La giustizia/VIII
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VIII.
I grani maturavano sull’altipiano e la speranza di Stefano era vicina a compiersi.
Ancora una settimana, e forse meno, e l’aspettato sarebbe finalmente giunto. Di giorno in giorno Maria era diventata per suo marito qualche cosa di sovranamente sacro. La circondava quindi di cure e riguardi infiniti; la conduceva dolcemente attraverso i viali dell’orto, e le parlava come neppure durante la luna di miele le aveva parlato: ed ella ascoltava un po’ stupita, un po’ commossa.
Era nell’orto una calda fioritura di rose, di ranuncoli, di sproni da cavaliere, di sanguinanti verbene, d’altri fiori e di erbe aromatiche un po’ inselvatichite per la nessuna cura che s’aveva nel coltivarle: l’acqua della vasca brillava cristallina attraverso i tronchi dei salici, e sui muri sporgevano già, fra le gialle ombrelle della cicuta e dell’anice odoranti al sole, le diafane e coralline coppe dei papaveri. Sui rustici pergolati fiorivano i tralci della vite, dai riccioli ancora teneri e le estreme foglioline gialle ancor piegate e ricoperte di delicatissima peluria. Al di là dell’orto, nei campi invasi da erbe selvatiche, la malva innalzava i suoi trasparenti fiori d’un pallido violetto, e qualche alto gambo d’avena stendeva ricami d’oro nell’aria azzurra.
Anche dopo i rosei tramonti, nei caldi vespri, qualche lontana falda di montagna pareva, per i marezzi biondi dell’orzo maturo, ancora invasa dal sole; il vermiglio fiore carnoso del musco copriva le rupi e nei pascoli il tirtillo, fiorito di minuscole infinite stelle violacee, acutamente olezzava. Era infine nell’aria e nei profondissimi cieli azzurri tutta la fragranza e la pura voluttà della primavera morente in un’apoteosi di fiori, di erbe, di vita, di rigoglio fecondo e potente.
I nuovi uccelli dal becco giallo, ancor pallido e molle, scendevano dai nidi. Nonostante l’efferata caccia di Speranza, sul noce e sugli albicocchi dalle foglie già rosse e dai frutti appena cerei, già forati da avidi becchi, risuonava sempre una squillante orchestra di passeri, rondini e tordi.
Nel sentiero dietro l’orto, tornavano dal pascolo ogni sera le pecore e le capre già tosate; qualche contadino aveva mietuto il suo orzo, qualche pastore di alveari avea estratto i primi favi di miele dolce. (Il miele amaro, specialità del paese, si ricavava in autunno.) Nei meriggi luminosi e un po’ ardenti don Piane usciva nell’orto a leggere il giornale alla delicata ombra d’una clematide arrampicata sui sostegni del pergolato. I quattro gattini, stupendamente grassi e belli nonostante l’abbandono della madre, lo seguivano docili, fermandosi un momento nel cortile a guardarsi in cagnesco con le galline; ma usciti nell’orto si arrampicavano di qua e di là, sugli alberi e sul pergolato, donde non eran buoni a scendere; e don Piane disperato li chiamava da prima dolcemente, poi minaccioso; ma essi correvano sui rami sporgendo furbescamente il musino, e soltanto allorchè si provavano a scendere senza riuscirvi, miagolavano flebilmente e partecipavano alla disperazione del vecchio. Allora Ortensia era costretta a intervenire con una scala a piuoli per ricondurre nelle basse sfere i piccoli avventurieri: ella saliva imprecando, li afferrava per il collo e senza pietà li scaraventava al suolo; e se don Piane protestava, ella gli si rivolgeva contro dicendogli delle insolenze. Dopo di che i gattini, un po’ storditi, scuotendosi e leccandosi, si sdraiavano al sole, e il vecchietto poteva legger tranquillo le amene corrispondenze dei villaggi sardi.
Dopo il breve risveglio delle antiche memorie e la rapida tenerezza per la madre del futuro erede, egli era ricaduto nel suo rimbambimento capriccioso e talvolta crudele: appena con qualche persona, egli sparlava del figlio e di Maria, lamentando che lo maltrattavano, che lo rendevano infelice: certi giorni si chiudeva in desolante mutismo, e rifiutava le usuali vivande per cibarsi di pane d’orzo inzuppato nell’acqua calda e condito con formaggio grattugiato; pietanza che rivoltava tutti i gusti aristocratici di Stefano e gli dava maledettamente ai nervi.
Non potendo più Maria occuparsi di certe faccende domestiche, ai primi di giugno si ricercò un’altra fantesca. Serafina, che ora guadagnava assai recandosi alle mietiture, interpose tuttavia molte persone per esser riaccolta: faceva umili patti e mille buone promesse. E Maria, la cui indole mite e poco decisa la spingeva a dimenticare e a perdonare, si sentiva propensa a riaccoglier la domestica; don Piane smaniava; forte della sua posizione, Ortensia pensava con certo gusto malvagio alle umiliazioni da infliggere alla antica compagna; ma Stefano si oppose formalmente e Serafina restò fuori e senza più speranza.
In quei giorni s’aprì a Nuoro la Corte d’Assise, e il secondo dibattimento fu assegnato contro Martino Felix, detenuto, accusato di complicità col defunto Saturnino Chessa nell’assassinio di Carlo Arca; mandatore Filippo Gonnesa contumace.
Da qualche tempo tutto il paese pareva invaso dai demoni: di altro non si parlava, nei crocchi, in farmacia, nelle famiglie agiate e attorno ai polverosi focolari dei pastori, che del processo famoso. Solo Stefano si manteneva in riserbo glaciale e ingiustificabile, lasciando che i parenti intrigassero fra loro e donna Maurizia affilasse le spade, o meglio la lingua dei testimoni veri e falsi. Anche il buon don Costantino veniva travolto dalla corrente; lo tiravano di qua e di là, gli imponevano passi contrari alla sua coscienza. Solo quando intese che anche sua moglie sarebbe andata a Nuoro per assistere ai dibattimenti osò opporsi:
— Faresti meglio a restar qui per assister Maria! — le disse amaramente. — Non basteranno Stefano e gli avvocati della parte civile?
— Stefano! — rispos’ella con non minore amarezza. — Non vedi che sta diventando un cretino? Non voleva ritirar la parte civile? È meglio che resti lui, qui, ad assister la moglie, poichè mi sta diventando più sciocco e timido d’una donna. Se ci vado io, a Nuoro, ci vado appunto perchè egli, son certa, imbroglierà le cose!...
E anche prima del genero ella partì alla volta di Nuoro, fieramente seduta a cavalcioni sulla sella d’una vecchia giumenta, armata di revolver e con un immenso parapioggia di seta cremis minacciosamente aperto contro il sole. Avea la bisaccia ricolma di regali per gli avvocati della parte civile, e teneva in seno un portafogli con dei biglietti di banca tagliati in due: una metà di questi era stata distribuita a molti testimoni che, solo deponendo quanto donna Maurizia desiderava, avrebbero avuto il resto del biglietto a dibattimento finito.
Quando Stefano giunse a Nuoro il terreno era già preparato e bene; anzi osservò che tanto gli avvocati come i testimoni usavano con lui una certa diffidenza, o almeno lo consideravano come uno di più.
Ma anche i Gonnesa non restavano inerti; era giunto il padre di Filippo, l’aquila vecchia dagli acuti occhi turchini e dalla pronta favella; lo circondava un codazzo di testimoni non tutti puri.
Il primo e il secondo giorno lo svolgimento del processo parve favorevole agli accusati: il Felix, un bell’uomo alto, roseo, sbarbato, e con lunghi capelli neri, persisteva nel dichiararsi innocente; non sapeva nulla; poco aveva conosciuto il Chessa e mai avuto relazione coi Gonnesa.
I testimoni procedevano timidi, impacciati e svogliati, accordandosi solo nell’accusare vilmente il Chessa, morto e sepolto; e i giurati cominciavano a lasciarsi più o meno suggestionare dagli amici dei Gonnesa, quando il terzo giorno apparve la selvatica barba di Arcangelo Porri. Egli giurò di avergli il Chessa confidato dover uccidere Carlo Arca per incarico di Filippo Gonnesa: la deposizione fu subito contestata dalla difesa, ma il Porri provò, con altri due testimoni (di quelli che possedevano la metà dei biglietti di donna Maurizia), che la prima volta, non essendovi giuramento, aveva deposto ambiguamente perchè il Gonnesa lo minacciava di morte. Nello stesso modo provò come il giogo di buoi da lui attualmente posseduto lo aveva avuto dagli Arca, sì, ma pagandolo!
Stefano allibì udendo questa deposizione confermata da tre prove: e anche non avendo altri motivi sarebbe bastato ciò per convincerlo della falsità del Porri e degli altri testimoni.
La difesa provò poi come Gonnesa si recava spesso nell’ovile del Porri (Stefano ricordò l’incontro in vetta alla montagna) non per minacciarlo, ma invitato dallo stesso pastore, che gli proponeva, dietro ricompensa, di difenderlo non solo, ma di deporre che gli Arca cercavano di corromperlo.
Il Porri fu trattenuto in arresto per falsa testimonianza: ma dopo la sua deposizione le cose precipitarono e i testimoni parvero prender coraggio, accumulando accuse su accuse, infamie su infamie.
Stefano ascoltava rigido e pallido; pareva impassibile, e solo allorchè il nome di sua sorella risuonava fra quel cumulo di falsità e spergiuri, destando un senso d’imprudente curiosità nella folla, egli lampeggiava collera dai socchiusi occhi, e le orecchie gli ardevano.
Tuttavia anche la parte civile dovette accennare al fatto intimo che aveva generato l’odio fra gli Arca e i Gonnesa; ma lo fece con tanta sottigliezza e tatto, dicendo come da Silvestra, tratta verso propositi monastici, era partito il rifiuto, che Stefano volle convincersi esser avvenuto così e non altrimenti.
La difesa sfoderò il vero, e, abbandonandosi a un certo sentimentalismo, dipinse con frasi comuni, non prive però d’efficacia teatrale, l’infelice stato dei due giovani amanti così crudelmente e inesorabilmente separati.
Visibilmente Stefano s’alterò, perchè, dopo tutto, benchè ritenesse Filippo innocente, ancora il suo nobile sangue si rivoltava all’idea di Silvestra innamorata d’un uomo povero e plebeo: e soprattutto lo avviliva il sentir il nome puro di sua sorella pronunziato per le aule da immonde bocche della folla. E appunto intorno a lui la folla commentava, e se taluno si commoveva, la maggior parte però, con quell’acuto e talvolta maligno spirito caustico dei Nuoresi, volgeva la cosa in ridicolo e peggio.
Per un momento egli sentì tutto il sangue salirgli alla testa, sentì acuto desiderio e prepotente bisogno di pigliarsela con qualcuno di quei curiosi sfaccendati, per sfogare tutta l’ira, lo sdegno, il mal animo che da tanti giorni gli avvelenavano il sangue; e volgendosi verso un paesano disse rudemente:
— Zitto voi! Che c’è da ridere e commentare?
— Mudu sia bostè!1, — l’altro rispose insolentemente. — Rido perchè non sono in casa sua! Che gliene importa?
Ma qualcuno gli tirò dietro la falda del cappotto, dicendo sommessamente un nome, e il paesano si chetò guardando Stefano con una certa curiosità mista a timore, ma non priva d’ironia; anche altri astanti si volsero, guardando con la stessa espressione il giovine signore: egli si sentì scoppiare, e per non compromettersi uscì.
Il famoso orologio di Santa Maria, gloria e vanto di Nuoro, segnava le due: il sole di giugno, caldo abbastanza ma non ardente, e temperato da un gradevole venticello spirava nel piazzale e nelle deserte adiacenze della cattedrale: scintillavano puliti e chiari i gradini e il lastricato di granito; ondeggiavano lentamente alla brezza i verdissimi alberi del giardinetto vescovile, da cui saliva un forte profumo di fiori caldi; e in lontananza, sullo sfondo del luminoso orizzonte, una linea di fresco paesaggio verde chiudeva la pacifica e soleggiata visione.
Concitatamente Stefano si mise a passeggiare sul piazzale, socchiudendo gli occhi contro il barbaglio del sole e lo scintillìo del granito; ma a poco a poco, come dissipata dall’olezzante soffio del venticello e dalla suggestione di profonda pace che emanava da quel lembo di piccola città deserta e dal luminoso sfondo dell’orizzonte, la velenosa collera che lo urgeva s’acquetò. Tuttavia egli continuò a passeggiare a lunghi passi, su e giù, tirandosi sulla fronte il cappello di paglia: a un tratto, udendo un leggero canterìo, scese i gradini a sinistra della chiesa, e guardò. Seduto per terra e addossato al muro un bimbo cantava; poteva aver quattro anni, vestiva di bianco, aveva i piedini scalzi, grasse e rosse le manine e la faccia, i capelli d’un biondo acceso, e intorno al collo una ghirlanda di margherite gialle e di rosei piselli odorosi. E cantava al sole, ma con vocina piana piana, come distratta, come saliente da un sogno sereno e dolcissimo. Gli occhioni neri chini e fissi con indolenza sulle mani abbandonate in grembo, non videro o non vollero accorgersi di Stefano; ed egli sorrise ed ascoltò.
Anche la canzoncina, poco ben pronunziata, era fresca e olezzante come il piccolissimo cantore inghirlandato di margherite e di fiori di pisello odoroso:
Puzoneddu ’e beranu, |
Il bimbo non pronunciava le parole perfettamente, ma dava al grazioso stornello nuorese la giusta intonazione musicale, un po’ monotona ma dolcemente cadenzata, così che Stefano ne fu colpito; e in quell’esile cadenza infantile, sperduta nella serenità silenziosa di quel soleggiato angolo dallo sfondo campestre, l’acuta percezione di Stene ritrovò qualche cosa d’interessante ed originale. Non era forse quella l’ultima semplice nota che ancora gli mancava per completare la riproduzione della melodia sarda udita nella valle? Quel bimbo rosso, inghirlandato di fiori campestri, già indolente e sognatore, quella ingenua e vaga preghiera d’amore, uscente dalle fresche labbra vermiglie come fior di melograno, non rappresentavano il sentimento puerile, sì, ma puro e sano, del primo timido amore poetico del sardo? E la cadenza primitiva di quel semplice motivo non esplicava bene tatto ciò?
Stefano stette ad ascoltare e a guardare con profondo piacere. Un momento ebbe desiderio d’avvicinarsi, chinarsi e baciare quelle lucide labbra che doveano aver fragranza di rose come i fiori del pisello odoroso; ma pensò che il suo intervento, per quanto affettuoso, avrebbe turbato il felice canto del piccolo sognatore, e s’allontanò, serbando impressa nella memoria la delicata visione del quadretto veduto e della piccola melodia udita.
Rientrò calmo e freddo nella sala delle udienze. Il momento era solenne. Si stava per pronunziar la sentenza; la folla taceva; divenuto pallidissimo, l’accusato tremava; e sopra ogni cosa parve a Stefano distinguere la rigida persona del vecchio Gonnesa, i cui occhi turchini brillavano nella luce intensa del pomeriggio.
E nuovamente, appena fu là dentro, davanti alla immane rappresentazione (egli disse fra sè commedia) che decideva il destino di più persone, Stefano smarrì la sua serenità di spirito, e un’angosciosa sensazione d’ansia, di attesa e di inquietudine gli strinse il cuore.
La sentenza fu letta.
Egli ascoltò e sentì; ma in pari tempo gli risuonò entro le orecchie una vibrazione metallica, e l’angosciosa sensazione gli salì dal cuore alla gola. Attratti magneticamente, i suoi occhi si sollevarono incontro a quelli del vecchio Gonnesa, e per un istante, che gli parve lunghissimo, non vide che l’azzurro bagliore di quelle acute pupille. E per suggestione di colore, per rassomiglianza di sguardo, per il recente ricordo suscitatogli in quell’ora suprema dal canto del bimbo, rammentò vivamente il gran cielo solitario della valle, lo sguardo di Filippo, l’impressione d’equità e superiorità provata in quell’indimenticabile giorno.
Il Felix fu condannato a venti anni di lavori forzati per provata complicità nell’assassinio di Carlo Arca; e, come mandatore del delitto, il contumace Filippo Gonnesa a quindici anni, tre mesi e due giorni di reclusione, spese del giudizio, risarcimento di danni alla famiglia dell’estinto, perdizione di diritti civili, interdizione dai pubblici uffici, ecc. ecc.
— Egli è innocente! — pensò Stefano. — Egli è innocente! Egli è innocente! — gli gridarono entro il cuore, entro il pensiero, in ogni pulsazione del sangue commosso, mille voci sonore, salienti dal profondo dell’anima convinta.
La gente che usciva lo urtava e stringeva; per qualche momento egli di nulla s’accorse, e soltanto vide un gran buio, un tenebroso sfondo sul quale brillavano gli occhi azzurri del vecchio padre di Filippo, e indistintamente si profilava il volto cadaverico e i lunghi capelli neri dell’altro condannato.
Quando riebbe piena la lucidità dei suoi pensieri si trovò ancora nel piazzale della chiesa, nel sole un po’ dolce del pomeriggio, davanti al luminoso orizzonte chiuso dalla verde linea del paesaggio. Ma una querula turba d’avvocati, di testimoni e curiosi lo attorniava; le vie, prima deserte, formicolavano di gente che parlava, rideva e gestiva; e come d’intorno spariva la chiara quiete del pomeriggio, così nel suo cuore, nel sangue e in ogni fibra serpeggiava una indescrivibile sensazione d’angoscia.
Verso sera, essendo stata telegrafata al paese la notizia, giunse un dispaccio di risposta.
Non comunicata notizia a Maria che sta per dare alla luce sua creatura. Urge ritorno.
Costantino»
— Io parto subito! — disse Stefano alla suocera, levandosi da tavola col tovagliolo in una mano e il dispaccio nell’altra. — La notte è bella; prendo la vostra cavalla e voi domani ritornerete in vettura.
— Sei tu matto? — gridò donna Maurizia, e gli espose i pericoli a cui andava incontro, mettendosi in viaggio proprio quella notte e solo.
— Io non ho fatto male a nessuno, — egli disse con occhi lampeggianti, — quindi non temo nessuno. Io parto.
— Tu non partirai!
— Io parto! — gridò sbattendo il tovagliolo sulla parete.
Ma donna Maurizia fece nascondere la giumenta, e un po’ colle buone, un po’ colle cattive riuscì a persuaderlo di attendere almeno fino all’alba. Dopo breve sonno inquieto, all’alba partì.
Lo urgeva però qualcosa di strano, un indefinibile sentimento di angosciosa inquietudine, come se davvero lo attendessero per via gli occulti pericoli temuti da donna Maurizia. Era il disgusto del giorno prima, era il pensiero di Maria, era il disagio della cattiva cavalcatura, ai cui fianchi gli sproni davano crudeli punture, buone solo a provocare un maledetto trotto, e in conseguenza un rombo entro le viscere dell’animale.
Per buon tratto di strada non apparve nessuno. Nell’alba già calda e limpidissima, non passava alito di vento: dalle macchie fiorite, dai radi alberi, dai gialli grani immobili nell’argentea luminosità dell’oriente, da tutta la grande selvaggia vallata che lo stradale costeggiava, salivano acute fragranze aromatiche. Nei brevi corsi d’acqua, fra profumi di giunchi, di ligustri e di menta peperita, dagli alti fusti verdi dei sambuchi e degli oleandri, freschi gorgheggi di uccelli palustri vibravano nel limpido silenzio mattutino.
Intorno, in grandioso semicircolo, le montagne salivano pel chiarissimo orizzonte; fra monte Albo e monte Pizzinnu l’alba s’indugiava in fulgidi candori di perla. Stefano trottava con gli occhi sempre fissi alle svolte ed alle lontananze dello stradale. Umida di rugiada la ghiaia azzurrognola scintillava, e troppo lentamente le pietre miliari apparivano e scomparivano.
E mai nessuno passava.
A un certo punto, sopra un ponticello, Stefano fermò la giumenta, che profittò della sosta per scuoter la briglia e fiutar la ghiaia; tagliò, attirandola a sè, una lunga foglia d’oleandro, e strappate le foglie dure, formò un frustino che scosso in aria si piegò fischiando. E sbattendolo sulla groppa della cavalla, riprese la via.
A poco a poco i pensieri gli si chiarivano come l’orizzonte; le ansie e la misteriosa inquietudine provate durante la notte e nel crepuscolo mattutino svanivano al crescer della luce; e la solenne cala dei tiepidi paesaggi fioriti, delle macchie, dei cespugli, dei grani dei fiori e delle erbe erette al fulgore dell'aurora, il cadenzato grido dell’assiolo e il gorgheggio degli uccelli acquatici gl’infondevano una gradevole sensazione di vita e di serenità.
Dopo tutto, sempre più forti e vibranti gli risalivano dal fondo dell’anima le parole dette la sera prima a donna Maurizia:
— Io non ho fatto male a nessuno: io non temo nessuno.
E cercò d’acquetarsi pensando che egli era passato soltanto come una comparsa, nel tragico quadro del fatale processo.
— Una comparsa? — disse in fondo alla coscienza una voce ironica ed amara; — non sarai mai altro che una comparsa, o uomo scialbo, o uomo debole e vuoto? Non potevi tu esser ben altro?...
E questa voce, forse la stessa che un giorno, un momento suscitata dalla musica del selvaggio torrente, sotto gli ulivi della lontana valle, aveva gridato imponendosi, voleva anche ora sollevarsi e chiamare; ma egli, non volendo nè potendo sentirla, la ricacciò in fondo alla coscienza; e quella, spegnendosi in triste mormorìo, tacque.
La luce cresceva; l’orizzonte si fasciava di ametiste liquefatte in un lago d’oro; giù per le chine scoscese, sopra e sotto lo stradale, dalle ginestre piovevano grappoli di accesi fiori gialli; campi di puleggi fioriti impregnavano il paesaggio d’acute fragranze palustri; e in alto, al di là dei cespugli di rose canine già sfogliate, garofani violacei, vilucchi e margherite svanivano nell’aria.
Perchè crucciarsi in vane fantasie? Dopo tutto egli non poteva cambiar l’aspetto secolare delle cose e delle istituzioni: dopo tutto egli, se non impedito, non aveva neppur commesso il male; e se errore c’era si poteva ancor rimediare, aiutando Filippo Gonnesa ad andarsene lontano, magari nelle libere Americhe, e col tempo appurare e rimediare le cose.
E le cose ora gli parevano tutte facili e rimediabili. Da qualche momento non provava più inquietudine sullo stato di Maria; gli sembrava ch’ella stesse bene, che la creatura fosse nata felicemente, e non dubitava non fosse un maschio. Il trotto della giumenta lo avvicinava alla perfetta felicità.
Con mai provata dolcezza pensò alla sua casa, e mai come in quel momento la vecchia casa pisana scintillante al sole, eretta su uno sfondo di cielo deserto che le dava illusione di villa perduta in campagna, gli parve più pittoresca e comoda.
Come nella lontana sera d’autunno, dopo la malattia che tanto aveva influito sul suo fisico e sul suo morale, egli parve risvegliarsi all’affetto delle cose famigliari. Ripensò l’orto coi rosai ed i fiori che, piantati al tempo in cui veniva rimodernata la casa, s’erano poi inselvatichiti per mancanza di cure, e ricordò specialmente i lunghissimi fusti delle altee, coperti, all’ombra delle grandi foglie villose, dalle piccole coppe rosse, alabastrine e cremisine dei fiori senza stelo.
E i cavalli? E i cani? E i libri? E il cembalo? Ripensando a quest’ultimo ricordò la piccola melodia del bimbo dalla collana di fiori campestri, e la ripetè fra sè. Suscitata dal breve motivo dello stornello, gli sorse allora nella memoria, altro ricordo lontanissimo, ma stranamente distinto, la rimembranza d’una ninna-nanna logudorese.
Dove mai l’aveva udita? Forse, anzi certamente intorno alla sua culla, perchè nel rapido momento d’incoscienza causato dall’improvviso ricordo, il moto della cavalla che ora camminava al passo gli diede l’impressione del dondolìo d’una culla; e rivide l’antica culla di famiglia, di legno scolpito con strani bassorilievi rappresentanti draghi, chimere, sirene, foglie e frutta: immagini misteriose che avevano colpito le sue prime sensazioni infantili.
Dove si trovava ora la vecchia culla? Egli lo ignorava; ma forse doveva fra poco rivederla, perchè Maria, economa e scevra di modernità, l’aveva forse scoperta, tratta fuori, spolverata e rifornita di cuscini e coperte.
Ancor più distinta gli ritornò al pensiero l’antica ninna-nanna.
A nninnia a ssa nninna: |
Di tutte queste e d’altre superbe profezìe della sua balia, rimasta lungamente al servizio della casa Arca (ora ricordava anche la giovane balia dalle floride guance bianche e i fulvi capelli divisi sulla fronte), nessuna s’era avverata. Era un bene o un male? Forse un bene.
È la tenera ambizione della madre popolana per il suo bambino.
Per concatenazione d’immagini vide Maria curva sulla culla del figlio, addormentandolo con la monotona cantilena dell’augurante ninna-nanna; e riprovò egli stesso la suadente dolcezza d’assopirsi nel sogno di luminosi vaticinî.
Camminò un tratto così; sorgeva il sole: ora le montagne sparivano in un mare di azzurre vaporosità; entro di sè Stefano sentì più intenso tutto lo splendore del mattino; per qualche tempo perdè la sensazione dello spazio percorso, tanto era immerso nel suo fulgido sogno interno, e non distinse i pochi viandanti che incontrandolo salutavano.
Ma uno di questi attirò finalmente la sua attenzione. Era Bore, il giovane figlio del Porri. Vestito a nuovo, posate sull’arcione le mani bronzine tra cui teneva il freno, il bel ragazzo cavalcava tristemente, con la berretta tirata sulla fronte, e le gambe abbandonate sul ventre rigonfio del misero cavallino rosso.
Stefano socchiuse gli occhi per distinguer meglio il giovinetto; questo invece impallidiva e fremeva nell’avanzarsi verso il signore, e quando furono vicinissimi fece atto di passar sdegnosamente oltre, senza salutare. Stefano lo fissò meravigliato.
— O che non ci conosciamo? — domandò fermando la cavalla.
L’altro si fermò di botto, come paralizzato. Il signore fece rinculare la giumenta. Egli e Bore si trovarono così vicini che le cavalcature allungarono il muso per annusarsi vicendevolmente i fianchi.
— Dove vai? — chiese Stefano volgendosi tutto verso Bore.
— E dove vado? — proruppe questo. — Dove vuole la nostra malasorte, e dove vuol lei!...
— Io? Cosa c’entro io? — esclamò l’altro, fra lo stupito e l’ironico.
Il giovine arrossì; si sentì il cuore scoppiare, gli occhi velarsi; e tutto il rancore che da vari giorni animava la famiglia Porri contro il padrone che non aveva impedito ma quasi provocato l’arresto del pastore, gli bollì nel sangue, dandogli un coraggio rabbioso ed imprudente.
Svanita la speranza di veder il padre rilasciato in libertà, Bore si recava a Nuoro per veder come le cose erano andate ed interessarne qualche avvocato.
— Cosa c’entra lei? — gridò. — Meno male che al danno aggiunge la beffa; ma buon pro le faccia, perch’ella è nato calzato e vestito....
— No, ti assicuro, nudo, nudo come te, come tutti... — disse ridendo Stefano.
— Volevo dire che lei è ricco e noi poveri, e che quindi è giusto che ella rovini chi meglio le pare e piace; ma....
— Ragazzo, oh, ragazzo! — disse l’altro, sempre con quel maledetto tono di sarcastica superiorità. — Che logica è la tua? Cosa diavolo vi siete fissi in testa? Peggio per tuo padre che non disse la verità!
— Peggio per mio padre? Ma appunto perchè disse la verità, per far piacere a lei, s’è rovinato! E lei doveva aiutarlo... lei non doveva permettere... lei non doveva fare... lei... infine, se lei non diceva al babbo: «sta più che sicuro!» il babbo non si sarebbe rovinato!...
— Cosa mi stai dicendo, moccioso? Scommetto che neppur tu ti capisci.
— Oh, io mi capisco troppo!
— Tanto meglio allora, per te e per gli altri! E perciò passavi senza salutarmi? Forse che gliele misi io le manette a tuo padre? Se le è messe lui medesimo, imbecille! Io gli dissi di dire la verità, e di star sicuro dicendo la verità. Pare che egli abbia fatto il contrario... e che colpa ne ho io? Mi dispiace per tua madre, per i tuoi fratellini ed anche un po’ per te, manica di canaglia, che accenni già ad esser figlio di babbo tuo... — e lo guardò da capo a piedi, — ma del resto?... Vuoi forse che afferri tuo padre per il ciuffo e lo liberi io?....
Nuovamente Bore impallidì. Istigato da Serafina egli detestava Stefano anche precedentemente; ed ora che lo riteneva causa della disgrazia domestica lo odiava addirittura ferocemente con l’imprudente irruenza delle passioni dell’adolescente.
Udendolo ora parlare con tanto sarcasmo, anzi con fredda e crudele beffa, gli veniva una pazza voglia felina di slanciarglisi sopra e ficcargli le unghie nella gola.
— Meno male! — ripetè guardandolo minacciosamente. — Meno male che al danno aggiunge la beffa! Buon pro gli faccia, buon pro! Ma stia attento anche lei, chè il denaro non sempre salva dalla morte e dal disonore... E Filippo Gonnesa è ancora fuori!...
— Cosa vuoi dire, tu? — gridò Stefano, facendosi serio e alzando il frustino d’oleandro.
Istintivamente, temendo un colpo, Bore curvò gli occhi e le spalle, e cercò di allontanarsi, ma la giumenta di Stefano rinculò ancora, e ancora i due si trovarono vicini.
— Cosa vuoi dunque dire con le tue sciocchezze? — ripetè il signore, scuotendo in aria il ramoscello. — Bada bene che io non soffro scherzi di cattivo genere, giovinotto! Finchè si tratta di burlare, sta bene, burliamo pure, ma quando poi si passa il limite! Con chi ti credi tu, con le tue pecore forse? Parrebbe vero! — esclamò poi come fra sè; — che sia stato io a pigliar quella buona lana per il collo e gridargli: o dici il falso, o ti affogo! Ah, ah! ma bravi! Ed ora siete capaci di spargere questa voce per il paese?
— È già sparsa....
Vi fu un breve silenzio, durante il quale Stefano guardò con profondo sdegno il giovinotto.
— È già sparsa? — proruppe poi. — E chi l’ha sparsa? tu, forse?
— Io? — ed ora toccò al paesano di sorridere beffardo. — Ci valgo ben poco io! Si spargono in altro modo le voci, in altro modo si spargono....
— Vattene! — interruppe Stefano stendendo il braccio. — Non voglio trattenermi con te, ragazzaccio. Altrimenti questa sarebbe l’occasione per farti aggiustare un piccolo conto che tu hai con me....
— Che conto? che conto? — gridò l’altro con arroganza.
— Un certo bigliettino dato e non consegnato.... E certe violazioni di domicilio che.... ma cioè, no, non erano veramente tali perchè la porta te l’apriva quella....
Bore sorrideva; ma l’ignobile parola che Stefano pronunziò a proposito di Serafina lo indispettì nuovamente. E cominciò:
— Se Serafina m’apriva la porta aveva la speranza di sposarmi....
Stefano rise tanto di cuore, che la lieta vibrazione della risata tremolò per lungo tratto nel silenzio dello stradale.
— Tu, moccioso, tu? Tu pensi di pigliar moglie? E che moglie! E come ti prepari bene a diventar....
Un’altra ignobile parola, il più sanguinoso insulto che ad un uomo si possa dare. Bore sentì salirgli al collo ed al volto un’onda di sangue infuocato: e per colmo Stefano piuttosto rudemente gli battè il frustino sulla nuca.
— Vattene! Vattene subito, piccolo...
E due. Era troppo. Bore sollevò il volto infuocato, e gli occhi scintillarono verdi e velenosi come due pezzi di vetro.
— E lei? — urlò. — E lei è la stessa cosa! Ed è sua sorella che ogni notte apre la porta a Filippo Gonnesa!
E spronò ferocemente il cavallo, che sparò un calcio alla giumenta; le due bestie, una in direzione opposta, si diedero a correr disperatamente.
Come colto da vertigine, Stefano si piegò sul collo della cavalla ed imprecò. Solo dopo qualche istante tirò il freno; la bestia alzò la testa, poi cessò di correre. Allora egli rallentò il freno, e macchinalmente portò una mano alla nuca bagnata d’ardente sudore.
— Fosse vero l’orribile insulto di Bore Porri? No, non è vero! — acutamente gridò la voce dell’orgoglio.
Egli si sentì sollevato; gli occhi velati dall’ira e dallo spasimo del dubbio videro; si raddrizzò.
Ma fu un rapido momento. E subito cento acri sensazioni lo investirono, velandogli ancora lo sguardo e bagnandogli di sudore la radice dei capelli. Fra tutte lo strinse distinta l’umiliazione per essersi abbassato ad insultare ed essere insultato da un ragazzaccio corrotto ed ignorante. Come ciò era potuto accadere?
Egli se ne meravigliò tanto che vinse il prepotente desiderio di rincorrere Bore, gettarlo di sella, frustarlo, calpestarlo, passargli sopra. E poi? Se egli avesse detta la verità?
— No! — urlò nuovamente l’orgoglio. Non è possibile! Non è possibile mai!
E addusse per ottima ragione un semplice particolare: il monastero di Silvestra mancava di comunicazioni esterne.
Nuovo breve sollievo.
Ma per tutto l’essere di Stefano dilagava lo spasimo del dubbio e più veniva respinto, più insorgeva feroce.
Tutta la serenità e la luce di mezz’ora prima si cambiava in angosciosa tenebria; tutto ciò che mezz’ora innanzi pareva grande e superiore ad ogni altra cosa, ora non solo rimpiccioliva, ma scompariva.
Che contava il sogno paterno e il gaudio d’un dolce evento domestico, e tutte le gioie e le speranze del mondo, e tutti i mondi dell’universo, che contavano davanti ad un orgoglio che sopraffatto dal dubbio gemeva come mostro ferito?
E dall’istante che anche l’orgoglio mormorò: — Sì, può esser vero, sì, Bore Porri era l’amante di Serafina, e Serafina o Bore, nei lor convegni notturni nell’orto e pei viottoli, possono aver veduto!... — da quel momento l’orizzonte si chiuse, ogni splendore di sole, ogni fragranza di paesaggio, ogni luce di vita dileguò.
Tutto fu buio. Fuori e dentro l’anima. Ma un buio non silenzioso, non morto, ove naufragarono, fragili vele in nero mar procelloso, i puri sentimenti d’umanità e di morale eguaglianza sociale, le miti candide teorie di giustizia che il benessere, la felicità, la serenità della propria esistenza aveano da qualche tempo dato a Stefano Arca.
Tutto il basso fondo del suo carattere, la parte infima, l’atavico istinto della sua razza felina, violenta e debole, crudele e selvaggia, — istinto ch’egli non avea saputo vincere neppure nell’incontro con Bore Porri, — insorgeva implacabile, fomentato dall’amarezza di profonde umiliazioni.
— Ed io pensavo d’aiutarlo ad andarsene lontano! — disse a voce alta, amaramente. Battè sull’arcione un pugno così forte che la mano chiusa gli dolorò; e sollevò il volto in aria, con una vibrante invocazione di vendetta.
Gli parve finalmente di risvegliarsi dal doloroso smarrimento quando cominciarono ad apparire le selvaggie campagne del suo paese. Il sole alto le allagava di splendori ardenti che traevano dalla fiorente vegetazione acute e snervanti fragranze.
Egli prese ad attraversare le scorciatoie, esili traccie gialle perdute fra i pascoli e i seminati, tratto tratto ombreggiate da alberi selvaggi, sotto cui egli doveva curvarsi per non esser sfiorato dalle ruvide fronde.
Fu allora; fra caldi soffî di vento profumato, ch’egli nitidamente ricordò l’incontro del nemico sulla vetta del monte, il saluto dato e ricevuto, lo strano desiderio d’un nuovo incontro, desiderio che tante volte l’aveva seguìto per quei medesimi sentieri, sotto quegli stessi alberi, per quelle scorciatoie dai lontani sfondi solitari. E al ricordo del saluto e del desiderio, l’umiliazione e l’ira lo investirono più potenti ancora. Ora finalmente comprendeva lo sguardo e la generosità del nemico che l’aveva lasciato passar oltre incolume: e di nuovo, come prima dell’incontro, nonostante le prove che il suo cuore e la sua ragione possedevano per ritenere il contrario, credè Filippo Gonnesa colpevole.
A questo pensiero gli parve di smarrir la ragione in una vertigine d’odio e d’umiliazione, di rancore e d’ira contro se stesso, per ciò che aveva provato e pensato da parecchi mesi, per gli sciocchi disgusti, per le strane inquietudini e gli stolti rimorsi sentiti la sera prima e la mattina stessa.
— Ed io pensavo d’aiutarlo ad andarsene lontano! — ripetè ad alta voce, quasi gridando.
— Oh, lontano, oh, molto lontano! Cammina, bestia maledetta! — disse poi, crudelmente spronando la cavalla.
— Oh, lontano, oh, molto lontano! — gridò ancora muovendo appena le labbra. E per tutto il resto del viaggio la violenta affermazione che determinava la morte di Filippo Gonnesa, gli echeggiò in ogni pulsazione del sangue che in questo estremo sogno di vendetta si calmava.
Arrivò al paese verso le dieci antimeridiane; ma gli sembrava fosse il pomeriggio e che un determinato tratto di tempo — non percepiva bene se lungo o corto, ma ad ogni modo non composto di ore, ma di giorni e mesi — fosse trascorso dal momento della sua partenza da Nuoro.
Qualcuno lo salutò, lo fermò, gli chiese notizie della sentenza; e all’udirla così grave se ne congratulò con occhi splendidi di malvagia contentezza. Ed egli trovò ciò tutto naturale, mentre il giorno innanzi se ne sarebbe adirato.
Prima d’arrivare a casa sua apprese a sua volta la lieta novella: tre ore innanzi, forse nello stesso momento ch’egli per istintivo impulso sentiva tutta la luminosa gioia della fiorente natura riverberarsi su lui, Maria lo avea reso padre d’un maschio. Ma la notizia non lo commosse, non potè penetrare lo strato di folta caligine che gli attoscava il cuore. Non s’affrettò, quindi; e giunto picchiò al portone con la punta del piede. Entrato nel cortile smontò con una certa pesantezza, non parlò alla fantesca che lo guardava sorridendo, e non badò ai cani che gli facevano festa e gli guaivano intorno.
Entrò prima di tutto nel salotto da pranzo e bevve avidamente un bicchiere d’acqua: poi, istintivamente, come un bambino spinto da un selvaggio desiderio, si trovò davanti alla porticina rossa dell’attiguo stanzino, e provò ad aprirla: ma oramai l’uscio era chiuso dall’altra parte, e ciò, nello stato d’acuta irritazione in cui egli fremeva, bastò perchè il dubbio si cambiasse quasi in certezza. Forse però la certezza sarebbe stata meno angosciosa di quel dubbio giunto all’estremo. Sentì tutti i suoi nervi tendersi come corde pronte a spezzarsi, e gli parve che per lo spasimo di quella dolorosissima tensione il suo cuore urlasse.
Rientrò nel salotto, e sentendo qualcuno scender le scale si rimise a bere, per scusare in qualche modo il suo breve indugio nel salir da Maria. Apparve tosto la figura serena e il roseo volto di don Costantino.
— Che sete hai! — disse sorridendo; — ti farà male quell’acqua!
— E Maria? — domandò egli premurosamente, posando il bicchiere.
— Sta benissimo. Ti aspetta.
— Andiamo.
— E mia moglie, non torna? — chiese un po’ ironico don Costantino, andando avanti. — Meno male che lasciò me a far da donna. E già! c’era poi don Piane ad aiutarmi!...
Sentì Stefano ridere, ma d’un riso così stonato che si volse.
— Meno male, che te ne ridi! — disse fingendosi stizzito. — Sopra il danno la beffa.
— E mio padre che dice?
— E tuo padre che dice? Povero me! — esclamò don Costantino; e narrò le prodezze di don Piane che avea vegliato tutta la notte piangendo come un bimbo, pregando e accendendo candelette di cera. Poi, appena nato il bimbo, s’era calmato; ma ora non voleva muoversi dalla camera di Maria, e già tre o quattro volte avea preso il neonato per accostarlo alla luce e vedere il colore dei suoi occhi non ancora aperti.
Stefano rise di nuovo, ma con più naturalezza.
Attraversavano il salotto, e don Costantino camminava e parlava piano:
— Ora rimette già all’ordine del giorno la questione del nome! — disse con la sua bonaria ironia. — Fa un po’ il piacere tu di dirgli che c’è tempo, e lasciargli stare un po’ in pace tua moglie, poveretta....
Spingendo la portiera vide che don Piane, profittando della sua assenza, s’era ancora impossessato del bimbo.
— Eh, diavolo! — disse a voce bassa, ma adirandosi davvero. — Finirai col fargli del male!
Stefano andò dritto da Maria, la guardò, le posò una mano sulla fronte: e la fronte era fresca, ma il viso pallidissimo e gli occhi smorti enormemente dilatati.
— Hai dormito?
— Sì, un poco. E la mamma?
— Tornerà stasera.
Don Costantino riportò il bimbo, fece scostare Stefano, e delicatamente rimise nel letto il piccolo tesoro fasciato dal collo ai piedi. Il padre si chinò, lo guardò a lungo, fissandone i chiusi occhi dalle brevissime palpebre bionde, l’invisibile bocca e il rosso visetto rugoso, sommerso nel pizzo ondulato della cuffietta; ma non ebbe desiderio di baciarlo.
— A chi somiglia? — domandò Maria.
— Al babbo! — sentenziò Stefano senza esitazione.
— È vero.
Allora don Piane non ebbe più soggezione di don Costantino; s’avvicinò, stese sul bimbo i braccini tremanti, in atto di possesso, e baciando Maria si mise a pianger di gioia.
Nel veder suo padre per sempre stretto a Maria, Stefano, anzi che trovar ridicolo quel puerile pianto di gioia, provò un principio di dolcezza.
— Che matto! — disse don Costantino curvo a piè del letto, accomodando la coperta. — Sicuro che ti somiglia! Ti mancano solo le fasce, Piane Arca!
Stefano seguì con gli occhi i movimenti delle mani del suocero, e s’avvide che la coperta del letto, a fondo bianco sparso di rose vermiglie, era quella stessa tessuta da Maria, cominciata nel dolore della disperazione e terminata nel gaudio di una speranza; e non seppe come, e non seppe perchè; ma questo particolare finì d’intenerirlo. Nella penombra della camera, fra lo stordimento che continuava a velargli la mente, il letto nuziale gli parve coperto da una splendida profusione di rose; rose create dalle pure delicate mani della sposa per adagiarvi la vivente rosa del suo amore.
Infatti, mentre il pallidissimo volto di lei svaniva nel candore delle lenzuola e dei guanciali, il rosso visetto del bimbo appariva come una delle grandi rose sparse sul letto e pioventi giù, giù, fino al tappeto pur esso fiorito di rose, ove parea si versassero e giacessero.
Un impeto di tenerezza, d’ammirazione e di rispetto per Maria prese il cuore di Stefano; gli parve tramutata in qualcosa di infinitamente sacro; e provando in un rapido istante mille diversi sentimenti, si pentì di non averla sempre amata e venerata come nella lontana sera in cui le rose fiorenti sull’umile telaio gli avean rivelato le ascose fragranze dell’anima della tessitrice: e si propose di amare così, per sempre, la madre di suo figlio.
— E a me, dunque, non me lo lasciate baciare? — disse ridendo; e avvicinò le labbra al molle e caldo visino che contraendosi lievemente da roseo si fece vermiglio. Poi s’allontanò ancora; e improvvisamente lo riassalì il ricordo, l’angoscia, lo spasimo della piaga chiusa in quei brevi istanti d’oblìo. Come s’era potuta chiudere? C’era dunque qualche cosa che poteva chiuderla?
Egli gridò fra sè queste due domande, e come risposta gli salì al cuore e gli dilagò per le vene un doloroso stupore. Era una sensazione di viltà o il supremo coraggio del sacrifizio?
Egli non sapeva: ma davanti all’estrema gioia del vecchio padre, davanti a quell’ara fiorita di rose, che oramai conteneva due idoli, egli sentiva che le sue mani non si sarebbero mai macchiate di sangue, neppure per compiere una doppia famigliare giustizia.
Ma l’odio lo divorava; e anche spezzato, il suo orgoglio non poteva dare il perdono, — la misteriosa nota che mancava nella selvaggia armonia della sua anima.
Per la stessa esile vecchiaia del padre, per la stessa sacra purezza della sposa e madre, per il medesimo superbo avvenire del figlio, per la memoria dei morti, per l’onore dei discendenti, Stefano Arca doveva compiere la vendetta.
Prima però volle riposarsi, calmarsi, vincere l’ira affannosa che lo stordiva; e dormì quasi tutto il pomeriggio, ma senza provare, in quella lunga sera serena che avea tutte le fragranze della primavera e gl’incantesimi dei meriggi estivi, la malìa delle sieste dell’anno passato: anche nel dormiveglia e nel sonno il dolore lo feriva come una lama avvelenata.
Verso le nove di sera entrò da sua moglie e vi si trattenne, senza parlare, senza far rumore. Maria e il bimbo stavano sempre meglio; anzi questo aveva perduto il colore troppo acceso del visino, che ora, fra le morbide ombre traforate dei pizzi della cuffietta, appariva roseo ed immoto, col nasino bianco e le sopracciglia di peluria biondiccia ben disegnate; la madre, meno pallida, riposava.
E nel suo sogno forse anch’ella scorgeva vive e olezzanti le rose che la circondavano; forse rivedeva il vecchio telaio, l’antica casa paterna, e le argentee foglie dei pioppi e le oscure foglie del noce che volteggiando nei meandri del ruscelletto non più si smarrivano, ma fermandosi sulle rive fecondavano, crescendo in freschi cespugli, dove trillavano le cingallegre in amore.
Stefano uscì pian piano, accese una sigaretta nella fiamma del lume, e disse ad Ortensia di vegliare e suonar forte caso mai bisognasse la sua presenza.
Poi scese nell’orto, andò diritto al muro che dava sul viottolo e attese. Gli sembrava di essere calmo e risoluto, ma tratto tratto il cuore gli cessava di battere, e l’oscurità notturna, benchè serena e stellata, gli dava una oppressione e una irresolutezza.
Cantavano i grilli; incessantemente, sottilmente cantavano; e in quel tremolìo fine argentino, egli, chiudendo gli occhi, percepiva un continuo scintillìo di lamine metalliche, vibranti fra la misteriosa opacità dei grandi alberi dormenti.
I minuti, i quarti, le ore passarono. Egli le sentì, le contò; udì tacere l’ultimo cane sveglio del villaggio, e provò un po’ di freddo umido alle mani: sentì la siepe, l’erba e i fiori del muro e i gigli dell’orto, incolori nella notte, inumidirsi e olezzare sempre più distintamente; vide le stelle scintillare attraverso l’immobile e scura trasparenza degli alberi dormenti. Poi nel perfetto silenzio delle lontananze solitarie udì il grido cadenzato dell’assiolo: solo questo grido, sottile, distinto, eguale, che nelle sue ritmiche cadenze aveva un senso di solitudine indicibile.
Egli ne fu suggestionato: provò una profonda tristezza, si sentì stanco, affranto, ed ebbe desiderio di stendersi sull’erba, d’affondarvi il volto, e dormire e dimenticare. Ma ecco che un gallo cantò, e un passo risuonò nel viottolo. Tutte le sue potenze vitali si svegliarono fremendo e aspettando.
— Serpe! — urlò fra sè, quando intravide il nemico gittarsi a terra e strisciando penetrar nel cortile di Silvestra.
Sentì un dolore iracondo, umiliante, inenarrabile, mille volte più acuto di quello sin allora provato, perchè in fondo, fino a quel momento, avea dubitato; e tutto vibrante d’ira andò dall’uomo che più disprezzava, dallo sbirro Pennini, e gli disse che se voleva rendere un nuovo servizio alla giustizia ed alla società, con l’arrestare Filippo Gonnesa, s’appostasse all’alba in fondo al viottolo.
fine.
Note
- ↑ Che ella sia muto!
- ↑
Uccellino di primavera,
Nato in [una] macchia di rose,
Diteglielo a comar Rosa
Di stringermi la mano,
Uccellino di primavera. - ↑ Ninna-nanna, ninna-nanna:
O bello, (che io possa vederti) adoprando la penna,
Con sul tavolo il cappello,
Adoprando la penna, bello,
Con mano destra e manca.
Col cappello sul tavolo,
Con alti gradi e cariche
Posato sulla sedia
(questa frase significa: possa io vederti in alta posizione).Con carica e alto grado
Sulla sedia posato.
E ti faccian omaggio
Quando tu darai i tuoi responsi.
Ti stringano la mano
Tutti i capitani (alti personaggi),
E ti faccian onore
(Come lor) primo superiore.
Tutto ciò ti conceda Iddio:
Ninna-nanna, fior mio.