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PREFAZIONE XXIII


Non io statuario mi sono, che immagini immobili, fisse
sovresso lo zoccolo plasmi:
ma sopra ogni nave, ma sopra ogni barca, diletta Canzone,
tu salpa da Egina, recando l’annunzio
che Pitea, gagliardo figliuol di Lampone,
vincea del pancrazio le frondi a Nemea.

Le arti del disegno gl’insegnano la sua plastica prodigiosa. Ma questa non subordina a sé la musica, anzi si pone al suo servigio. Un alito musicale potentissimo travolge tutte le immagini, e cancella ogni rigidità e crudezza di contorno. Questo alito non è da cercare solo nella melodia che foggiava le parole, e che, d’altronde, per noi sopravvive solo nei ritmi, mutili anch’essi. Esso già provoca l’universale processo di antropomorfismo e di vitalismo che dòmina sin dal germe tutti gli elementi della concezione pindarica. E anche dove non si ravvisa né l’uno, né l’altro di tali processi, è però sempre vibrazione e moto. Delo e Rodi sono concepite come isole, e non già personificate; ma Pindaro non le descrive immobili, bensí emergenti l’una e l’altra dal mare, quella come un fastigio di tempio, su quattro immani colonne di roccia che si levano dal fondo, questa come un portentoso fiore sbocciante sopra i glauchi solchi del mare. E il moto virtualmente incluso in ogni espressione che indichi impulsi spirituali, è obbiettivato e reso tangibile mediante immagini di moto. Cantare è lanciare frecce, vibrare un disco, muovere sopra una nave. Risalire alle origini d’una stirpe è ascendere un carro, e muovere a ritroso sul tramite del tempo, sino al passato (O., VI, 22). Un crescere d’ispirazione è spiccare un salto dal suolo. Affrontare un arduo compito artistico, è saltare una gran fossa (N., V, 191):

Ma dove l’elogio si chiegga di prospero evento, di mani
gagliarde, di ferrea pugna,