Carmela

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Un mazzolino di fiori Quel giorno

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CARMELA.


I.

Il fatto che sto per raccontare accadde in un’isoletta distante una settantina di miglia dalla Sicilia. Nell’isola v’è un solo paese, che non conta più di duemila abitanti, e in cui, al tempo che seguì il mio avvenimento, si trovavano da trecento a quattrocento condannati a domicilio coatto. Vi era pure, per cagion loro, un distaccamento d’una quarantina di soldati, che si permutava di tre in tre mesi, comandato da un ufficiale subalterno. I soldati vi menavano una vita piacevolissima, specialmente per queste due ragioni, che, tranne la guardia alla caserma e alle prigioni, qualche perlustrazione nell’interno dell’isola e un po’ d’esercizio di tanto in tanto, non avean nulla da fare, e il vino era a quattro soldi la bottiglia, e squisito. Non parlo dell’ufficiale, che si godeva una larghissima libertà, e aveva il gusto di poter dire: — Sono il comandante generale di tutte le forze militari del paese. — Aveva a sua disposizione due guardarmi in qualità d’impiegati all’ufficio del comando di piazza; aveva un bel quartiere gratuito nel centro del paese; passava la mattinata a caccia pei monti, il dopo pranzo in un piccolo gabinetto di lettura [p. 175 modifica]coi principali personaggi del paese, e la sera in barca sul mare, fumando dei sigari eccellenti a due centesimi l’uno, vestito come gli pareva e piaceva, senza seccature, senza sopraccapi, quieto e contento come una pasqua. Un solo dispiacere egli aveva, ed era quello di pensare che una vita così beata non potea durar che tre mesi.

Il paese è posto sulla riva del mare, ed ha un piccolo porto, presso cui, allora, si fermava una volta ogni quindici giorni il vapore postale che viaggia fra Tunisi e Trapani. Raramente vi si fermavano altri legni. Tanto raramente, che l’apparire d’un legno diretto colà era annunziato al paese col suono d’una campana, e gran parte della popolazione accorreva alla spiaggia come sarebbe accorsa a uno spettacolo di festa.

L’aspetto del paesello è molto modesto, ma gaio, ridente; in ispecie per la larga piazza che v’è nel centro, la quale, come in tutti i villaggi, è per quella popolazione ciò che è il cortile per gli inquilini d’una stessa casa in città. Questa piazza è congiunta alla spiaggia per la strada principale, diritta, stretta e lunga poco più d’un trar di mano. Le botteghe e gli uffici pubblici son tutti nella piazza. Vi sono, o almeno v’erano allora, due caffè; uno frequentato dal sindaco e dalle altre autorità e dai signori; l’altro dai popolani. La casa dove stava il comandante del distaccamento era posta dal lato della piazza che guarda il mare; e come dalla spiaggia verso il centro del paese il terreno si va considerevolmente sollevando, così dalle finestre delle sue stanze, ne aveva due, si vedeva il porto, un lungo tratto di spiaggia, il mare e i monti lontani della Sicilia.

L’isola è tutta monti vulcanici, e grandi e folti boschi resinosi.

Tre anni fa, un bel mattino d’aprile, il vapore po[p. 176 modifica]stale diretto a Tunisi si fermava all’imboccatura del porto di quel piccolo paese. Fin dal suo primo apparire si era suonata la campana a distesa, e tutta la popolazione era accorsa, fra cui il comandante del distaccamento, i soldati, il sindaco, il giudice, il parroco, il delegato di pubblica sicurezza, il ricevitore, il comandante del porto, il maresciallo dei carabinieri, e un giovane medico militare, aggregato al distaccamento per il servizio sanitario dei «coatti.» Due barconi s’avvicinarono al legno e presero e trasportarono a terra trentadue soldati di fanteria e un ufficiale, un bel giovanotto bianco, biondo, e di gentile aspetto (dico così perchè c’è il verso bell’e fatto), il quale, data una stretta di mano al suo collega, e risposto cortesemente alle liete accoglienze delle autorità, in mezzo a due ali di curiosi entrò nel paese alla testa del suo pelottone. Acquartierato che l’ebbe, egli tornò subito in mezzo al crocchio dei personaggi che l’aspettavano in mezzo alla piazza, e il sindaco glieli presentò ad uno ad uno con un certo fare tra l’allegro ed il serio, pieno di cordiale famigliarità e temperato d’un po’ di innocente sussiego. Terminata la cerimonia, il gruppo si sciolse, e l’ufficiale, rimasto solo col suo collega, si fece condurre alla casa che gli era destinata. Quivi l’ordinanza dell’ufficiale che partiva stava facendo i bauli, e quella del nuovo arrivato affrettava il momento d’aprirli dando una mano al suo camerata. Di lì a un’ora tutto era al posto.

Il distaccamento che doveva andarsene partì la sera stessa intorno alle otto, accompagnato al porto dal distaccamento che rimaneva, e il nostro ufficiale, appena detto addio al compagno, si ritirò in casa e si mise a letto, chè, stanco com’era del viaggio e dell’esser stato tutto il giorno in faccende, si sentiva un gran bisogno di dormire. E dormì proprio di gusto. [p. 177 modifica]

II.

La seguente mattina, appena sorto il sole, uscì di casa. Non aveva ancora fatto dieci passi sulla piazza, quando si sentì tirare leggermente la falda della tunica. Si fermò, si voltò, e vide a due passi da sè, ritta e immobile nell’atteggiamento del soldato che saluta, una fanciulla co’ capelli rabbuffati e il vestito scomposto, alta, sottile e di bellissime forme. Teneva fissi in volto all’ufficiale due grandi e vivi occhi neri, e sorrideva.

— Che cosa volete? — questi le domandò guardandola in aria di sorpresa e di curiosità.

La fanciulla non rispose, ma seguitò a sorridere e a tener la mano tesa contro la fronte nell’atto del saluto militare.

L’ufficiale si strinse nelle spalle e tirò innanzi. Altri dieci passi, altra tiratina alla tunica. Si fermò e si voltò un’altra volta. E quella sempre ritta e impalata come un soldato in riga. Guardò intorno e vide qualcuno là presso che osservava quella scena e rideva.

— Che cosa volete? — le domandò un’altra volta.

La fanciulla stese la mano coll’indice teso verso di lui e disse sorridendo:

— Voglio te. —

— Ho capito, — egli pensò; — n’ha un ramo, — e, cavato di tasca qualche soldo, glielo porse, facendo atto di andarsene. Ma la fanciulla, piegando un braccio dinanzi al petto come per farsi schermo del gomito contro la mano che le porgeva il danaro, esclamò un’altra volta:

— Voglio te. —

E si mise a pestar forte co’ piedi, arruffandosi i ca[p. 178 modifica]pelli con tutt’e due le mani e mandando fuori un lamento sordo e monotono come fanno i bambini quando fingono di piangere. E la gente intorno rideva. L’ufficiale guardò la gente, poi la fanciulla, poi di nuovo la gente, e poi riprese l’andare. Attraversò liberamente quasi tutta la piazza; ma giunto all’imboccatura della strada che mena al porto, si senti alle spalle un passo rapido e leggero, come di chi corra in punta di piedi, e mentre stava per volgersi indietro, una voce sommessa gli mormorò con uno strano accento nell’orecchio: — Mio tesoro! —

Egli si sentì correre un brivido dalla testa alle piante; non si volse; tirò innanzi a passo spedito. E un’altra volta quella voce: — Mio tesoro! —

— Oh! insomma, — gridò allora indispettito volgendosi in tronco verso la ragazza, che si ritrasse timidamente indietro, — lasciatemi in pace. Andate pei fatti vostri. Avete capito? —

La fanciulla fece un viso tutto compunto, poi sorrise, mosse un passo innanzi, e allungando la mano come per fare una carezza all’ufficiale, che si scansò prontamente, mormorò: — Non t’arrabbiare, tenentino. —

— Va’ via, ti dico.

— .... Tu sei il mio tesoro.

— Va via, o chiamo i soldati e ti faccio mettere in prigione. — E indicò alcuni soldati ch’erano fermi sulla cantonata. Allora la ragazza si allontanò a lenti passi, di sbieco, sempre cogli occhi rivolti all’ufficiale, di tratto in tratto sporgendo il mento e ripetendo a fior di labbra: — Mio tesoro! —

— Peccato! — diceva tra sè il tenente infilando la via del porto; — è tanto carina. —

Era bella davvero. Era uno stupendo modello di quella fiera e ardita beltà delle donne siciliane, da [p. 179 modifica]cui l’amore, più che ispirato, ti è imposto. E il più delle volte con un solo di quegli sguardi lunghi ed intenti, che par che ti scrutino il più profondo dell’anima, e tanto meno t’infondono ardimento quanto n’esprimono più. I capelli e gli occhi nerissimi; la fronte ampia e pensosa, e i moti dei sopraccigli e dei labbri subitanei, tronchi, pieni di espressione e di vita. La sua voce sentìa leggermente dello stanco e del roco, e il suo riso del convulso. Dopo che avea riso continuava a tenere per un po’ di tempo la bocca aperta e gli occhi spalancati.

III.

— Perchè non la tengon chiusa? — domandava l’ufficiale quella sera stessa al dottore, entrando con lui nel caffè dei signori, dopo avergli detto quel che gli era accaduto la mattina.

— E dove vuol che la chiudano? Nell’ospedale c’è stata più d’un anno, e ce l’ha mantenuta il Municipio a proprie spese; ma poi, visto che gli era tempo perso e denaro sprecato, l’han fatta ricondurre a casa. C’era poco o punto da sperare; son stati i primi a dirlo i medici di là. Qui almeno è libera come l’aria, poveretta; e si può ben concederglielo, perchè, dai militari all’infuori, non dà noia a nessuno.

— E perchè ai militari?

— Mah! è una storia un po’ incerta, vede. Ognuno la dice a modo suo, specialmente nel volgo, a cui la verità schietta e netta non basta, e ci vuol aggiungere del proprio. Però il fatto più probabile, confermato anche dai pochi signori del paese, sarebbe questo. Tre anni fa, un ufficiale ch’era qui comandante di distaccamento come lo è lei adesso, un bellissimo giovane, [p. 180 modifica]che suonava la chitarra da maestro e cantava come un angelo, s’innamorò di questa ragazza, che era allora ed è ancora adesso la più bella del paese....

— Lo credo.

— E la ragazza, naturalmente, un po’ per la sua bella voce, chè qui del canto e della musica vanno matti; un po’ per effetto del suo prestigio di comandante supremo di tutte le forze militari dell’isola, e massimamente perchè era un bel giovanotto, s’innamorò di lui. Ma e come! Uno di quegli innamoramenti di qui, lei mi capisce; ardori che, in confronto, la lava dei vulcani non c’è per nulla; gelosie, spasimi, furori, cose da tragedia. Della famiglia le restava soltanto la madre, una povera donna che non vedeva che pe’ suoi occhi e si lasciava comandare a bacchetta; dunque si figuri che libertà.... E in paese si mormorava; ma i fatti pare che abbiano provata la falsità dei sospetti, naturalissimi, a cui dava luogo la condotta della ragazza; tanto che adesso tutti credono e affermano che non ci sia stato nulla di male.... È strano, per verità; anzi poco credibile, perchè si dice che stessero assieme mezza la giornata. Ma sa, se ne danno di questi caratteri, specialmente in questi paesi; pochi, ma se ne danno; ragazze ardentissime e liberissime che son tutto il giorno tra i piedi all’innamorato, e che pare non abbiano mai saputo dove stia di casa la modestia, austere, invece, tenaci, inespugnabili come vestali. Basta; il fatto certo si è che l’ufficiale le avea promesso di sposarla, ed essa gli aveva creduto ed era andata a un pelo dal perdere la bussola dalla contentezza. Davvero, sa; si dice che vi furono dei giorni in cui si temeva sul serio che il suo cervello ne patisse. E io lo credo. Chi può sapere sino a che punto arrivi l’amore nelle donne di quella tempra? Un giorno, se non le levavan dalle mani una [p. 181 modifica]ragazza di cui s’era ingelosita per non so che motivo, o la finiva o la conciava male. Proprio qui dirimpetto al caffè l’aveva agguantata, in presenza di tutti, e fu una scena seria. E non è stata la sola. Non c’era più modo che una donna, passando dinanzi alla casa del suo ufficiale, alzasse gli occhi alle finestre, o si volgesse indietro a guardarlo incontrandolo per via, senza ch’essa minacciasse di fare qualche sproposito. Insomma, giunse il giorno del cambio del distaccamento; l’ufficiale promise che sarebbe tornato dopo un par di mesi, la ragazza lo credette, ed egli se n’andò e non fu più visto. La poveretta ammalò. Forse, risanando e perdendo a poco a poco quel barlume di speranza che le restava, sarebbe riuscita a dimenticare; ma prima ancora che si riavesse dalla malattia, seppe, non so come, che il suo amante s’era ammogliato. Il colpo giunse inatteso e fu terribile. Impazzò. Ecco la storia.

— E poi?

— Poi, come le dissi, fu mandata all’ospedale in Sicilia; poi ritornò, ed ora gli è più d’un anno che è qui. —

In quel punto un soldato si affacciò alla porta del caffè e cercò del dottore.

— Le dirò il resto più tardi; a rivederla. — Ciò detto, disparve. L’ufficiale, alzandosi per salutarlo, urtò forte colla sciabola nel tavolino. In quel punto s’udì una voce dalla piazza che gridava: — L’ho sentito, l’ho sentito! È là dentro! — E nello stesso tempo apparve la pazza sul limitare della porta.

— Mandatela via! — gridò l’ufficiale levandosi vivamente in piedi, come se fosse stato spinto in su da una molla; la ragazza fu fatta andar via.

— Andrò ad aspettarlo a casa! — la si sentiva dire allontanandosi; — andrò ad aspettarlo a casa, il mio ufficialino! — [p. 182 modifica]

Tra i pochi avventori là presenti vi fu un tale che, notando quel suo atto così impetuoso e quella sua faccia così mutata, disse nell’orecchio al vicino: — Che abbia avuto paura il signor tenente? —

IV.

La madre di Carmela abitava una casuccia posta ad un’estremità del paese, assieme a due o tre famigliuole di contadini, e campava stentatamente a cucire di bianco. Sulle prime soleva ricevere di tratto in tratto qualche soccorso di danaro dalle famiglie più agiate del paese; da ultimo niente. I benefattori avevan veduto che i loro soccorsi tornavano affatto inutili perchè la fanciulla non voleva dormire nè mangiare in casa, nè c’era verso di ridurla a conservare intero un vestito nuovo almeno almeno per una settimana. Non è a dire se la madre ne patisse, e se con instancabile perseveranza non ritentasse ogni giorno di ottener qualcosa dalla figliuola; ma sempre invano. Talora, dopo molte preghiere, ella si lasciava mettere una veste nuova, e poi tutt’ad un tratto se la stracciava, la tagliuzzava e la riduceva in cenci. Altre volte, appena uscita dalle mani della madre pettinata e lisciata di tutto punto, si cacciava le mani nei capelli e in un momento se gli scioglieva e se li arruffava come una furia.

Gran parte del giorno soleva andar vagando pe’ monti più dirupati e solitari, gesticolando, parlando e ridendo forte da sè. Molte volte i carabinieri, passando per que’ luoghi, la vedevano da lontano tutta intenta a fabbricar torricelle di sassi, o seduta immobile sulla sommità d’un balzo colla faccia volta verso il mare, o distesa per terra e addormentata. S’essa li scorgeva, [p. 183 modifica]li accompagnava collo sguardo fin che fossero spariti, senza rispondere nè colla voce nè cogli atti nè col sorriso a qualsiasi cenno le facessero. Tutt’al più, qualche volta, quand’eran già dimolto allontanati, essa faceva con tutt’e due le mani l’atto di sparare il fucile contro di loro; ma sempre col viso serio. Così coi soldati, con cui nessuno l’aveva vista mai nè trattenersi, nè parlare, nè ridere. Passava dinanzi a loro o in mezzo a loro senza rispondere parola ai motti che le lanciavano, senza volger la testa all’intorno, senza guardare in faccia nessuno. Nè v’era chi s’attentasse a toccarle pure un dito o tirarla per la veste o che so io, perchè si diceva che menasse certi ceffoni da lasciar l’impronta delle dita sul viso.

Dovunque si fosse, appena udiva un suon di tamburo, accorreva. I soldati uscivan dal paese per andare a far gli esercizi sulla riva del mare, ed essa li seguiva. Mentre i sergenti comandavano e l’ufficiale, a una qualche distanza, sorvegliava, essa ritiravasi in disparte e contraffaceva colla più gran serietà gli atteggiamenti dei soldati e imitava con un bastoncino i movimenti dei fucili, ripetendo a bassa voce i comandi. Poi, all’improvviso, buttava via il bastone e andava a ronzare intorno all’ufficiale, guardandolo e sorridendogli amorosamente e chiamandolo coi nomi più dolci e più soavi, a bassa voce però, e coprendosi la bocca con una mano, perchè non sentissero i soldati.

Quand’era in paese stava quasi sempre sulla piazza dinanzi alla casa dell’ufficiale in mezzo a un circolo di ragazzi che divertiva con ogni sorta di buffonate. Ora si foggiava un cappello cilindrico di carta con una gran tesa, se lo metteva in testa di sbieco, e appoggiandosi sopra un grosso bastone e brontolando con voce nasale scimiottava l’andatura del sindaco. Ora con certi [p. 184 modifica]frastagli di carta nei capelli, cogli occhi bassi, colla bocca stretta, movendo una mano come per agitarsi il ventaglio sul petto e dondolando mollemente la persona, facea la caricatura delle poche signore del paese quando vanno alla chiesa i giorni di festa. Tal’altra volta, raccolto dinanzi alla porta della caserma un berretto logoro buttato via da qualche soldato, se lo metteva e se lo tirava giù fino agli orecchi, vi nascondeva dentro tutti i capelli, e poi colle braccia tese e strette alla persona facea due o tre volte il giro della piazza, a passo lento e cadenzato, imitando colla voce il suono del tamburo, seria, rigida, tutta d’un pezzo, come un coscritto de’ più duri. Ma checchè ella facesse o dicesse, la gente oramai non le badava più. I ragazzi, e specialmente i monelli, erano i suoi soli spettatori. Però le madri badavano a tenerneli lontani perchè un giorno, contro ogni sua consuetudine e chi sa per qual ghiribizzo, essa ne aveva agguantato uno, un fanciulletto sugli otto anni, il più bello dei suoi spettatori, e gli avea dati tanti e così furiosi baci nel volto e nel collo ch’ei s’era spaventato e messo a piangere e a gridare dalla paura che volesse farlo morir soffocato.

Qualche rara volta entrava in chiesa e s’inginocchiava e giungeva le mani come tutti gli altri e borbottava non so che parole; ma dopo pochi momenti si metteva a ridere e pigliava delle attitudini e faceva dei gesti strani e irriverenti, così che il sacrestano finiva col venirla a pigliare pel braccio e condurla fuori.

Aveva una bella voce, e quand’era in sè cantava benino; ma dacchè gli aveva dato volta il cervello non facea più che un canterellare inarticolato e monotono, pel solito quando stava seduta sulla soglia di casa sua o a piè della scala della casa del tenente, mangiuc[p. 185 modifica]chiando fichi d’India, ch’erano, si può dire, l’unico suo alimento.

Aveva anch’essa le sue ore di malinconia in cui non parlava e non rideva con nessuno, nemmeno co’ fanciulli; e soleva stare accovacciata come un cane dinanzi alla porta di casa colla testa ravvolta nel grembiale o il viso coperto col fazzoletto, non si scotendo, non si movendo dalla sua positura per qualunque rumore le si facesse intorno e per quante volte la si chiamasse a nome, anche da sua madre. Ma ciò accadeva assai di rado; era quasi sempre allegra.

Ai soldati, come dissi, non dava retta e non li guardava nemmeno; ma riserbava tutte le sue tenerezze per gli ufficiali. Non le largiva però a tutti nella stessa misura. Dopo ch’essa era tornata dall’ospedale, il distaccamento s’era mutato da sei a otto volte, e di ufficiali ce n’eran venuti d’ogni età, d’ogni aspetto e d’ogni umore. Si notò ch’ella mostrava un’assai più viva simpatia pei più giovani, anche a differenza di pochi anni; e che sapeva benissimo distinguere chi era più bello da chi lo era meno, comunque tutti fossero egualmente il suo «amore» e il suo «tesoro». A un certo luogotenente venuto de’ primi, un uomo sulla quarantina, tutto naso e tutto pancia, con una vociacela stentorea e due occhi da basilisco, essa non avea mai fatto buon viso. Gli avea detto qualche dolce parola la prima volta che s’erano incontrati; ma quegli, infastidito, le avea risposto malamente, accompagnando le parole con un atto minaccioso della mano, in modo da farle intendere ch’era miglior consiglio desistere una volta per sempre. Ed essa avea desistito, non cessando però di tenergli dietro ogni volta che l’incontrasse per via e di passare molte ore della sera seduta appiè della scala di casa sua. Entrasse od uscisse, non gli diceva una pa[p. 186 modifica]rola; ma non si movea di là. E si portò nello stesso modo con due o tre altri ufficiali che vennero dopo a quel primo, d’indole, di aspetto e di modi non molto diversi da lui. Ma ne vennero anche dei giovanissimi e di bella persona e gentili, e di questi si sarebbe potuto dire che n’andava pazza, se pazza già non fosse stata. Qualcuno di loro si era fitto in capo di volerla guarire fingendo di esserne invaghito e di amarla davvero; ma avendo presa la cosa alla leggera, se n’era annoiato dopo due o tre giorni di prova, e aveva smesso. Qualcun altro, meno filantropo e più materiale, s’era domandato: — O che è sempre necessario che una bella ragazza abbia la testa a segno? — e risposto di no, avea cercato di persuadere a Carmela che per fare all’amore il cervello è un soprappiù; ma, stranissimo a dirsi, aveva incontrato una resistenza inaspettatamente ostinata. Non diceva proprio un no tondo e risoluto, perchè forse non intendeva chiaramente che cosa si volesse da lei; ma, quasi per istinto, ad ogni atteggiamento e ad ogni atto, chi mi suggerisce un aggiunto?... ad ogni atto che potesse parer decisivo, svincolava, l’una dopo l’altra, le mani, ritraeva le braccia e se le incrocicchiava sul seno e si stringeva in tutta la persona, ridendo d’un certo strano riso, come i bambini quando credono che si voglia far loro una burla, ma non san bene qual sia, e, ridendo, voglion mostrare d’averla capita, appunto per farsela dire. Ma in que’ momenti, animandosele il viso e lampeggiandole lo sguardo, ella non parea pazza, ed era bellissima, e quel ritegno, quella ritrosìa imprimendo ai movimenti e alle attitudini della sua persona una certa compostezza e un certo garbo, dava uno straordinario risalto alla stupenda leggiadria delle sue forme. Insomma que’ pochi che la tentarono si persuasero ch’era un’impresa disperata. Mi fu detto che uno di questi, narrando [p. 187 modifica]un giorno i suoi vani tentativi al dottore, esclamasse: — Donne colla virtù nel cervello, nella coscienza, nel cuore, in che diamine ella vuole, ne ho viste di molte; ma donne, come questa, che l’abbiano nel sangue, nel sangue! le confesso che non ne ho viste mai. — Alcuni dicevano che in ogni ufficiale che le piacesse ella credeva di vedere il suo, quello che l’aveva amata e abbandonata. Forse non era vero, perchè, qualche volta avrebbe detto qualcosa d’allusivo a ciò ch’era seguìto, e invece non diceva mai nulla. Frequentemente le veniva chiesto o dello qualcosa su questo proposito; ma non dava mai segno d’intendere o di ricordarsi di qualchecosa; ascoltava attenta attenta e poi rideva. Quando un distaccamento partiva lo andava ad accompagnare fino al porto, e quando il legno s’allontanava lo salutava agitando in alto il fazzoletto; ma non piangeva, nè faceva alcun’altra mostra di dolore. Andava subito a far le sue proteste d’amore al nuovo ufficiale. L’ultimo venuto pareva che le fosse piaciuto un po’ più di tutti gli altri.

V.

Il dottore tornò poco dopo e raccontò all’ufficiale tutto ciò che abbiam finito or ora di dire. Questi, pigliando comiato, esclamò una seconda volta: — Peccato; è tanto carina! — Sicuro, e che fiera e nobile tempra di carattere doveva avere! soggiunse il dottore. L’ufficiale uscì. Era notte avanzata, e nella piazza non si vedeva anima viva. La sua casa era dal lato opposto a quello del caffè. Vi si diresse lentamente e quasi a malincuore. — Sarà là, — pensava sospirando, e aguzzava gli occhi, allungando il collo e piegando il capo a destra e a sinistra, per vedere se ci fosse nessuno dinnanzi alla [p. 188 modifica]porta; ma inutilmente, ch’era buio perfetto. Avanti, avanti, sempre più a rilento, soffermandosi, serpeggiando, guatando... — Se sapessi che là c’è un malandrino che m’aspetta col coltello in mano, mi pare che andrei innanzi più franco e più spedito, — disse tra sè, e fece risolutamente dieci o dodici passi. — Ah! eccola là. — L’aveva scorta; era seduta sopra uno scalino al di fuori della porta; ma buio com’era, egli non potea vederla nel viso. — Che cosa fate qui? — le domandò avvicinandosele. Essa non rispose subito, s’alzò, se gli mise proprio petto a petto, e, posandogli tutt’e due le mani sulle spalle, con una vocina soave e un certo accento che parea parlasse del miglior senno del mondo, gli disse: — T’aspettavo.... dormivo. — E perchè m’aspettavi? — domandò ancora l’ufficiale levandosi di sulle spalle quelle due mani che scesero subito a stringergli le braccia. — Perchè voglio stare con te, — essa rispose. — Che accento! egli pensò; in verità che si direbbe che parla da senno. — E cavato subito di tasca un fiammifero, l’accese e l’avvicinò al viso di Carmela per vederla bene negli occhi. La stanchezza, — poichè ella era stata in giro tutta la giornata, — e più quel breve sonno da cui allora si destava, avendo tolto alla sua fisonomia un po’ di quella vivezza smodata e convulsa che le era abituale, e diffusovi invece una tinta come di languore e di malinconia, in quel punto il suo viso era veramente incantevole, e parea tutt’altro che di pazza.

— Oh caro, caro! — proruppe Carmela appena vide la faccia rischiarata del tenente, e allungando il braccio tentò di stringergli il mento tra l’indice e il pollice. Egli l’afferrò per un braccio; essa alla sua volti afferrò coll’altro il braccio che l’avea afferrata, gli inchiodò la bocca sulla mano, glie la baciò e glie la morse. L’ufficiale si svincolò, si slanciò in casa e chiuse la porta. [p. 189 modifica]

— Tesoro! — gridò ancora una volta Carmela, e poi, senza dir altro, si rimise a sedere sullo scalino colle braccia incrociate sulle ginocchia e la testa inclinata da un lato. Indi a poco prese sonno.

Appena entrato in casa e acceso il lume, l’ufficiale si guardò il rovescio della mano destra e ci vide la leggera impronta di otto dentini, intorno a cui luccicava tuttavia il madore di quella bocca convulsa. — Che razza d’amore è codesto! — disse forte a se stesso, e, acceso un sigaro, si mise a passeggiare per la stanza ruminando l’orario per il suo piccolo distaccamento. — Ci penserò domani — disse poi tutt’ad un tratto, e pensò ad altro. Sedette, apri un libro, lesse qualche pagina, riprese a passeggiare; poi daccapo a leggere; finalmente si decise di andare a letto. S’era già quasi finito di spogliare quando fu colto da un’idea; stette pensando un istante, corse alla finestra, allungò la mano per aprirla....; la ritrasse, scrollò una spalla e andò a dormire.

L’indomani mattina per tempo la sua ordinanza, entrando in punta di piedi nella camera, si meravigliò di vederlo già sveglio, che non era suo costume di svegliarsi da sè. E gli disse sorridendo: — Qui sotto, alla porta, c’è quella pazza.... — E che fa? — Nulla; dice che aspetta il signor tenente. —

L’ufficiale si sforzò di ridere, e guardando poi il soldato mentre gli spazzolava i panni, diceva tra sè: — Questa mattina lavora a vapore costui. — Quando fu vestito, gli disse: — Guarda se c’è ancora. — Il soldato aprì la finestra, guardò giù e disse di sì. — Cosa fa? — Si balocca coi sassi. — Guarda in su? — No. — È proprio dinanzi alla porta o da un lato? — Da un lato. — Le potrò sfuggire. — E discese. Mail suono della sciabola lo tradì. — Buon giorno! buon giorno! — gridò, andandogli incontro su per la scala, la fanciulla; e quando [p. 190 modifica]gli fu accosto, gli si inginocchiò dinanzi, tirò fuori un fazzoletto e afferrandogli coll’altra mano una gamba sopra la noce del piede, si mise a spolverargli in gran fretta lo stivale mormorando: — Aspetta, aspetta, ancora un momento, un po’ di pazienza, caro; ancora un momento, ecco, così, adesso va bene....

— Carmela! — gridò severamente l’ufficiale tentando invano di sprigionare la gamba dalla sua piccola mano; — Carmela! —

Come fu libero s’allontanò di corsa. — Ma che non ci sia proprio nessun mezzo di rimetterle la testa a segno? — domandava poco dopo al dottore. — Mah! — questi rispondeva; — forse! Col tempo, colla pazienza....

VI.

Dopo un mese il dottore e il tenente erano amicissimi. La conformità della loro natura e della loro età, e più quel trovarsi assieme dalla mattina alla sera in un paese dove si può dire che non ci fossero altri giovani della loro condizione, fece sì che in poco tempo si conoscessero l’un l’altro intimamente e si volessero bene come amici antichi. Ma durante quel mese l’un d’essi, l’ufficiale, aveva mutato abitudini in un modo singolare. I primi giorni s’era fatto mandar da Napoli certi libroni, e la sera, per un par di settimane, non avea fatto che leggere e pigliar degli appunti e intavolar delle discussioni lunghe ed astruse col dottore, terminando quasi sempre col dire: — Basta; io credo che in questo caso i medici ci abbian poco o punto che fare. — Vedremo a che cosa riescirai, — rispondeva il dottore, e si dividevano con queste parole, per ripigliare daccapo la discussione l’indomani. [p. 191 modifica]

Un giorno, dopo aver fatte certe domande al sindaco, l’ufficiale aveva mandato a chiamare l’unico sarto del paese, poi s’era recato alla bottega dell’unico cappellaio e poi a quella dell’unico merciaio, e quattro giorni dopo era uscito a passeggiare sulla riva del mare tutto vestito di tela di Russia, con un ampio cappello di paglia e una cravatta di colore azzurro. La stessa sera, incontrandolo, il dottore gli avea chiesto: — Ebbene? — Nulla. — Nemmeno un segno...? — Nulla, nulla. — Non importa; perseveranza. — Oh! non ne dubitare.

Il ricevitore del paese aveva fatto per molt’anni il cantante e sapeva sonare vari strumenti. Un giorno l’ufficiale era andato a lui e senz’altri preamboli: — Mi faccia il piacere, — gli aveva detto; — m’insegni a sonar la chitarra. — E il ricevitore, cominciando da quel giorno, dava lezione di chitarra, mattina e sera, al tenente, e questi imparava a meraviglia, e in poco tempo s’era messo al caso di fargli l’accompagnamento quando cantava. — Lei deve avere una bella voce, — gli disse un giorno il maestro. E di fatto aveva una voce gentile. Incominciò anch’esso a imparare a cantare, e in capo a un mese cantava sulla chitarra le canzoncine siciliane con un garbo e una soavità ch’era un varo diletto a sentirlo. — Abbiamo avuto un altro ufficiale che sonava veramente bene anche lui! — gli diceva a volte il ricevitore. — C’è un’arietta — soggiunse un giorno — ch’egli cantava sempre..... un’arietta.... aspetti; ah come la cantava divinamente! Cominciava.... Se l’era fatta lui, sa; cominciava:

Carmela, ai tuoi ginocchi
     Placidamente assiso,
     Guardandoti negli occhi
     Baciandoti nel viso
     Trascorrerò i miei dì.


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L’ultimo dì, nel seno
     Il volto scolorito
     Ti celerò, sereno
     Come un fanciul sopito,
     E morirò così.


— Me la dica ancora una volta. — Il ricevitore la ripeteva. — Me la canti. — E la cantava.

Un altro giorno, dopo aver parlato a lungo col tabaccaio che avea la bottega accanto a casa sua, andò dal maresciallo dei carabinieri e gli disse: — Maresciallo, mi hanno detto che lei è un eccellente schermitore. — Io? Oh Dio buono, son due anni che non ho più preso la sciabola in mano. — Vuol che si scambi un par di colpi di tanto in tanto? — E come volentieri. — Allora fissiamo il quando. — E fissarono il quando. E da quel giorno in poi, ogni mattina, tutti coloro che attraversavano la piazza sentivano un gran cozzare di sciabole e un gran pestar di piedi e sbuffi e vociaccie nella casa del tenente. Era lui e il maresciallo che giocavan di scherma. — Quest’esperimento potevi risparmiartelo, — disse un giorno il dottore all’ufficiale; — ha dato segno di nulla? — Di nulla; ma era bene provare. M’han detto ch’egli tirava ogni mattina col maresciallo, appunto a quell’ora, e ch’essa, non piacendole di stare a vedere, scendeva in piazza.... — Oh sì, ci vuol’altro, mio caro, ci vuol’altro!

VII.

Era trascorso un mese e mezzo dal giorno dell’arrivo del nuovo distaccamento. Una notte l’ufficiale stava a tavolino in casa sua, di fronte al dottore, e colla punta della penna stuzzicando la fiammella della candela che [p. 193 modifica]gli ardeva dinanzi, diceva: — Come vuoi che la vada a finire? Diventerò pazzo anch’io; ecco come finirà. Mi vergogno di me stesso, vedi; ci son dei momenti in cui mi pare che tutti m’abbiano a ridere alle spalle.

— Ridere di che? — domandava il dottore.

— Di che? — ripetè l’altro per pigliar tempo alla risposta. — Ridere di questo mio.... zelo, di questa mia pietà per quella povera disgraziata, di questi miei esperimenti, di questi tentativi.... inutili.

— Zelo! pietà! Queste non son cose che possano dare argomento a ridere. — E gli fissò gli occhi nel viso, e poi: — Dimmi la verità; tu sei innamorato di Carmela.

— Io? — esclamò vivamente l’ufficiale, e rimase immobile nell’atto di interrogare, facendosi rosso fino alla radice dei capelli.

— Tu, — rispose il dottore. — Dimmi la verità; sii sincero con me; non sono qui il tuo unico amico?

— Amico sì; ma appunto perchè voglio esser sincero non ti debbo dire ciò che non è, — rispose l’altro. Tacque un momento, e poi tirò innanzi a parlare in fretta, ora diventando pallido, ora color di fuoco, balbettando, imbrogliandosi e contraddicendosi, come un fanciullo colto in fallo e obbligato a raccontare la sua monelleria.

— Innamorato, io? E di Carmela? D’una pazza? Ma ti pare, amico mio? Ma come ti è venuta in mente una stranezza di questo genere? Il giorno che ciò fosse... ti do fin d’ora il diritto di riferire al mio colonnello che m’han dato volta le girelle e che bisogna chiudermi co’ matti. Innamorato!... mi fai ridere. Ne sento pietà di quella povera creatura, questo sì; una vivissima e fortissima pietà; non so quel che darei per vederla guarita; farei volentieri per la sua salute qualunque sacrifizio; godrei della sua guarigione come se fosse una [p. 194 modifica]persona della mia famiglia.... Tutto ciò è vero; ma da tutto ciò all’esserne innamorato ci corre! Le voglio bene, è vero anche questo, e le voglio molto bene, come credo che glie ne voglia anche tu, perchè la pietà va sempre insieme all’affetto.... E poi le voglio bene perchè si dice che sia stata sempre una ragazza onesta, affettuosa; che quel suo primo e solo amante l’abbia amato davvero, amato degnamente, coll’idea di diventare sua moglie, e senza volergli affidare il proprio onore prima di portare il suo nome... Questa è virtù, caro mio, e virtù di quella propriamente detta, e io l’ammiro, capisci, e quella poveretta mi fa tanto più compassione quanto più essa meritava d’incontrare una sorte felice invece di una disgrazia com’è quella che le è toccata. E come si potrebbe non averne compassione e non amarla? Il carattere della sua stessa pazzia non è forse l’espressione d’un’anima buona, amorosa, gentile? Dalla sua bocca io non ho mai sentito che parole dolci e modeste, e quel mettermi le mani addosso ch’ella fa, quelle sue carezze, quel suo baciarmi le mani, sono certamente atti da pazza, ma non han nulla che passi il limite della decenza. L’hai mai veduta a fare un atto disonesto? No di sicuro; ed è per questo, ti ripeto, che le ho posto affetto. Povera ragazza, abbandonata da tutti... ridotta a menar la vita d’un cane... Dimmi un po’ se non le vuoi bene anche tu! Io te lo dico schietto, io le voglio un bene dell’anima. E quella sua stessa bellezza... perchè è bella poi.... bella come un angelo, questo non si può negare; guardale gli occhi, la bocca, tutta la persona.... le mani; glie l’hai mai guardate le mani? E i capelli? Così arruffati come li porta sembra una selvaggia; ma son capelli bellissimi... E poi vestita in un altro modo... Ebbene, quella sua stessa bellezza mi fa sentir più forte la pietà. Guardandola, non posso [p. 195 modifica]a meno di dir tra me: Peccato! Peccato che quest’occhio di sole non si possa amare! Ma non sai che quella ragazza lì, se avesse la ragione come tutte l’altre, sarebbe un visetto da far girare la testa a chi sa chi? E anche adesso ci son dei momenti che, se non si sapesse che è pazza, si starebbe per fare uno sproposito; per esempio, quando ti guarda fiso negli occhi e poi sorride e ti dice: — caro, — e la sera, al buio, quando non la vedi nel viso, e la senti soltanto parlare e dirti soavemente che t’aspettava, che vuol stare con te fino al mattino, che sei il suo angelo... che so io? in quei momenti non ti par pazza. Io la guardo, l’ascolto come se fosse in sè e sentisse veramente quel che mi dice, e ti assicuro che, mentre l’illusione mi dura, il cuore mi batte;.... ma, ti dico, mi batte come se fossi innamorato. E provo a chiamarla per nome, non so perchè... con una certa idea... colla fissazione ch’essa mi debba rispondere qualcosa che me la riveli guarita tutto ad un tratto... — Carmela! — le dico. Ed essa: — Che vuoi? — Tu non sei pazza, non è vero? — le domando. — Io pazza? — essa mi risponde, e mi guarda con una cert’aria di sorpresa che mi farebbe giurare che non l’è — Carmela! — allora le grido esaltato improvvisamente da una dolce speranza. — Dimmelo un’altra volta che non sei pazza!... — Mi guarda attonita un po’ di tempo e poi scoppia in una gran risata. Oh! amico, credilo, allora, lì su quel subito, darei la testa nel muro. Tu sai quant’ho fatto per veder di restituirle la ragione; ma non sai tutto. Quasi ogni sera io me la son fatta venire in casa, le ho parlato per ore intere, le ho sonato e cantato le canzoni che il suo amante le cantava, ho provato a dirle che ero innamorato di lei, a colmarla di carezze, a finger di piangere e di disperarmi, a lasciarla fare di me quel che voleva, baciarmi, abbrac[p. 196 modifica]ciarmi, carezzarmi come fan le madri a’ bambini... Ho provato a fare lo stesso io a lei, e con che cuore io lo facessi, te lo lascio immaginare, chè non ti saprei dire se provassi ribrezzo, o paura, o vergogna, o rimorso, o tutto questo insieme; fatto sta che, baciandola, tremavo e impallidivo come se baciassi un cadavere. E alle volte mi pareva di fare un sacrificio generoso e n’esultavo profondamente, e miste ai baci le lasciavo cadere sulle guancie le lacrime; e in cert’altri momenti mi pareva di commettere un delitto e sentivo orrore di me stesso.... Ho sofferto il soffribile, caro amico, e tutto invano. E quanto cresceva la disperazione tanto mi ardeva più viva e più ostinata nel cuore questa maledetta febbre.... E non posso dormire la notte perchè so ch’essa è già accovacciata dinanzi alla mia porta, e, martellato come sono continuamente da quest’idea, mi par di dover sentire da un momento all’altro picchiar nei vetri e veder apparire al di sopra del davanzale quel viso stravolto, e piantarsi nei miei quei due occhi immobili e senza sguardo! Altre volte mi par di sentirla udire su per le scale e balzo a sedere sul letto, o mi par di udire giù nella piazza un suo scroscio di risa, e quelle risa mi fan l’effetto d’una mano di ghiaccio sul cuore, e non ho coraggio di affacciarmi alla finestra a guardare. E mi metto a leggere, a scrivere, ma sempre colla mente a lei, sempre tristo, irrequieto, quasi pauroso, non so nemmen io di che. E allorchè mi domando quando finirà quest’angosciosa vita, e come finirà, e che traccia ne resterà nel mio cuore, io non ardisco rispondermi, ho paura della mia risposta, e mi caccio le mani nei capelli.... come un disperato.... Oh amico! dimmi che non diventerò pazzo anch’io perchè io sento che il mio cuore si spezza e che io non reggo a questa vita...; non reggo, non reggo. — [p. 197 modifica]

E stese una mano per pigliar quella del dottore; questi gli si fece più accosto colla seggiola, e, commosso com’era da non trovar più parola, gli pose ambe le mani sulle spalle, lo guardò un istante e l’abbracciò.

Tutto ad un tratto l’ufficiale sciolse la testa dall’abbraccio dell’amico, alzò la faccia lagrimosa e lo fissò con uno sguardo in cui brillava il principio d’un sorriso. — Ebbene? — domandò l’altro con lieta ansietà.

— E se rinsanisse? — esclamò l’ufficiale col viso improvvisamente rasserenato; se ritornasse com’era una volta, se riacquistasse la ragione e il cuore come l’aveva prima, e quegli occhi perdessero per sempre quella strana luce e quella guardatura immobile che fa paura, e quella bocca non ridesse mai più di quel riso orribile, e un giorno ella mi dicesse da senno: — Ti ringrazio, ti benedico, caro, che m’hai ridata la vita; ti voglio bene, ti amo.... — e piangesse! Vederla piangere, sentirla ragionare, trovarla sempre linda, pettinata e composta come tutte l’altre fanciulle; e vederla tornare in chiesa a pregare, e arrossire come prima, e riprovare ad uno ad uno come per una seconda infanzia tutti gli affetti casti e soavi di cui ha smarrito il sentimento! La sera non trovarla più qui a piè della scala, doverla andare a cercare a casa, accanto a sua madre, occupata a lavorare, tranquilla, contenta.... Oh Dio mio, e se potessi dire che son io che l’ho mutata così, che l’ho fatta rivivere, che le ho ridato tutte le speranze e tutti gli affetti, che l’ho restituita alla famiglia, alla felicità.... Oh amico mio! — esclamava afferrandogli le mani e fissandolo cogli occhi pieni di pianto; — mi parrebbe di essere.... un dio, mi parrebbe d’aver creato qualcosa anch’io, di possedere due anime e di vivere due vite, la mia e la sua; mi parrebbe mia quella creatura, crederei che il cielo me l’avesse predestinata, e la [p. 198 modifica]condurrei dinanzi a mia madre come se fosse un angelo.... Oh io non potrei capire tanta felicità, io impazzirei dalla gioia; oh se fosse vero! se fosse vero! —

E abbandonò la fronte sulle mani, piangendo.

— Oh mio amore! — s’intese gridare in quel punto giù nella piazza. L’ufficiale balzò in piedi e disse risolutamente al dottore: — Lasciami. —

Quegli gli strinse la mano, gli disse — Coraggio! — e partì.

Il tenente rimase qualche minuto immobile in mezzo alla camera, poi andò alla finestra, l’aperse, si ritrasse d’un passo, e stette contemplando un istante lo stupendo spettacolo che gli s’offeriva allo sguardo. Una notte limpida, chiara, senza vento, ch’era un incanto. Lì subito sotto gli occhi la parte bassa del paese; i tetti, le vie deserte, il porto, la spiaggia, su cui batteva così bianco il lume della luna che vi si sarebbe veduto passare una persona distintamente come di giorno, e poi il mare quieto e liscio come un olio, e lontano lontano i monti della Sicilia rilevati e distinti come se fossero là presso, e un silenzio profondo. — Potessi anch’io godere di questa pace soave! — pensò l’ufficiale spaziando collo sguardo nella immensità di quel mare; e s’affacciò, palpitando, alla finestra, e guardò giù. Carmela era seduta dinanzi alla porta.

— Carmela!

— Carino.

— Cosa fai costì?

— Cosa fai.... aspetto; lo sai pure. Aspetto che tu mi faccia salir sopra. Non mi vuoi questa sera?

— Scendo ad aprirti. —

Carmela, dalla contentezza, si mise a batter le mani e a saltellare.

La porta s’aperse, e apparve l’ufficiale col lume [p. 199 modifica]in mano. Carmela entrò, gli tolse di mano il lume, gli passò dinanzi e cominciò a salir le scale in fretta in fretta mormorando: — Vieni, vieni, poverino... — e poi, volgendosi per porgergli la mano: — Da’ la mano alla tua piccina, mio bel giovanotto, — e lo trasse per mano fino in casa.

Quivi l’ufficiale se la fece sedere dinanzi e con una pazienza da santo incominciò a ripetere tutte le prove, tutti i tentativi de’ giorni andati, e ne immaginò dei nuovi, e li esperimentò più e più volte, sempre con più attenta sollecitudine e con ardore più vivo, simulando amore, odio, ira, dolore, disperazione; ma sempre invano. Essa lo guardava e l’ascoltava attentamente e poi che aveva finito gli domandava ridendo forte: — Che hai? — oppure gli diceva: — Poveretto, mi fai pena! — E gli prendeva e gli baciava le mani coll’apparenza della più intensa pietà.

— Carmela! — esclamò finalmente l’ufficiale per tentare ancora una prova.

— Che cosa vuoi? —

Egli le fe’ cenno che s’accostasse. Essa si avvicinò lenta lenta guardandolo amorosamente negli occhi e poi d’un sol tratto gli si abbandonò sul petto e gli avviticchiò il collo colle braccia e vi premette sopra la bocca dicendo con voce soffocata: — Caro! caro! caro!... Il povero giovane, che oramai non sapeva più dove avesse la testa, le passò un braccio attorno alla vita e così sorreggendola si chinò a poco a poco, ed ella con lui, fin che la stese, senza che quasi se ne avvedesse, sul canapè accanto al tavolino.... Carmela si levò subitamente in piedi, fece il viso serio, parve che pensasse a qualche cosa e poi mormorò con una leggera espressione di disgusto:

— Che cosa fai? — [p. 200 modifica] L’ufficiale intravvide un lampo di speranza e stette muto e ansioso a guardarla.

Carmela rimase pensosa, o lo parve, ancora un istante, e poi, sorridendo in un modo singolare come non aveva mai riso per l’addietro: — ....Siamo già sposi, noi due? —

L’ufficiale die’ un mezzo grido, e cogli occhi rivolti al cielo e la punta dell’indice fra le labbra, pallido, convulso, pensò un momento la risposta. In quel momento Carmela alzò gli occhi alla parete, vide un cappello cilindrico appeso a un chiodo, die’ in un gran scoppio di risa, lo prese, se lo pose in capo e sghignazzando e vociando si mise a saltare per la camera.

— Carmela! — gridò dolorosamente l’ufficiale.

E quella peggio.

— Carmela! — gridò un’altra volta e si slanciò verso di lei. Essa, spaventata, si cacciò giù per le scale, e dopo un momento fu in mezzo alla piazza sempre saltando, strillando e smascellandosi dalle risa.

L’ufficiale si fece alla finestra. — Carmela! — gridò ancora una volta con voce spenta, e poi si coprì la faccia colle mani e si lasciò cadere sopra una seggiola.

VIII.

L’indomani mattina, appena levato, andò a casa del dottore. Questi, come prima lo vide con quegli occhi rossi e quella faccia stravolta, capì che veniva a cercar conforti e consigli, e, fattoselo sedere davanti, cominciò a filargli un sermone in tutte le forme. Ma l’ufficiale non l’ascoltava e pareva preoccupato da un altro pensiero. Ad un tratto si rasserenò e battendosi la fronte colla palma della mano — Ah! — esclamò — .... ed [p. 201 modifica]io non ci avea pensato prima! — A che? — domandò il dottore. L’altro non rispose; prese un foglio di carta e la penna, e si mise a scrivere in furia. Finito, lesse:

«Signor tenente.

»Senza preamboli, come si costuma fra noi militari, io comando da un mese e mezzo il distaccamento di *** che voi comandaste tre anni sono nei mesi di luglio, agosto e settembre. Ho conosciuto in questo paese una fanciulla di diciotto in vent’anni, che si chiama Carmela, pazza da due anni, e impazzata, si dice, per amor vostro. Che cosa sia accaduto di lei dopo la vostra partenza dall’isola voi lo dovete sapere, e dovete conoscer del pari i caratteri speciali della sua pazzia perchè mi si disse che ve ne fu scritto da qualcuno di qui. La condizione infelicissima di questa fanciulla mi ha destato, fin dalle prime volte ch’io la vidi, un profondo sentimento di pietà, e tentai di tutto per ritornarla alla ragione. Mi vestii come voi, imparai a suonare e a cantare come voi, mi uniformai a tutte quelle vostre abitudini che ho potuto sapere dalle persone che v’hanno conosciuto, mostrai di amarla, le parlai di voi, mi finsi voi stesso, sempre invano. Voi non potete comprendere quanto mi sia riuscito doloroso il veder cadere l’una dopo l’altra tutte le mie speranze. Ma c’è ancora un mezzo da tentare, e sta in vostra mano; non me lo negate; esaudite la mia preghiera; farete un’opera santa. Sentite. Si dice che uno dei mezzi più efficaci di risanare i pazzi sia quello di rappresentar loro colle particolarità più minute e colla più scrupolosa esattezza qualche grave avvenimento che abbia preceduto la loro malattia, essendone o non essendone la causa diretta. Ho pensato che il ripetere esattamente alla Carmela la scena [p. 202 modifica]della vostra partenza potrebbe produr qualche effetto. Interrogai molte persone del paese e non riuscii a sapere altro fuor che voi partiste di notte, e prima di partire cenaste in casa vostra in compagnia del sindaco, del maresciallo dei carabinieri e di varie altre persone. I particolari di quella cena e della vostra partenza non si ricordano o si ricordano male. Li chieggo a voi col cuore di chi chiede un’opera di carità che costa poco o punto a cui l’ha da fare e può render la vita e la felicità a cui è da farsi. Scrivetemi tutto ciò che vi ricordate; ditemi delle persone, dei discorsi, degli atti, di tutto. E sopratutto procurate di dirmi l’ora e il minuto in cui seguirono presso a poco i più notevoli incidenti, e narratemi le cose con chiarezza e con ordine. Fatemi questo gran benefizio ch’io vi chieggo; fatemelo; ve ne supplico; ve ne sarò riconoscente per tutta la vita. Non aggiungo altro; confido nella generosità del vostro cuore; vi stringo la mano da buon camerata e vi dico addio.» Che te ne pare?

— Divinamente pensato, — rispose il dottore che aveva ascoltato colla più grande attenzione. — Sai il suo nome? il reggimento? il luogo? — Il sindaco sa tutto. — E credi che ti risponderà? — Lo credo. —

Rispose; — e rispose una lettera di otto pagine in cui erano scritti tutti i particolari richiesti intorno alle persone, alle cose, ai discorsi, alle ore, a tutto. Ma non un commento, non un’allusione al suo amore passato, non una parola che si riferisse ad altra cosa che a quella cena e alla sua partenza; non una sillaba fuor delle domande che gli erano state fatte; nemmeno un accento di pietà per Carmela. Ma da quella lettera nuda e cruda si capiva che, scrivendo, egli aveva dovuto sentire molto viva la stretta del rimorso. Se ciò non fosse stato, almeno una finta espressione di rammarico e di penti[p. 203 modifica]mento l’avrebbe trovata. Terminando, avesse almeno detto: — Spero.... ec.; ma niente. «A un’ora dopo mezzanotte il vapore partì. Vi saluto.» E poi la firma.

IX.

— Capisco! — esclamò il dottore appena il suo amico ebbe finito di leggergli la lettera — capisco adesso perchè nessuno dei tanti personaggi che furono a quella cena è stato in caso di raccontartene i particolari. Sfido io, alzando il gomito a quella maniera! —

Quel giorno stesso si misero tutti e due in faccende per preparare la gran prova. Furon tutt’e due dal sindaco, dal giudice, dal ricevitore, dal maresciallo, da tutti gli altri, che oramai erano nella più intima dimestichezza con tutti, e l’uno, il dottore, cogli argomenti della scienza, l’altro con quelli del cuore, a furia di ragionare, di spiegare e di dimostrare, riuscirono a far capire a tutti di che si trattasse, ad assicurarsi il loro aiuto, e ad inculcare a ciascuno la parte che dovea recitare. — Sia lodato il Cielo! — esclamò l’ufficiale uscendo dalla casa del ricevitore, che fu l’ultimo visitato; il più è fatto. — E mandarono per la madre di Carmela, cui per far intendere la faccenda ci volle assai meno fatica che col sindaco e cogli altri magnati; tutta buona gente, non v’è dubbio, gente da metterle il capo in grembo, ma d’intendimento un po’ corto, specialmente in materie di quella natura.

Carmela da qualche giorno non si sentiva bene e stava quasi sempre a casa. L’ufficiale e il dottore l’andarono a cercare. Era seduta in terra fuor della porta, colla schiena appoggiata al muro. Come li vide, s’alzò e, un po’ meno in fretta del solito, si diresse verso il [p. 204 modifica]tenente e tentò, come sempre, d’abbracciarlo mormorando con voce fievole le solite parole.

— Carmela! — disse il tenente — ti abbiamo a dare una notizia.

— Una notizia, una notizia, una notizia, — ripetè soavemente Carmela facendo scorrere tre volte la palma della mano sulla guancia dell’ufficiale.

— Domani vado via.

— Domani vado via?

— Io, io vado via. Vado via di qui. Lascio questo paese. Parto con tutti i miei soldati. Salgo sul bastimento, e il bastimento mi porta lontano lontano. —

E alzò un braccio come per indicare una grande distanza.

— Lontano, lontano.... — mormorò Carmela guardando dalla parte cui aveva accennato l’ufficiale. Parve che pensasse un istante, e poi disse, così in aria, coll’accento affatto differente: — Il bastimento a vapore.... che fuma. —

E tentò un’altra volta di abbracciar l’ufficiale chiamandolo coi soliti nomi.

— Nulla! — questi pensò scrollando il capo.

— Bisogna dirglielo molte volte — susurrò il dottore. — Aspettiamo a più tardi. —

E s’allontanarono dopo aver fatto una voce severa a Carmela perchè non li seguitasse.

La cena era stabilita per la sera del dimani. Quella stessa sera Carmela, com’era suo costume, s’andò a sedere dinanzi alla porta dell’ufficiale. Questi, appena tornato, la fece salire in casa, dove l’ordinanza, giusta gli ordini ricevuti, avea messo tutto sossopra come se la partenza dovesse seguire davvero. Il tavolino, le seggiole, il canapè erano ingombri di biancheria, di vestiti, di libri e di carte buttati là alla rinfusa, e in mezzo [p. 205 modifica]alla camera due bauli aperti, in cui il soldato avea cominciato a riporre la roba.

Carmela, al primo vedere tutto quel disordine, fece un leggero atto di sorpresa e guardò in viso l’ufficiale sorridendo.

— Preparo la mia roba per partire. —

Carmela guardò un’altra volta intorno per la stanza aggrottando le sopracciglia; movimento che non soleva far mai. L’ufficiale la osservava attento.

— Me ne vado via, vado lontano di qui, parto col bastimento a vapore....

— Parti col bastimento a vapore?

— Già.... Parto domani sera.

— Domani sera, — ripetè macchinalmente Carmela, e vista la chitarra sur una seggiola, ne toccò le corde con un dito e le fece sonare.

— Non ti rincresce ch’io vada via? Non ti dispiace di non vedermi mai più? —

Carmela lo guardò fisso negli occhi, e poi abbassò la testa e lo sguardo proprio come se pensasse. L’ufficiale non aggiunse altro e si mise a parlar sotto voce col soldato, aiutandolo a piegare i vestiti.

La fanciulla sta va guardandoli senza far motto. Dopo un po’ di tempo, l’ufficiale le andò vicino e le disse:

— Adesso vattene, Carmela; ci sei stata abbastanza qui; vattene a casa, via. —

E pigliatala pel braccio la sospinse dolcemente verso la porta. Essa si voltò e stese le braccia per cingergli il collo....

— Non voglio. —

Carmela battè due o tre volte il piede sul pavimento,, gemette, stese nuovamente le braccia, gli cinse il collo, gli strisciò la bocca a traverso la guancia senza baciargliela, come se pensasse a qualcos’altro, e poi se n’andò [p. 206 modifica]tacita tacita, lentamente, senza ridere, senza volgersi indietro, con un viso che non esprimeva nulla, come il distratto che pensa nello stesso tempo a cento cose e a nessuna.

— Che è questo? — pensò l’ufficiale. — Che sia un buon segno?... Oh Dio lo volesse, speriamo! —

Il giorno dopo non uscì di casa e non volle neanco veder Carmela, comunque sapesse ch’ella stava seduta, come sempre, alla porta. Impiegò tutto il dopo pranzo a preparare la prova della sera. Il suo piccolo appartamento si componeva di due stanze e d’una cucina. Tra la camera da letto e la porta d’entrata v’era la stanza più grande, le cui finestre, come quelle dell’altra, guardavano sulla piazza. In questa stanza egli fece apparecchiare per la cena. L’oste suo vicino gli imprestò una gran tavola da mangiare, venne egli stesso a cucinargli in casa que’ pochi piatti che occorrevano, apparecchiò con quel maggior lusso che potè, e portò poi in tavola egli stesso, come avea fatto tre anni prima per quell’altro ufficiale. Verso le nove della sera venne pel primo il dottore. — È qui sotto, — disse, entrando, all’amico; — s’è lamentata con me di non averti ancora veduto. Le ho domandato se si sentiva bene, ed essa, dopo avermi fissato negli occhi, mi rispose: — bastimento a vapore — e non rise. Mah! Chi saprebbe dire che cosa passi per quella testa? Dio solo. Oh, vediamo un po’ questa splendida imbandigione. —

E dato tutti e due uno sguardo alla tavola, cominciarono a concertare fra loro il miglior modo di condurre la rappresentazione di quella commedia, o piuttosto di quel dramma, perchè gli era un dramma, e serio. Quando furon d’accordo: — Che tutti abbiano imparato bene la propria parte? — domandò il dottore; ufficiale rispose che sperava di sì. [p. 207 modifica]

Poco prima delle dieci sentirono giù alla porta uno scalpiccìo di molti piedi e un suono confuso di voci. — Son qui! — disse il dottore, e si affacciò alla finestra. — Son proprio loro. —

Il soldato scese ad aprire. Il dottore accese i quattro candelieri ch’erano ai quattro canti della tavola.

— Come mi batte il cuore! — disse l’ufficiale.

— Coraggio, coraggio! —

In quella si sentì Carmela esclamare: — Vado anch’io sul bastimento a vapore, — e poi batter le mani.

— Coraggio! — ripetè in fretta il dottore nell’orecchio all’amico; — hai sentito? Le si comincia a fissare nella mente quell’idea; buon segno; animo; ecco i convitati. —

La porta s’aperse ed entrarono sorridendo e inchinandosi il sindaco, il giudice, e tutti gli altri che s’eran riuniti al caffè. Mentre l’ufficiale salutava e ringraziava ora l’uno ora l’altro, il dottore disse una parola nell’orecchio all’ordinanza ch’era immobile in un canto, e questa scomparve. Dopo un minuto, senza che nessuno se n’accorgesse, ritornò con Carmela, e tutti e due, passando rasente il muro in punta di piedi, entrarono nell’altra stanza.

— Sediamo — disse l’ufficiale.

Tutti si assisero. Il rumore delle seggiole smosse e quell’oh! lungo e beato che mandan fuori gli epuloni impancandosi a mensa, non lasciaron sentire un lieve strepito che fece l’ordinanza per trattenere Carmela, la quale esclamando: — È un giorno che non lo vedo! — aveva aperto la porta e tentato di slanciarsi verso l’ufficiale. L’ordinanza la trattenne, pose una sedia vicino alla porta e ve la fece sedere; poi apri le imposte tanto da lasciarci in mezzo il vano d’un palmo, ed essa pose la faccia in quel vano e stette guardando. Nessuno dei [p. 208 modifica]commensali si volse da quella parte, nessuno guardò nè in quel momento nè poi, e Carmela non fece altra mossa.

Cominciò e crebbe a poco a poco un frastuono confuso di forchette, di coltelli, di bicchieri e di piatti percossi e di risa e di voci discordi che cercavano a vicenda di soverchiarsi. Tutti, tranne il dottore e l’ufficiale, mangiavano col miglior appetito del mondo, e trincavano allegramente. Cominciarono dal profondere altissime lodi alla disciplina, alla virtù, al valore e alla cortesia dei soldati, dei caporali e dei sergenti del distaccamento; poi magnificarono la squisitezza del vino e dei piatti; poi parlarono del tempo, che era bellissimo, una notte incantevole, e del viaggio che doveva riuscir delizioso; poi ragionarono di politica, poi di nuovo dei soldati, poi un’altra volta del viaggio, e via via, vociando sempre più alto, ridendo sempre più forte, votando i bicchieri sempre più in fretta, finchè tutte le faccio si fecer rubiconde e tutti gli occhi scintillarono e i moti delle labbra cominciarono a diventar difficili e le parole a succedersi senza aver molto a che fare l’una coll’altra. Senza quasi accorrersene, ciascuno avea preso la sua parte sul serio e la rappresentava a meraviglia. Ma quanto più gli altri scordavan lo scopo per cui eran venuti là e si infervoravano nell’allegria, tanto più l’ufficiale si sentiva crescere il batticuore e mostrava apertamente nel viso la tempesta dell’anima. Nessuno però se ne accorgeva, fuor che il dottore, il quale tratto tratto gli andava ripetendo a bassa voce che si facesse coraggio, e teneva d’occhio Carmela. Questa stava sempre immobile e intenta col viso stretto fra le imposte. L’ordinanza, colto il momento opportuno, se n’era andata.

A un certo punto entrarono nella stanza tre soldati, si recarono in spalla ciascuno un de’ tre bauli ch’erano [p. 209 modifica]in un canto, e se ne uscirono Carmela seguì coll’occhio tutti i loro movimenti fin che furono scomparsi, e ritornò a guardare alla tavola.

Il dottore mormorò una parola nell’orecchio al sindaco.

— Un brindisi! — questi esclamò subito, levandosi stentatamente in piedi col bicchiere in mano. — Un brindisi alla salute di questo valoroso signor luogotenente che comanda il bravo distaccamento del paese che parte e che resta per sempre e perpetuamente in questo nostro stesso paese una bella memoria imperitura immortale del bravo distaccamento che comanda questo valoroso....

Pensò un momento e poi risoluto:

— Viva il signor luogotenente che va via!

E tutti gli altri cozzando rumorosamente i bicchieri e spandendo il vino sulla tavola: — Viva! —

Il sindaco ricadde pesantemente sulla sua seggiola; c’era da sospettare che fosse brillo davvero.

Altri fece qualche altro brindisi dello stesso tenore, e poi si ricominciò daccapo a discorrere tutti in una volta di soldati, di politica, di vino e di viaggio.

— Signor ricevitore, una canzonetta! — gridò il dottore.

Tutti gli altri gli fecero eco. Il ricevitore fece una smorfia, si scusò, si fece pregare un pochino, poi sorrise, tossì, prese la chitarra e cantò due o tre versi. I commensali, ricominciando a schiamazzare, l’interruppero. — A me! — gridò allora l’ufficiale, e tutti tacquero. Prese la chitarra, l’accordò, si levò in piedi fingendo di barcollare, e cominciò.... Era pallido e gli tremavan le mani come per febbre; nulla meno cantò la sua canzoncina con una soavità e un affetto veramente incantevole. [p. 210 modifica]


     Carmela, ai tuoi ginocchi
Placidamente assiso,
Guardandoti negli occhi
Baciandoti nel viso
Trascorrerò i miei dì....

Carmela ascoltava sempre più intenta, corrugando tratto tratto le sopracciglia come chi è assorto in un pensiero profondo.

— Bravo! Bene! Proprio benone! — dissero ad una voce tutti i commensali. E l’ufficiale ripigliò:


     L’ultimo dì, sul seno
Il volto scolorito
Ti celerò, sereno
Come un fanciul sopito,
E morirò così.

Eran quelle parole, era quella musica, tutto intorno era come quella notte. — Bravo! bene! — ripeterono i commensali. L’ufficiale ricadde come spossato sulla seggiola; tutti ricominciarono a gridare; Carmela era immobile come una statua e teneva l’occhio dilatato e fisso in viso all’ufficiale; il dottore la guardava colla coda dell’occhio.

— Silenzio! — gridò il tenente. Tutti tacquero e, la finestra essendo aperta, s’intese giù nella piazza un’allegra musica di flauti e di violini e un ronzìo come di gente affollata. Erano i dieci o dodici musicanti del paese, circondati da gran parte della popolazione, la quale credeva che il distaccamento partisse davvero.

Carmela si scosse e si voltò verso la finestra. Il suo viso cominciò ad animarsi lievemente, e i suoi grand’occhi a muoversi senza posa dalla finestra al tenente, da questi ai commensali, dai commensali alla finestra, come s’ella volesse intender bene la musica e nello stesso [p. 211 modifica]tempo non perdere il menomo moto che si facesse da tutta quella gente.

Cessata la musica, gran parte della gente affollata nella piazza si mise a batter le mani come avea fatto nella stessa occasione tre anni prima.

In quel punto sopraggiunse a passi concitati l’ordinanza:

— Signor tenente, il bastimento aspetta. —

Il tenente si levò in piedi dicendo forte:

— Bisogna partire. —

Carmela si levò in piedi adagio adagio tenendo l’occhio fisso sopra di lui e scostando lentamente la seggiola.

Tutti i commensali si levarono in piedi e si strinsero intorno al tenente. Nello stesso istante comparve la madre di Carmela, entrò non vista nell’altra stanza, abbracciò la figliuola e le disse affettuosamente: — Fatti coraggio; fra due mesi tornerà. —

Carmela piantò gli occhi in viso alla madre, svincolò lentamente l’uno e l’altro braccio dal suo amplesso, e senza far parola, girando la testa adagio adagio, rifissò gli occhi sull’ufficiale.

Tutti gli invitati strinsero la mano all’ufficiale levando un mormorìo confuso di ringraziamenti, di augurii e di saluti; egli cinse la sciabola, si mise il cheppì, si pose a tracolla la borsa da viaggio....

Mentre faceva tutto questo, Carmela, senza addarsene, aveva aperta la porta, avea fatto un passo avanti, e cogli occhi spiritati guardava rapidissimamente ora l’ufficiale, ora gl’invitati, ora l’ordinanza, ora la madre che gli era accanto, e con tutt’e due le mani si stropicciava forte la fronte e s’arruffava i capelli e sospirava affannosamente e tremava convulsa in tutta la persona.

Echeggiò un’altra volta la musica nella piazza, s’udì un altro scoppio d’applausi.... [p. 212 modifica]

— Andiamo! — disse risolutamente l’ufficiale, e s’avviò per uscire....

Un grido altissimo, disperato, straziante proruppe dal seno di Carmela. Nello stesso punto ella si slanciò d’un salto sul tenente, se gli avviticchiò con sovrumana forza alla vita, e prese a baciarlo furiosamente nel viso, nel collo e pel petto, dove le veniva, singhiozzando, gridando, gemendo, palpandogli le spalle, le braccia, la testa, come farebbe una madre al figliuolo recatole in salvo fuor dell’onde, da cui poco prima travolto, ella l’avesse visto tendere le braccia e domandare soccorso. Dopo pochi momenti la povera fanciulla cadde senza sensi sul pavimento colla testa ai piedi dell’ufficiale.

Era salva.

L’ufficiale si gettò nelle braccia del dottore che già stavano aperte ad aspettarlo. La madre si chinò a baciare e bagnar di lagrime la figliuola. Tutti gli astanti alzarono il volto e le braccia in atto di ringraziare il Cielo. La musica continuava a sonare.


Quattro mesi dopo, in una bellissima notte di settembre, chiara che pareva di giorno, il bastimento che era partito la sera da Tunisi e s’era fermato, come sempre, dinanzi al porto del nostro piccolo paese, s’andava avvicinando rapidamente alla costa siciliana. Le acque erano così tranquille, che il bastimento pareva non si movesse. I passeggieri eran tutti saliti a poppa e stavano contemplando in silenzio il cielo purissimo e il mare illuminato dalla luna.

Appartati dagli altri e volti dalla parte opposta alla direzione del legno, v’erano un giovanotto e una signorina appoggiati al parapetto, stretti pel braccio, e colle teste ravvicinate in modo che quasi si toccavano. Lontano lontano si vedeva ancora confusamente l’isola [p. 213 modifica]da cui erano partiti, ed essi guardavano quell’isola. Stettero lungo tempo senza moversi da quell’atteggiamento, finchè la donna, sollevando il viso, mormorò:

— Eppure mi sento stringere il cuore allontanandomi dal mio povero paese, dove ho sofferto tanto, dove ho veduto te per la prima volta, dove tu m’hai ridato la vita!...

E appoggiò la fronte sulla spalla del suo compagno.

— Ci ritorneremo un giorno! — le disse questi facendole volgere leggermente la testa per poterla guardare negli occhi.

— E ritorneremo nella tua casa? — ella domandò dolcemente.

— Sì.

— E la sera ci metteremo a discorrere a quella finestra da cui tu mi chiamavi una volta?

— Sì.

— E sonerai di nuovo la tua chitarra, e canterai di nuovo quella canzone?

— Sì, sì.

— Cantala adesso! — esclamò con trasporto Carmela; — cantala piano.

E l’ufficiale avvicinandosele colla bocca all’orecchio:


Carmela, ai tuoi ginocchi
Placidamente....

Carmela gettò le braccia al collo del suo sposo e ruppe in pianto.

— Povera e santa creatura.... — gli disse questi stringendosela contro il petto; — qui, qui, sul mio cuore, sempre qui! —

La poveretta si scosse tutt’ad un tratto, guardò in[p. 214 modifica]torno, guardò il mare, guardò l’isola, guardò il suo sposo, ed esclamò:

— Oh! è un sogno! —

E il giovane interrompendola:

— No, angelo, è lo svegliarsi! —

Il bastimento andava che parea portato dal vento.