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cantore inghirlandato di margherite e di fiori di pisello odoroso:

Puzoneddu ’e beranu,
Naschidu in tuppa ’e rosa,
Nazelìo a comar Rosa
A mi toccare sa manu,
Puzoneddu ’e beranu.1

Il bimbo non pronunciava le parole perfettamente, ma dava al grazioso stornello nuorese la giusta intonazione musicale, un po’ monotona ma dolcemente cadenzata, così che Stefano ne fu colpito; e in quell’esile cadenza infantile, sperduta nella serenità silenziosa di quel soleggiato angolo dallo sfondo campestre, l’acuta percezione di Stene ritrovò qualche cosa d’interessante ed originale. Non era forse quella l’ultima semplice nota che ancora gli mancava per completare la riproduzione della melodia sarda udita nella valle? Quel bimbo rosso, inghirlandato di fiori campestri, già indolente e sognatore, quella ingenua e vaga preghiera d’amore, uscente dalle fresche labbra vermiglie come fior di melograno, non rappresentavano il sentimento puerile, sì, ma puro e sano, del primo


  1. Uccellino di primavera,

    Nato in [una] macchia di rose,
    Diteglielo a comar Rosa
    Di stringermi la mano,

    Uccellino di primavera.