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XXII | PREFAZIONE |
Qui dei Beati
l’isole cingono l’aure marine; qui fiori flagrano
d’oro, dagli alberi fulgidi, sovra la terra; ed altri
l’acqua ne nutre:
essi ne stringono serti, ne avvolgono le braccia e il capo.
Ed i fiumi d’Averno (Fram. 130):
donde l’illimite buio
vomiscono i lividi fiumi
della foschissima notte.
Sono due monocromie: oro su oro, e nero su nero. Come bianco a bianco sovrapponeva il nostro Foscolo, quando, nelle Grazie, pingeva libagioni di latte cinte di bianche rose, il cigno ghirlandato di perle, l’ara marmorea su la quale i devoti depongono perle, calici di latte, e candide colombe.
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Altri poeti, e massime moderni, si spinsero ugualmente, con coscienza e arditezza molto maggiori, entro i confini della pittura. Ma la loro poesia divenne in genere statica; e quel che guadagnava in evidenza, perdeva in vibrazione lirica. Il giudizio comune, che a lungo andare intuisce sempre la verità, condanna come fredde le poesie nelle quali l’elemento pittorico soverchia o soffoca l’elemento musicale, e preferisce quelle in cui la musica abbonda, anche se le immagini sembrino meno scolpite e meno determinate. La musica, cioè il moto, è l’elemento vitale della poesia.
Ma Pindaro ha profonda coscienza di questa verità. E quasi ci sembra che la teorizzi nel mirabile principio della quinta Nemea: