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in mano. Carmela entrò, gli tolse di mano il lume, gli passò dinanzi e cominciò a salir le scale in fretta in fretta mormorando: — Vieni, vieni, poverino... — e poi, volgendosi per porgergli la mano: — Da’ la mano alla tua piccina, mio bel giovanotto, — e lo trasse per mano fino in casa.

Quivi l’ufficiale se la fece sedere dinanzi e con una pazienza da santo incominciò a ripetere tutte le prove, tutti i tentativi de’ giorni andati, e ne immaginò dei nuovi, e li esperimentò più e più volte, sempre con più attenta sollecitudine e con ardore più vivo, simulando amore, odio, ira, dolore, disperazione; ma sempre invano. Essa lo guardava e l’ascoltava attentamente e poi che aveva finito gli domandava ridendo forte: — Che hai? — oppure gli diceva: — Poveretto, mi fai pena! — E gli prendeva e gli baciava le mani coll’apparenza della più intensa pietà.

— Carmela! — esclamò finalmente l’ufficiale per tentare ancora una prova.

— Che cosa vuoi? —

Egli le fe’ cenno che s’accostasse. Essa si avvicinò lenta lenta guardandolo amorosamente negli occhi e poi d’un sol tratto gli si abbandonò sul petto e gli avviticchiò il collo colle braccia e vi premette sopra la bocca dicendo con voce soffocata: — Caro! caro! caro!... Il povero giovane, che oramai non sapeva più dove avesse la testa, le passò un braccio attorno alla vita e così sorreggendola si chinò a poco a poco, ed ella con lui, fin che la stese, senza che quasi se ne avvedesse, sul canapè accanto al tavolino.... Carmela si levò subitamente in piedi, fece il viso serio, parve che pensasse a qualche cosa e poi mormorò con una leggera espressione di disgusto:

— Che cosa fai? —