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XXX | PREFAZIONE |
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E, da ultimo, converrà affrontare l’obiezione già balenata al principio del mio discorso. Se dell’arte di Pindaro tanti elementi sono perduti, come presumere di formarcene un idea adeguata, specialmente ora, che tanta lontananza di tempo, di costumi e di cultura contribuisce a renderla incomprensibile e arcana?
Anche qui bisogna guardare un po’ a fondo. Parole, note, figure di danza, erano i mezzi onde Pindaro esprimeva i suoi fantasmi, il suo mondo poetico. Ma non bisogna dimenticare che questi mezzi erano imposti dalla tradizione e dalla destinazione della poesia epinicia, e non già scelti tutti liberamente dal poeta. E se badiamo alla intima sostanza della poesia pindarica, quale ci appare negli epinici, e che consiste in una immensa evocazione mitica, scorgiamo che a tale estrinsecazione, le note, e specialmente la danza, erano elementi meno essenziali e quasi superflui, anche se di per sé potevano avere fàscino supremo. La parola era il mezzo veramente appropriato ad esprimere quel mondo. E perciò, se da un lato la esecuzione musicale ed orchestica accresceva all’ode corale apparenza e fulgore, dall’altro offuscava di necessità, o almeno velava, per il semplice uditore, la intima penetrazione delle parole. E chi deve, al pari di noi, rinunciare a quella sfolgorante parvenza, e intendere il pensiero dai soli vocaboli, da questa limitazione trova poi forse schiusa la via a cogliere piú immediata e genuina la intima visione del poeta.
E cosí, mentre da un lato la poesia di Pindaro è intraducibile fra le intraducibili: dall’altro, potendosi in essa piú che, per esempio, nella lirica monodica, di Saffo, o di Alceo, prescindere dagli elementi musicali, avviene che essa svela moltissimo del proprio contenuto anche a chi non può leggerla che tradotta.