come per quella mattina non si saria fatto altro, essendo li Signori Riformatori occupati; ma che noi fossimo il seguente giorno su l’ora di vespro a casa dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Sig. Francesco da Molino, Cavaliere e Procuratore, che è uno de i Signori Riformatori, dove gli altri due ancora si sariano ridotti. Si ridussono i Signori Riformatori al luogo e tempo detto: ed io, comparso alla presenza di loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime, sentendo il Capra di nuovo esporsi la mia querela; dolendomi come avendo io, già dieci anni, ritrovato ed inventato un mio strumento, e quello poi nel progresso del tempo conferito e communicato per mia invenzione, come veramente è, a moltissimi Signori e Principi grandi di diverse nazioni, e finalmente stampatone l’anno precedente le sue operazioni, dedicandole al Serenissimo Principe di Toscana, mio Signore, Baldessar Capra, milanese, quivi presente, venisse ora a trasportar detta mia opera di toscano in latino, ed a stamparla per sua fatica ed invenzione, facendone di più, con parole ingiuriosissime, me impudente usurpatore e perciò indegno di comparire nel cospetto de gli uomini ingenui e letterati; e che per tanto, sendo questa sua azione erronea, temeraria e diffamatoria dell’onor mio, del luogo che tengo nello Studio di Padova, e pregiudiciale ancora alla vigilanza con la quale devono provedere loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime alle cose dello Studio, mantenendolo fornito di uomini sufficienti a i lor carichi, dovessero loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime, conosciuta la verità del fatto, prò vedere, secondo la lor somma prudenza, alla redintegrazione dell’onor mio, col dare il meritato castigo al delinquente; protestandomi di più larghissimamente, che qualunque volta potesse mai constare che io, non solo tutta l’invenzione del mio Strumento, ma qualunque minima parte di quella avessi usurpata, non pur dal Capra, ma da qual si voglia altro autore o uomo del mondo, già de fatto mi dichiaravo e sentenziavo degno delle note attribuitemi dal Capra e di maggiori ancora; ma all’incontro supplicavo lor Signorie Illustrissime ed Eccellentissime che, dopo che io li avessi fatto constare come il Capra era usurpatore dell’opera mia, volessero usare quel medesimo rigor di giustizia verso il mio avversario al quale io spontaneamente mi sottoponevo; a quanto fu da me con simili parole proposto rispose il Capra, dicendo primieramente increscerli di dover tediare a mia richiesta le loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime, e che il mio comparir là non era necessario, e che se io mi sentivo da i suoi scritti aggravato, la penna e la carta erano le armi de i letterati; ma già che mi era parso tener questa strada, lui era comparso a render buon conto di sè; e che per tanto lui primieramente negava di essersi fatto autore di quell’opera, mostrando, per attestazion di questo, un luogo nella prefazione Ad Lectorem, nel quale da queste parole: Nec obijciat quispiam me haec non excogitasse, nam istos libenter audire velim, quod responsuri sint ad quaestionem qua senex quidam doctus alterum interrogavit: Quot putas (inquit) haberemus hodie in mundo doctos viros, si non uteremur aliorum inventis? diceva manifestamente comprendersi, come ei non si faceva autore di quest’opera: ed un altro luogo produsse in confermazion di questo medesimo, nella dedicatoria, in quelle parole: Cum itaque hic, licet imperfectus sit praestantissimi viri culturae fructus, iure ille tibi Illustrissimo Principi debetur. Rispose in oltre, che egli non faceva me usurpatore di quest’opera, e che le parole d’ingiuria, che io dicevo esser nel suo libro, non riguardavano la persona mia, non vi essendo mai in tutta l’opera nominato, sì che l’addossarmi quelle ingiurie era più presto una mia fantasia che volontà sua. Negò finalmente esser vero che il mio libro fosse da lui stato trasportato nel suo, dove molte cose diceva ritrovarsi le quali non erano nel mio, come la fabrica dello strumento e molte delle operazioni; anzi disse non aver veduto il mio libro stampato: e che perciò, essendo quanto egli diceva chiaro e manifesto, doveva esso ed il suo libro essere licenziato, e rimesso alla publica vendita.
Gli fu da me alla prima parte risposto, che la carta e la penna erano il campo e le armi de i letterati, quando si avessero a decidere differenze di lettere; ma che il giudizio tra un letterato ed uno infamatore arrogante doveva domandarsi da un foro simile a quello dove l’avevo convenuto. Alla sua seconda risposta replicai, che nel primo luogo da lui addotto non vi era specificazione alcuna per la quale costasse che ei si nominasse non autore di quest’opera, e quelle e simili altre parole potevano dal lettore esser benissimo interpretate come dette per una certa modestia: e quanto all’altro luogo da lui addotto, quello non fa punto al proposito, perchè quivi egli altro non dice se non che questo libro è frutto, benchè imperfetto, della cultura del suo prestantissimo maestro; ma tal cultura non è altro che la scienza dell’ingegno del Capra; adunque quest’opera è frutto imperfetto della scienza dell’ingegno del Capra. Essendo dunque questi modi di parlare o molto ambigui o fuori del proposito che egli di provar cercava, invitai gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori a vedere i luoghi, ne i quali apertissimamente il Capra chiama questa opera sua, scrivendo in tutti questi luoghi, prima nella prefazione a car. 5 b, dipoi a car. 16 a, car. 28 a, a car. 38 a, car. 40 b, car. 56 anota, hoc nostrum instrumentum. Di più, produssi un luogo della dedicatoria, le parole del quale sono queste: Quare his relictis, ad propositum meum magis accedens, cum satis diu fabricam et usum huius Circini proportionis, quem non immerito totius Geometriae compendium nominavi, volutassem: dal quale il lettore altro non può cavare se non che il Capra ‘sia inventore della fabrica e dell’uso di questo Strumento, il quale ei vuole stampare; perchè, per stampare una composizione di un altro, non occorre rivolgersela per le mani assai lungo tempo, come il Capra afferma aver rivoltosi questa. Finalmente produssi quello che egli ha stampato nella lettera che ei prepone all’opera, finta che gli sia scritta
8 o pur veramente scrittagli, che ciò poco importa, dandogli lui l’assenso, e stampandola, crederò io, come veridica e non come falsarla: le cui parole son queste: Interim maximopere cupio, cupiuntque communes amici ut recentem foeturam magnis a te laboribus elucubratam, nempe egregium illud instrumentum Geometricum Arithmeticumque, quod Circinum proportionis apte inscribendum putasti, in lucem conspectumque hominum prodire sinas, non vulgarem enim Geometricae et Arithmeticae scientiae studiosis afferes utilitatem, et lumen non exiguum, si quidem huius instrumenti ope non solum cuncta propemodum Euclidis problemata, ac plura alia, ne dicam innumerabilia quaesita brevissime facillimeque resolvent; sed etiam nsdem ad omnes altitudines, profunditates, necnon locorum intercapedines dimetiendas expeditissima promptissimaque patebit via. ad quod imprimendum, publicandumque praeter communem utilitatem, cui fere soli vel Platonis testimonio homo natus esse videtur, et praeter amicorum utilitatem, nostramque illam dulcem et studiorum et animorum coniunctionem, quae apud te pro tua benignitate non me latet esse alicuius momenti; illud quoq;ue non minimum te movere debet, ut qui huiusce instrumenti inventionem impudenter sibi arrogant, patefacto vero et germano effectore magno suo cum dedecore erubescant, et coram literatis et candidis viris posthac sese offerre amplius non audeant. Dove primieramente egli assentisce ed ammette che questo Strumento Geometrico ed Aritmetico è parto novello, da sè con gran fatica elucubrato. Di più, sì come apertissimamente si scorge, viene da lui esibito, che dalla publicazione di questa sua opera sarà fatto palese chi ne sia il vero e legittimo effettore; sì che quelli che sfacciatamente si arrogano l’invenzion di questo Strumento, con loro grande obbrobrio si arrossischino, nè più per l’avvenire ardischino di comparire nel cospetto de gli uomini letterati ed ingenui. Ora, veg-gasi e riveggasi, leggasi e rileggasi mille volte tutto il suo libro, non si troverà che sia fatto palese che altri che lui ne sia il vero e legittimo effettore, non essendo mai attribuita questa invenzione ad alcun altro, ma sì bene a sè solo in tutti i sopracitati luoghi: dal che conclusi io, oltre a qualche altro luogo che averei potuto addurre, essere questa parte, del far il Capra sè stesso inventor dello Strumento, chiarissimamente provata.
Passai dipoi a dimostrare che, sì come la vera mira del Capra era di ferir me con le sue parole ingiuriose, così niuno che leggesse il suo libro averia mai potuto stimare che ad altri che a me fussero indirizzati i fulmini delle sue maledicenze, essendo che niuno altro che io si era mai attribuita l’invenzione di questo Strumento: io l’ho conferito da dieci anni in qua a moltissimi Signori di diverse nazioni, chiamandomene sempre con tutti autore ed inventore; io, come cosa mia, ne ho fatti fabricare più di cento in Padova ed in altre città; io finalmente come cosa mia l’ho stampato, nè altri che io l’ha mai palesato per cosa sua; adunque a me conviene, per detto del Capra, l’arrossirmi come impudente ed il fuggire, come temerario usurpator delle fatiche altrui, la presenza de gli uomini. Di più, acciò che non paresse a gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori questa del Capra audacia incredibile, ed inverisimile l’avidità di calunniarmi e lacerar l’onor mio, produssi le incominciate sue persecuzioni sin nel suo libro della nuova Stella, raccontate di sopra, e di più feci vedere un altro suo luogo in questo medesimo libro del Circino, a car. 41nota; dove, avendo egli prima trascritta una delle mie regole per misurar con la vista, posta da me nel mio libro, a car. 28 bnota, per venir poi a biasimarla e morder me, scrive così: Potest hoc idem absolvi alla ratione, prout aliqui volunt, statuunt enim instrumentum in A, ita ut alter brachiorum recta respiciat B, alterum E, tunc progressi ad punctum E ita disponunt instrumentum ut alter brachiorum recta respiciat A, perque centrum instrumenti aspicientes punctum B, animadvertunt partes abscissas a radio visuali, per quas postea ratiocinantur, ut superius dictum fuit. A quo quidem modo, ut pauca de illo subiungam in maximam ductus sum admirationem, nec enim satis videre possum an isti revera sic credant, an potius homines adeo crassi cerebri existiment, ut pro libitu illis imponere liceat, quaeso enim qui feri potest ut in tanta partium angustia, mensoris oculus nulla adhibita dioptra non longe a vero aberret? quod si parvipendunt revera nugantur, similiter que parvifieri merentur, et ideo utiliora inquirentes haec missa faciamus. Dove, essendo io quello che scrivo che si osservi dove il raggio della vista taglia, senza aggiugnervi altro di diottra o traguardo, la nota di esser degno di disprezzo, e forse di esser di grosso ingegno, e di uomo che si diletti di schernire altri, senza alcuna replica si addossa sopra di me.
Speditomi da questa parte, passai a quello che finalmente restava, che era di far palese come il mio libro, eccettuatone alcune pochissime cose, sì che non erano la vigesima parte del tutto, erano dal Capra
9 10 state copiate e trasportate nel suo: nel che, per esser cosa che consisteva in fatto, ci fu poco da dire, già che avevo l’uno e l’altro libro in mano, contrassegnati ambidue con richiami in margine, da potergli ciascheduno, senza avere a cercare i luoghi, in un subito conferire e riscontrare. Il che però stimorno per allora li Signori Riformatori superfluo; ma ben mi commesson poi che io facessi riscontrar detti libri dal M. Reverendo Padre Maestro Paolo: il che fece egli, e questa appresso fu la fede la quale ei ne depose:
Adì Aprile 1607, in Venezia.
Affermo et attesto io Fra Paolo di Venezia de9 Servi haver con diligenza conferito et riscontrato il libro stampato in Padova circa dieci mesi sono dal Signor Galileo Galilei Matematico, sotto questo titolo: Le Operazioni del Compasso Geometrico et Militare di Galileo Galilei, etc., col libro stampato pur in Padova, circa un mese fa, da Baldessar Capra, Milanese, sotto questo titolo: Usus et Fabrica Circini cuiusdam proportionis etc., et bavere in questo del Capra ritrovate trasportate di Toscano in Latino tutte le operazioni che sono contenute nel libro del Galilei, eccettuatane la SI, che è circa la quadratura delle parti del cerchio et delle figure miste, et due altre operazioni attenenti a due linee del quadrante, et eccettuatene forse alcune poche di quelle che servono per misurare con la vista: dico forse, perchè non ho potuto ben conseguire l’intentione del Capra, et come procedine quelle regole sue circa tali misure. In oltre ho osservate alcune altre, ma pochissime, sì che non eccedono tre in numero, le quali nel libro del Capra sono alquanto palliate; ma però, a chi ben le considera, si manifesta ritrovarsi le medesime nell’opera del Galilei. Faccio fede ancora che in Padova, già circa dieci anni, mi fu mostrato dalVistesso Signor Galileo VIstrumento del quale si tratta nelli sudetti libri, insieme con Vuso di quello; e doppo circa due anni il detto Signore me ne fece dono di uno, il quale ancora tengo appresso di me. Et in fede della verità, etc.
lo F. Paolo soprascritto. |
Volse pure il Capra replicare, che non aveva inteso di offender la persona mia con le parole ingiuriose, e che non era assolutamente vero che non ci fusse stato alcun altro che si avesse voluto attribuire questo Strumento; anzi soggiunse, che era stato alcuni anni avanti in Padova un Alemanno, il quale in faccia mia si era professato autor del medesimo Strumento; e di più soggiunse, che l’interpretare i sensi delle sue parole non toccava ad altri che a lui, e che ei solo poteva esser consapevole di cui aveva, nelle da me citate parole, voluto parlare. Onde qui mi fu necessario raccontare l’istoria del Fiammingo, e non, come disse il Capra, Alemanno, che fu un tal Giovanni Eutel Zieckmeser: il quale, cinque anni dopo che ebbi ritrovato e cominciato a publicare il mio Strumento, sì che a quel tempo ne erano già andati attorno per diverse provincie più di 40, arrivò in Padova; ed avendo uno Strumento nel quale aveva trasportate alcune linee cavate dal mio, ed altre tralasciatene, ed in luogo di quelle aggiuntevene alcune altre, e per avventura non sapendo che in Padova si ritrovava il primo e vero inventor di tale Strumento, s’incontrò con il Sig. Michel Victor Vustrou di Bransvich, mio scolare, il quale da me già aveva appreso l’uso del mio Strumento; e dicendogli di avere una mirabile invenzione, lo messe in desiderio di volerla vedere, e finalmente gli mostrò quello Strumento, il quale subito fu riconosciuto dal detto gentil uomo, che immediate a me, che ero in letto indisposto, lo fece sapere; e di lì a pochi giorni si partì di Padova. Io, come prima fui risanato, sentendo come già i miei emuli, e sopra tutti il mio antico avversario, si erano aperta la strada al mordermi e lacerarmi con l’occasione della venuta di questo Fiammingo e dello Strumento che seco aveva, e già spargevano voce che l’invenzione di quello Strumento poteva non esser mia, contro a quello che sempre avevo detto, ma presa dal Fiammingo; fui forzato a procurar, ben che con grandissima difficultà, di far che il detto Fiammingo si abboccasse meco, acciò che da tal congresso si facesse palese a chi avesse voluto saperlo, qual di noi fosse il legittimo inventore di questo Strumento: poi che esso, per le parole dette da lui nel suo primo arrivo in Padova, si era quasi messo in necessità di mantener sè esserne autore, il qual concetto, quando fosse restato impresso nel popolo, come già i maligni avevano procurato di fare, saria stato troppo pregiudiciale all’onor mio. Finalmente, dopo molte repulse, si lasciò persuadere a comparire in casa dell’Illustrissimo Sig. Iacop’Alvigi Cornaro: dove primieramente disse, non aver mai asserito che io avessi tolta la mia invenzione da lui, anzi che ciò non era possibile, non avendo egli dato il suo strumento ad alcuno; dipoi mostrò il suo strumento in molte cose molto differente dal mio; ma soggiungendoli io, che in quelle cose, che pur erano molte, nelle quali il suo strumento conveniva col mio, era necessario che un di noi avesse preso dall’altro, e che però, acciò che la verità venisse in luce (e questo a confusione de i miei emuli, e non a diminuzione della reputazion di quello), era bisogno discorrer sopra le dette cose, venni finalmente a diverse interrogazioni, le quali egli non potette risolvere; onde a molti gentil uomini di diverse nazioni, che si trovorno presenti, restò palese e chiaro, coqie non poteva essere che il Fiammingo non avesse cavato dal mio Strumento quello che era di commune nell’uno e nell’altro. Della qual verità ne sono qui appresso le fedi di due di quelli che furono presenti al detto cimento.
1607. Adì 14 Aprile, in Padova.
Per piena fede della verità affermo io Giacomo Alvise Cornaro, come sono circa quattro anni che venne a Padova un tale Giovanni, Fiammingo, il quale haveva un compasso con alcune divisioni simili ad alcune che si trovano sopra il Compasso Geometrico et Militare del Signor Galilei Galileo, Matematico: il che essendo pervenuto all’orecchie di detto Galilei, et più sentendo come detto Fiammingo asseriva non haver veduto il detto compasso del detto Galilei, et più sentendo il medesimo Galilei che alcuni, per detrarre alla sua fama, andavano parlando che poteva essere che ’l Galilei havesse presa la sua inventione dal Fiammingo, se bene esso Galilei cinque anni avanti haveva fatto vedere il suo strumento et fattone fabricar molti in questa terra, per levare ogni mal’ombra di sospetto, si risolse di far chiamare il Fiammingo in casa mia col suo compasso in presenza di molti Gentil’huomini; et incontrandolo col suo, prima fece vedere che vi erano alcune diversità, et poi, che in quello che erano conformi, il Fiammingo lo haveva preso da quello del Galilei, poi che facendoli esso Galilei molte interrogationi et quesiti circa le operationi di detto compasso, non seppe il Fiammingo distrigarsi altrimente, anzi apertamente restò manifesto come detto Fiammingo haveva preso dal Galilei. Et a questo furno presenti mólti di diverse nazioni, et fra gli altri, che solo di quelli qui si ritrova, è il Sig. Cavalier Pompeo dè Conti da Pannichi. In fede della qual verità ho fatto la presente di mia propria mano, sigillata con il mio sigillo.
Idem qui supra. |
Io Pompeo dè Conti di Pannichi fui presente a quanto è di sopra.
All’altra risposta del Capra, ciò è che a lui solo, e non ad altri, toccava ad esser interprete delle sue parole, risposi, che questo saria stato vero quando la sentenza o la costruzione delle parole fusse inintelligibile, sì che da gli altri non se ne potesse trar senso; ma che nelle parole di sentenza apertissima, come erano quelle, non averia mai il lettore fatto ricorso all’autor dell’opera, non si incontrando in niuna sorte di ambiguità.
Finalmente, parendomi aver apertissimamente fatto constare a gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori, come il Capra veramente si faceva autore dello Strumento e del libro, e più come, con aggravarmi d’ignominiose note, ne faceva me impudente usurpatore, e vedendo che altro non mi restava che il render certissimi i medesimi Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori come la verità del fatto era tutta all’opposito; parlai a quei Signori in questa guisa: Ancor che (Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori) a me non manchino infiniti testimonn, dalla deposizion de i quali io pienissimamente posso far constare alle SS. VV. come l’opera della quale si tratta, non trovato moderno del Capra, ma è mia antica invenzione, la quale io non ho usurpata da altri, e molto meno da costui; tuttavia, quando ogn’altra giustificazione mi mancasse, questa una certo non mi verrà mai meno, la quale è, che io posso far apertamente constare, con l’interrogare il medesimo Capra sopra il libro da esso stampato, che tantum abest che egli de facto sia inventore di questa opera, ma che è impossibil cosa che lui mai una tal cosa, nè simile a gran pezzo, potesse aver immaginata o ritrovata; essendo che egli Niente, Niente, Niente intende di queste professioni, dico nè anco i primi elementi, le prime definizioni, i primi termini. Di poi, rivolto al Capra, e tenendo in mano il libro stampato da lui, lo interrogai se in quel libro vi fusse alcuna cosa del suo; al che egli non mi rispose: onde io tornai ad interrogarlo la seconda, e poi la terza volta, ma sempre senza poterne cavar risposta alcuna: sì che uno de i Signori Riformatori gli ordinò che dovesse rispondere alla mia domanda, ciò è se in quel libro fusse cosa alcuna del suo; al che, astretto di rispondere, si lasciò uscir di bocca che sì, e che vi era la fabrica dello Strumento, e molte operazioni sue. Onde io subito soggiunsi, rivolto a i Signori Riformatori, che per speditissima giustificazione della causa mia mi legavo a questo strettissimo obligo, ciò è d’interrogare (quando così fusse piaciuto alle loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime) alla presenza loro il Capra solamente sopra le cose non copiate dal mio libro, ma postevi come sue, ed in quelle mostrare come vi erano molti errori inescusabili, e tali che ciascuno di essi era per sè solo bastante a manifestare il Capra per nudissimo di ogni intelligenza di questa professione; ed oltre a ciò mi offerivo non tanto di mostrar come le aggiunte del Capra erano piene di errori, ma di più immediatamente esplicare come le sue proposizioni doveriano stare per stai-bene; dal che, quando fusse in tal maniera puntalmente da me ese-quito, e dichiarato come veramente dovevano risolversi le operazioni proposte dal Capra, averei lasciato poi inferire dalla prudenza di loro Signorie Illustrissime se in quelle cose, sopra le quali avevo avuto quanti anni di tempo mi erano parsi da potervi pensar sopra, era credibile che io abbia avuto bisogno di usurpar cosa alcuna o dal Capra o da altri. Udita da i Signori Riformatori questa mia oblazione, fu domandato il Capra se si sentiva di poter render conto sopra le cose sue; il quale, dopo qualche titubazione, rispose di sì: onde li fu da quei Signori assegnato per termine la mattina del seguente giorno per doversi ritrovare nel medesimo luogo (che fu la casa dell’Illustrissimo ed Eccellentissimo Sig. Francesco Molino, Cavaliere e Procuratore) a dover rispondere alle interrogazioni che io li farei sopra le cose aggiunte da lui nel libro stampato; e detto questo, uno de i Signori Riformatori, che fu l’Illustrissimo Sig. Antonio Quirini, si partì, essendo l’ora di ritrovarsi in Consiglio di X. Partì ancora il Capra insieme con suo padre, ma avanti la sua partita domandò che io li concedessi il libro mio per poterlo rivedere ed incontrarlo col suo; il quale di volontà de gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori li fu da me conceduto.
Partito il Capra, mi accostai all’Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Molino, il quale, impedito alquanto dalla podagra, giaceva in letto; e li dissi, che dovendosi far questo congresso in casa di Sua Eccellenza, quando fusse stato con buona grazia di quella, io averei avuto per sommo favore di potervi convocare tre o quattro gentil uomini di Venezia, intendenti della professione, acciò fussero presenti a quanto era per seguire; e questo, non perchè loro Signorie Illustrissime ed Eccellentissime avessero a prendere da i detti gentil uomini informazione alcuna sopra le risposte e portamenti del Capra, sapendo io come per loro medesime erano intelligentissime, ma solamente acciò che per detti gentil uomini potesse fuora esser dato conto della sufficienza di colui che aveva osato publicar me per usurpatore e sè per vero inventore di quell’opera. Di questo fui graziato da Sua Eccellenza e dall’altro Riformatore ivi ancora presente, che era l’Illustrissimo Sig. Girolamo Cappello, il quale mi soggiunse che saria stato bene averne ancora l’assenso dall’Illustrissimo Sig. Quirini, il quale, partendomi io subito, averei ancora potuto trovare nella Camera de gli Scarlatti, avanti che fusse entrato in Consiglio de i X: onde io partn subito; trovai l’Illustrissimo Sig. Quirini, ne ebbi l’assenso, e tornai con la risposta a gli altri due Signori Riformatori: li quali, mentre ero stato fuori, avevano con somma prudenza tra loro considerato che, volendo io chiamare alcuni gentil uomini miei confidenti, saria stato bene farlo sapere alla parte, acciò che, se così li fusse piaciuto, potesse esso ancora convocare suoi amici; il che a me non solamente fu grato, ma risposi che quante più persone vi fossero state presenti, tanto più ne averia sentito contento; ed una e due volte supplicai loro Signorie a dover dare ogni maggior satisfazione al Capra, acciò, in ogni caso di sentenzia non conforme al suo gusto, non avesse appicco di poter lamentarsi di altri che di sè medesimo. Posta questa determinazione, ed essendo già, come ho detto, partito il Capra, nè si potendo fino alla mattina seguente rivedere per fargli intendere questo particolare, di potere egli convocare alcuno suo confidente, giudicorno i Signori Riformatori esser necessario differire il congresso a qualche altro giorno: il che laudando io, anzi facendone instanza, per poter dare al Capra maggior intervallo di tempo da potersi preparare, acciò non gli restasse attacco alcuno di potersi dolere di esser colto troppo improvisamente, quello che doveva seguire il seguente giorno, fu rimesso cinque giorni dopo, ciò è alla vigilia di S. Marco, nel qual giorno, dovendosi tutta la Signoria ritrovare al vespro in S. Marco, potevano commodamente li Signori Riformatori, finito il divino uffizio, ridursi insieme in qualche stanza del Palazzo, e quivi di nuovo ascoltarci.
Venne finalmente il giorno stabilito, e dopo il vespro, avanzando ancora circa due ore a notte, si ridussono gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori in palazzo di S. Marco, nella sala dell’Eccellentissimo Consiglio de i XL Criminali, dove ancora si congregorno molti nobili Veneziani ed altri Gentil uomini: tra i quali intendentissimi delle scienze matematiche vi erano il M. Reverendo Padre Maestro Paolo de i Servi, Teologo della Serenissima Signoria, del quale posso senza iperbole alcuna affermare che niuno l’avanza in Europa di cognizione di queste scienze; vi erano gl’Illustrissimi Signori Agostino da Mula e Sebastiano Veniero, e l’Illustrissimo Sig. Antonio Santini, gentil uomo Lucchese: a i quali, ed a gli altri Signori circostanti insieme, con brevissime parole (essendosi già gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori posti a sedere) esposi la causa di quel congresso; dipoi alli detti Signori Riformatori dissi, che saria stato necessario che gli fusse condotto avanti un tavolino da potervi posar sopra un libro, un compasso, un poco di carta, con penna ed inchiostro; il quale fu immediate portato. E mentre alcuni ministri an-dorno a pigliarlo, il Capra, fattosi avanti, cominciò a dire che non era bene stare a tediare gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori e quelli altri Signori con altre interrogazioni; e che, conceduto che nel suo libro niente vi fusse che stesse bene, e che esso a cosa alcuna non sapesse rispondere, ciò non risultava in alcuna mia utilità; e che egli quivi si era condotto per darmi ogni satisfazione, e che non intendendo di volere in conto alcuno pregiudicare all’onor mio, era pronto, quando io mi sentissi aggravato, di formare una scrittura a mia satisfazione, e quella stampare e publicare, ed in somma non lasciare indietro cosa alcuna la quale potesse bastare al resarcimento della fama e della riputazion mia. Io brevemente li risposi che la redintegrazione dell’onor mio era in buone mani, appoggiandosi sopra la prudenza di quelli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori, di dove io non intendevo rimuoverla; e che non mi faceva bisogno ricever da sue scritture satisfazione, la quale bene spesso non si nega anco a quelli che meritamente e con verità si sono offesi; e che in conto alcuno non desideravo che egli si rimovesse dal suo proposito, giudicando io che il medicamento di una scrittura si deva alle gravissime offese applicare solamente quando tutte le altre giustificazioni sono scarse nè si può, senza qualche ritirata dell’avversario, restaurare, sollevare o puntellare la reputazion dell’offeso; i quali pannicelli caldi, per la Dio grazia, non bisognavano al mio stomaco, assai gagliardo per digerire ed espurgare i tristi umori che l’aggravavano: in oltre li dissi, che la mia querela era con due, ciò è con lui e col suo libro, e che quando bene egli, col ritirarsi e disdirsi, avesse potuto ottener da me perdono, dovevo però procurare il meritato castigo al suo libro, il quale quantunque volte io pur tornavo a rileggere, sempre lo ritrovavo contumace ed ostinatissimo nel lacerare e contaminar l’onor mio: e finalmente li conclusi, che noi non erano convenuti là per questo, e che però attendesse all’appuntamento stabilito e procurasse pur di render buon conto de i suoi studii e del sue libro. Voleva pur il Capra replicare altre cose e procurar di consumare in ciance. quel breve tempo che sino alla notte ci avanzava; ma finalmente, instandolo io e sfuggendo ogn’altro diverticolo, al preparato tavolino lo condussi.
Ed aperto il suo libro, mi venne per le mani la seguente figura, che egli pone a car. 1411, per cavar da essa o i lati de i corpi regolari e segnarli sopra lo Strumento, la qual divisione è di quelle che non sono poste da me nel mio Strumento: ed interrogatolo quello che intendeva di fare con quella figura, niente ebbi per risposta; e pur tornando ad interrogarlo di nuovo, mi disse che io leggessi il libro, e l’averei veduto; pur finalmente, dopo altre interrogazioni, disse che quella era una figura di Euclide, per trovare i corpi regolari. Allora io primieramente feci avvertiti i circonstanti come, avendo il Padre Clavio alterata un poco la figura posta da Euclide; sì che, per trovare quello che Euclide ed il Comandino e gli altri espositori trovano col descrivere il triangolo A OC, il Padre Clavio, lasciando il detto triangolo, trova l’istesso col tagliare la linea AH nel punto I, sì che la parte HI sia lato del decagono descritto nel cerchio, il cui semidiametro sia la linea BH, tirando poi dal punto B la linea BI; il Capra, non intendendo nè l’uno nè altro, e forse dubitando che alcuno di loro avesse lasciato indietro qualcosa, mette l’una e l’altra descrizione superfluamente. Ma questo errore è reso leggerissimo da gli altri più gravi che vi sono. Domandai dipoi il Capra, quanti fossero i corpi regolari; il quale, dopo un lungo pensare, disse che non lo sapeva, e che non era venuto quivi per dottorarsi in matematica, e che questa non era la sua professione, ma che, piacendo a Dio, voleva dottorarsi in medicina (e già si era scordato come nella dedicatoria della sua Considerazione Astronomica non solo matematico, ma protettor delle matematiche si era nominato; e come nella dedicatoria di questo medesimo libro, dopo avere essaitato il metodo del suo maestro nell’insegnarli, aveva scritte queste parole: Ut si verum dicere fas est, mihi potius mirandum sit propter hominis industriam, quam laetandum propter iam adeptam scientiam). Allora, replicandogli io come nel titolo di questo cap. 8 aveva posto il numero di questi corpi solidi, e che però doveva pur saperlo, rispose che se l’era scordato, e che, essendo colto così improvviso, non era meraviglia se non sapeva rispondere ad ogni interrogazione (si era già scordato quello che aveva stampato un mese avanti, ed era colto improvviso in quello sopra che aveva avuto cinque giorni e cinque notti di tempo da pensarvi). Udendo io questo, gli lessi il detto titolo, le cui parole sono queste: Postremam et ultimam lineam quinque solidorum dictam describere, mostrandogli come aveva detto che i corpi regolari erano cinque; e poi l’interrogai se tali corpi erano talmente cinque che non potessero esser nè più nè meno di tanti, o pur se, ad arbitrio de gli uomini, se ne potevano altri figurare. A questo, dopo un lungo pensare, rispose, indovinandola per ventura, che non potevano esser più di cinque: il che avendogli io fatto replicare due o tre volte, gli domandai in qual maniera, nel fine del medesimo capitolo, li connumerava sei. Or qui non si potendo egli, per quanto io credo, immaginare che quello, da chi il presente capitolo, senza molto considerarlo, aveva copiato, potesse avere ammesso un errore così grosso, fattosi alquanto più ardito, quasi negò che ciò potesse essere; onde mi bisognò leggergli il suo testo, le cui parole son queste: Circino itaque aliquo accipias quantitatem lineae BK, quae nobis significat latus dodecaedri, firmato uno pede circini in centro instrumenti alio secabis tuam lineam, tibi facta nota illam signabis per 12 deinde accipies quantitatem lineae BI, quae ostendit latus icosaedri; firmato uno circini pede in centro instrumenti ubi alius ceciderit, ibi facto puncto inscribes 5 tertio accipies quantitatem lineae AP quae ostendit latus hexaedri, hunc transferes in tuam lineam, et illum signabis per quarto accipies quantitatem BG quae latus cubi praebet, et per hanc secabis lineam instrumenti, et ubi nota erit signabis 2 quinto accipies quantitatem lineae FA pro latere octoedri, ubi ceciderit alter pes circini ibi inscribes 8 sexto, et ultimo accipies quantitatem GA quae tetraedri, seu piramidis latus exhibet, secundum quam a centro instrumenti secabis lineam quinque solidorum, et in intersectione inscribes 4 (io lascio qui considerare a voi, discreti lettori, se costui sa nè anco che cosa siano i corpi regolari: poi che, nel segnarli co i loro numeri, nota il dodecaedro per 12, e questo bene; ma l’icosaedro, che ha base, lo nota per 5; l’exaedro, che ne ha 6, lo nota per 20; ed il cubo per 2). Sendo il Capra restato molto attonito per questo incontro, fu da me domandato dove egli credeva di avere errato, o nel titolo dove gli mette 5, o nel fine del capitolo dove gli numera e nomina 6. Qui crebbe la sua confusione, nè poteva egli distrigarsi, se io, dopo l’averlo lasciato pensare alquanto, non gli domandavo qual differenza ei poneva tra l’exaedro ed il cubo; dalla qual maniera di domandare risvegliato un poco, e fatto animo, disse che de i corpi da lui nominati uno vi era posto due volte sotto diversi nomi, e che questo non era error tale che se n’avesse a far tanta stima. Di nuovo, domandandolo io, quali de i detti corpi nominati erano l’istesso, mi rispose: Questi (toccando col dito sopra’l libro l’exaedro ed il cubo, tra i quali gli avevo domandato qual differenza ei ponesse). Finalmente, gli domandai se sapeva ancora per avanti che questi corpi fossero P istesso, ed ei rispose di sì; ma non senza apertissima falsità, poi che nella sua scrittura nomina la linea AP per lato dell’exaedro, e la BG per lato del cubo, le quali linee sono molto diseguali.
Tornando poi una carta indietro, al cap. 7, il cui titolo è: Lineam quadrativam construere, lo domandai per qual cagione, nel determinare in quel luogo le grandezze delle linee rette le quali fossero diametro del cerchio e lati del quadrato, pentagono, esagono, eptagono, etc., quando tali figure sono eguali, si era scordato del triangolo equilatero, che pur doveva essere il primo: il qual errore veniva poi mirabilmente aggravato da quello che egli scrive a car. 3812, al cap. 38, dove, e nel titolo e nella figura e nel fine dell’operazione, propone alla bella prima di fare il triangolo eguale al dato cerchio (le parole del titolo sono queste: Dato circulo aequalem triangulum quadratum pentagonum, etc., construere: la figura è un cerchio, con un triangolo a quello eguale: le parole nella operazione sono: vel inter puncta trianguli pro triangulo AEF). Qui volse leggere il detto cap. 7, per vedere se era vero quanto io gli opponevo; e trovatolo vero, non ci fu altro che replicare. Allora, rivolto a quei Signori, gli dissi: Ora vegghino le SS. VV. Illustrissime ed Eccellentissime, se costui è inventor di quest’opera, o pure se non l’ha nè anco mai considerata nè letta, se non quanto l’ha ricopiata da altri, poi che propone nell’essempio di voler fabricare il triangolo eguale al dato cerchio, e non si accorge che nello Strumento non vi ha posto il modo di poterlo fare: e questo è quello aver gran tempo voltata e rivoltata la fabrica e l’uso di questo Strumento, di che egli si vanta nella lettera dedicatoria, a car. 2 bnota, con quelle parole: Quare his relictis ad propositum meum magis accedens, cum satis diu fabricam, et usum huius Circini proportionis, quem non immerito totius Geometriae compendium nominavi, volutassem, tandem etc. Tornando poi al Capra, lo pregai che, già che egli aveva nel detto capitolo poste le grandezze in numeri de i lati de gli altri poligoni tra loro eguali, e tralasciato il lato del triangolo, fusse in cortesia contento di ritrovarlo quivi alla presenza di quei Signori, essendo la sua invenzione facilissima e brevissima. Allora cominciò a dire, che quella fabrica, che lui poneva, non era altrimenti sua invenzione, ma l’aveva avuta dal suo maestro; e replicò che ei non era lì per dottorarsi in matematica, ma che la sua professione era di medicina. Ero io più che certo che non bisognava aspettar tanto da lui, ben che il trovar la quantità del lato del triangolo sia facilissimo, non vi bisognando altro che crescere in potenza sei volte il lato dell’exagono, già posto da lui, nel detto capitelo, essere 54 e nove decimi. Perchè poi fusse da lui tralasciato questo lato del triangolo, s’intenderà più a basso.
Passai di poi (restando pur ancora nella fabrica che lui prepone) alla divisione del quadrante in 200 parti, posta a car. 14 bnota, dove pone la seguente figura così a capello disegnata, ponendo un rombo in cambio di un quadrato, e, per consequenza, in luogo di una quarta di cerchio, una porzione assai più piccola; e sopra a questa figura, l’interrogai quello che volesse far di lei. Rispose che voleva mostrare il modo del dividere il quadrante in 200 parti, trasportando in esso, col mezo di una riga fissa nell’angolo K ed applicata di punto in punto alle divisioni de i due lati VX, YX, prima divisi ciascheduno in 100 parti eguali, le divisioni desiderate. Allora io li domandai, a che proposito ei venisse a collocare il quadrante nel quadrato, dividendo i lati di esso quadrato in 200 parti eguali, e queste poi con tanta manifattura trasportando nel quadrante, e non più presto divideva immediatamente esso quadrante in 200 parti, già che anco queste dovevano esser parti
13 14 eguali. Rispose, che faceva così per manco fatica: e replicandogli io che all’incontro così veniva a raddoppiare e non diminuir la fatica, essendo egualmente difficile e tedioso il dividere li due lati del quadrato, che la circonferenza del quadrante, in 200 parti eguali; e pur interrogandolo ancora, se la detta circonferenza doveva esser divisa in parti eguali, e rispondendo egli di sì; prima gli dissi, quanto da questo apertamente si comprendeva come egli mai non aveva considerato, non che pratticato, questo Strumento, del quale si faceva inventore, già che non si era ancora accorto come le predette divisioni sopra il quadrante erano ineguali, venendosi sempre verso il mezo ristringendo; e più gli domandai come potessi essere, che ei non intendesse essere impossibil cosa che le dette divisioni, cavate, nel modo che egli scrive, dal quadrato, venisser sopra il quadrante eguali, non essendo, nè potendo essere, la circonferenza del detto quadrante parallela alli due lati del quadrato VX, XY. Qui, fattosi egli forte, e dicendo che sapeva benissimo che le parti su ’l quadrante erano diseguali, e che non intendeva se non del quadrato, quando si era trattato di parti eguali, in luogo di ringraziarmi dell’avvertimento datogli, voleva dimostrarsene conoscitore per avanti: onde, vedendo io questa ingratitudine, fui necessitato a mostrar che quanto diceva era falso, producendo le sue proprie parole, le quali nel medesimo luogo poco più a basso scrive, e sono queste: Sicque firmatis omnibus, applicataque regula centro K, et singulis quadratus divisionibus (bella grammatica, credendo che quadratum si declini quadratus quadratus quadratui; il che si vede anco a car. 40 a15, in quel titolo: Usus quadratus, volendo dire L’uso del quadrato) exteriorem periferiam arcus T diligentissime dividemus, prout unico exemplo demonstrare possumus, applicata namque regula ad punctum K et ad primam divisionem lateris VX secabimus exteriorem periferiam arcus T in puncto Z sicque successive donec in 200 partes aequas illa fuerit divisa. Il che inteso, uno de i Signori Riformatori disse: Partes aequas vuol dire parti eguali. E fe’ cadere a quel furor la vela.
Spedita questa parte, egli stesso, non so con qual proposito, trapassò a voler mostrare come, contro a quello che io avevo altra volta detto a gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori, nel suo libro erano moltissime operazioni le quali nell’opera mia non si ritrovavano; e presentando una nota dove ne erano registrate molte per sue proprie (le quali però poco di sotto si risolveranno in niente), produsse per la prima quella che egli pone nel suo primo capitolo de gli usi dello Strumento, dicendo quella non essere altramente tolta dal mio libro, nè in quello ritrovarsi (è vero che non era scopertamente tratta dal mio libro, ma era bene la mia seconda operazione mascherata; e la maschera non gli era stata messa dal Capra, ma dal Fiammingo sopranominato, il quale, così palliata, l’aveva lasciata tra certe sue poche scritture che in Padova restorno del suo, dalle quali il Capra ha tolta la fabrica dello Strumento e parte di quelle altre operazioni che non sono, o non paiono, tolte dal mio libro; sì come più a basso manifestamente si conoscerà). Avendo dunque il Capra prodotta in campo, per cosa non cavata dal mio libro, l’operazione contenuta nel suo primo capitolo, la quale è di comporre, con l’aiuto delle Linee Aritmetiche, così da me nominate, ma da lui Linee delle Linee, di compor, dico, una linea, la quale contenga un’altra alcune volte ed alcune sue frazioni; io primieramente mostrai, come questa sua prima operazione era in sustanza l’istessa che la sua seconda, la qual sua seconda è copiata ad verbum da la seconda mia, onde, in consequenza, segue che ancora la sua prima sia tolta da me; il che più di sotto apertamente consterà. Soggiunsi poi, che già che lui aveva detto, questa prima operazione esser sua, e non tolta da me, mi aveva posto in libertà di poterli far sopra qualche interrogazione senza rompere il mio obligo, che era stato di non lo interrogare se non sopra le cose che egli non aveva cavate dal mio libro, ma postevi come sue; e però che mi rispondesse in che modo ei voleva multiplicare 55¼ in sè stesso, sì che il prodotto fusse 45, sì come egli scriveva in questa detta sua prima operazione, a car. 16nota, in quelle parole: relieto immoto instrumento multiplicetur fractio 55¼ in se, productum erit 45. A questo interrogatorio restando alquanto stordito, e dubitando che forse io non avessi corrotti i suoi testi, si cavò di tasca uno de i suoi libri e cominciò con diligenza a leggere il detto luogo; al quale atto io non mi potetti contener di dirgli, che non si mettesse in sospetto che io avessi alterata la sua scrittura: lesse e rilesse molte volte il detto luogo, e sopra e sotto, senza mai risponder niente; finalmente, per aiutarlo, io gli dissi che ei poteva benissimo scusarsi con dire che quello era error di stampa,
16 come veramente poteva essere, e che doveva dire 11¼, e non 55¼; di che dissi meravigliarmi molto che ei non si fusse accorto, essendo che, poco sopra e poco sotto al detto luogo, dovendo nominare il medesimo numero, scrive 11¼. Ma io veramente credo, che avendo copiato il Capra questa operazione dal manoscritto, li due 1, 1 fussero segnati un poco storti, e che però fussero creduti e presi per due 5, 5; e tanto più mi confermo in questa credenza, quanto io veggo il Capra, a car. 23 bnota, verso il fine del cap. 7, incorrere in questo medesimo errore a capello, scrivendo così: Tunc videatur quo incidat quantitas lineae B, ut hic in 71. 71. Aperias itaque instrumentum donec quantitas lineae B accommodari possit punctis 60.60 et immoto instrumento accipias distantiam inter puncla 75.75, etc., dove li due 5 devono esser, come di sopra, due 1. Ma tornando al proposito, messa da me la scusa in bocca al Capra, egli, secondo la sua natura, in luogo d’avermi grado dell’avvertimento, cominciò ad esclamare: Ecco i grandi errori che mi vuole imputare il matematico, errori frivolissimi di stampa. Onde io, che a maggiori angustie lo conducevo, gli domandai, se quando il 55¼ si fusse emendato in 11¼, il suo errore saria levato via: e rispondendomi egli animosamente di sì, Adunque, gli risposi io, multiplicate 11¼ in sè stesso, e mostratemi come il prodotto sia 45; perchè io trovo che 11 solo, multiplicato in sè stesso, fa 121, e poi vi si deve aggiugnere il quarto di 11 due volte, e di più il quarto di un quarto, tal che questo prodotto senz’altro sarà più di 126, e non, come voi dite, 45. A questo si trovò egli più che mai inviluppato: e finalmente, per distrigarlo di là ond’ei mai non si averebbe sviluppato, bisognò che io gli dicessi come l’error suo era in quelle parole: multiplicetur fractio 11¼ in se, le quali dovevano dire: resolvatur numerus 11¼ in suam fractionem, nempe in quartas, provenient 45/4, e così stava bene, e serviva al proposito della operazione; e che però tenesse a memoria questo che li avevo insegnato, ciò è che molto differenti cose sono il multiplicare un numero in sè stesso e il risolvere un numero intero in qualche frazione.
Volgendo poi alquante carte del suo libro, nelle quali sono cose solamente copiate dal mio, con l’aggiunta però di alcuni erroretti comportabili, li quali più da basso saranno posti in catalogo, mi fermai a car. 21 anota, dove, avendo finita di copiare la mia settima Operazione, si ha voluto arrisicare a lasciarsi dalla banca, ed eccolo con
17 18 la bocca in terra. Avendo finita di trasportar la regola de gl’interessi a capo d’anno, che io pongo nel luogo detto, ed avendola esemplificata con un essempio di guadagno a ragion di 6 per 100 in 4 anni, vuol metter di suo un essempio di quanto perderiano scudi 240 a ragion di per 100 in 3 anni, e dice: Haecest conversa operatio prioris, ideo sic statues numeros: 110 remanent 100, quot remanebunt 240? Io gli domandai se questo suo era buon modo di operare; ma, essendo egli stato ormai tante volte scovato, non si assicurava più a rispondere nè sì, nè no: onde mi bisognò mostrargli, come, se nel guadagno si dice: Se 100 doventa 110, nella perdita si ha da dire: Se 100 resta 90, e non Se 110 resta 100, perchè così saria un perdere a ragion di per 110, e non di per 100. Lo domandai appresso, per qual ragione chiamava questa operazione conversa della passata, e di più qual proposizione s’intenda essere il converso di un’altra; qui bisognò rispondere di non lo sapere (e pure gli scritti di logica, che ha stampati per suoi, sono dottissimi): ed io, per non mancare al mio debito, gli dissi, che una proposizione era il converso di un’altra, quando quello che era quesito nell’una, si poneva per dato nell’altra; e che qui, trattandosi o di guadagno o di perdita, tanto nell’una quanto nell’altra questione, il quesito era il medesimo, ciò è il primo capitale affetto dall’interesse e dalla moltitudine de gli anni, e che però le due domande erano del medesimo genere, e non una la conversa dell’altra. Finalmente quelli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori, chiarissimi ormai della verità del fatto, e forse compassionando al tormento nel quale io ritenevo il malarrivato Capra, fecero cenno che tanto bastava; e fu non piccola ventura del Capra, la quale da molto maggiori laberinti lo liberò.
Pur tuttavia, trovandomi il libro ancora dinanzi aperto a caso a car. 36 b19 dove si vede la seguente figura posta in fine del cap. 32, nel quale insegna a trovar le proporzioni tra gli angoli d’un triangolo, domandai ancora al Capra, chiesta buona licenza a quei Signori, quanto fusser grandi gli angoli di un triangolo. Egli, che nello studio de i cinque precedenti giorni aveva ciò imparato (perchè, che egli avanti ciò non sapesse, da questa sua figura è manifesto), rispose animosamente che erano grandi 180 gradi, e che io non guardassi a quella figura nella quale, per error di stampa, erano segnati gradi 183. Al che io replicai, che essendo in tutti tre gli angoli segnato tre volte 61, era gran cosa avere in tutti tre i luoghi errato, e massime cambiando un 0 con un 1, caratteri differentissimi; ma lasciati questi inverisimili, gli domandai qual colpa poteva avere lo stampatore o compositore in una figura intagliata in legno, e prima sopra il medesimo legno dalla sua propria mano, e non da altri, disegnata, con li tre 61, 61, 61 ne gli angoli. Da questa troppo evidente e manifesta colpa non l’averia potuto scusar Demostene; e però la scorrezzione restava della mano e della scienza del Capra, e non di altri.
E questi, prudente lettore, son quelli li quali, non avendo prima che ieri l’altro imparato quanti gradi sottendono a gli angoli d’un triangolo, hanno più di un anno avanti stampato metodi di risolver triangoli sferici, calcoli di luoghi di stelle per via di’triangoli, computi di ecclissi solari, e sono di sì alto ingegno, che queste contemplazioni e laboriosi computi, li quali nelle scuole de gli altri astronomi sono stimati per le ultime e più difficili fatture, nulladimeno appresso di loro sono scherzi, primizie e tirocinii; e quel che è peggio, ci tengono per tanto stupidi ed insensati, che credono che noi siamo per crederle, e per non vedere ond’elle sono cavate. Ma perchè io non intendo di trattare in questo luogo, se non di quelle cose che appartengono al mio libro, ed oltre a ciò non sono molto esercitato nell’indivinare i sensi di figure non geometriche, ma peggio che ieroglifiche, poste senza costruzione, senza demostrazione, e forse senza proposizione e senza proposito, e poste più, per mio avviso, per spaventare le menti de i semplici (o forse perchè questi che le pongono veramente credino che Tolomeo, Archimede, Apollonio e gli altri matematici le mettino ne i lor libri per ornamento, e che quelle tanto meglio comparischino, quanti più cerchi, archi e linee dritte e torte contengono), lascerò questa fatica a Giusto Birgio o a Niccolò Raimaro Urso Dithmarso, di farsi render conto dal Capra sopra i Tirocinii Astronomici.
Finito il congresso, e fattoci intendere dal Sig. Paolo Ciera, Segretario de gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori, che noi uscissimo fuori, dopo una breve consulta ci feciono dire dal sopranominato signor loro Segretario che per quella sera eramo licenziati, e che non stessimo ad aspettare altro. Partimmo, ed ultimatamente non molti giorni dopo fu dalla somma prudenza e clementissima giustizia di quei sapientissimi Signori prolata la seguente sentenza, e mandata a gl’Illustrissimi Signori Rettori di Padova, acciò la facessero esequire; onde immediatamente a suon di trombe fu publicata nello Studio di Padova, nell’ora della maggior frequenza de gli scolari.
COPIA DELLA SENTENZA.
1607, a’ 4 Maggio.
Inteso da gli Eccellentissimi Signori informatori del Studio di Padova infrascritti l’aggravio di D. Galileo Galilei, Lettor delle Matematiche in esso Studio, che havendo lui già molti anni publicato et poi dato alla stampa nella Città predetta un suo libro intitolato: Le Operazioni del Compasso Geometrico et Militare, questo da Baldassar Capra, Milanese, gli sia stato in gran parte usurpato col mezo dy un altro libro fatto da esso stampar in Padova, sotto titolo di: Usns et Fabrica Circini cninsdam etc,, trasportandolo dai volgare al Latino; ed intese ancora da loro Signorie Eccellentissime diverse considerationi et interrogationi e risposte passate sopra l’uno e l’altro di essi libri tra li predetti Galileo e Capra, con la presenza di persone molto intelligenti di tal professione; non havendo il Capra saputo rispondere, nè render buon conto sopra le cose per lui aggiunte nel predetto libro, restorno detti Eccellentissimi Signori molto ben certi, che in effetto il predetto Capra havesse in gran parte trasportato il libro del predetto Galilei nel suo, per l’incontro ancora che ne è stato fatto: onde con tal operatione si causeria non picciolo scandolo, et intacco alla riputatione del medesimo Galilei, Lettor in tal professione, et allo Studio ancora. Perciò hanno tutti li antedetti Eccellentissimi Signori concordemente terminato, che tutti li volumi del predetto libro stampato, che si trovano tanto presso al sudetto Capra quanto presso al Tozzi libraro, in tutto al numero di 483, non possino esser venduti nè publicati in questa Città, ma debbino esser presentati innanzi le lor Signorie Eccellentissime, per dover esser suppressi di quel modo che loro parerà; riservandosi di procedere contra il stampatore et libraro per le trasgressioni che possono esser state commesse da loro contra la forma delle leggi in materia di stampe; ordinando così dover esser notato.
D. Francesco Molin Cav. e Proc. | Riformatori del Studio di Padova. | |
E. Hieronimo Cappello | ||
D. Antonio Quirini | ||
Paolo Ciera Secret |
Furono anco il giorno stesso tutte le copie del libro del Capra inviate a Venezia a gl’Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Riformatori; delle quali ne furon trovate 440 appresso il libraio, e 13 in casa dell’autore, avendone esso per diverse parti di Europa distribuite già 30, per quanto il padre in mia presenza referì all’Illustrissimo ed Eccellentissimo Sig. Giorgio Vecchioni, Cancellier dell’Illustrissimo Sig. Podestà di Padova. Le quali copie sparse, poi che già aver anno diffusa pel mondo l’ignominia impostami, hanno messo me in necessità di stampar la sopraposta sentenza, e formar e publicare la presente scrittura, e di più ad aggiugnere un particolar registro nel quale si vegga quante e quali siano le cose trasportate ad verbum dal mio libro in quello del Capra, e d’onde ancora siano prese quell’altre le quali dal mio libro non son tolte: essendo in somma verissimo che Nel libro del Capra Niente penitus vi e del suo, da gli errori in fuori. E prima, quanto alla fabrica dello Strumento.
Nel primo capitolo mostra il Capra la descrizion della Linea delle Linee, detta da me Linea Aritmetica: nella qual fabrica niuna invenzione vi è nè del Capra, nè di altri, essendo che questa linea va semplicemente divisa in parti eguali, secondo qual si voglia moltitudine; ed io la divido in 250. Vi sono però, nel fine del capitolo, due cose del Capra. La prima è una contradizione a sè stesso, dicendo egli qui, che il divider questa linea in molte parti eguali è cosa facilissima, e le sue parole son queste: Huius fabrica satis est facilis, postquam nullus est tam rudis artifex, qui non possit lineam aliquam propositam in petitas aequas partes dividere; ma poi nel cap. 3 delle operazioni, il cui titolo è: Lineam propositam in aliquot petitas partes secare, dice tutto l’opposito, cominciando così: Nulli dubium est quod laboriosissimum sit dum aliquam lineam dividimus toties circinum constringere et dilatare donec voti compotes facti simus, etc.; e più, nel secondo capitolo antecedente, parlando pur di una division di linea, la quale, senza lo Strumento, si conseguirebbe col divider la proposta linea in molte parti eguali, scrive così: Difficillimum enim esset ne dicam impossibile huiusmodi divisiones invenire, quas tamen statim nobis exhibet instrumentum hoc nostrum. L’altra cosa, che io noto, è quello che ei dice nelle ultime parole, parlando pure della medesima linea da dividersi, ciò è: Quae etiam summa facilitate dividi posset per illa quae cap. 3 istius instrumenti usum tradentes, explicabuntur; ma perchè l’operazione che si esplica al cap. 3 de gli usi non si può far senza aver lo Strumento già fabricato, séguita per necessità che il nostro autore nel fabricar lo Strumento supponga averlo già fabricato: la qual medesima inezia replica ancora a car. 13 b20, pur nella fabrica dello Strumento, nella quale, venendogli bisogno di trovare in un cerchio dato il lato del decagono, dice così: Quod facillimum esset si haberes instrumentum factum per ea quae dicentur cap. 34.
Passa poi il Capra, nelli due cap. 2 e 3, alla descrizione della Linea delle Superficie e della Linea de i Solidi, chiamate da me Linea Geometrica e Linea Stereometrica: per il che fare propone due tavole, una delle radici quadrate, e l’altra delle radici cube. Ma qui, avanti che io passi più oltre, devo, discreti lettori, farvi sapere, come quel Fiammingo, del quale si è di sopra fatta menzione, il quale cinque anni sono fu in Padova, e lasciò vedere uno strumento in gran parte cavato dal mio, nel partirsi di qua lasciò all’Illustre Sig. Michele Victor di Vustrou di Bransvich, il quale prima da me aveva imparato l’uso del mio Strumento, alcuni pochi scritti attenenti alla fabrica e ad alcuni usi del detto strumento, li quali scritti passorno poi dal detto Signore in mano di M. Gasparo Pignani, esquisitissimo fabricator di ogni sorte di strumento matematico, e dell’istessa scienza non vulgarmente intendente; i quali scritti, avendone egli ad altri fatto copia, è necessario che siano venuti in mano del Capra, poi che diverse cose in detti scritti contenute si ritrovano nel libro del detto Capra ad anguem, come nel progresso si mostrerà. Questi scritti ho io fatti produrre avanti gl’Illustrissimi Rettori di Padova, li quali, ricevuto il giuramento da detto M. Gasparo, come lui li ha, già cinque anni sono, ricevuti dal detto Signore alemanno, li hanno autenticati, come nel fine di questo discorso si vede. In oltre non voglio tacere, come in questi scritti, oltre al mancarvi moltissime operazioni, e le principali, del mio Strumento, vi manca ancora interamente la descrizione e gli usi delle linee, che io chiamo Aggiunte, per la quadratura delle parti del cerchio e delle figure contenute in qualunque modo da parti di circonferenze, o da tali parti di circonferenze e da linee rette; vi mancano interamente le Linee Poligrafiche, al modo che le pongo io, la Squadra da bombardieri usata al modo mio, la divisione per misurar le pendenze, e la divisione del Quadrante per misurar con la vista: in oltre, dal nominarmi che fa il detto Fiammingo più volte in questi brevissimi scritti, si vede come egli aveva vedute le scritture mie, ben che non ancora stampate, e, con migliore e più civil creanza di quella del Capra, non aveva procurato di asconder questa verità. Ora, tornando al nostro proposito, propone il Capra, per la descrizione delle sopranominate linee, due tavole, una delle radici quadrate e l’altra delle cube, le quali ne i predetti scritti si veggono poste per il medesimo fine.
Segue il Capra, nel cap. 4, la costruzione delle Linee Metalliche, e mette una tavoletta contenente le proporzioni che hanno in peso tra di loro tutti i metalli, cavata pur da i medesimi scritti: le quali proporzioni, oltre che sono diverse dalle vere, che sono quelle che li do io nel mio Strumento, sono ancora poste senza la dimostrazione o dichiarazione del modo dell’investigarle, cosa che saria necessaria da farsi volendo aqquistar fede a quello che si propone; ma il Capra, avendole trovate così senza dimostrazione, senza dimostrazione le ha, poste.
Nel 5 capitolo mette la division della Linea del Quadrante, ma fatta solamente mecanicamente, sendo per avventura riuscita troppo difficile da intendersi una tavola la quale, per il medesimo uffizio, è posta negli scritti del Fiammingo. Ma io, come quello che non ho voluto trattar nel mio Strumento operazione alcuna che si indirizzi a cose astronomiche, non ho cercate simili descrizioni, sì come anco lasciai da parte gli usi del Quadrante astronomico, ben che da me disegnato sopra ’l mio Strumento. Qui chi volesse sottilmente esaminare ogni cosa, potria domandare al Capra a che proposito, nel trovar queste divisioni, descrive nella figura il mezo cerchio BCD, il quale non vi serve a niente.
Nel cap. 6 inscrive nello Strumento la Linea de i Cerchi, detta da me Poligrafica. Le divisioni di questa linea sono parimente trovate dal Capra mecanicamente, le quali il Fiammingo pone tra i suoi scritti in una tavola cavata dalle tavole de i sini, o de gli archi e corde. In questo capitolo vuole il Capra, che la suttendente alla terza parte della circonferenza, ciò è il lato del triangolo, sia notato con due caratteri, ciò è per 3 e per 7, scrivendo così: tertiamque hanc partem notabis in instrumento non solum per 3, sed etiam per 7 nam non significat solum tertiam circuli partem, sed etiam latus hexaedri. Dove io noto primieramente, che di questo punto segnato per 7, venendo a gli usi dello Strumento, non se ne fa mai più menzione nel suo libro; in oltre credo che ogni Matematico dubiterà quello che abbia che far questa linea suttendente alla terza parte della circonferenza col lato dell’esaedro, che è minore assaissimo di questa linea, sì come il medesimo Capra, in contradizion di questo luogo, dice nel seguente cap. 8, a car. 14 a21.
Nel cap. 7 mette la costruzione della Linea Quadrativa, chiamata da me Tetragonica; ed il modo del segnarla posto dal Capra è preso ad unguem da una tavoletta de i lati de i poligoni regolari eguali, posta tra gli scritti del Fiammingo, il quale però non lascia indietro il lato del triangolo, come fa il Capra, sì come di sopra ho altra volta detto. Di che essendomi io meravigliato, venendomi finalmente questi scritti in mano, mi hanno fatta cessar la meraviglia, col manifestarmi la causa per la quale il Capra ha lasciato indietro il detto lato del triangolo; che è perchè nella detta tavoletta il Fiammingo scrivendo, in luogo di latus trianguli aequilateri, isopleuri latus, ha forse, con la novità di questa parola strana, spaventato il Capra, il quale si ha per miglior consiglio eletto più presto di lasciare star questa figura che mettersi a rischio di scriver qualche cosa spaventevole. La divisione di questa linea si stende appresso ’l Capra sino al lato dell’ottangolo, chè più non ne ha trovati scritti dal Fiammingo; ma però ne’ miei Strumenti contiene sino alla figura di 13 lati.
Passa poi nel cap. 8 alla descrizion della Linea per i Corpi Kego-lari, cavata da Euclide alla 18 del 13, ma con l’aggiunta de gli errori sopra considerati. Questa linea è totalmente superflua in questo Strumento, perchè, già che non serve per altro che per trovare i lati de i corpi regolari inscrittibili nella data sfera, questi si potranno trovare facilissimamente col mezo delle altre linee dello Strumento: perchè essendo il diametro della sfera in potenza sesquialtero al lato della piramide, doppio al lato dell’ottaedro, triplo al lato del cubo; in oltre, essendo la porzion maggiore del lato del cubo, segato extrema et media ratione, lato del dodecaedro, e comprendendo il medesimo cerchio il pentagono del dodecaedro ed il triangolo dell’icosaedro; col mezo delle Linee Geometriche e delle Poligrafiche solamente si troverà il tutto: perchè le Geometriche ci daranno i lati della piramide, dell’ottaedro e del cubo; e con le Poligrafiche divideremo il lato del cubo, secondo l’estrema e meza proporzione, per il lato del dodecaedro,
22 il qual lato ritrovato ci darà, in virtù delle medesime linee, il lato dell’icosaedro: sì come a diversi miei scolari particolarmente ho insegnato. Passa poi nel medesimo capitolo alla division del Quadrante: sopra il quale costituisce tre divisioni, una per la Squadra da bombardieri, l’altra per il Quadrante Astronomico, e queste, dovendo essere in parti eguali, non hanno artifizio alcuno nelle loro divisioni; la terza, che è per le divisioni del Quadrato Geometrico, ben che egli abbia cento volte veduto il modo del dividerla in casa dell’artefice che mi lavora, che è il modo descritto da lui, con tutto ciò quanto bene egli l’abbia avvertito, da quanto si è detto di sopra è manifesto. Tralascia poi la division che è sopra il quadrante del mio Strumento, per misurar le pendenze, per essere un poco più astrusa e per non aver egli avuto onde cavarla.
Questo è quanto alla fabrica di questo strumento, secondo che il Fiammingo, da chi il Capra ha copiato, si è immaginato che vadino ritrovate le divisioni di quelle linee che sono prese dal mio Strumento: delle quali regole io non reprobo per falsa se non quella de i Metalli; ma dico bene che dovevano esser poste con le loro dimostrazioni, e di più dico che i modi che ho tenuti io per conseguir queste e le altre divisioni che metto nel mio Strumento, sono per vie più spedite e più esatte, come al suo tempo farò toccar con mano.
Fatte queste considerazioni intorno alla fabrica, comincio a considerar la prima operazione posta nel primo capitolo, nella quale vuole il Capra insegnare a comporre una linea che contenga alcune parti e frazioni di parti: la quale operazione è la medesima che la seguente, posta da lui nel secondo capitolo, solamente immascherata. Vero è che nel mettergli la maschera fece gli errori de i quali sopra si è parlato; ma che ella sia la medesima della seguente, facilmente potrà ogn’uno comprendere. Imperò che (stando nel suo essempio) il trasferir la intera linea AB 4 o 5 volte nella CD, non è niente; ed il prender poi 7 piedi e 6/7, de i quali piedi tutta la AB ne contenga 12, non è altro che pigliare delle 84 parti di tutta la AB le 55: imperò che, sendo la AB figurata contener 12 piedi, risolvendola in settimi di piede, viene a contenere di tali particelle 84, e risolvendo li 7 piedi e 6/7, che prender ne doviamo, parimente in settimi di piedi, abbiamo delle medesime particelle 55; tal che il problema tutto, che si ha da far col mezo dello Strumento, non contiene altro che pigliar delle 84 parti della linea AB le 55, essendo il resto dell’operazione, ciò è il risolvere quei numeri nelle loro frazioni, opera del nostro discorso, e non fatta col mezo dello Strumento. E nel secondo capitolo che altro s’insegna dal Capra, che Alicuius datae lineae omnes petitas partes invenire? Ma
il secondo capitolo è copiato ad unguem dalla seconda Operazione del mio libro: adunque in questi due capitoli non resta altro all’in-venzion del Capra, che gli errori. A i quali si deve pure aggiugner quello che ei commette verso il fine di questo secondo, quando dice: Insuper si esset data linea 100 partium, et peterentur slm3/100 4 vel 5 quae prope centrum instrumenti accipi non possunt, illae accipiantur ex altera parte instrumenti, videlicet prope 100 ascendendo etc.; il che non è ben detto, ma bisognava dire: accipiatur residuum illarum partium, nempe 97, vel 96, vel 95, prope 100, e non illae accipiantur: e questa cauzione, eccettuatone però l’errore, è pur essa ancora presa da due luoghi della mia prima Operazione.
Il terzo capitolo, Lineam propositam in aliquot petitas partes secare, contiene quattro parti. Le prime tre, per dividere le linee mediocri, le minime e le massime, sono copiate ad verbum della mia prima Operazione, eccettuatone l’errore che il Capra commette nel voler palliare un poco la terza; dove chi facesse al modo che egli scrive, dicendo: et immoto instrumento accipiatur una septima illius IK, quae addatur singulis partibus prius acceptis in linea HK, farebbe grand’errore, ma bisogna che illa septima addatur primae parti semel, secundae parti bis, tertiae ter, etc. La quarta parte, nella quale egli insegna, date due linee diseguali, dalla maggiore tagliarne una eguale alla minore, e ci fa prima veder quanti punti contien Funai, e poi quanti ne contien l’altra, e poi cavar il numero minore dal maggiore, e poi tornare a pigliare il residuo dallo Strumento, e poi trasportarlo sopra la maggiore; voglio che ci contentiamo di lasciarla per trovato singolare dell’ingegno del Capra.
La quarta operazione, Secundum datam lineam divisam secare aliam, è tolta dal Fiammingo, ma si poteva più speditamente risolvere per la terza mia: anzi, quanto all’operazione, è l’istessa a capello; ma, dove in questa le parti trovate si notano nella medesima retta, nella mia con le linee trovate si costruisce una figura.
Nel quinto capitolo sono diverse operazioni di aritmetica, trasportate tutte dal mio libro. E prima, dal principio del capitolo sino a quelle parole: Non hic iacet huius instrumenti usus, è copiato tutto a capello dalla mia quarta Operazione; dove si noti come, avendo tralasciato il Capra, nel copiare il primo caso di questa Operazione, quello elle io scrivo in quel proposito, ciò è che, per risolver le questioni della regola aurea, delli tre numeri proposti si può, ad arbitrio nostro, per aggiustar lo Strumento, pigliare il secondo o vero il terzo, ed applicarlo al primo, non avendo esso fatto menzione di ciò, sèguita poi di copiare e scrive: Sed si quaestio esset: exhibent 30, quot dabunt 80? nec secundus nec tertius numerus ex scala immobili acceptus potest primo per transversum accommodari. Ma se di sopra non ha mai fatto menzione di accommodare altro che il secondo, perchè dice ora: Ma se nè il secondo, nè il terzo si potrà accommodare? bastava dire: Quia secundus non potest accommodari etc.: copia dunque solamente, ma non intende. L’altra operazione poi contenuta sino alle parole: Non minori facilitate resolvuntur, non aggiugne niente di nuovo a quanto è insegnato di sopra, perchè non è altro che la medesima regola aurea replicata tre volte: ma perchè nell’aggiustare lo Strumento si adoprano solamente il primo e secondo numero, li quali in tutte e tre le operazioni sono sempre i medesimi, quindi è, che, aggiustato una volta, ci serve poi, senza più muoverlo, per trovare tutti gli altri numeri rispondenti a quelli che nella regola occupano il terzo luogo. La operazione che segue sino alle parole: Verum si quis, è la regola inversa copiata ad verbum dalla mia Operazione 5. L’altra che segue, sino alle parole: Non absimili negocio, è la trasmutazione delle monete posta da me nella mia sesta. Quello che segue, sino alle parole: Insuper si aliquis, è l’operazione per gl’interessi a capo d’anno risoluta in due modi diversi, copiati l’uno e l’altro a parola a parola dalla mia settima. In quel che segue, sino alle parole: Sed ut melius, il Capra si è arrisicato a non voler copiare ad verbum; e se bene segue la medesima operazione, commette gli errori notati di sopra nella narrazione delle sue risposte in voce. Quello finalmente che resta, sino al fine del capitolo, si lascia intatto all’invenzione del Capra, essendo un affaticarsi per impoverire: poi che introduce, per far le medesime cose già fatte, un’altra scala mobile, potendosi servir della stabile; ha da muover lo Strumento una volta di più, adoperare due compassi, e cercare infine con tedio transversalmente il numero desiderato; le quali manifatture sono tutte non pur disutili, ma dannose.
Nel cap. 6 propone: Figuram aliquam superficialem adaugere vel dimi- diminuere, e ciò dichiara con due essempi: il primo è in un triangolo solo, il secondo è in un rettilineo di molti lati. E perchè il primo essempio non è copiato dal mio libro, un solennissimo errore non manca: imperò che, proponendo egli con queste parole: Sit triangulus ABC secundum quem alius triangulus constitui deleat qui sit ter maior, di voler fare un triangolo triplo di un altro, venendo poi all’operazione, cresce i lati del proposto secondo la proporzion tripla, e crede di aver secondo la medesima proporzione cresciuto il triangolo; nè sa ancora che il triangolo non tre volte, ma nove volte sarà maggiore del proposto. L’altro essempio poi, che egli diffusamente descrive, è puntalmente copiato dalla mia Operazione 3.
Propone nel cap. 7: Datis duabus lineis, tertiam proportionalem adiungere; e questo non è copiato dal mio libro, ma cavato da gli scritti del Fiammingo. Dove, oltre a quello che ho notato di sopra intorno a questo capitolo, scrivendo le sue risposte in voce, noto adesso il principio, dove scrive così: Sint duae lineae A et B, quibus invenienda sit tertia proportionalis continua, etc.; dove la parola continua, per esservi superflua, denota che il Capra non sa che una terza linea proporzionale, aggiunta a due altre date, non può non essere in proporzionalità continua: e pur queste son minime bagattelluzze. Poteva in oltre questa operazione, come dependente da cose poste da me, molto più destramente esser resoluta, e senza avere a muovere lo Strumento più di una sola volta: imperò che, misurata rettamente la linea B, ed applicata poi transversalmente alla quantità della A, misurata su la medesima scala retta, e preso poi transversalmente il numero della B, si averà la C; ma che bisognava perder tempo in questa e nelle due seguenti operazioni, se sono la medesima cosa ad unguem che la regola aurea posta da me e trascritta dal Capra?
Per dir quanto mi occorre con maggior brevità e chiarezza intorno al cap. 8 del Capra, è necessario trascriverlo in questo luogo. Dice dunque nel titolo: Datis duabus lineis tertiam, tertiae quartam, quartae quintam etc. continuas proportionales adinveive; e segue: Per hanc operationem facillimum erit resolvere probl. 4, prop. 12, lib. VI Eucl. si namque propositarum linearum nota sit proportio, ut iam supra docuimus cap. 5 inquiratur differentia inter dictas duas lineas, tunc aperto instrumento secundum quantitatem maioris lineae excipian intervalla differentiarum, ut e. g., dentur lineae A et B in proportione ut 21 ad 28 aperiatur secundum quantitatem lineae B in 21 immotoque instrumento excipiatur distantia inter puncta 35.35 pro linea C inter puncta 42.42 pro linea D et sic de reliquis. Qui primieramente si nota, come il volere che excipiantur intervalla differentiarum non ha che fare niente in questo luogo, nè all’operazione, quando si facesse bene, nè al farla male, come sèguita di fare il Capra; e doveva (volendo concordar con quel che segue) dire: excipiantur intervalla numerorum crescentium ultra 28 per differentiam 21 ad 28, li quali sono quelli che nomina, ciò è 35, 42, etc. Passo poi a considerare un altro errore: ed è che, sendo la B 28 e la A 21, per trovare la terza C vuole che Instrumentum aperiatur secundum quantitatem lineae B in 21, e che illo immoto, excipiatur distantia inter puncta 35 pro linea C, il che è falsissimo; ma bisogna excipere distantiam inter puncta 28. Vi è, oltre a questo, il terzo non minore errore: il quale è che egli s’immagina, che quando averà presi gl’intervalli tra i punti 35.85 e 42.42, questi siano le lunghezze di linee continue proporzionali; cosa parimente falsissima, ed argomento di niente intendere, perchè le distanze tra i punti 21.21 e 28.28 e 35.35 e 42.42 ci danno linee di eguali eccessi ed ordinate in proporzione aritmetica, cosa che non fa al presente proposito: ma se voleva conseguire l’intento, bisognava applicar la B al 21, e prendere il 28, che gli dava la terza C; e questa applicata (aprendo più lo Strumento) pur al 21, pigliando il 28, si aveva la quarta D; la quale, applicata similmente al 21 e preso il 28, ci dava la quinta E; e così in infinito. Vedete, intendenti lettori, in quali puerizie mi bisogna consumare il tempo; e pure è forza trattarne.
Il nono capitolo, Datis tribus lineis, quatiam proportionalem investigare, ha, sì come il Capra medesimo confessa, la medesima operazione che la precedente, e non può essere aggiunto per altro, se non per dar luogo a un nuovo errore, che non poteva capire nel passato capitolo. Qui, stando nella figura precedente, e volendo alle tre proposte linee soggiugnere la quarta proporzionale, dice: Inquiratur proportio lineae A ad B: ut aperiatur secundum quantitatem B in 50.50, A cadet in 381/2 itaque circino aliquo accipias quantitatem lineae C hanc punctis 381/2 per transversum accommodabis, et immoto instrumento accipies distantiam inter puncta 50.50 quae exhibet lineam E quartam proportionalem, quod nihil aliud erit quam resolvere problema Pappi, quo docet, tribus datis rectis lineis quartam invenire, quae sit ad tertiam, ut prima ad secundam. Ora qui non ha che far Pappo, nè questo è altro problema che il quarto del sesto d’Euclide, prop. 12; e non è vero che in questa operazione si trovi una quarta linea la quale sia alla terza come la prima alla seconda, ma si trova la quarta alla quale la terza è come la prima alla seconda.
L’operazione decima è: Secare datam rectam quamlibet secundtim duo, extrema ac media ratione; dove quelle parole secimdum duo, le quali non vi hanno che fare, bastano a far conoscere ad una persona della professione, che il Capra non ha mai letto alcuno autore matematico. Questa operazione è copiata da gli scritti del Fiammengo, ed è falsa: io perchè posto, come dice il Capra, che tutta la linea data sia 100, fa poi che la minor porzione sia 38, e, per consequenza, la maggiore 62; ma 100, 62 e 38 non sono altrimenti proporzionali, perchè il quadrato di 62 è 3844, e il rettangolo di 100 e 38 è 3800. Ma non solamente col mezo di questi numeri non si segherà la data linea secondo l’estrema e meza proporzione, ma nè secondo alcuni altri, e siano quali si veglino, essendo tal divisione irrazionale; sì che, posta tutta la linea, come di sopra, 100, sariano le sue parti, segandola nella proporzione detta, una radice 12500 m. 50, e l’altra 150 m. radice 12500: ma queste cose avanzano di troppo la capacità del Capra. E se bene questa divisione non si può trovare col mezo delle Linee delle Linee, si può nondimeno fare con altre linee dello Strumento; ma questa è una cognizione molto lontana dall’intelligenza del Capra, ben che l’operazione sia facilissima: e non si ha da far altro che applicar tutta la linea proposta trasversalmente alli punti 6.6 delle linee che il Capra chiama Lineae circidorum, pigliando poi, senza muover lo Strumento, l’intervallo tra li punti 10. delle medesime linee; e questa sarà una delle parti della linea da dividersi. Ma sopra le mie Linee Poligrafiche si applicherà tutta la linea alli punti 10. 10, pigliando poi la distanza tra li punti 6.6, e sarà fatto. Passa nel cap. 11 nelle operazioni delle Linee delle Superficie, dette da me Geometriche; e in questo capitolo mette sotto pochissime parole tre operazioni tolte a capello dalle 9, e 11 mie, ma incantucciate qui, parendo pure al Capra furto troppo enormemente spaccato il copiar sempre il tutto a parola a parola.
Nel cap. 12 propone: Datum triangulum dividere Uneis aeqmdistantihus in partes aeqnales. Questa operazione è tolta ad unguem da gli scritti del Fiammingo, e non è altro che la mia ottava mascherata: imperò che io insegno quivi crescere o diminuire qualunque figura superficiale secondo qual si voglia proporzione; e qui, che altro è il dividere il triangolo proposto in cinque parti eguali, per star nell’essempio del Capra, che trovarne uno che sia la quinta parte di quello, un altro che sia li 2/5, uno che sia li 3/5, etc.?
Propone nel cap. 13: Datam aliquam superficiem dividere secundum datam proportionem: e perchè questa non è copiata dal mio libro (se bene è tolta ad verbum dalli scritti del Fiammengo, dove ella è posta con l’essempio medesimo de i tres viri inter quos dividendus sit campus ABCD), si mette a esaggerare la eccellenza dello Strumento per questa frivolissima operazione. La quale, primieramente, ha la proposizione universale, come si vede, ma la regola, che poi si dà, non si applica se non a i parallelogrammi, nè può aver luogo se non in questi, ne i triangoli e nelle figure mensali: le quali tutte figure, seguitando la proporzione delle lor basi, come dalla prima del sesto d’Euclide si fa manifesto, traducono il presente problema al dover dividere una linea nelle date proporzioni, e non altro; la quale operazione è la medesima giusto che la prima operazione posta dal Capra, ciò è la medesima che la seconda mia: onde io non so perchè il Capra l’abbia replicata qui tra le Linee Geometriche, le quali non ci hanno che far niente, nè l’istesso Capra se ne serve punto per questa operazione.
Il cap. 14, che segue, contiene due operazioni: l’una è per trovar la media proporzionale, copiata ad verbum dalla mia 14 Operazione; l’altra è costituire un quadrato eguale a un dato triangolo, copiata di parola in parola dalla seconda parte della mia Operazione 31.
Nel cap. 15 sono diverse operazioni, e però diverse cose da notarsi. E prima propone: Datis tribus superficiebus, quartam proportionalem adiungere; comincia poi l’operazione con queste parole: Sint duo circuli A et B et figura C cui sit invenienda quarta proportionalis qualem proportionem habet A ad B ex linea superficierum quaeratur proportio A ad B etc.; dalla qual frase di dire si può comprendere se il suo autore ha mai letti libri di matematica. Sèguita poi l’operazione sino alle parole Non absimili; e di lì sino a Eadem fere operatione insegna: Si dentur duae superficies, tertiam proportionalem invenire; l’una e l’ tra delle quali operazioni è tolta da gli scritti del Fiammingo, ed è in questo luogo superflua: imperò elle, se di sopra si è insegnato, date tre linee trovar la quarta, e datene due trovar la terza proporzionale, ed essendo che, ogni volta che le linee son proporzionali, ancora le lor figure simili son proporzionali, come Euclide dimostra nella 22 del sesto, a che proposito s’introducono ora queste due operazioni solamente per aggrandire il libro? Ma qui noto un’altra leggerezza del Capra: ciò è, che qui, dove non era necessario, distingue la considerazion delle proporzioni delle linee da quella delle lor figure; ma di sopra, nel cap. 6, dove tal distinzione era sommamente necessaria, l’ha prese come se fossero la medesima cosa. In quel che segue poi, sino alle parole Hincque habetur solutio, copia la Operazione mia 10, dalla quale depende, anzi è il medesimo a punto, quello in che egli si distende sino a Haecqae proportionum methodus. Entra poi a voler metter non so che del suo, e s’intriga in una certa anfora, scrivendo così: Illud tamen silentio involvendam non credo, quod si proposita esset amphora continens mensuram, et quaereret aliquis aliam, quae duas, quae tres, vel quatuor contineret, hoc dicto citius poterit absolvi; acceptis enim dimensionibus propositae amphorae, si illas pro libitu applicuerimus aliquibus punctis huius lineae, tum ex immoto instrumento exceperimus duplum, triplum, vel quadruplum habebimus dimensiones amphorae petitae: dove il Capra mostra come egli non solo ha creduto (come di sopra si è dichiarato) che le superficie seguitino le proporzioni de i lati, ma che i solidi parimente seguino quelle delle lor superficie, poi che in questa operazione apertamente si dichiara di credere che, col raddoppiare o triplicare le superficie dell’anfora, sia parimente raddoppiato o triplicato il suo contenuto; e così, nella dottrina del Capra, la proporzione che è tra due linee si trova l’istessa ancora tra le figure simili, tanto superficiali quanto solide, fatte da quelle; falsità conosciuta da ogni muratore.
Nel cap. 16 vuol dichiarare la regola di costituire un rettilineo simile ad uno, ed eguale ad un altro, dati: la quale operazione non è posta da me nel mio libro, ma l’ho ben insegnata in voce a molti miei scolari in diversi tempi; ed è necessario che da qualcuno sia stata mal referita al Capra, e peggio intesa da lui: il che si fa manifesto dal confusissimo parlare, col quale ei la descrive, e pieno di improprietà e mancamenti, nel quale solamente da persone molto intendenti si può vedere, come per nube, la regola buona di operare, ma infelicissimamente descritta. Ed acciò che quanto in ciò mi occorre dire meglio s’intenda, è necessario trascriver qui la operazione, con la sua figura. Scrive dunque il Capra così:
Datam superficiem immutare in aliam, cuius alla sit aequalis primae datae. Esset equidem haec operatio difficilis, sed omnem difficultatem superat instrumentum hoc nostrum; sit enim triangulus A, cui rombus aequalis triangulo A quo ad aream, sed rumbo B similis fieri debeat. Primo quaeratur inter basim, et dimidiam perpendicularem trianguli A media proportionalis, quae sit C deinde ipsius rombi B media etiam proportionalis, quae sit D denique quaeratur quarta proportionalis ipsarum D, G hoc scilicet modo; si latus quadrati quod est J) nimbi B dat latus falsum rumbi B, quid dabit latus quadrati veri G trianguli A et proveniet latus veri Bombi. Hoc est videas quam proportionem habeant latera rumbi falsi, ut puta F, C, et proportionalis D, et in hoc exemplo sit, ut 100 ad 53 postea secundum quantitatem lateris G aperies in Linea Superficierum in 100 et excipies distantiam inter puncta 53. 53 pro latere E indeque habere poteris solutionem probi. 7, prop. 25, lib. 6 Eucl. quo docet, dato rectilineo simile similiterque positum, et atteri dato aequale idem constituere.
Ora qui mi bisognano far due cose: prima dichiarare al Capra quello che ei medesimo ha voluto dire in questo capitolo, e poi esplicar meglio quello che bisognava che ei dicesse per dir perfettamente. Nel titolo, del quale Edipo non troveria il senso, ha voluto dire: Datis duabus superfciebus quibuscunque, tertiam uni quidem datarum aequalem, alteri vero similem, describere; poi nelle parole inettissime: sit enim triangulus A, cui rornbus aequalis triangido A quo ad aream, sed nimbo B similis, fieri debeat, doveva dire, parlando da geometra e stando nella proposizione universale, come fu proposta: sit figura A, cui alla aequalis, sed ipsi figurae B similis, constitui debeat; doveva seguitar poi, e dire: Inveniantur quadrata ipsis A et B aequalia, per quello che egli scrive al cap. 40, copiato dalla mia Operazione 30, quorum latera sint lineae C, D (perchè le medie, delle quali ei paria, non servano ad altro); e così sfuggiva quello improprissimo modo di parlare: deinde ipsius rombi b media etiam proportionalis, il quale, oltre al far la proposizione particolare, dichiarerebbe per ignorante un che avesse più fama d’Archimede. E parimente doveva buttare a monte tutto il resto del ciarpame che egli scrive con non minor confusione e improprietà, intralciandolo con lati veri e lati falsi di falsi quadrati e rombi veri, e dir solamente così: Deinde ut C ad D, ita fiat linea A ad aliam E; ex qua describatur figura similis A, quae erit quoque figurae B aequalis; e così veniva a scansare ancora l’altro errore commesso nel dire: quaeratur quarta proportionalis ipsarum D, C, proponendo due linee sole per trovargli la quarta proporzionale.
Nel cap. 17 trasporta le regole per l’estrazion della radice quadrata, e per le ordinanze di fronte e fianco diseguali, con tutti i lor casi e cauzioni e modi diversi di operare, copiate ad verbum dalle 12 e 13 mie Operazioni. E ben che la prima regola posta dal Capra per l’estrazion della radice non sia stampata nel mio libro, ella però si trova in molti manuscritti dati da me alcuni anni a dietro a diversi Signori; e tra li altri è ne gli scritti che detti sei anni sono all’Illustrissimo Sig. Iacop’Alvigi Cornaro, essendo quella stata la prima maniera di operare, ridotta poi a maggior facilità, come nelle altre tre regole stampate da me si vede: le quali due regole, ben che in apparenza differenti, sono però in essenza l’istessa.
Viene dipoi nel cap. 18 a trattar delle Linee de i Solidi, chiamate da me Stereometriche; ed in quello esplica due operazioni, l’una di trovar la proporzione tra due solidi simili proposti, l’altra per costituirne un solo eguale a molti dati: le quali due operazioni sono copiate dalle 16 e 17 mie.
Nel cap. 19 vuole insegnare il modo di sottrarre un solido da un altro simile; operazione pretermessa da me per esser la conversa della precedente, e però manifestissima ad ogni persona. Replica poi nel fine la medesima operazione posta nel capitolo precedente, essendo che il medesimo è trovare la proporzione che hanno in peso due solidi simili, che trovare la proporzione che hanno tra di loro. Vedesi questo modo di operare esemplificato nel fine della mia Operazione 23.
Il cap. è cavato da una parte della mia Operazione 15.
Nel cap. 21 propone due operazioni non copiate dalle mie, dal che ne sèguita, in consequenza necessaria, che non manchino di errori. Propone dunque in universale: Datum solidum in partes petitas dividere; e segue il modo del dividerlo così: Dividantur superficies solidi ea ratione qua in linea superficierum cap. et 11 docuimus dividere superficies, nempe in oppositis partibus, coniungantur parallelis lineis divisiones, dictumque solidum divisum erit in partes petitas. Dove io primieramente noto come il cap. e 11 non hanno che fare in questo proposito, ma doveva citare il cap. 13. Dico ih oltre, che mi maraviglierei se altri che il Capra si fusse persuaso, che di un solido tagliato in diverse parti, al modo del Capra, le parti solide avessero tra di loro le medesime proporzioni che le parti delle sue superficie tagliate; ma del Capra ormai non è più da meravigliarsene, anzi saria da trasecolare quando egli avesse aperta la bocca senza mandar fuori più sciocchezze che parole. Avevo pensato, per salvare il Capra, di dire che ei non abbia cognizione di altri solidi che de i prismi e de i cilindri, e che appresso di lui i coni, le piramidi, le sfere, i conoidali e mille altri solidi non si ritrovassero al mondo; ma ho veduto poi che nè anco questo lo mandava immune da ogni mancamento, perchè per segar quei corpi detti non occorreva dividere altro che le loro altezze; tal che non lo posso in modo alcuno aiutare. Aggiugne poi, nel fine, il modo di trovar solidi proporzionali, dicendo questa operazione proceder come quella delle superficie, ma che in luogo delle Linee delle Superficie si piglino le Linee de i Solidi: e io gli dico che e queste e quelle son superflue, perchè, senza altre superficie o altri solidi, basta pigliar le proporzionali de i lati; perchè quando i lati saranno proporzionali, saranno proporzionali parimente le loro figure simili, tanto piane quanto solide.
Propone nel cap. 22: Datis duobus solidis duo media proportionalia elicere; dove, perchè la operazione è particolare de i solidi simili, bisognava nel titolo dire: duobus solidis similibus; perchè io non so quanto il Capra si sapesse distrigare se alcuno gli proponesse una sfera ed una piramide. La operazione poi è la medesima che l’invenzion delle due medie proporzionali tra due linee proposte, messa da me nella Operazione 19; ma lui, credendo di mascherarla e trafugarla, l’ha proposta sotto titolo, in apparenza solamente, differente. Ma forse ho torto a farlo così maliziuto, potendo benissimo essere, lui in questo ed in tutti gli altri simili luoghi, non per malizia, ma per pura ignoranza aver peccato.
Nel cap. 28 propone: Dato parallelepipedo, aequale cubum, construere; operazione copiata ad verbum dalla mia 20: eccetto però che io non vi metto sì grossa balorderia quanta è quella che il Capra scrive nell’operazione, dicendo: Deinde inter E quadratum basis parallelepipedi, et ipsius altitudinem CD duae mediae proportionales inveniantur; nè so ancora tanta geometria, che io sapessi trovar due medie tra una superficie ed una linea.
Insegna poi nel cap. 24: Mutare sphaeram in cubum. Ma già che voleva metter mano a questa parte, doveva seguitar d’insegnare a ridurre in cubo tutti gli altri solidi, sì come io ho privatamente a diversi miei scolari insegnato a fare; ma essendo le operazioni, che posso far col mio Strumento, infinite, non ho voluto stampar se non quelle che all’uso comune son più necessarie, sì come nel mio libro ho detto. E la presente operazione ho io insegnata assai più spedita-mente, ciò è con applicare il diametro della sfera alli punti 42 delle Linee Stereometriche, pigliando poi la distanza tra li punti 22, che sarà il lato cercato: imperò che essendo, per Archimede, il cubo ed il cilindro intorno alla sfera come 42 a 33, ed il cilindro alla sfera come 33 a 22, patet propositum.
L’Operazione 25, per l’invenzione delle due medie, è copiata dalla mia 13 ad verbum.
Nel cap. 26 mette tre regole per l’estrazion della radice cuba. La prima è tolta da quella che davo ne i miei scritti alcuni anni a dietro, la quale si troverà in mano di molti, e qui in Padova in particolare ne gli scritti che detti già sei anni all’Illustrissimo Sig. Cornaro: le altre due sono copiate ad verbum dalla mia Operazione 18 stampata.
Viene poi a trattar delle Linee Metalliche nel cap. 27; nel quale mette tre operazioni, copiate ad unguem dalle mie 21 e 22 Operazioni.
La operazione del cap. 28 è la medesima che la seconda delle tre operazioni poste nel capitolo precedente, e si risolve nel medesimo modo a capello; nè vi è bisogno di pigliare il lato del cubo AB o altra linea, sì come ad ogn’uno può esser manifesto per quello che scrivo nella sopracitata mia Operazione 22.
Propone nel cap. 29: Dato corpore metallico, aliud construere aequalis ponderis, sed diversae magnitudinis; ma la parola magnitudinis deve dire materiae, altrimente sarebbe uno sproposito. Questa operazione è copiata dalla 21 del mio libro; ma notisi quello che è accaduto al Capra per aver voluto variar l’essempio, e specificare in un cubo quello che io esemplifico in una palla; che è stato il dichiararsi troppo bruttamente di non intendere ancora che cosa sia cubo, e come egli ha 12 lati tutti eguali, sendo contenuto da 6 quadrati: ma il Capra ha creduto che tutti i lati del cubo sien diseguali; il che è chiaro dalle sue parole, che son queste: Aperiatur in punctis stamni secundum omnia latera cubi, et excipiatur intervallum punctorum argenti, et ex inventis lateribus argenti construatur cubus similis alteri, qui magnitudine erit diversus, etc.; dove dalle particole: omnia latera, inventis lateribus e similis alteri si scorge che egli ha creduto che il cubo sia qualche corpo di lati diseguali, e che possa essere che un cubo sia dissimile da un altro; e per assicurarci ben di questa sua credenza, nel fine del capitolo, avendo esplicata la operazione con l’essempio di un lato solo, conclude: Hacque eadem methodo omnia alla latera erunt accipienda donec totus cubus sit constructus.
Nel cap. 30 ha cavato il tutto ad unguem dalla mia Operazione 24, dove mostro come il mio Strumento ci serva mirabilmente per calibro da bombardieri, chiamati dal Capra libratores.
Il cap. 31, con tutte le sue circostanze, è copiato ad verbum dalla mia 25 Operazione.
Passa poi nel cap. 32 a trattar de gli usi della Linea del Quadrante, della quale manca il mio Strumento; ma è stata tolta, insieme con li suoi usi, da gli scritti del Fiammingo. Di questa ne pone il Capra 4 operazioni ne i quattro capitoli seguenti, le quali però tutte si riducono in una sola, che è di ritrovar i gradi di un arco proposto: e questa sola si risolve in farci conoscere che il Capra non sa ancora quanto son grandi gli angoli di un triangolo; poi che in questa 32 stampa il triangolo posto di sopra, con angoli la cui amplitudine è gradi 183, se ben di tutti i triangoli gli angoli non sono nè più nè meno di gradi 180, considerati gli angoli, come fa il Capra nel presente luogo, come costituiti nel centro del cerchio. L’operazione è ne gli scritti del Fiammingo, ma senza errore; ed è esemplificata con un triangolo scaleno, li cui angoli misura uno per 96, l’altro per 53, ed il terzo per 31, che in tutto fanno 180.
Nel seguente cap. 33, quello che di sopra ci ha insegnato di fare in tre archi suttendenti a gli angoli di un triangolo, ce lo replica, quasi cosa differente, in due altri archi, misurando la lor quantità nel medesimo modo ad unguem. È vero che ci aggiugne questa leggiadrissima operazione, di trasportar ambidue li detti archi, li quali si suppongono esser tolti dal medesimo cerchio, e riunirgli nella medesima circonferenza; si dichiara appresso non intender niente le definizioni, non pur le proposizioni, del terzo d’Euclide, chiamando archi simili due tagliati dall’istesso cerchio, de i quali uno ne pone esser gradi 43 e l’altro 70, ignarus che gli archi si domandano simili quando sottendono ad angoli eguali, e non, come ha creduto lui, quando son tagliati dal medesimo cerchio, ed inscius parimente che gli archi simili del medesimo cerchio sono tra di loro eguali.
Ci insegna poi con la medesima insipidezza nell’altro cap. 34: Arcum datum multiplici proportione angere; col trasferirlo, in somma, molte volte sopra la circonferenza della quale egli è parte.
Finalmente, nell’altro cap. 35 ci insegna a misurar l’angolo del-l’apertura dello Strumento; il che si fa come a misurar l’angolo di ogni altro triangolo, al modo che insegna nella prima operazione di queste linee, dove insegna a misurar tre angoli, e qui un solo col medesimo modo: e pur questa è operazione tolta dalli scritti del Fiammingo.
Passa nel cap. 36 alla dichiarazione della Linea de i Cerchi, detta da me Poligrafica; della quale ne mette quei due medesimi usi che ne pongo io alle 26 e 27 mie Operazioni. De i quali, perchè l’uno è il converso dell’altro, e le divisioni di questa linea messe dal Capra sono con ordine prepostero di quelle che metto io nel mio Strumento, quindi è che la regola che mette il Capra per dividere il cerchio è quella che metto io per descrivere i poligoni, e, per il converso, la regola scritta dal Capra per descrivere i poligoni è l’istessa con quella che pongo io per dividere il cerchio. Quello poi che mette nel fine di questo capitolo, di poter risolvere il problema d’Euclide posto alla proposizione 16 del 12, non può ricevere benefizio alcuno da queste linee, chi non vi segnasse dentro i lati di infiniti poligoni, il che è impossibile a farsi.
Propone poi nel cap. 37 una operazione particolare, cioè: Dato latere pentagoni invenire suum circulum; la quale era molto meglio che fusse proposta generalmente, e con termini proprii della scienza, ciò è Super data recta linea polygonum regulare describere, che questo è quello che nell’operazione si insegna. Nel fine poi dell’operazione, scordatosi di quello che in essa ha insegnato, mette questi corollarii: Ex quo habes etiam facillimam solutionem prob. 11, 4 Eucl., quo in dato circulo Pentagonum aequilaterum et aequiangulum inscribere docet, nec non probi. 15 et 16, il che non è vero: ma la soluzione di questi problemi depende, non da questa, ma dalla precedente operazione, anzi è l’istessa; perchè, insegnandosi a dividere un cerchio, v. g., in cinque parti, si viene in conseguenza a inscrivervi un pentagono: ma in questa operazione si insegna, dato il lato del poligono, circonscrivergli il cerchio. Yeggasi dunque quanto accuratamente abbia il Capra considerate queste cose.
Passa ne i due cap. 38 e 39 alli usi della Linea Quadratrice, detta da me Tetragonica; ne i quali copia ad verbum la mia 28 Operazione, della quadratura del cerchio e della trasmutazione de i poligoni regolari l’uno nell’altro.
Il cap. 40 è copiato dalla mia Operazione 30; ma, per mettervi il Capra qualche cosa del suo. F ha adornato di due suoi errori, indicanti il suo non intender niente, nè anco il significato delle parole, il che pure ormai si è sin qui cento volte veduto. Prima, nel titolo chiama il cerchio ed il quadrato figure irregolari, scrivendo così: Data figura quacunque irregulari, hoc est circulo, quadrato, etc., ipsi aequalem construere: le quali parole mancano ancora di senso, sì come ogn’uno che abbia senso può comprendere; ma non intendendo egli nè quello che ei scriveva, nè quello d’onde copiava, ha scritto nel modo detto, in luogo di scrivere: Data quacunque figura rectilinea irregulari, circulum, quadratum, etc., ipsi aequale construere. Vedesi poi, nell’esplicazione dell’operazione, che appresso il Capra ogni rettilineo è un quadrilatero, perchè vuole che si risolva in due triangoli, scrivendo egli così: Hincque, si vides, manifestissime pendet solutio probi. 2, prop. 14, lib. 2 Eucl. nam si ex rectilineo constituemus duos triangulos, etc.; e non sa ancora che un rettilineo può avere e due e quattro e dieci e cento triangoli.
Nel cap. 41 insegna a trovar una retta eguale alla circonferenza del dato cerchio, il che fa col mezo di un punto posto da lui (però con l’aiuto del Fiammingo, da gli scritti del quale è presa questa divisione) in queste Linee Quadratrici: ma tale divisione è totalmente superflua, potendosi, e più speditamente, conseguir l’istesso col mezo delle Linee Aritmetiche, accommodando transversalmente il diametro del dato cerchio a i punti 70 di quelle, e poi pigliando l’intervallo tra i punti 220, il quale darà la retta eguale alla circonferenza del cerchio, conforme a le cose dimostrate da Archimede.
Replica in questo cap. 42 molto inutilmente la medesima operazione posta nel cap. 16; e parendogli di non si aver in quella dichiarato a bastanza per persona che non intenda quello che ei voglia dire o fare, ce ne reca in questo luogo altri nuovi testimonii. Propone dunque nel presente capitolo di voler constituire una figura simile ad un’altra data, ed eguale a un dato cerchio o pentagono, etc., la quale operazione, per il capitolo suo 16, o per dir meglio, per quello che sopra vi ho insegnato io, si spedisce subito: imperò che, trovati due quadrati eguali l’uno al dato cerchio e l’altro alla data figura, e fatto poi, come il lato del quadrato eguale alla data figura, al lato del quadrato eguale al cerchio, così uno de i lati della data figura ad un’altra linea, e sopra quella, come omologa del lato preso della data figura, descrivendone una simile, sarà questa eguale al dato cerchio. Ma il Capra, dopo aver detto che si trovino li due quadrati eguali al cerchio ed alla figura data, séguita così: Quod si quadratum figurae aequale fuerit quadrato circuli iam intentionem consequutus eris (è vero, perchè il cerchio ancora sarà eguale alla figura); sin minus detrahatur minus quadratum ex maiore, et ex residuo fiat figura aequalis dato circulo, et similis datae figurae. Or qui vorrei sapere, quali compassi o quali computi ci hanno a servire in questa operazione: perchè, posto, v. g., che il cerchio, e per consequenza il suo quadrato, fusse 100, e la figura, e perciò il suo quadrato, 120, operando secondo il precetto del Capra bisogna sottrar 100 da 120, resterà 20; e di questo residuo, ciò è di 20, si ha da fare una figura eguale al dato cerchio, ciò è a 100: bisognerà dunque stirarlo più che mai fornaie stirassero lasagne. Segue poi: Si vero minus fuerit, ut in hoc exemplo, differentia addatur minori quadrato, ut aequale fiat quadrato circuli, reliqua fiunt iuxta tradita cap. 16: cauzione posta senza bisogno alcuno, e fatica e tempo perso a sproposito; perchè, avendo già il quadrato eguale al cerchio, non occorre che io accresca l’altro quadrato per farlo eguale a questo, ma mi servirò di questo in ogni occorrenza. In somma è una gran cosa il non intender niente. Non voglio dissimulare la ingegnosa division trimembre, che il Capra pone in questo luogo, la quale, ristretta insieme, suona così: Questo quadrato o è eguale all’altro, o non è eguale, o è minore. Torninsi a leggere le sue parole.
Nel cap. 43 copia la mia 29 Operazione a capello.
Passa poi, nel cap. 44, alla linea chiamata da lui in questo luogo Linea quinque solidorum regulatorum; della quale mette quest’uso solo, di trovare i lati de i corpi regolari inscrittibili nella medesima sfera: la quale operazione potendosi facilissimamente risolvere con le Linee Geometriche e con le Poligrafiche (come di sopra ho insegnato), fa che queste tali linee siano superfluamente poste in questo Strumento.
Speditosi finalmente da gli usi di queste linee, viene ad Usus quadratus (che tale è il titolo che lui scrive), ciò è (che così credo che abbia voluto intendere) a gli usi del quadrante, sopra il quale segna • quello che segno io sopra ’l mio (eccettuatane però la divisione per misurar le pendenze, da lui pretermessa), cioè la Squadra da bombardieri, il Quadrante Astronomico, e la divisione rispondente al Quadrato Geometrico; ma, tralasciando le altre due divisioni, si riduce a trattar solamente delle regole del misurar con la vista col mezo del detto Quadrato Geometrico, dicendo, che se bene questa parte a quampluribus aliis diffuse admodum sit tradita, tamen, cum ab cdiquibus secreti loco hic modus dimetiendi per hoc instrumentum habeatur, la vuole breviter, dilucide tamen, ridurre a questo suo Strumento. Nelle quali parole se ha voluto (come io credo) intender me per quello che tenga in luogo di segreto questi modi di misurare, ha veramente avuto il torto: perchè, se per segreto intende cosa grandissima e miracolosa, qual’è, per essempio, il segreto di sanare da lontan paese un ferito co] medicar solamente l’arme che lo ferì o una pezza macchiata del suo sangue, ed il segreto di quella mirabile unzione con la quale toccandosi un ferro, ben che grossissimo, in poche ore si scavezza, ed altri portenti di questo genere, io non solamente non ho stimate queste regole di misurar per cose di questa meraviglia, ma ho sempre stimato e stimo che tutte le matematiche insieme non contenghino cosa di tanto stupore; e se per segreto intende cosa riservata e tenuta ascosa, ha ancora il torto, e maggiormente, non le avendo io nè celate, nè negate ad alcuno che me l’abbia domandate, che pur sin ora sono stati centinaia di gentil uomini; ma se finalmente per segreto vuole intender cosa nuova e che abbia del peregrino, io credo bene che molte delle mie regole sien tali, e quelle massime li cui computi laboriosi sono da me tolti via, e col mezo del solo compasso e delle mie Linee Aritmetiche risoluti, con modi da niun altro per addietro pensati. Ma quando segreto nissuno tra le mie regole del misurare si contenesse incognito alle altre persone, assai pur ve ne sono segretissimi al Capra, e tanto incogniti ed astrusi per lui, che per ancora non gli ha potuti penetrare, sì come nel deciferarglieli più a basso si farà palese; onde ei non doveva così disprezzarli ed avvilirli, come cose tanto triviali. Se il Capra poi, secondo la sua promessa, abbia dilucidamente trattata questa parte, o pure se egli nel trasportar le cose scritte da me, e niente assolutamente intese da lui, e nel volerle palliare ed accomodare a sue sciocchissime immaginazioni, abbia fatta una confusione ed un intrico inestricabile anco da Apolline, e si sia in fine palesato per tanto nudo di ogni intelligenza che ei non abbia anco inteso come lo Strumento va tenuto in mano per far le operazioni del misurar le distanze; col trascriver di parola in parola solamente due o tre di tali sue operazioni, insieme con le proprie figure trasportate a capello, e col glosarvele per vostra minor fatica, vi farò in quest’ultimo, giudiziosi lettori, toccar con mano. E pigliando il primo capitolo de i 19 che il Capra pone per le dichiarazioni di tali misure, si legge nel titolo così:
Distantiam inter duos terminos in eodem plano (quasi che due termini, e anco tre, potessino non esser nel medesimo piano; era dunque meglio dire in eodem horizonte) ad quorum alterum tantum accedi possit indagare. Segue poi: Notandum imprimis, quod haec extima circunferentia divisa in 200 partes continet umbram rectam, et umbram versam ipsius quadratus (ha voluto dire ipsius quadrati) Geometrici; ideo ut illos centenarios distinguere valeamus. E. g., dum per brachium CD cernimus in proxime sequenti figura, qui iuxta mensoris oculum collocatus in superiori parte versus D secundum, qui autem illi opponitur primum semper nominabimus, primus enim nobis ostendit umbram versam, secundus autem umbram rectam. Sit itaque investiganda distantia AB ut puta latitudo alicuius fluvii, a centro instrumenti dimittas perpendiculum libere cadentem, tunc constitutus in puncto A observabis quodcunque signum G; progressus vero ad locum C per instrumenti brachium CD (quod quidem si duo pinnacidia habébit, ad hoc ut visus aberrare non valeat, observatio erit exactior) respicies terminum B. Or qui mi fermo alquanto, e noto prima come ii Capra piglia il punto C a caso; il che è grande inavvertenza, non gli potendo servire al suo bisogno se non quando la linea prodotta da esso al termine A faccia angolo retto con la linea BA; adunque il punto C è limitato, e non è quodcunque signum, com’egli scrive: noto in oltre, come essendo la distanza A B da misurarsi una linea orizon-tale, come la larghezza di un fiume, dalle parole del Capra non si può intendere che la distanza presa A C sia ancor lei altrimenti che orizontale; perchè se avesse voluto intendere che il termine C fusse elevato ed a perpendicolo sopra ’l punto A della distanza A B, non averebbe detto constitutus in A observabis quodcunque signum C, perchè in aria non si può osservar quodcunque signum, ma più presto dal punto sublime C averia notato qualche segno nell’orizonte. Il dire ancora progressus ad locum C mostra che si ha da camminare in piano, e non a salire; e finalmente, è chiaro che nell’immaginazion del Capra il punto C non è in luogo sublime, perchè se ciò fusse, questa operazione saria per appunto la medesima, nè pur in un sol capello alterata, che quella la quale egli scrive più a basso nel cap. 5. Stanti queste premesse, seguita il Capra, e scrive così: Et observabis quot partes et cuìusnam centenarii, an primi, an secundi secentur a perpendiculo; nam primo si secantur aliquot partes primi centenarii, ut puta 18 tunc mensurabis distantiam AC (non dice altitudinem, come averia detto quando avesse voluto che il punto C fusse stato sublime) et sit, e. g., 12 pedum, sicque institues ratiocinium, si partes abscissae hoc est 18 dant 100 quot dabunt 12 facta itaque operatione, vel per regulam trium, vel per illa, quae cap. 5 tradidimus invenies 662/3 quare inquies distantiam AB esse pedum 662/3. Si autem perpendiculum abscindet partes secundi centenarii, tunc sic proponenda erit quaestio 100 dant partes abscissas quot dabit A G hoc est 12 pedes. Si tertio et ultimo perpendiculum inter duos centenarios cadet, tunc AB esset aequalis distantiae AC quod apprime semper notandum erit. Or qui manifestamente si vede, sì dalla figura, come da quanto è scritto, che il Capra, stando nel punto C, vuole che lo Strumento si costituisca non parallelo all’orizonte, ma per taglio, ciò è eretto, perchè altrimenti il perpendicolo non taglierebbe il Quadrante, nè averebbe uso alcuno; ma se così ha da costituirsi lo Strumento, ed il punto C è nell’orizonte, come taglierà il perpendicolo or l’uno or l’altro centinaio, se è impossibile che ne tagli alcuno? Ma quando pure, per fare ogni agevolezza al Capra, se li concedesse che il misurante in C stesse in piede, sì che nel traguardare il punto B la costa CD stesse alquanto inclinata, ed il perpendicolo, in consequenza, tagliasse l’arco del Quadrante, i punti tagliati saranno per ordinario pochissimi e del primo centinaio, e solo taglierà il secondo quando la larghezza del fiume fusse minor che l’altezza di un uomo. Ma quando anco tutti questi diverticoli se li concedessero, per salvar pure e nascondere in qualche modo la sua nulla intelligenza, la distanza CA, ed i punti tagliati dal perpendicolo, ed il triangolo nell’orizonte CAB, e quello che si forma sopra lo Strumento, non hanno che far niente insieme, non possono servirci a cosa immaginabile, nè, se risuscitasse Euclide, potria trovare scusa che salvasse questa troppo semplice fanciullezza.
Bisognava, M. Capra, tener lo Strumento equidistante all’orizonte e non eretto, e proceder conforme alla mia operazione posta nel mio libro a car. 28 b23; la quale voi nelle vostre parole immediatamente seguenti copiate, per far piazza alla vostra ignoranza da potermi tassare e mordere, scrivendo così: Potest hoc idem absolvi hac alla ratione, prout aliqui volunt, statuant enim instrumentum in A ita ut alter brachiorum recta respiciat B alter vero E tunc progressi ad punctum E ita disponunt instrumentum ut alter brachiorum recta respiciat A perque centrum instrumenti aspicientes punctum B animadvertunt partes abscissas a radio visuali, per quas postea ratiocinantur, ut superius dictum fuit: a quo quidem modo, ut pauca de illo subiungam, in maximam ductus sum admirationem, nec enim satis videre possum an isti revera sic credant, an potius homines adeo crassi cerebri existiment ut pro libitu illis imponere liceat, quaeso enim qui fieri potest, ut in tanta partium angustia, et multitudine mensoris oculus nulla adhibita dioptra non longe a vero aberret? quod si parvipendunt, revera nugantur, similiterque parvifieri merentur, et ideo utiliora inquirentes, haec missa faciamus. Ora, perch’io son quello che scrivo nel luogo citato del mio libro questo modo di misurare, ed io son quello che in esso taccio l’applicare in tanta angustia di parti qualche diottra o traguardo, e niun altro autore ha mai scritta questa regola di misurare con questi difetti, fuor che io; però contro di me solo, circonscritto con queste condizioni individuanti, s’indirizzano le parole ingiuriose: ed io con pazienza le ricevo, pur che colui che me le manda non recusi di soggiacere alla medesima sentenza, nè si adiri se vedrà osservata ne i demeriti e nelle pene la nostra istessa geometrica proporzione, che è anco l’anima che informa tutto questo libro che aviamo per le mani. Ha il Capra copiato il mio libro, lo ha in molti luoghi lodato e stimato, ed ammirato tanto che ha procurato di farselo suo, e con lo splendor di quello dar luce alle sue tenebre, e con le sue preziose spoglie vestire e ricoprir la nuda sua ignoranza; e nel denudar me, venutagli in mano una picciolissima macchia, quella sola mi vuol lasciar per mia parte, e per quella, e già del resto denudato, mostrarmi a dito per uomo contennendo. Io non so trovare con qual diabolica coscienza egli possa amar tanto le cose mie ed odiar tanto me; nè so vedere qual cosa l’induca a non poter tollerare che questo Strumento sia creduto e ricevuto per opera mia, se non forse la di lui troppa eccellenza. Ma che? tanto più acerba sarà la sua passione nel veder, per tanti riscontri, reso il mondo più che certo che gli è mio, quanto più egli si troverà averlo celebrato ed esaltato; sì che più sicuro partito era, per cibar la sua invidia, l’intraprendere a biasimar e condennar l’opera mia (che forse vi averia trovato qualche attacco), che il mettersi ad una impresa così difficile, anzi impossibile, di volermi usurpare quello che infiniti sanno che è mio, e più persuadersi, come cosa riuscibile, di poter far credere al mondo, sè esserne il vero effettore; non si accorgendo, se non altro, della manifesta contradizione, che egli, contro di questo suo pensiero, in questo medesimo libro apporta: poi che da quanto ei scrive nella dedicatoria apertamente si scorge come non possono esser più di 4 anni che a questi studii di matematica si è applicato, deponendo in quel luogo aver fatti i suoi studii di logica e filosofia, ed esser già molto avanti ne gli studii di medicina, quando, persuaso da un luogo d’Ippocrate, si risolvette a volere studiar le matematiche; e non sendo egli al presente di età più che di 23 anni in circa, è necessario che pochi anni a dietro si sia applicato alle matematiche. Ma che occorre andar per conietture, se in quel medesimo luogo ei dice avere avuto per suo primo institutore Simon Mario Gutzen-husano, alemanno, il quale venne in Italia solamente 5 anni sono? Ma il mio Strumento è 10 anni che va in volta; adunque, se è invenzione del Capra, grandissimo miracolo sarà questo, che egli, 6 anni avanti che attendesse a questi studii, fusse inventor d’uno strumento del quale dopo 4 anni di studio non intende pur un minimo uso. Ma, tornando al mio instituto, m’incolpa il Capra che io creda di potere senza diottra o altro traguardo osservar l’incidenza del raggio della vista tra le minute divisioni del quadrante; ma chi gli ha detto che io nel misurare non mi serva di traguardi o di diottra, e che nel mostrar queste operazioni a i miei scolari io non gli mostri anco il modo di traguardare? Dirà forse, aver creduto ciò perchè io non ne fo menzione nel mio libro; e perchè non riprendermi più presto di aver taciuta tutta la fabrica dello Strumento, della quale questo apparato di traguardi è una minimissima particella? E quando ho io stampato il mio libro per farlo venale e darlo ad altri che a i miei scolari, insieme con lo Strumento fabricato e con la prattica insegnatali anco con l’esperienza e con la viva voce? E non ho io scritto nel mio libro, e mille volte detto in voce, che il libro senza lo Strumento non serve a niente, e che anco il libro con lo Strumento, senza impararne gli usi dalla viva voce e dal vederli mettere in atto, è tedioso e difficile e privo delle sue maggiori meraviglie? Se dunque così è, doveva il Capra, prima che venire a tassarmi, intendere da i miei scolari se io gli proponevo di dover osservar il taglio del raggio senza diottra; e poi sentenziar qual era maggior balordaggine, o la mia in voler trovar tale incidenza senza traguardo, o la sua in creder che io avessi questa opinione. Ma poi che egli ha voluto, lasciando da una banda le mie regole, proporne di più utili, sentiamole nel seguente suo capitolo; e poi, ormai sazii di cose tanto scempie, ponghiamo fine a questa scrittura. Scrive dunque nel secondo capitolo così:
Idem interstitium inter dim terminos eiusdem plani, in quorum nullo observari possit, dum tamen in amborum directo accommodari valeat, invenire. Cap. 2. Sint duo termini A et B in eodem plano, quorum cognoscenda sit distantìa, tametsi ad neutrum illorum accedi possit ob aliquod obstaculum.
Ma prima che andiamo più avanti, avvertiscasi che il Capra nel dar le stampe delle figure allo stampatore ha (se io non m’inganno) posto nel suo libro in questo luogo una figura per un’altra, e qui deve essere quella che ei mette al capitolo 10, le quali per la similitudine ha cambiate: ma però quando l’autore volesse pur mantenere in questo luogo la figura postavi da lui, basterà cambiare due lettere, e nell’angolo C porvi E, e nel punto F notarvi un C, e nel resto sono l’istessa cosa. Séguita: Converte instrumentum in statione C ita ut brachium CD tendatur secundum rectam terminorum A et B et.per aliud CE observabis quodcunque signum F cuius distantia per mensuratio-nem possit a te perdisci, sit autem distantia E. g. 30 pedum, progressus in F ita dispones instrumentum, ut per brachium F G primum videas punctum A deinde terminum B et in utraque observatione notabis partes abscissas a perpendiculo, quae vel in utroque erunt primi vel secundi centenarij, vel in una primi, in altera secundi. Io non so in qual genere di arte o scienza io deva riporre gli errori commessi in questo luogo dal Capra, e ne i quali in tutto il resto di questo capitolo persiste; perchè, sì come un contadino nel fabricarsi malamente un capannon di paglia, o ’l pastore nel piantar male una steccaia per il suo gregge, non acconciamente sariano ripresi da chi accusasse quello di poca intelligenza de gli ordini di architettura, e questo d’imperfetta perizia di fortificazione o castrametazione, così qui, dove nè pur ombra o vestigio alcuno è di geometria o perspettiva, non posso ragionevolmente biasimare il Capra di avere in tali scienze peccato, non potendo, al parer mio, cadere errore di geometria dove niente è di geometria. Costui non è un sonator di liuto, che erri nell’aria, nella battuta, nel contrappunto; erra nel tener lo strumento in mano, appoggiandosi le corde al petto, ed applicando la man destra alla tastiera. Vuole il Capra in questo luogo, sì come nella precedente operazione e nelle altre tre seguenti, misurar distanze poste nel medesimo piano dell’orizonte; e qui i termini A, B, C, F sono tutti nell’istessa superficie, e venendo nella stazione F, e tenendo, come dimostra la sua figura, non l’angolo dello Strumento, o centro del quadrante, verso l’occhio, ma l’estremità d’una delle sue coste, traguarda per essa le note A, B, e vuole osservare le sezzioni del perpendicolo sopra ’l quadrante. Ma non vi accorgete voi, M. Capra, che restando l’angolo dello Strumento più basso che l’estremità della costa appresso la quale voi ponete l’occhio, il perpendicolo non può tagliare altrimenti il quadrante, ma casca fuori dello Strumento? dato però che voi non vogliate seppellirvi sotto terra, acciò che i termini A, B fussero più alti dell’occhio vostro. Bisogna che voi tenghiate l’angolo dello Strumento verso l’occhio, quando voi traguardate segni posti nel piano orizontale, se voi volete che il perpendicolo seghi il Quadrante. Or direte voi che questo non sia un bel segreto? vedete dunque che pur vi sono de i segreti a voi reconditi in queste misurazioni; li quali, secondo la mia promessa, vi anderò deciferando. Ma quando voi arete, stando in F, traguardato i punti A, B, e tenuto lo Strumento in modo che si faccino le sezzioni, utrum se voi arete rimediato all’altro non minor errore, commesso pur nel tener solamente lo Strumento in mano? e che cosa volete fare de i numeri tagliati così dal perpendicolo? niente. E che hanno che fare i triangoli AFC, BFC, formati in terra, con questi che si fanno sopra lo Strumento? niente. E se non hanno che far niente, quanto benefizio vi apporteranno nel ritrovamento della distanza cercata? niente. Adunque, che cosa era meglio che voi faceste prima che venire a perdervi in questi labirinti? niente. È possibile che, nel cavar questa dalla mia operazione posta a car. 30nota, non aviate almanco inteso che lo Strumento per misurar queste distanze orizontali si colloca non per taglio, ma in piano, ciò è non eretto all’orizonte, ma parallelo? e che l’angolo si tien verso l’occhio, e non verso l’oggetto? ed eccovi il secondo non men bel segreto. Credo che se ci era al mondo un terzo modo di potere errare nell’applicazione di questo Strumento all’uso, il Capra non l’averia certo lasciato indietro per danari. Séguita poi così: Sint autem primam in utraque observatione secundi centenarij; supponamus itaque quod dum. respicimus terminum A abscindantur 80 partes, dum vero terminum B 40. sic procedendum erit, partes abscissae dant 100, quot dabit distantia GF scilicet 30 duces enim 100 in 30 productum erit 3000 hunc numerum primum divides per 80 quotiens erit 37 % mox per 40 habebisque 75 subduces 371/2 ex 75 residuum erit 371/2 quare inquies distantiam AB esse pedum 371/2. Gran durezza di destino contra il Capra! poi che nel suo parlare alla ventura (poi che per dottrina non può nè pure aprir la bocca) anco ne i dilemmi,
24 che non possono stare in più di due modi, mai non si abbatte a indivinare il vero. E lasciato, per ora, di replicar che questi punti tagliati così dal perpendicolo siano totalmente inutili per il suo bisogno, anzi ritenendogli come buoni, veggiamo in qual maniera il Capra se ne serva. E prima, non è dubbio alcuno che, trovate che si siano le due lontananze CA e CB separatamente, e sottratta l’una dall’altra, resta la distanza BA; ed è parimente verissimo, che multiplicando l’intervallo FC per 100, e dividendo il prodotto per li due numeri de i punti del Quadrante, si hanno le dette due lontananze CA, CB: ma questa regola non è vera se non quando i punti tagliati sono, non del centinaio nominato dal Capra, ma dell’altro nel quale i punti tagliati nel traguardo FA sono manco che i punti del traguardo FB. E come non s’è accorto il Capra, che ponendo egli, esser nel traguardare A tagliati punti 80, e nel traguardare B 40, nel venir poi al computo, la distanza CA gli tornava 371/2, e CB 75? ma così fa chi non intende nulla. Avete dunque, M. Capra, scambiata l’un’ombra dall’altra, ed applicato all’una il computo che serve per l’altra; le quali due cose bisogna rimutare, se volete che quel che resta per l’intera operazione di questo primo modo di misurare, posto da voi in questo secondo capitolo, sia medicato. E però intorno ad esso non vi dico altro, ma passo al secondo modo; il quale introducete con queste parole, e con questa figura a capello rappresentata: Veruni enimvero si liceret quidem usque ad terminum B accedere, non autem esset possibile constituere lineam perpendicularem ad ipsum B (non sono le linee perpendicolari a i punti, ma all’altre linee o alle superficie, e però doveva dire: ad ipsam AB ex B, e non ad ipsum B) sed propter loci angustiam necessum esset versus D procedere, tunc firmato instrumento in puncto B, ita ut recta etiam respiciat punctum D (e con che? e perchè? con niente e per niente) per brachium instrumenti BC respiciendo punctum A (non potrà dunque con alcuna delle sue parti respicere recta punctum D) observabis partes abscissas a perpendiculo, quae sint e. g. 40 progressus vero ad punctum D per brachium DE iterum aspiciendo terminum A denuo notabis partes abscissas, quae sint 20 sit vero distantia DB pedumi 15. In somma non ci è mezo che il Capra voglia tener lo Strumento altrimenti che a rovescio, secondo l’uno e l’altro verso; e perchè? per scriver mostruosità di questa sorte. Qui, tenendo lo Strumento con l’angolo verso il termine A, bisogna sotterrarsi due volte, in B ed in D, chi vuol che il perpendicolo tagli il Quadrante; e quando poi l’averà tagliato, potremo buttare in un pozzo i punti segati, insieme col perpendicolo e con tutto lo Strumento, come cose inutili al nostro proposito. Sono qui dunque tutte le medesime esorbitanze, circa l’applicare all’uso lo Strumento, che nella operazione precedente; e però non occorre replicarci altro, ma passare a vedere se, dato che i punti fussero ben trovati, sono poi bene applicati alla regola, o pur, secondo l’usanza, fuori di proposito.
Séguita dunque così: Quoniam haec operatio per numeros est satis laboriosa, primus enim numerus in seipsum elucendus esset, productum esset 1600 cui addendum esset quadratum ipsius BD scilicet 225 summa esset 1825 huius numeri indaganda esset radix quadrata, nempe 42 haec ducenda esset per 15 productum erit 630 quod dividendum foret per 20 per differentiam scilicet acceptarum partium, productumque ostenderet distantiam AB. In questa regola di computare è copiata ad unguem quella che io metto nella terza mia operazione per misurar le distanze, posta nel mio libro a carte 29(1): e perchè nell’essempio, che io pongo, metto che la distanza tra le stazioni B, D sia 100 passi, ed essendo in oltre 100 ancora le divisioni dell’una e dell’altr’ombra del Quadrante, ed occorrendo servirsi nel calcolo ora del 100 de i passi ed ora del 100 del Quadrante, il buon Capra, non intendendo niente, e guidato dalla sua perfida stella, che non lo lascia indivinare, ha creduto che io mi prevaglia sempre del 100 come numero de i passi, ed ha inserito nella regola mia buona una solennissima pecoraggine, per la quale ha resa la regola scritta da lui falsissima: e dove dice che al prodotto del primo numero multiplicato in sè, ciò è a 1600, addendum esset quadratum ipsius BD, scilicet 225, non è vero, ma bisogna aggiugnervi sempre 10000, cioè il quadrato dell’intero centinaio dello Strumento, e non il quadrato del numero de i piedi tra le stazioni B, D, e così si averà 11600; della qual somma si deve poi fare il resto, sì come lui, senza farvi più errori, copia da me: ciò è cavarne prima la radice quadrata, che è 1072/3 prossimamente; questa poi si deve multiplicare per il numero BD, ciò è per 15, fa 1615; il qual numero si deve finalmente dividere per la
25 differenza delle parti, ciò è per 20; ne viene 80 3/>sub>4 per la distanza BA, e non 311/>sub>2, come la regola depravata dal Capra ci renderebbe. E sì come ha intromesso questo fallo nel computo numerale, così l’ha poi, in consequenza, trasferito nella regola che ei soggiugne per trovar il medesimo col mezo del compasso e delle Linee delle Linee solamente, senza altre - manifatture di numeri: il qual modo è pure ad verbum copiato da quello che scrivo io nella mia medesima operazione sopracitata, ma però messo da me senza errore, il quale si lascia alle aggiunte del Capra. Terrete dunque bene a memoria, M. Capra, come si ha da aggiugner sempre il quadrato dell’intero centinaio, e non il quadrato de i piedi BD; e questo per voi non è picciol segreto.
Torna poi di nuovo, pur nell’istesso capitolo, a misurare una distanza tra due luoghi, e ne pone la seguente operazione e figura, trascritta puntalmente dalla sua. Insuper si necessum esset observare distantiam AB nec esset possibile per rectam lineam istos duos terminos AB aspicere, ut apparet in exemplo, nec enim ex loco C nec ex loco D id fieri potest, ideo sic procedendum erit; constituti in statione B ita ut per lineam redam videamus terminum A (quasi che si potesse veder per linea non retta) et per aliam quodcunque signum C per brachium instrumenti DE aspicientes terminum B notabimus partes abscissas a perpendiculo, sint autem exempli gratia 88 tunc progressi ad stationen G ita ut linea CD sit ad angulos rectos cum linea DA per brachium instrumenti CF aspicientes terminum A notabimus partes abscissas a perpendiculo, quae sint 38 ulterius etiam mensurabimus distantiam CD quae sit pedum 60. Persiste, come si vede, nelle medesime inezzie, di ritener pur lo Strumento non con l’angolo verso l’occhio, ma con F estremità della costa, e non equidistante all’orizonte, ma eretto; ed essendo impossibile che sia dal perpendicolo tagliata la circonferenza del Quadrante, s’immagina pur che ella sia tagliata, e che quei numeri de i punti gli possino servire al suo bisogno, ancor che niente facessero al proposito quando bene fussero dal perpendicolo segati: ed oltre a queste esorbitanze, ne introduce alcune altre, come è il por la distanza CD senza alcuna limitazione, la quale però deve esser tale e tanta, che li due raggi DA, CB venghino ad esser tra di loro paralleli e ad angoli retti sopra la linea DC, il che egli non ha nè detto nè avvertito, poi che nella scrittura non ce ne è menzione, e nella figura si veggono le linee DA, CB die non sono equidistanti; adunque la stazione C si deve con diligenza investigare, e non a caso porre, la qual cosa sin qui è stata segreta al Capra. E tutta questa faragine di stravaganze depende dal non aver inteso niente la mia operazione posta a car. 30 b26, la quale ha volsuta copiare in questo luogo. Io non so poi perchè abbia tralasciata la operazione numerale, postavi pur da me assai chiaramente, e solo ci abbia trasferita a parola a parola l’invenzione di questa medesima distanza col mezo del compasso e delle Linee Aritmetiche, messa da me nel medesimo luogo.
Finalmente, per l’ultima operazione di questo capitolo mette l’ultima del mio libro, persistendo però nelle medesime esorbitanze circa ’l tenere lo Strumento al contrario; e più, pretermette il computo numerale posto da me, forse perchè è troppo difficile, se ben per lui tutti sono difficili egualmente, e solamente ne trascrive ad unguem il conto ritrovato col mezo delle Linee Aritmetiche.
Eccovi, giudiziosi lettori, dato in questi due primi capitoli un poco di saggio delle cose più utili ritrovate dal Capra, doppo che egli si ha burlato di me, e chiamatomi degno di disprezzo, e tassato di inavvertenza, per avere tralasciato di parlare del traguardo col quale io osservo l’incidenza del raggio sopra le divisioni del Quadrante.
E qui vorrei che il Capra medesimo, per via della regola aurea, mi facesse un altro computo, ma lo vorrei giusto e retto; e che dicesse: Se al Galilei, vero e legittimo inventore di questo Strumento e di tante sue mirabili operazioni, descritte ed esplicate da lui senza errore alcuno, per aver solo lasciato in dietro un capello (che altro non è una piccola setoletta, la quale io uso per traguardo) se li conviene di esser notato per inconsiderato, schernitore e degno di disprezzo; che si perverrà al Capra, il quale, usurpandosi quest’opera, e chiamando il suo vero inventore sfacciato usurpatore ed indegno di comparir tra gli uomini ingenui, la imbratta di innumerabili e gravissimi errori, non in un solo capello manca, ma la totale intelligenza del-l’applicazione di questo Strumento alle sue operazioni nè pure un capello intende? Io non saprei fare questo computo, nè so numerare l’innumerabile, e se bene io sapessi, non voglio; vorrei che il Capra medesimo, almanco dentro della sua coscienza, lo calcolasse: chè io so bone, che quando ei volesse con giusta libra pesare il suo grave demerito, non mi daria titolo di oblatratore di livido morso, quale Nella prefazione Ad lectorem egli si era per sè stesso pronosticato che io gli dovessi essere per la publicazione di questa sua opera; ma conoscerebbe come io, astretto da estrema necessità, ho procurato quel restauramento, che all’onor mio, troppo obbrobriosamente da lui calpestato, era necessario; anzi di più, manifestamente scorgeria di quanto più gran giovamento al-l’onor suo gli sarei stato io nel fargli supprimer e levar dalla vista del mondo sì gran moltitudine di errori, che nel suo libro si ritrovano (testimonii irrefragabili del non sapere egli più ciò che in questo Strumento o in tutto ’l resto delle matematiche si contenga, di quello che ei sa di presente ciò che si tratta sotto il polo antartico), che le persuasioni de i poco o nulla intendenti, che alla publicazione di quelli l’hanno persuaso e promosso: gli sarei stato, dico, quando l’ardente suo desiderio di sparger pel mondo la mia ignominia non l’avesse così subitaneamente, ed anco contro al divieto della giustizia, sospinto a far volar buon numero de i suoi libri per diverse parti d’Italia e di tutta Europa, ed in particolare in mano di quei Signori appresso i quali ei sapeva ritrovarsi i miei libri e Strumenti da me ricevuti; perchè, quando ciò non fusse seguito, ma che. insieme con tutti i suoi libri si fusse potuto il suo vero ed il mio indegno obbrobrio supprimere, io, senz’alcun dubbio, mi sarei parimente astenuto dallo scriver, con tanto mio tedio, la presente necessaria difesa: la quale, sì come non può parere agra a chi spogliato di passione ed interesse la mia giustissima causa considera, così non doverà gravare il medesimo Capra, poi che gli porge occasione di avanzarsi nelle scienze matematiche in questa breve lettura incomparabilmente più di quello che nello studio di molti anni non si è avanzato.
Volevo, cortesi lettori, finir qui, nè più tenervi occupati nell’ascoltar gli altri errori de i quali sono sparsi i rimanenti 17 capitoli posti dal Capra, pur del misurar con la vista; li quali volentieri averei pretermessi, non tanto per liberarmi da questo impaccio, quanto perchè non sono intorno a cose tratte dal mio libro (fuor che i computi fatti con lo Strumento, quali son presi da me), ma da i libri dell’Eccellentissimo Sig. Antonio Magini, Matematico di Bologna, ben che dal Capra non mai nominato. Ma considerando poi quanto il Capra sia bramoso di riprendermi e biasimarmi, ho dubitato che quando io questo avanzo di errori avessi dissimulati, egli non a dissimulazione, ma ad inavvertenza o ad ignoranza me l’attribuisse, e che, per dichiararmi e poco avveduto e molto ignorante, a palesargli egli medesimo si riducesse, non curando di cavar, com’è in proverbio, un occhio a sè per trarne a me due: nella maniera che egli, dopo l’avere io palesato il suo furto, continuando nel voler sostentar nelle menti de gli uomini il sinistro concetto che egli ha creduto suscitarvi di me, ad alcuni va affermando, quello che egli ha stampato esser opera del suo maestro, ad altri predica che questo Strumento è invenzione di Tico Brae, e per Padova comunemente va dicendo che io ho presa questa invenzione da un libro per avanti stampato e publicato in Germania in lingua tedesca, il quale, a confusion mia, vuol far venire e farlo vedere a tutti; e non considerando che quanto ei dice è egualmente pregiudiziale all’onor mio ed al suo (non avendo egli nel suo libro nominato altri che sè per autore di quest’opera), su la speranza che qualche osso o lisca possa attraversarsi in gola a me, si mette a inghiottire bocconi mal masticati ed ossi molto duri da rodere. 0 pure vorrem noi credere, che egli alla caduta della sua reputazione, che da troppo alto precipizio rovina nel concetto de gli uomini, vada mettendo sotto, per ritardar la percossa, guanciali di vane speranze e di giustificazioni da paesi lontani aspettate? sì come quelli che da un alto edifizio dovendo saltare a basso, per non ricever così dura percossa, con paglia o fieno o altra materia cedente si fanno stramazzo. Verrà dunque il libro stampato in Alemagna, e, per quanto intendo, il Gromo ne sarà apportatore; ma bisognerà che il Capra sia di questo secondo miglior custode che dell’altro il quale già ebbe (chè pur è forza che egli altra volta l’abbia avuto, poi che sa come in quello si contiene quanto io ho dato fuori per invenzion mia), per poterlo mostrare a chi non credesse alle sue semplici parole. Per questo rispetto dunque, ed oltre a ciò per non mancare a quanto di sopra mi obligai, che fu, se ben mi ricorda, di far constare come nel libro del Capra niente vi era del suo, da gli errori in poi, non posso restar di far palesi i luoghi onde le cose che restano sono copiate, e gli errori del Capra disseminativi, tenendovi ancora per breve tempo occupati in altre inezzie Degne di riso e di compassione.
Già di sopra si è parlato intorno al primo ed al 2 capitolo quanto bastava. Nel terzo capitolo del Capra sono trasportate tre proposizioni del Magini, ciò è la undecima, la decimaquarta e la decimasettima del primo libro De distantiis: solo vi mette il Capra di suo l’errore che è in quelle parole della prima di queste operazioni: Si vero secuerit primum centenarium, ut exempli gratia 70 tunc sic procedendum erit, primum debes elicere radicem quadratam ex quadrato perpendiculi ED; dove bisognava dire: debes elicere radicem quadratam ex aggregato quadratorum integri centenarii et numeri 70. Erra parimente nell’altra operazione, quando dice: Primo autem ponamus, quod in utraque statione perpendiculum intersecet secundum centenarium in F quidem 93 in A vero 48; la qual cosa è impossibile che avvenga, ciò è che siano tagliati più punti in F che in A, ma accade tutto l’opposito. Erra ancora poco più a basso, dove scrive: Quare dices distantiam FB esse pedum 41; dove non è vero che dalla operazione scritta si trovi la distanza FB, ma la AB, (ed avvertiscasi che niuno di questi errori, nè, per mio parere, alcun altro, sono ne i libri del Magini). Copia poi l’altra operazione senza errori, ma a sproposito di questo luogo, trattando di materia differente dalla proposta in questo capitolo, nella quale ei fa passaggio senza pur dir quello che egli intenda di voler fare. I calcoli poi, che egli e qui e nelle altre seguenti e passate operazioni fa col mezo delle Linee Aritmetiche dello Strumento, son tutti cavati dal mio libro; nè sono per lo più altro che la regola aurea posta da me nell’Operazione quarta, ed il modo dell’estrar la radice quadrata dell’aggregato de i quadrati di due numeri con le medesime Linee Aritmetiche poste a squadra, il che insegno nel terzo modo del misurar le distanze, a car. 29 b27.
Nel quarto capitolo copia la proposizione 19 del Magini; ma nel fine vi mette di suo un errore grandissimo, scrivendo: Tertio et ultimo intersecet in prima statione secundum centenarium, in secunda autem primum, operatio est omnino eadem ac in proximo superiori casu, quare ab exemplo abstinendum credo. Questo che ei dice è falsissimo, e chi seguisse questa falsa dottrina troveria la distanza cercata nel sopraposto essempio esser più di 9, la quale, secondo il vero, è manco di 6. Ma perchè il Magini nell’esplicar questo caso ha scritto: Operatio est fere eadem, seguendo poi di esplicarla bene, il Capra, per abbreviare, ha fatto che operatio sil omnino eadem.
La seguente quinta del Capra è la 22 del Magini.
Nella sesta del Capra sono la 24 e la 26 del Magini.
La settima del Capra è la 28 del Magini.
L’ottava del Capra è la terza del Magini, De altitudinibus.
La nona del Capra è la sesta del Magini, ma con un poco di giunta nel fine: perchè chi operasse secondo le parole del Capra: iterumque dicendum, si quartus numerus mox indagatus dat 100, faria una falsissima operazione; ma bisogna ex numero max invento demere partes abscissas in viciniori statione; deinde dicatur: si hoc residuum dat 100, quot dabit etc. Ma quando da niun’altra cosa avesse il Capra saputo accorgersi dell’errore, doveva pur comprenderlo da questo, ciò è che l’osservazione fatta nella stazione più vicina saria stata superflua, non entrando nel computo; onde anco i piedi o passi della distanza tra le stazioni erano inutili, e potevano porsi ad arbitrio 10, 20, 100 o 500, e sempre il conto saria tornato giusto. E così, ponendo, per essempio, che i punti della stazione più vicina fussero 80, gli altri della stazione lontana 90, e la distanza tra le stazioni piedi 40, operando secondo il Capra, l’altezza cercata si troveria 36 piedi; la quale, secondo la retta operazione e secondo la verità, è più di 129.
Ma quelle che egli scrive nel capitolo decimo, son veramente cose ridicolose. Ha in quel luogo voluto trasportar la regola per investigar una parte di un’altezza stando nel piano e lontano dalla base di quella per una conosciuta distanza, posta dal Magini all’ottava proposizione De altitudinibus: ma perchè il Magini in quel luogo, per non replicar due volte la medesima cosa, si rimette a quello che ha messo innanzi nella sesta proposizione De distantiis, dicendo che le regole scritte quivi ed accommodate per le misure in piano orizon-tale servono ancora qui per quest’altezza, il Capra, non avendo saputa far questa applicazione, ben che facilissima, ha ripieno questo capitolo di falsità. La prima delle quali è in quelle parole: Abscindat primo in utraque observatione primum centenarium, ita dicendum, si differentia partium abscissarum in utraque observatione dat 100 quot dabit distantia CE; la qual cosa è falsissima, perchè non ut dicta differentia ad 100, ita est distantia CE ad altitudinem DA quaesitam, ma è tutto l’opposito, nempe ut centum ad illam differentiam, ita distantia CE ad quaesitam altitudinem; onde chi operasse secondo la regola del Capra e l’essempio da lui posto, troveria la detta altezza esser più di 191, la quale, operando conforme al vero modo, è meno di 53. Ma perchè io son certo che il Capra non può scrivere una sola parola la quale egli, o bene o male, non cavi da altri, mi sono accorto, nel vedere il detto luogo del Magmi, di dove il Capra abbia cavato il suo errore: imperò che, scrivendo il Magmi così: Notenturque partes HI, differentiae utriusque intersectionis. Ad has enim eam habet proportionem totum latus (nempe 100) CG, quam habet distantia CE ad altitudinem AB, dove, notandosi dal Magini i primi tre termini de i quattro porporzionali, nel primo luogo vien nominata la detta differenza delle parti, nel secondo tutto il lato, ciò è 100, e nel terzo la distanza CE, il buon Capra, non pensando al senso delle parole del Magmi, o (per dir meglio) non le intendendo, e solamente considerando l’ordine di primo, secondo e terzo, secondo il quale tali termini sono connumerati, non ponendo mente a troppe grammatiche, nè a casi retti o obliqui, ha fatto conto che sia scritto: Hae enim eam habent proportionem ad totum latus CG quam habet distantia CE ad altitudinem AB. Passa poi avanti, e (quello che ei non ha fatto in molte delle precedenti operazioni) vuol dichiarar questa con l’essempio, per aggiugnerci, guidato dalla sua stella, altri mancamenti; e scrive così: Sed lubent hoc loco uti exemplo, ne dum nimiam brevitatem desideramus, obscuritatem consequi videamur. Sit itaque distantia CE per mensurationem nota pedum 86 partes abscissae in prima, ut puta CA 15 in secunda CB 60; la qual cosa è impossibile che accaschi, ciò è che (tagliando il perpendicolo, come egli suppone, il primo centinaio) nel traguardare il punto più alto A tagli minor numero, e nel traguardar il più basso termine B tagli numero maggiore di punti; ma è necessario che avvenga tutto l’opposito, come ogn’uno, ben che superficialmente intendente, può benissimo vedere: tal che sin ora il Capra, e nel dar la regola ha scritto il falso, e nello esemplificarla ha posto il contrario del vero; dal i qual modo di operare viene a insegnarci che l’altezza cercata sia 191 piedi, non sendo ella più di 521/3 Séguita poi: Quod si secundo intersecet in utraque statione secundum centenarium etc.; dove egli dice, che queste operazioni che restano dependono dal suo cap. 9, il qual capitolo non ha che fare in questo proposito, e però credo che abbia voluto citare il cap. 2; e se così è, non meno che nel primo caso, viene a pigliare in questo secondo ancora i termini al contrario, dal che l’operazione ne viene esorbitantissima. Mette poi nel fine di questo medesimo capitolo la undecima proposizione del Magini.
La undecima del Capra è la duodecima del Magini.
La duodecima del Capra è la decimaquinta del Magini.
Nel capitolo 13 del Capra sono la 17 e la 19 del Magini.
La 14 del Capra è la 21 del Magini.
La 15 del Capra è la 22 del Magini.
La 16 del Capra è la 24 del Magini.
Nel cap. 17 del Capra si contengono la seconda e la quarta del Magini, De profunditatibus.
La 18 del Capra è la sesta del Magini: ma con l’aggiunta di un errore del Capra, il quale, volendo mettere un poco di operazione ella fatta sopra le Linee Aritmetiche, si perde, e dovendo pigliare sopra le dette linee, messe a squadra, l’intervallo della metà del numero della distanza AC, che è la lunghezza della declività del monte, scrive che excipiatur intervallum inter dimidium partium abscissarum, che sono i punti tagliati dal perpendicolo sopra lo Strumento; il che saria error grande, e l’operazione falsa.
La decimanona ed ultima del Capra è la nona del Magini. E tutte queste regole, non solo quanto all’essenza delle operazioni, ma per lo più ancora quanto a le parole stesse, son copiate da i luoghi citati: avvertendo però, che mettendo il Magini due regole da misurare, una col Quadrante e l’altra col Quadrato Geometrico, e mettendo sempre innanzi le operazioni del Quadrante, i titoli di queste operazioni poste dal Capra si trovano per lo più nelle operazioni del Magini fatte col Quadrante, e però nella operazione del Magini che precede a quella che qui vien da me citata; ma il modo poi dell’operare si trova nel Magini nelle proposizioni stesse citate da me.
Or eccovi, giudiziosi lettori, tutti i motivi, le concitazioni, le esecuzioni, i progressi, ed in fine l’ultima riuscita di questa disonorata machinazione di Baldessar Capra, milanese, contro la riputazion mia: la quale impresa, ben che superi ogni nostra immaginazione, non avanza però l’animosità sua, sentendosi egli un cuor di lione per far prede ancor più grandi, qualunque volta questa appresso il mondo avesse avuto spaccio; di che egli per sè stesso è chiaro testimonio, concludendo la sua prefazione con queste parole: Interim te compello, et rogo candide Lector, ut has meas lucubrationes boni aequiqne considas, quod si facies ut in posterum, Maiora his audeam, non minimam occasionem paries. E qui sarebbe il luogo ed il tempo di esaminare qual fusse il meritato castigo della sua temerità: ma ciò non farò io; facciane il giudicio la prudenza vostra; anzi pure voglio cbe siamo così benigni e pietosi giudici, cbe ci contentiamo cbe questo reo alla sola sentenza da sè medesimo contro il suo gravissimo delitto pronunziata soggiaccia, cbe è: Ut
Qui alterius inventionem impudenter sibi arrogant, patefacto Nella seconda lettera, car. 4 b.28 vero, et germano effectore, magno suo cum dedecore erubescant, et coram literatis, et candidis Viris posthac se offerre amplius non audeant.
Il Fine.
Copia.
Gli Eccell.mi Signori Capi dell’Eccelso Consiglio di X infrascritti, havuta fede dalli Signori Riformatori del Studio di Padova, per relatione delli due a questo deputati, cioè del Reverendo Padre Inquisitor et del circonspetto Segretario del Senato, Zuane Maraveglia, con giuramento, che nel libro intitolato: Difesa di Galileo Galilei Nobile Fiorentino, Lettore delle Mathematiche nello Studio di Padova, etc. non si trova cosa contra le leggi, et è degno di stampa, concedono licentia che possa essere stampato in questa Città.
- Datum die 2 Augusti 1607.
D. Vicenzo Dandolo | Capi dell’Eccelso Cons. de X. | |
D. Tomà Contarini Kr | ||
D. Antonio Bragadin |
Illustriss. Consilij X Secretarius Bartholomeus Cominus. |
1607, a 4 Agosto. Regist. in lib., a car. 174.
Antonius Lauredanus Officij contra Blasph. Coad. |
Fede de gl’illustrissimi Sig. Podestà e Capitano di Padova.
Noi Almorò Zane, Podestà, e Zuanne Malipiero, Capitano per la Serenissima Signoria di Venetia, etc., Rettori di Padova, facciamo fede publica colle presenti Che le sottonominate fedi e scritture presentate nella Cancellarla nostra Pretoria sono di nostro ordine, ad instanza dell’Eccellentissimo D. Galileo Galilei, state da gli Auttori o esshibitori d’esse riconosciute per vere, et per incontro fatto nelle parti citate nell’opera presente del medesimo Galilei, ritrovate concordi: onde, in confermatione della verità, a notitia e requisitione di ciascheduno restano riservati gli originali presso l’ordinario Nodaro Coaiutore dell’istessa Cancellarla nostra. In quorum etc.
- Di Padova, li 23 Giugno 1607.
Nota delle fedi e scritture de le quali sopra.
Una fede del Clarissimo Sig. Giacom’Alvise Cornaro, sotto li dell’istesso, in Pa
dova, la contestatione del Sig. Pompeo di Conti da Pannighi.
- Almorò Zane Podestà.
- Zuanne Malipiero Cap.
Giorgio Vecchioni Cancelliero Pret. sottoscrisse e sigillò. |
- ↑ Corrisponde alle pag. 433-434 del presente volume.
- ↑ Cfr. pag. 292.
- ↑ Cfr. pag. 294.
- ↑ Cfr. pag. 295
- ↑ Cfr. pag. 303.
- ↑ Cfr. pag. 303.
- ↑ Cfr. pag. 802.
- ↑ Cfr. pag. 436, 452, 470, 486, 490, 510.
- ↑ Cfr. pag. 492.
- ↑ Cfr. pag. 419.
- ↑ Cfr. pag. 447.
- ↑ Cfr. pag. 486-487.
- ↑ Cfr. pag. 429-430.
- ↑ Cfr. pag. 449.
- ↑ Cfr. pag. 490.
- ↑ Cfr. pag. 451.
- ↑ Cfr. pag. 463.
- ↑ Cfr. pag. 460.
- ↑ Cfr. pag. 484.
- ↑ Cfr. pag. 447-448.
- ↑ Cfr. pag. 447.
- ↑ Cfr. pag. 447.
- ↑ Cfr. pag. 419.
- ↑ Cfr. pag. 421.
- ↑ Cfr. pag. 420.
- ↑ Cfr. pag. 421-422.
- ↑ Cfr. pag. 420.
- ↑ Cfr. pag. 433.