Le odi e i frammenti (Pindaro)/Prefazione
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PREFAZIONE
Pindaro è ancora, nel dominio della critica, quasi un mistero. D’intorno all’opera sua si aggirano perplessi gli epigoni, e i loro giudizi si alternano appassionati e discordi, dalla esaltazione ditirambica alla negazione animosa.
Questa incertezza ha radice in una essenziale difficoltà, maggiore forse per Pindaro che per qualsiasi altra opera remota insieme per tempo e per lingua. Non parlo delle difficoltà esegetiche ed ermeneutiche, superate in gran parte, grazie alle ricerche filologiche, o, se tutt’ora insolute, non tali da contendere la visione complessiva dell’arte di Pindaro. Ma invece mancano al nostro studio elementi essenziali, alcuni senza speranza, altri con pochissima di poterli mai possedere. Come tutti sanno, gli epinicî erano musicati dallo stesso Pindaro, erano cantate corali, in cui le note avevano importanza non minore delle parole; e di questa musica non possediamo che un brevissimo frammento: erano danzati; e nessuna idea possiamo oggi formarci delie figurazioni di danza che s’intrecciavano alle parole e alle note. Sicché, dei vari elementi ordinati e calcolati pel complessivo effetto d’una esecuzione che ad ogni modo oggi non si potrebbe riprodurre, a noi non rimangono che i nudi versi. Anzi, perché questi, come vedremo, non serbano l’antico ritmo integro, ma solo un suo riverbero, possiamo dire che ci rimangono soltanto le nude parole. Si aggiunga, infine, che gli epinicî, le uniche composizioni di Pindaro sopravvissute quasi intatte, costituivano solo una parte dell’opera sua vastissima; e si vedrà contro quanti ostacoli debba lottare chi voglia farsi una piena idea dell’arte di Pindaro.
E tuttavia, il materiale che possediamo è sufficiente per una degna valutazione. Se ancora non l’abbiamo, se è possibile che anche ai giorni nostri perduri la negazione e lo scherno contro uno dei piú grandi poeti dell’umanità, la colpa è della critica filologica, la sola che possedeva gli indispensabili elementi, e che, a giudicar Pindaro, adoperò moduli che convenivano ad altre misurazioni. Benemerita per le materiali illustrazioni e delucidazioni del testo, quando poi giungeva al compito, indeclinabile dinanzi ad un’opera così ardua, di cercarne l’intima essenza, o abdicava, o si sviava nelle mille aberrazioni per cui s’è resa tristamente famosa la critica filologica, e specialmente la critica filologica classica. Due moderni ellenisti, Alfredo Croiset e Giuseppe Fraccaroli, hanno spezzato quella tradizione, ed hanno studiato Pindaro con sensibilità artistica, e con tensione di pensiero. Ma il primo ha, piú che altro, raccolti e sistemati i vari elementi dell’arte pindarica, anziché indagarne la genesi e stabilirne il carattere. Il Fraccaroli, che pure, secondo me, ha svelato Pindaro ai moderni, s’è troppo diffuso in problemi d’indole generica e filosofica. D’altra parte, proprio ai nostri giorni, una critica filologica presuntuosa e cieca ha voluto tentare una sua riscossa, sostenendo, con gli esempi e con la teoria, che il vero segreto per intendere la poesia di Pindaro consista nello stabilire con matematica precisione le parentele dei vincitori d’Olimpia, o i pettegolezzi che accompagnavano le loro vittorie, o simili altre quisquilie; e sentenziando che Pindaro sia grande per la solennità della sua morale, e non già per la sua arte, nella quale sarebbe invece debolissimo, a cominciar dall’uso della lingua. Contro questa arrogante stupidità bisogna ripetere e ripetere ben forte che il Pindaro dei grammatici è una caricatura; che il vero Pindaro è un artista, artista sommo, e per certi riguardi il piú puro artista di Grecia, musico e poeta, creatore di immagini di ritmi di melodie in un tempo in cui nessuna pastoia grammaticale aduggiava ancora il cielo di Grecia; e che perciò i criterî per intenderlo e giudicarlo debbono essere schiettamente artistici, e il positivismo filologico è incompetente.
⁂
Osserviamo innanzitutto che lo stato frammentario implica maggior difficoltà per l’opera di Pindaro che non per quella di qualsiasi altro poeta.
Pindaro, come del resto tutti i poeti lirici corali, componeva per commissione e per varie occasioni: celebrazioni di vincitori, preghiere per divinità, feste cittadine, convivî, cerimonie funebri. S’intende bene che la sua poesia doveva volta per volta adattarsi alle diverse circostanze, e perciò esigeva una diversa tempra d’elementi. Le immagini, i ricordi, le sentenze che convenivano alla esaltazione d’un trionfatore, non potevano convenire ad un banchetto, ad una lamentazione funebre, ad un coro virginale. Le fanciulle d’un partenio pindarico lo dicono espressamente:
Molte trascorse vicende |
Sicché, in linea generale, si può dire che ognuno dei vari tipi di composizione accogliesse certi motivi poetici, respingesse certi altri.
Cosí negli epinicî vediamo un poeta di accento sempre sublime e profetico, che, assorto nella contemplazione dei miti meravigliosi e nella meditazione delle arcane leggi che reggono le sorti umane, quasi sdegna di volgere gli occhi sul mondo, tanto minore, che lo circonda, e neanche indugia troppo dinanzi all’affascinante spettacolo delle bellezze naturali.
Ma questi tratti del genio di Pindaro non sono assoluti, bensí contingenti agli epinicî. Se volgiamo lo sguardo ai bellissimi frammenti, ecco mirabili descrizioni di scene naturali: la primavera in Atene (vol. II, 241), l’eclissi di sole (pag. 230), l’oro e la luce dei favolosi giardini dei Beati (pag. 280), l’apocalittico crosciare dei fiumi entro oscurità impenetrabili (pag. id.). Ecco, nei partenî, accenti di tenuità e gentilezza squisita (pag. 256). E i colori agresti (pag. 259); e l’umorismo (framm. XLVIII pag. 297); e nel brano per le etère di Corinto, una certa faceta galanteria, della quale il poeta stesso si meraviglia (pag. 271); e, in quello per Teòsseno (pag. 272), un ardore erotico che ricorda le poesie d’Ibico. Tutte queste corde vibravano dunque nella lira di Pindaro, tutte queste voci suonavano nella sua poesia, ed ora sono per noi fioche o quasi mute. E pur converrebbe che potessimo udirle distinte e spiegate, per intendere e godere la piena armonia della sua lirica.
Anzi, fu osservato da piú d’uno che i frammenti, pur cosí mutili, ci svelino un Pindaro piú grande di quello degli epinicî. Ma qui bisogna guardarci da una illusione. Quei frammenti sono in genere brani scelti: sono il fiore delle composizioni a cui appartenevano. Se raccogliamo i brani piú belli degli epinicî, formiamo un complesso non meno mirabile e brillante. E, d’altra parte, i peani, che abbiamo da poco ritrovati, e alcuni quasi integri, di fronte agli epinicî scapitano. E, ben ponderati tutti gli elementi, mi pare si possa concludere che il tempo abbia trattato anche la poesia di Pindaro come tutta l’altra poesia greca, conservando il meglio, e lasciando cadere il meno buono: che dunque gli epinicî fossero proprio la migliore opera di Pindaro; e che il motivo piú ricco e dominante del suo genio poetico fosse quello appunto che negli epinicî soverchia di gran lunga gli altri: cioè la contemplazione e la meditazione mitica.
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E il soverchiare di questo elemento non deriva già dalla materiale proporzione fra le parti mitiche e le altre; ché per questo aspetto Bacchilide potrebbe quasi superare Pindaro; bensí per la ricchezza, per la intensità della materia mitica pindarica. Bacchilide, dovendo cantare qualche vincitore, sceglie, con evidente riflessione, il mito che mostri maggiore attinenza col soggetto, e lo svolge. Invece, alla fantasia di Pindaro, dato appena il fatto da cantare, si affolla una quantità enorme di miti, che sembrano quasi gareggiare per ottenere espressione. Il poeta vi si immerge con gioia, e talora li fa sfilare, incerto a quale debba dare la preferenza:
L’Ismeno, o Melía fuso d’oro, |
Tutta la storia dei Numi, tutta la storia degli uomini, dalla origine divina all’attuale decadenza, e tutti gli arcani d’oltretomba, gli sono cògniti. Egli raccoglie con ardore instancabile, da ogni parte, dalle tradizioni popolari, dalle cerimonie dei culti, dalle rivelazioni dei misteri. Né è curiosità di erudito, né pazienza inerte di collezionista. Ma dei singoli fatti cerca le ragioni e le leggi dominatrici. E ne compone un sistema organico, che si può anche oggi ricostruire sulle reliquie, e che, se ci appare primitivo nel lato fisico, ingenuo nel metafisico, e nell’etico privo di sostanziale originalità, documenta però in complesso lo sforzo continuo che Pindaro esercitò sempre per disciplinare nel suo spirito e dominare quella materia pel suo tempo immensa.
Ora, questa sua predilezione lo rendeva singolarmente disposto a comporre epinicî. Il genere stesso, come è stato detto cento volte, imponeva divagazioni mitico-storiche. Quindi, al poeta d’epinicî occorreva un bagaglio di cognizioni. E facile era procurarselo; ma facile era anche poi che quella materia, assorbita per dovere professionale, rimanesse nella trattazione non elaborata, e quindi fredda e meccanica; come avviene negli epinicî, pur graziosissimi, di Bacchilide. Ma in Pindaro l’obbligo professionale coincide col profondo interesse spontaneo. La materia che l’epinicio esigeva era pronta sempre nello spirito del poeta, ed elaborata da un travaglio filosofico che ne rendeva ogni parte agile e ricca e piena di fermento. E cosí avviene che le scene mitiche di Pindaro non sono descrizioni, intimamente gelide, anche se nitide ed appariscenti, bensí appassionate evocazioni e risurrezioni. Cosí avviene che le sue sentenze non sono stanche ripetizioni di pedagogo. I fatti nuovamente risorgono nella fantasia del poeta: egli assiste inebriato o esterrefatto alla loro vicenda, e nota le leggi che li governano, e le bandisce con accento di profeta apollineo. Che importa se la loro essenza sia già cognita? Germogliando nello spirito pindarico da nuovi atteggiamenti, in questa novità attingono anche esse una loro verginità.
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Questo mondo mitico, ed ogni altra materia di canto, subiscono nello spirito di Pindaro un processo unico, che li amalgama e li avviva, e che bisogna aver bene afferrato, per intendere nella sua piena efficacia la poesia pindarica. Tutte le creature animate ed inanimate, e tutti i concetti astratti, appena entrati nel cerchio della fantasia di Pindaro, divengono antropomorfi, e quindi suscettibili e capaci di quanto uomo può fare o patire. Ora, questo atteggiamento non è davvero proprio ed esclusivo di Pindaro; anzi è uno dei principali processi secondo i quali si sviluppa ed avviva il linguaggio umano. Anche ora, se analizziamo qualsiasi delle lingue moderne, vediamo sotto il velame sempre piú denso e monotono delle forme astratte e derivate e foggiate a serie, il divincolio confuso d’una simile vita. Ma è vita fossile. O, meglio, vita in potenza. Tutti diciamo che le nubi volano; ma nessuno le vede piú provviste di ali di rostri di penne. Pindaro, invece, scorge l’occhio nero della nuvola che avvolge il capo all’aquila di Giove. Per lui, la pioggia abbrividisce, la fiamma càlcitra contro il fumo; e quando Pindaro parla di calcitrare dobbiamo vedere lo zoccolo vibrato. Anche noi diremo facilmente che «muove». Ma Pindaro la vede proprio camminare, e vede il sentiero che essa batte, lungo la verità: e se cammina, ha gambe e piedi, e si può adattarle un calzare. Le canzoni balzano verso il vincitore, hanno viso, e adorno di gioielli d’argento, mescono l’elogio.
Questo processo investe anche talune essenze per le quali noi stentiamo a concepir la personificazione: per esempio, la Gesta, che sitisce l’elogio (I. 1. 16), o il Principio dell’azione, che accoglie chi opera, come ospite gli ospiti; e talune altre che alla personificazione sembrano addirittura refrattarie: le Corone, che reclamano un debito (O. III, 6), l’Oro, che ha mani per offrire una mercede (P. III, 55), una Freccia, che può essere nutricata.
E in questo processo, le personificazioni si svincolano tanto compiutamente dagli oggetti onde furono astratte, che agiscono verso quelli come verso cose materiali e passive. L’oro offre la mercede, cioè sé stesso (P. III, 55). Le calunnie portano denuncie, cioè calunnie (P. II, 76).
Simile a questo è l’altro processo onde cose astratte sono concepite come creature vegetali, oppure come sostanze concrete e tangibili. Ed anche qui si deve ripetere ciò che si disse delle personificazioni: che ogni altra poesia ed ogni altro linguaggio ha familiari simili processi; ma oramai resi anodini dall’uso. Diciamo anche noi che nel cuore di un uomo fiorisce la virtú; ma né al nostro spirito né a quello di chi ci ode balenano immagini di steli né di foglie né di corolle. Ma Pindaro le vede tanto, che parla di reciderle per farne un mazzo. Anche noi possiam dire che le promesse daranno buon frutto. Ma Pindaro le vede come germi, e come terriccio la verità; onde quelle vi cadono e vi giungono a maturazione.
E cosí per la concezione degli astratti sotto specie di sostanze materiali. Gli errori sono oggetti appesi dintorno alle menti degli uomini; il biasimo è un masso che minaccia le persone che lo meritano: il canto una nave fenicia: la vittoria qualche cosa come di fluido in cui si può immergersi e mescolarcisi. E anche qui, per seguire Pindaro, bisogna evocare nella mente i minuti particolari. Se dice che la sua ode ristora, egli la concepisce come una specifica bevanda gustata ai suoi tempi:
T’invio questo miele, che rorido spuma,
temprato di candido latte, canora
bevanda, fra spiri di flauti eolî.
E il medesimo processo involge anche espressioni metaforiche trite e convenzionali, che certo già al tempo di Pindaro non suggerivano piú immagini concrete, rievocando con tutti i particolari le materiali azioni onde furono derivate. Quando Pindaro dice che una lingua deve essere temprata, vede l’incudine su cui si deve compiere l’operazione. Se deve essere affilata, sarà certo affilata sopra una cote (O. VI. 82).
Ora s’intende, mi sembra, con quale spirito bisogna leggere i canti di Pindaro. Nessuna parola deve essere per noi mero suono, e sia pur dilettoso; ma ciascuna di esse deve evocare un fantasma. Non solo i numi, gli eroi, le creature mostruose e favolose; ma anche ogni astrazione ed ogni espressione, si agitano nella fantasia di Pindaro come le figure di un immenso dramma. E noi le vediamo proiettarsi nel nostro spirito, riempiendo tutto il campo della visione, lasciando poco sfondo di cielo o nessuno, senza prospettiva aerea, tutte al primo piano. È una poesia un po’ massiccia ed arcaica; ma di solidità e di evidenza incomparabili. Talvolta la parola sembra veramente marmo o metallo.
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Cerchiamo ora come si modellino e compongano queste figure. E qui è necessario premettere qualche osservazione teorica.
Piú d’un artista, piegandosi sul gorgo oscuro del proprio animo, ha osservato che il primo momento della ispirazione è qualche cosa di indistinto, che balena rapidissimo nell’animo, e contiene già in potenza tutta l’opera d’arte. La critica estetica ha data la sua sanzione. E chi parla di stato musicale, chi di macchia, chi di nebulosa. E forse quest’ultima metafora è la piú felice, appunto perché piú indeterminata.
E infatti, questo primo momento sarebbe qualche cosa di supremamente sintetico, che dominerebbe, come genere le specie, i colori e i suoni. E può ben darsi che esista; ma subcosciente. Certo, come si affaccia alle soglie della coscienza, qualsiasi impulso artistico appare specificato in aspetto pittorico o musicale; e la prevalenza dell’uno e dell’altro determina appunto il diverso carattere del pittore e del musicista.
Il primo d’essi, il pittorico, avendo il suo substrato nell’assorbimento dei colori e delle forme, tende a proiettarsi nello spazio, svolgendosi in immagini statiche, che hanno stretta aderenza con le immagini del mondo obiettivo.
L’altro, il musicale, prende pochissimi elementi dal mondo obiettivo, e trova la sua fonte principale nel misterioso abisso delle emozioni dei sentimenti e delle passioni; e tende a proiettarsi nel tempo, svolgendosi in immagini che vivono della mobilità, e che non hanno veruna relazione, o remotissima, con le immagini del mondo obiettivo.
Questi impulsi, i quali doveron sussistere distinti anche quando l’uomo non conosceva altro mezzo d’espressione se non il grido inarticolato, trovano via via ciascuno il suo legittimo corso. L’impulso pittorico trova la superficie da incidere o da segnare, l’argilla da modellare, le terre e i succhi dell’erbe per emulare i giuochi della luce. L’impulso musicale trova le proporzioni della voce, i giunchi forati, le fila tese, le làmine percosse.
Ma simultaneamente si andava sviluppando anche il linguaggio articolato, che, oltre ai suoi uffici pratici, appare materia da gittarvi ogni impressione artistica. E in questo ufficio la parola è in funzione di colore e di suono. È, in certo modo, un ripiego. Meno diretta e possente della pittura a lineare i fantasmi pittorici, meno della musica a seguire docilmente le infinite ondulazioni degli intimi impulsi, si avvantaggia però di fronte all’una e all’altra, perché le congiunge in sé, dando il volo della musica alle immagini della pittura.
Inteso questo principio, si vede bene che cercare le qualità fondamentali e caratteristiche d’un poeta significa cercare quale pittore e qual musico si nasconda nelle sue parole.
Ed anche si vede bene che il poeta ha una sua via propria, situata quasi in mezzo a quelle della musica e della poesia. E s’intende come possa mantenersi in essa rigorosamente, oppure deviare, continuamente o ad intermettenze, verso una delle altre due.
Ora una caratteristica dell’arte di Pindaro è l’avvicinarsi con impulso costante ed energico, ai procedimenti delle arti del disegno.
Cosí, per esempio, quando narra un’azione, non ne espone i varî momenti in gradazione temporale, né congiunti da nessi logici; bensí li dipinge in tanti quadri ben distinti l’uno dall’altro. Evadne, la giovinetta figlia di Posidone, affidata al re d’Arcadia Apito, e amata da Apollo, concepisce Iamo (O. VI. 36).
Né sino all’ultimo eluse
ad Àpito il germe divino.
Egli, premendo nel cuore furore indicibile, punto
da cruccio acutissimo, andò
a Pito, per chiedere al Nume
consiglio nell’onta insoffribile.
E poi, senza una parola di connessione, passa ad una scena remota da questa per tempo e per luogo:
Ed essa, deposta la zona
di porpora e d’oro, e la càlpide
argentea, sotto una macchia
cerulea die’ a luce un fanciullo
di mente divina.
Sono le due assicelle d’un dittico. E, come un pittore, Pindaro sceglie dell’azione che vuole ritrarre un momento favorito, senza curarsi di spiegare al lettore ciò che avverrà in seguito. Giasone (P. IV, 241) doma i tori spiranti fiamma di Eèta, figlio del Sole:
Ed il mirabile figlio del Sol gli svelò dove il fulgido
vello reciso dal ferro di Frisso giaceva. Né ch’egli
mai quella impresa compiesse credea: ché giaceva in un bosco,
e lo tenevano stretto le orrende mascelle d’un drago
che per lunghezza e larghezza passava un naviglio che i colpi
dell’asce costrussero, che remi ha cinquanta.
E questa orrida visione spezza la scena, e il poeta passa a tutt’altro argomento.
Ma anche piú Pindaro si avvicina alla simultaneità pittorica mediante un suo atteggiamento prediletto. Un personaggio arriva improvvisamente dinanzi a una scena, e ristà. Cosí Anfitrione, che giunge correndo nella stanza dove i dragoni hanno avvinghiato il bambinello Ercole: Ercole che coglie Aiace mentre banchetta: Ercole che giunge dinanzi ai meravigliosi oleastri degl’Iperborei. E sottolinea con un verbo la unicità del momento dell’azione, come sorpresa, e con un altro, sempre il medesimo, il repentino ristare del personaggio, che rimane cosí immobile dinanzi a noi, come una statua, e seco immobilizza l’azione. E un piú squisito effetto è raggiunto nella terza di queste scene. Il poeta ci mostra Ercole in viaggio verso gli Iperborei, all’estremo limite della terra. Piú oltre non c’è nulla. Qui ristà l’eroe d’improvviso. E noi vediamo la sua sagoma proiettata sull’azzurro sfondo infinito.
Caratteristica è altresí la ricchezza e minutezza dei particolari visivi, propria anch’essa piú della pittura che della poesia. Nella qual ricchezza, del resto, sotto la speciale predilezione di Pindaro, si nasconde l’ebbrezza, prepria d’ogni poesia primitiva, e traboccante nei poemi omerici, di riprodurre i fenomeni in giri di parole che per la musica loro virtú evocatrice, li facciano riapparire all’occhio dell’anima non meno evidenti di come appariscano agli occhi corporei. Ed anche a noi reca tuttora un sottil diletto veder riprodotti in belle perifrasi gli eleganti vasi ceramici offerti in premio ai vincitori (N. X. 44), o l’imboccatura d’un flauto, da cui la voce zampilla (P. XII. 25):
Sgorga essa dei balli compagna fedel, fra la tenüe lamina
di rame, e la canna che cresce nei prati cui bagna il Cefiso.
Non seguirò oltre questa ricerca, che ogni lettore potrà compiere per proprio conto, leggendo direttamente le odi. Ma non sarà superfluo richiamar l’attenzione sopra alcuni brani, i quali, piú che da una originale visione pittorica o plastica, sembrano ispirati dal modello di pitture o statue che il poeta aveva sempre sott’occhio. Cosí la prediletta disposizione di due parti della medesima scena l’una di contro all’altra, come nelle due ali d’un frontone: p. e., nella IV Pitia, l’arrivo di Pelia contrapposto a quello di Giasone.
E possiamo giungere a piú minuti raffronti. Quando Tritone sorprende gli Argonauti già sulla nave, pronti a salpare, offre una zolla ad Eufemo. E l’eroe (P., IV, 36):
balzò sulla spiaggia,
tese la mano alla mano, prese la zolla divina.
Quando Apollo conduce la vergine Cirene dal Pelio in Libia (P., IX, 9):
Afrodite dal socco d’argento
accolse qui l’ospite delio,
sopra la biga divina poggiando la mano leggera.
Achille giovinetto compie meravigliose prodezze (N., III, 50);
.....ed Artèmide
e Atena l’audace di lui sbigottirono,
com’ei, senza cani, né inganni di reti, cacciava
i cervi; ché al corso vincevali.
Ora, la figura di due eroi che si stringono la mano con gesto amichevole, di una Dea che stende la palma su l’oggetto che protegge, di Numi che assistono alle imprese di eroi prediletti, sono motivi ripresi nell’arte greca piú e piú volte, e con molte variazioni.
Del resto, tutte le figurazioni pindariche appaiono, riguardo alla linea, fortemente dominate dalle opere della plastica che fioriva in ogni parte del mondo greco.
Ed anche la colorazione arcaica non rimane senza influsso. A parte una certa abbondanza di porpora e d’oro, taluni particolari richiamano note peculiarità della scultura arcaica: cosí i visi argentei delle canzoni, il pie’ d’argento d’Afrodite, i piedi purpurei di Dèmetra, le ali purpuree di Zeto e di Calaide. Ma accanto a questi, abbiamo effetti nei quali Pindaro soverchia le possibilità pittoriche dei suoi tempi. Si ricordi il regno dei beati:
Quando è qui notte, laggiú
scintilla per essi la vampa del sole.
E nel pomerio
prati di rose purpuree,
con aurei pomi fittissimi,
ed ombre d’incensi.
E la nascita di Iamo:
Evadne, deposta la zona
di porpora e d’oro, e la calpide argentea, sotto una macchia
cerulea, die’ a luce un fanciullo di mente divina.
E lo abbandonò. Ma
due draghi di glauca pupilla gli stettero a guardia, gli diedero
ristoro col succo de l’api purissimo.
E qui rimase il bambino:
ascoso giaceva fra giunchi, fra impervî cespugli,
infuso le tenere membra dai raggi che porpora e gialli
piovean le viole.
Qui Pindaro è proprio pittore. Vedendo balenare quelle scene, egli s’è compiaciuto degli effetti di colore e di luce, delle armonie e dei contrasti: di quelle grandi macchie di porpora costellate da un miriade sfolgorio di punti d’oro; del velo tenuissimo, ombra d’ombra, che piove dagli incensi vaporanti; della luminosità azzurrina della macchia, in cui ardono, pur cernuli, gli occhi dei dragoni; dei raggi luminosi che, filtrando attraverso i petali delle viole, si imbevono di color giallo e amaranto, e vanno a inondare il corpicino del bimbo.
Ma ricerche anche piú sottili si possono trovare nelle odi di Pindaro. Anche qui, non indugio troppo a raccogliere quanto il lettore può trovare da sé. Ricordo tuttavia le isole dei Beati (O., II, 85):
Qui dei Beati
l’isole cingono l’aure marine; qui fiori flagrano
d’oro, dagli alberi fulgidi, sovra la terra; ed altri
l’acqua ne nutre:
essi ne stringono serti, ne avvolgono le braccia e il capo.
Ed i fiumi d’Averno (Fram. 130):
donde l’illimite buio
vomiscono i lividi fiumi
della foschissima notte.
Sono due monocromie: oro su oro, e nero su nero. Come bianco a bianco sovrapponeva il nostro Foscolo, quando, nelle Grazie, pingeva libagioni di latte cinte di bianche rose, il cigno ghirlandato di perle, l’ara marmorea su la quale i devoti depongono perle, calici di latte, e candide colombe.
⁂
Altri poeti, e massime moderni, si spinsero ugualmente, con coscienza e arditezza molto maggiori, entro i confini della pittura. Ma la loro poesia divenne in genere statica; e quel che guadagnava in evidenza, perdeva in vibrazione lirica. Il giudizio comune, che a lungo andare intuisce sempre la verità, condanna come fredde le poesie nelle quali l’elemento pittorico soverchia o soffoca l’elemento musicale, e preferisce quelle in cui la musica abbonda, anche se le immagini sembrino meno scolpite e meno determinate. La musica, cioè il moto, è l’elemento vitale della poesia.
Ma Pindaro ha profonda coscienza di questa verità. E quasi ci sembra che la teorizzi nel mirabile principio della quinta Nemea:
Non io statuario mi sono, che immagini immobili, fisse
sovresso lo zoccolo plasmi:
ma sopra ogni nave, ma sopra ogni barca, diletta Canzone,
tu salpa da Egina, recando l’annunzio
che Pitea, gagliardo figliuol di Lampone,
vincea del pancrazio le frondi a Nemea.
Le arti del disegno gl’insegnano la sua plastica prodigiosa. Ma questa non subordina a sé la musica, anzi si pone al suo servigio. Un alito musicale potentissimo travolge tutte le immagini, e cancella ogni rigidità e crudezza di contorno. Questo alito non è da cercare solo nella melodia che foggiava le parole, e che, d’altronde, per noi sopravvive solo nei ritmi, mutili anch’essi. Esso già provoca l’universale processo di antropomorfismo e di vitalismo che dòmina sin dal germe tutti gli elementi della concezione pindarica. E anche dove non si ravvisa né l’uno, né l’altro di tali processi, è però sempre vibrazione e moto. Delo e Rodi sono concepite come isole, e non già personificate; ma Pindaro non le descrive immobili, bensí emergenti l’una e l’altra dal mare, quella come un fastigio di tempio, su quattro immani colonne di roccia che si levano dal fondo, questa come un portentoso fiore sbocciante sopra i glauchi solchi del mare. E il moto virtualmente incluso in ogni espressione che indichi impulsi spirituali, è obbiettivato e reso tangibile mediante immagini di moto. Cantare è lanciare frecce, vibrare un disco, muovere sopra una nave. Risalire alle origini d’una stirpe è ascendere un carro, e muovere a ritroso sul tramite del tempo, sino al passato (O., VI, 22). Un crescere d’ispirazione è spiccare un salto dal suolo. Affrontare un arduo compito artistico, è saltare una gran fossa (N., V, 191):
Ma dove l’elogio si chiegga di prospero evento, di mani
gagliarde, di ferrea pugna,
un fosso profondo scavatemi qui: con leggere ginocchia
io scatto: oltre il pelago si lanciano l’aquile.
Perfino le sensazioni fisiche piú misteriose ed inesplicabili, sono da Pindaro convertite in visibili immagini di moto (O., VI, 82): l’impulso a cantare è la roteazione d’una cote sulla lingua (O., XI, 83):
Mi par che una cóte sonora
la lingua m’affili, e mi spinga con gli aliti dolci del canto.
E se si vuol vedere un effetto anche piú largo, si rilegga la Nemea V, dove l’immagine iniziale è ripresa nell ultima strofa, sicché tutta l’ode riesce dominata dalla figura della Canzone, agile creatura, che ascende la prora del battello, e con l’ali dischiuse corre per tutti i mari a diffondere la notizia della vittoria, come la Nike di Samotracia, che qualche tempo dopo doveva dare tangibile realtà alla imagine grandiosa, riprendendo un motivo caro alla scultura greca, e che certo deve qui avere avuto influsso sulla fantasia di Pindaro.
E dunque, come ogni elemento è concreto, così è mobile nella fantasia di Pindaro. E l’impressione di mobilità è accresciuta dalla loro compagine, che non è mai statica, ordinata, tranquilla. Essi si muovono con rapidità vertiginosa, appaiono un momento, spariscono, riappaiono, inabissano talora come in oscurissimi gorghi che ci attirano sino al fondo arcano della vita primeva, per poi subito renderci alla vita attuale. E questa perenne mobilità, questo turbinio, è anch’esso uno dei caratteri fondamentali della poesia di Pindaro.
⁂
Veniamo ora alla musica. Qui, come ho detto, gli elementi positivi sono ben pochi. E tuttavia ci consentono anch’essi d’integrare in qualche modo la nostra visione dell’arte pindarica.
E anche qui è necessario formarsi innanzi tutto una chiara idea della efficacia generica della musica sul linguaggio. Essa foggia le prime cellule sonore, suoni inarticolati in funzione lirica. Le compagina in parole. Crea i versi, serie di parole sostenute da schemi melodici. Offre gli schemi ai varî tipi di proposizioni (teoricamente in numero infinito), che simboleggiano i vari atteggiamenti dell’animo: l’affermazione, la negazione, il dubbio, la concessione, il dilemma, si esprimono su date inflessioni melodiche, che rimangono le medesime, e stabiliscono il genere, mentre le parole variano all’infinito. Cosí avviene che ciascuna lingua abbia la sua musica, che è il complesso di queste inflessioni costanti; e che perfino tra lingue diverse gli atteggiamenti analoghi abbiano talora analoghe inflessioni. Insegna infine le varie compagini onde le parole e le note possono intensificare i loro effetti. Tutti i moduli retorici che i grammatici, studiandoli sulla nuda parola, o, peggio, sugli inerti segni grafici, credono prodotti logici, e battezzano con denominazioni piú o meno erronee, sono in realtà altrettanti effetti musicali. Il verso è un periodo musicale; la ripetizione è, ora una progressione, ora una ripresa di tema; e d’origine musicale sono anche gli effetti, designati con nome comune, di crescendo e di perorazione.
E non si creda che sia questione di nomi. Le due concezioni, retorica e musicale, implicano conseguenze molto late, sia per la teoria, sia per la precettistica e la pratica dell’arte. Per il rètore, il verso è un certo numero di sillabe su cui cade un sistema fisso di accenti. Chi compone un verso deve muovere solo badando a poggiare il piede su quei punti che devono ricevere l’accento, come chi valica un ruscello poggiando cauto il piede su tre o quattro pietre sporgenti. Per il musico è una serie ritmica, che, se in limiti amplissimi è preordinata, si crea però a volta a volta, sempre varia e distinta da ogni altra; nella quale ciascun punto ha la sua vita individua, e ciascuno genera il seguente ed i seguenti, influendo su quelli e rimanendone influenzato, ed anche riverberando il suo potere sui punti trascorsi. Il poeta che si accinge a comporre, pieno l’animo d’una musica prorompente, è come un aligero che prenda l’abbrivo per l’ètere infinito, dove i colpi d’ala saranno regolari, ma le sinuosità del volo infinite e capricciose.
Questo atteggiamento, proprio di tutti i veri poeti, anche quando non ne abbiano coscienza, o magari credano di essere antimusicali, si trova, in grado assoluto, e interamente cosciente, in tutti i poeti lirici greci, i quali componevano insieme parole e musica.
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Vediamo un po’ da vicino in che consisteva questa gèmina creazione.
Pindaro componeva insieme parole e note. Ma non queste si sovrapponevano, come ora avviene, a quelle, già composte sopra un altro schema ritmico. Bensí la musica lanciava le sue volute, e nel suo impeto trascinava le parole, alcune attinte al patrimonio comune, altre foggiate liberamente, colorendole sempre d’una sua nuova luce, e disponendole in grandi linee e minori compagini, sempre nuove ed impreviste. Qualche atteggiamento tradizionale, qualche modo inalterabile, travolti in quella foga, assumevano anch’essi parvenza nuova e mirabile.
Afferrato questo principio, si vede chiaro che i varî atteggiamenti, avendo ciascuno una propria fisonomia, sono ribelli a qualsiasi classificazione.
Ma bisogna ancora approfondire un po’, per intendere a pieno il rapporto fra note e parole. Sappiamo che ogni ode era formata di tanti sistemi, composti ciascuno di strofe, antistrofe ed epodo. In ogni sistema, strofe ed antistrofe erano uguali. E rispettivamente uguali, e nel metro e nella melodia, le strofe e gli epodi di tutti i sistemi. Il che equivale a dire che Pindaro componeva la musica di un solo sistema, e a quella musica subordinava poi le parole di tutti gli altri. Cosí per gli altri sistemi il problema era essenzialmente diverso che per il primo. Né si deve né si può definire se nel primo sistema le parole precedessero le note, o queste precedessero quelle, o fossero simultanee. Messo a questo travaglio, l’artista cade nello stato, ben descritto da Platone, dell’incoscienza. Qui baleneranno prima le note, alle quali si adatteranno in séguito le parole. Altrove prima le parole. Poi parole e note insieme. Ora a sprazzi e come lampeggianti; e poi a gran distese, con tanto impeto, che i mezzi meccanici riusciranno tardi alla notazione.
Ad ogni modo, nel primo sistema si aveva una ardente simultanea creazione poetico-musicale. Ma per gli altri, la melodia era già fissata. Certo, le parole, subordinandosi alle note, ne uscivano plasmate e colorate. Ma dal lato musicale qui era inerzia. Inerzia che, del resto, cooperava anch’essa ai fini dell’arte, imprimendo carattere di unità alla composizione, che altrimenti sarebbe corsa dal principio alla fine senza punti fissi in cui lo spirito potesse riposare, riepilogare in certo modo il passato, e prepararsi al futuro.
E ancora un altro passo bisogna muovere, e vedere che cosa rappresentano i residui versi pindarici di fronte al maggior complesso a cui appartenevano.
Considerando la compagine d’una strofa, non piú nel suo divenire, ma già divenuta, abbiamo per risultato uno schema ritmico, al quale sono subordinate parole e note. Tale schema comportava fra ciascuno dei suoi punti salienti (ictus) e il successivo, durate di 1, 2, 3, 4 o piú momenti, o anche frazioni di momenti. Ora le note — il mélos — che risultano da una serie di vibrazioni aeree divisibili sino ad atomi sonori imponderabili, sono sostanza omogenea ed amorfa, infinitamente plastica e duttile, che in qualsiasi schema può adagiarsi perfettamente, senza lasciare alcun interstizio, come il liquido in un anfora. Le parole invece — il lógos — risultano di sillabe che hanno già propria forma e durata e intensità, e non sono quindi suscettibili di adattamento perfetto. Perciò, in un dato schema ritmico possono trovare solo un adattamento relativo, come nel concavo d’un’anfora lapilli di varia forma e dimensione. Cosí avviene che nella melodia, fusione di parole e note, queste ultime sono come nei corpi organici il complesso dei tegumenti, nel quale si effonde ogni vaghezza e ogni finezza di compagine; e le parole come uno scheletro. Anzi, per rendere chiaro il fatto, bisogna scavare ancora un po’ piú addentro.
In séguito ad una convenzione artistica già stabilita abbastanza sicuramente all’epoca di Omero, tutte le sillabe della lingua greca riuscirono divise in due gruppi: le meno intense, a cui si tribuiva il valore, convenzionale e relativo, di un momento; e le piú intense, a cui si tribuiva quello di due. Nel loro connubio con gli schemi ritmici, le seconde andavano a collocarsi sotto i punti colpiti dalle percussioni, le prime sotto quelli che ne rimanevano scevri.
Ora, finché in uno schema ritmico, fra una percussione e l’altra, intercedevano durate d’un momento e di due, v’era un certo combaciare, sia pure approssimativo, fra lo scheletro e i tegumenti. Ma quando le durate, e cioè le note, raggiungevano i tre momenti o i quattro, od anche li superavano; divenendo troppo breve la sillaba rispetto alla nota, ogni corrispondenza andava perduta. Ciò avveniva specialmente nelle cadenze, in cui ricorrevano, per legge naturale del linguaggio melodico, note prolungate. In conseguenza, lo schema logico era, in certo modo, uno scheletro qua e là monco ed anchilosato, e, nel complesso, pieno d’irregolarità e disarmonico.
Scheletri, piú o meno scarnati, son dunque i versi di Pindaro, quali ora ci rimangono. Ma noi possiamo abbastanza bene rimpolparli. Movendo dalle lunghezze convenzionali di uno e di due che ha ciascuna sillaba, conviene indagare quali sillabe di due momenti (lunghe) si debbano allungare aneora, sino ai valori di 21/2, di 3, di 4: dove si debbano intercalare brevi pause: dove pause anche piú lunghe, di interi piedi o periodi (versi o emistichi), in origine costituiti da sole note strumentali, e senza i quali va perduta la quadratura, che i Greci cercarono con tanta diligenza.
Compiuto questo lavoro, lo scheletro di queste alate creature sonore è rivestito di polpe. Dico di piú: noi scorgiamo allora la linea del loro volo. Mancano tuttavia la morbidezza e la iridescenza del piumaggio.
E anche questo possiamo vedere in un caso, nel sublime esordio della prima pitica, pel quale possediamo le note di Pindaro. Nelle lunghe discussioni intorno all’autenticità di questo brano, nessuno, per quanto io sappia, ne ha posto in rilievo l’affascinante bellezza: argomento di non poco rilievo, per chi giudica d’arte con criterî artistici; perché non s’intende come chi aveva facoltà di creare una cosí ispirata melodia, si divertisse a farla andare sotto la maschera d’una falsificazione. Quelle poche note sono imbevute d’un incanto speciale, ed hanno, innanzi tutto, quell’impronta rarissima per cui una melodia non è mèra successione di suoni, ma alata creatura di poesia, viva della vita misteriosa dello spirito. E presentano, dote anche piú rara, una fisonomia propria e indimenticabile. E se quindi sono, come credo, di Pindaro, dobbiamo reputare che questi fu straordinario anche come creatore di musica, e ben degno dell’ammirazione degli antichi, i quali salutarono classiche le sue melodie.
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E, da ultimo, converrà affrontare l’obiezione già balenata al principio del mio discorso. Se dell’arte di Pindaro tanti elementi sono perduti, come presumere di formarcene un idea adeguata, specialmente ora, che tanta lontananza di tempo, di costumi e di cultura contribuisce a renderla incomprensibile e arcana?
Anche qui bisogna guardare un po’ a fondo. Parole, note, figure di danza, erano i mezzi onde Pindaro esprimeva i suoi fantasmi, il suo mondo poetico. Ma non bisogna dimenticare che questi mezzi erano imposti dalla tradizione e dalla destinazione della poesia epinicia, e non già scelti tutti liberamente dal poeta. E se badiamo alla intima sostanza della poesia pindarica, quale ci appare negli epinici, e che consiste in una immensa evocazione mitica, scorgiamo che a tale estrinsecazione, le note, e specialmente la danza, erano elementi meno essenziali e quasi superflui, anche se di per sé potevano avere fàscino supremo. La parola era il mezzo veramente appropriato ad esprimere quel mondo. E perciò, se da un lato la esecuzione musicale ed orchestica accresceva all’ode corale apparenza e fulgore, dall’altro offuscava di necessità, o almeno velava, per il semplice uditore, la intima penetrazione delle parole. E chi deve, al pari di noi, rinunciare a quella sfolgorante parvenza, e intendere il pensiero dai soli vocaboli, da questa limitazione trova poi forse schiusa la via a cogliere piú immediata e genuina la intima visione del poeta.
E cosí, mentre da un lato la poesia di Pindaro è intraducibile fra le intraducibili: dall’altro, potendosi in essa piú che, per esempio, nella lirica monodica, di Saffo, o di Alceo, prescindere dagli elementi musicali, avviene che essa svela moltissimo del proprio contenuto anche a chi non può leggerla che tradotta.
Ma questo contenuto, può interessare noi moderni? — I filologi, anche i piú spregiudicati, propendono in genere pel no. E certo, difficilmente potremo esaltarci per essa finché andremo a cercare il suo fàscino nella esaltazione di gare che al nostro sentimento sono, o dovrebbero essere, o indifferenti, o quasi repugnanti, o nella commossa enumerazione di apoftegmi etici che la Morale Cristiana ha superati di spazio immenso. Ma se badiamo invece alla sua vera essenza, alla grandiosa e palpitante rievocazione di tutto il mondo mitico, allora non c’è bisogno di essere né ellenisti, né dotti, per intendere quell’arte divina ed entusiasmarsene. Tale fu sempre la mia opinione. E mi parve di vederla confermata quando una mia versione dell’inno su Rodi, ispirò ad un modernissimo scrittore, Guido Milanesi, tutto un romanzo, e nei romanzo le parole forse piú caratteristiche pronunciate finora sull’arte di Pindaro. «L’incanto spirituale, il favoloso passato in dolce ritmo, l’ètere luminoso e vibrante del pensiero umano divenuto denso attraverso i secoli».
È proprio cosí: proprio in ciò risiede il fàscino supremo della poesia pindarica, vivo perennemente per ogni spirito poetico. Tutto il patrimonio mitico che l’umanità possedeva al tempo di Pindaro, e cioè tutte le vicende e tutti i pensieri degli uomini, accolti da Pindaro, non con la leggerezza del dilettante, bensí con la religione austera del pensatore, acquistano nel suo spirito nitidezza profondità e luce incomparabili. Attraverso alle ampie ondulazioni, alla furia precipite dei suoi versi, noi vediamo trasparire, sino alle piú remote scaturigini, le arcane immagini dell’istoria nostra primeva. Nell’incanto dei suoi vocaboli, le scorgiamo, non così nitide come le parvenze reali, ma quasi piú affascinanti nella eterea vibrazione del ritmo. È come una favolosa Atlantide sepolta nei profondi gorghi dell’Oceano. Piú o meno distinte, secondo la mobilità dei flutti, traspariscono le sue architetture. Qui sorgono e si lanciano con linee distintissime: piú oltre si annebbiano: poi si confondono in macchie e bàratri oscuri, dove s’intravvedono favolosi cumuli d’oro e di purpuree gemme. Sopra oscilla perenne l’innumerabile ondulio dei flutti, e riflette tutti gli azzurri, tutte le nevi, tutte le porpore del cielo.