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PREFAZIONE XXV


E anche qui è necessario formarsi innanzi tutto una chiara idea della efficacia generica della musica sul linguaggio. Essa foggia le prime cellule sonore, suoni inarticolati in funzione lirica. Le compagina in parole. Crea i versi, serie di parole sostenute da schemi melodici. Offre gli schemi ai varî tipi di proposizioni (teoricamente in numero infinito), che simboleggiano i vari atteggiamenti dell’animo: l’affermazione, la negazione, il dubbio, la concessione, il dilemma, si esprimono su date inflessioni melodiche, che rimangono le medesime, e stabiliscono il genere, mentre le parole variano all’infinito. Cosí avviene che ciascuna lingua abbia la sua musica, che è il complesso di queste inflessioni costanti; e che perfino tra lingue diverse gli atteggiamenti analoghi abbiano talora analoghe inflessioni. Insegna infine le varie compagini onde le parole e le note possono intensificare i loro effetti. Tutti i moduli retorici che i grammatici, studiandoli sulla nuda parola, o, peggio, sugli inerti segni grafici, credono prodotti logici, e battezzano con denominazioni piú o meno erronee, sono in realtà altrettanti effetti musicali. Il verso è un periodo musicale; la ripetizione è, ora una progressione, ora una ripresa di tema; e d’origine musicale sono anche gli effetti, designati con nome comune, di crescendo e di perorazione.

E non si creda che sia questione di nomi. Le due concezioni, retorica e musicale, implicano conseguenze molto late, sia per la teoria, sia per la precettistica e la pratica dell’arte. Per il rètore, il verso è un certo numero di sillabe su cui cade un sistema fisso di accenti. Chi compone un verso deve muovere solo badando a poggiare il piede su quei punti che devono ricevere l’accento, come chi valica un ruscello poggiando cauto il piede su tre o quattro pietre sporgenti. Per il musico è una serie ritmica, che, se in limiti amplissimi è preordinata, si crea però a volta a volta, sempre varia e distinta da ogni altra; nella quale ciascun punto ha la sua vita individua, e