La vita militare/Un mazzolino di fiori

Un mazzolino di fiori

../Una marcia notturna ../Carmela IncludiIntestazione 19 ottobre 2019 75% Da definire

Una marcia notturna Carmela

[p. 165 modifica]

UN MAZZOLINO DI FIORI.


— Guarito, guarito; non ci ho neanco più il segno; guarda. — Così mi diceva l’anno scorso, sul cadere di febbraio, dopo una quindicina di giorni che non ci eravamo più visti, un ufficiale giovanissimo, che io incontrava in casa di una signora nostra amica, e così dicendomi mi porgeva la mano perch’io la guardassi. La guardai; non c’era proprio traccia di nulla. — E quell’altro? gli chiesi. — Sta meglio. — Chi? Chi sta meglio? Chi è che s’è ammalato? — interruppe la padrona di casa sopraggiungendo. Io e il mio amico ci scambiammo un sorriso. — L’ho da dire? — questi mi chiese. Io gli risposi che se fossi stato in lui l’avrei detta.

— Senta dunque — incominciò l’amico rivolgendosi alla signora. — Tre giorni prima che finisse il carnovale, una sera verso le cinque, io stava davanti a un caffè a vedere il corso delle carrozze, solo, imbroncito, pigiato dalla folla, tutto bianco di farina, maledicendo il momento che m’era venuta l’ispirazione di uscir di casa e di cacciarmi là in mezzo. Di tratto in tratto passava un soldato di cavalleria colla sciabola nuda e faceva cenno alla gente che si tirasse indietro per non ingombrare il corso, e al cenno aggiungeva qualche parola rispettosa e cortese. Davanti a me c’eran quattro o cinque monelli che, appena passato il soldato, si gettavano in mezzo alla strada fra carrozza e carrozza e si [p. 166 modifica]contendevano a pugni i coriandoli e i fiori sparsi sul lastrico con gran rischio di restare schiacciati dai cavalli e con gran noia dei cocchieri che per andare innanzi dovevano spolmonarsi a gridare che si badassero e facessero largo. Uno dei soldati che percorrevano la strada, dopo averli ammoniti e sgridati cinque o sei volte, visto che facean sempre peggio, perdette la pazienza, spronò il cavallo verso di loro e alzò la sciabola come per dare un colpo di piatto, che in nessun caso, sicuramente, non avrebbe mai dato. Un signore che m’era vicino, vedendo quell’atto, esclamò: — Eh! — E quando il cavaliere si rimise la sciabola contro la spalla, soggiunse: — Avrei un po’ voluto vedere. — E poi, volgendosi verso un suo vicino: — Frutti dell’educazione: prepotenza e brutalità. — Mi si rimescolò il sangue; alzai una mano, la ritenni, la cacciai in tasca, e con tutta la calma di cui fui capace e col più cortese accento che potei metter fuori mormorai nell’orecchio a quel signore: — Quale educazione? — Si voltò, fece un atto di sorpresa, impallidì; ma si rinfrancò tosto e rispose con insolente scioltezza: — L’educazione militare. — Io non vidi più nè lui, nè la folla, nè il corso, e non mi ricordo neanco più quel che gli dissi e quel che mi rispose; non so altro che l’indomani mattina tornai a casa con una mano ferita, e i miei amici mi dissero che quel signore aveva la guancia sinistra divisa in due. Ecco tutto. Or ora io stava dicendo che la mia mano non serba più segno della scalfittura, e che quell’altro signore sta meglio. —

La signora che fino allora era stata a sentire con gran serietà, alzando di tratto in tratto gli occhi al cielo ed esclamando: — Dio mio!, — si rallegrò con gentili parole dell’esito fortunato del duello, e poi usci fuori improvvisamente con una domanda... da donna: — Ma lei [p. 167 modifica]perchè lo ha provocato? Non era meglio finger di non sentire? —

Il mio amico mi guardò; io guardai lui, e ridemmo tutti e due.

— Perchè ridono?

— Senta, signora — quegli rispose. — Posto pure, cosa che non è, ch’io dovessi fingere di non sentire, come l’avrei potuto se l’ira mi accese il sangue e mi spense ogni lume di ragione? Sapevo io che cosa mi facessi in quel momento?

— Certo che....

— E poi la gente che era là attorno aveva sentito, e poi l’offesa colpiva tutto l’esercito, e poi quelle parole erano una menzogna, e poi, appunto in quell’occasione, quella menzogna era una calunnia, e poi il tuono di voce con cui quella calunnia era stata proferita sonava come una provocazione, e poi quel signore, come seppi in seguito e come non poteva essere altrimenti, perchè vi sono delle parole che rivelano tutta l’anima d’un uomo, quel signore era un...

— Zitto! zitto! non occorre ch’io lo sappia.

— E poi c’era un’altra ragione per cui quelle parole dovevano riuscirmi tanto amare e oltraggiose, e questa ragione gliela voglio dire. Ascolti. Quattordici anni fa...

— Niente meno!

— Senta; ero a Torino colla mia famiglia; avevo sette anni. Il penultimo giorno di carnovale mia madre mi mise un bel vestitino da maschera, tutto di seta a striscie bianche e celesti, con una sciarpa rossa, una parrucca di ricci biondi e un berrettino di velluto verde, e mi condusse al corso in carrozza. C’era con noi mio padre e un maggiore d’artiglieria suo amico. Avevamo molti mazzi di fiori e un gran canestro di confetti. Le strade erano stivate di gente; un’infinità di carrozze; [p. 168 modifica]maschere a centinaia, eleganti, svariate; un gran moto, un gran chiasso, un corso stupendo. Mia madre, secondo il suo costume, non partecipava affatto all’allegria della festa e non parlava quasi mai. Di tratto in tratto, quando passava la carrozza di qualche amico, essa mi metteva un mazzo di fiori in mano e me lo faceva gettare, tenendomi per la sciarpa perchè nell’atto di lanciarlo io non cadessi a capo fitto. I bambini miei amici mi gettavano anch’essi dei fiori e dei mazzolini e mi salutavano gridando e ridendo del mio bizzarro vestito, ed io rideva del loro, e ci divertivamo del miglior cuore del mondo. Molto più di adesso, tra parentesi, perchè allora una bella mascherina mollemente sdraiata in una vettura, uno stivaletto piccoletto stretto e rotondetto che spenzolasse astutamente fuori d’uno sportello, una calza bianca ben tesa, e una camiciola da débardeur cascante da un lato, non tiravano nè i nostri pensieri, nè i nostri sguardi, nè i nostri desiderii.

— Questo non ci ha che fare.

— Ci divertivamo. A un certo punto però, stanco di gridare e di sbracciarmi, sedetti per ripigliare un po’ di lena. Allo sbocco di via Po in piazza Castello v’era una fila di soldati di cavalleria e di carabinieri, immobili e serii come se assistessero a un funerale. Guardavano ora le carrozze, ora la gente, senza dirsi una parola, senza scambiarsi un sorriso, senza dare un segno di curiosità, nè di diletto, nè di rincrescimento, nè di noia; parevano automi. La folla li stringeva da ogni lato, ondeggiando e rimescolandosi e levando un gran frastuono; dalle finestre delle case vicine, ch’eran tutte piene di signore e di maschere, veniva giù una tempesta di coriandoli, e dalle carrozze una tempesta contro le finestre, e dalla strada contro le carrozze: una battaglia accanita, con grandi nuvoli di farina che velavano a mezzo [p. 169 modifica]ogni cosa, e un po’ più oltre la banda che suonava, quasi coperta da un fracasso di tamburelli e di trombette che lacerava le orecchie.

— Povera gente! — disse mia madre al maggiore accennandogli i soldati. — Essi non mancano mai; essi son sempre dappertutto. Non basta che ci difendano dai nemici, e spengano gl’incendi, e acquietino i tumulti, e proteggano le nostre vite e le nostre sostanze; essi proteggono ancora le nostre feste, assicurano le nostre gioie, essi che non hanno nè gioie, nè feste e patiscono tanto e fanno tanti sacrifizi, senza raccoglierne mai un frutto, senza ottenerne mai un compenso; ma che compenso! un conforto, una parola di riconoscenza, un grazie. La gente non li guarda nemmeno; noi siamo tutto per loro, e loro, per noi, nulla. —

Il maggiore, serio anch’esso che pareva un magistrato, senza neppur guardare i soldati rispose gravemente: — È vero.

— Se è vero! — soggiunse vivamente mia madre. — Guardi, maggiore; guardi un po’ quel soldato là, il primo a cominciar da questa parte; guardi che aria melanconica! Che abbia qualche dispiacere? Che si senta male?

— Chi lo può sapere? — rispose il maggiore sorridendo leggermente.

— Chi sa che cos’abbia! — ripetè mia madre; e stette guardandolo pensierosa. Così fatta è quella santa donna, che anche in mezzo al frastuono e all’allegrezza di una festa, un nonnulla le svia la mente da quel che la circonda, e la trae, di pensiero in pensiero, sino alla malinconia. Veda, signora, se mette conto aver buon cuore!

— Via!

— Scherzo. La carrozza andò innanzi e mia madre continuò a parlare di quel soldato; poi si rimise a pensare, e quindi tutt’ad un tratto: — E se qualcuno [p. 170 modifica]di casa sua stesse male? Potrebbe darsi anche questo. Non li lascian mica andare a casa quando qualcuno della loro famiglia si ammala, non è vero, maggiore?

— È difficile — questi rispose.

— Vedete! — esclamò mia madre. — Scommetterei che è tristo per questo. — Che razza di logica ha il cuore!... — Ed intanto è condannato a star là in mezzo alla gente che si diverte, che canta, che grida... Non me lo posso levar dalla testa. —

Il maggiore sorrise.

— Che cosa vuole? ripigliò mia madre, — son fatta così. —

Compiuto il giro, la carrozza stava per ripassare dinanzi ai soldati. Mia madre, colto il momento che il maggiore e mio padre non guardavano, mi porse un mazzolino di fiori, mi indicò con un gesto rapido il suo soldato, e mi disse all’orecchio: — Gettaglielo. — Mi rizzai in piedi, e, trattenuto al solito per la sciarpa, mi atteggiai per gettare il mazzo. — Hai detto quello là, non è vero? domandai ancora una volta. — Sì, sì, e presto. — Ci mancavano sette od otto passi; la carrozza si soffermò, riprese la corsa, ci siamo... Animo! — disse mia madre. — Eccolo là — io gli risposi fieramente. Il mazzolino avea descritto una bella curva nell’aria, ed era caduto proprio sul petto del soldato, fra il fermaglio del cinturino e la mano che teneva le redini. Quegli si scosse come da un sogno, afferrò quasi involontariamente il mazzetto, alzò gli occhi in atto di viva sorpresa, mi vide, lo salutai con tutte e due le mani, egli sorrise, e mi guardò fisso fin che la carrozza sparì. Il mio piccolo cuore batteva forte forte; mia madre si era rasserenata; il maggiore e mio padre non avevano visto nulla. Prima di compiere un’altra volta il giro, uscimmo dal corso, e andammo a casa. [p. 171 modifica]

Rividi il soldato, dieci o dodici giorni dopo, nel giardino pubblico. Era con molti altri suoi compagni, e discorreva forte e rideva. — Guarda là il soldato del mazzetto! — dissi a mia madre tirandole il vestito. — Zitto! — ella mi rispose; — non ci badare. — Non capii il perchè di questo comando; lo guardai; egli mi guardò fisso, mi riconobbe, fece un atto di gran sorpresa e disse: — Oh! — Mia madre mi tirò pel braccio e andammo inanzi. Dopo quel giorno non lo vidi più per un anno. L’anno dopo, una delle ultime notti di carnevale, tornato colla famiglia dal teatro, mi avvicinai, pochi momenti prima d’andare a letto, alla finestra, e stetti un po’ di tempo a guardare in strada a traverso ai vetri. La strada era buia, e nevicava. Di tempo in tempo, sbucavan maschere dalla casa dirimpetto, dove c’era un caffè e un’osteria, si sparpagliavano, s’inseguivano, sparivano, ne sopraggiungevano delle nuove, e le une colle altre incontrandosi e riconoscendosi si affollavano levando un diavolìo di grida in falsetto e ricambiandosi confusamente inviti e saluti. Comparve in quel punto una pattuglia di cavalleria. Le maschere si misero a ballarle intorno vociando e battendo le mani. I soldati, ravvolti nei loro grandi mantelli, passavano senza dar segno di vederle; ma uno di essi si voltò verso casa nostra, e parve guardare alla mia finestra. — Che sia lui! — pensai, ed apersi. Nello stesso punto il soldato levò una mano fuor del mantello, fece un saluto, e andò oltre. L’indomani seppi dalla portinaia che qualche giorno prima un soldato di cavalleria era entrato nel portico della nostra casa, aveva guardato un po’ la scala come incerto se dovesse salire sì o no, e poi se n’era andato. Pochi mesi dopo intesi dire che un reggimento di cavalleria era partito da Torino, e non rividi più il mio soldato, e non ci [p. 172 modifica]pensai più. Passarono molti anni; venne il cinquantanove; mi infatuai dell’esercito e manifestai a mio padre l’intenzione di abbracciar la carriera militare. Mio padre era incerto. — Finisci i tuoi studi — mi disse e — vedremo. — Nell’agosto del cinquantanove li terminai. D’allora in poi, ogni giorno gran discussione con mio padre sull’argomento della carriera. A misura però che s’andava innanzi, egli pareva sempre meno disposto a secondare i miei desiderii. Ma un caso impreveduto troncò il nodo della questione. Erano i primi di gennaio del sessanta. Una mattina io stavo in casa, a tavolino, scrivendo. Picchiano alla porta, e viene un servitore a dirmi che cercano di me. — Chi può essere? — mi domanda mia madre. Io m’alzo, essa mi segue, andiamo nella stanza d’ingresso. V’era sulla porta un uomo vestito da operaio, con un gran mantello, una berretta di pelliccia in capo, pallido, magro, con un’aria addolorata e abbattuta. — Non si leva nemmeno la berretta, — brontolò il servitore quando entrammo. Lo sconosciuto mi guardò sorridendo e mi domandò: — È lei?... — E disse il mio nome e il mio cognome.

— Son io — risposi.

— Sono un povero giovane rimasto senza lavoro; ho fatto il soldato; se potesse aiutarmi in qualche modo...

Io e mia madre ci consultammo collo sguardo.

— ... Darmi qualche cosa — soggiunse l’uomo con voce supplichevole.

Presi e gli porsi di mala voglia un paio di lire dicendogli: — Pigliate.

— Me li metta in tasca.

— In tasca! — io esclamai tra stupito ed offeso. Ma il suo sguardo produceva uno strano effetto sopra di me; lo guardai qualche momento, e poi gli misi i denari in una tasca del mantello. [p. 173 modifica]

— Grazie! egli rispose con voce commossa. — E adesso... siccome io parto e ritorno al mio paese... vorrei pregarla... di accettare una mia memoria.

Mia madre ed io tornammo a guardarci meravigliati.

— La vuole accettare, signore? — domandò egli timidamente, e con un accento affettuoso.

— ... Vediamola, — risposi.

— Eccola, — egli disse, e allargando il mantello coi gomiti, scoperse e mi accennò collo sguardo un mazzetto di fiorì che portava nell’abbottonatura del panciotto.

— Ah! il soldato del corso! — gridò mia madre.

— Lui! — io esclamai con trasporto e mi slanciai per abbracciarlo; — gli cadde il mantello; mia madre mise un grido di terrore: — Dio mio!

— Che cosa c’è? — domandai voltandomi.

Nello stesso tempo vidi che a quel povero giovane mancavano tutt’e due le mani.

Le aveva perdute a San Martino.

Non so veramente come nè perchè; ma da quel giorno in poi il mio desiderio di fare il soldato si mutò in ferma risoluzione; vestire la divisa militare mi parve quasi un omaggio alla sventura di quel povero giovane. Ed eccomi soldato. Ed ecco perchè ogni volta che vedo un soldato di cavalleria al corso mi sento battere il cuore come per un vecchio amico e vorrei essere un bambino per gettargli un mazzo di fiori.

— E quel soldato?... — domandò vivamente la signora.

— È morto.

— Dove?

— In casa nostra, tra le mie braccia, presente mia madre, con un mazzolino di fiori sul capezzale. —