La fanciulla straniera
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
JACOPO TURCO
LA FANCIULLA STRANIERA
(NOVELLA)
ESTRATTO DAL FASCICOLO DI AGOSTO 1905
DELLA
Rivista d’Italia
ROMA
201 — VIA DEL TRITONE,— 201
Roma — Tipografia dell’Unione Cooperativa Editrice, via Federico Cesi, 45.
LA FANCIULLA STRANIERA
NOVELLA.
Malvina, Dorabella e Decio de’ Rosas erano usciti da poco sotto la tettoia quando si udì il fischio della locomotiva. Il diretto di Berlino entrò impetuosamente in stazione e i giovani che aspettavano con impazienza una loro sconosciuta cugina si avvicinarono premurosi agli sportelli della prima classe, cercando indarno la solitaria viaggiatrice. Comparve alfine in mezzo alla folla una fanciulla bionda, alta, snella, vestita di nero. Malvina non esitò a ravvisarla dalla fotografia.
— Anna! Anna!
Anna de’ Wittov si fermò senza titubanza, per il lieto, cordiale riconoscimento, e dopo avere abbracciato le fanciulle, offerse con disinvoltura le sue guancie un po’ pallide anche a Decio, dando a tutti del tu ed esprimendo correttamente in italiano, con un grazioso accento esotico, l’immenso piacere che le dava quell’arrivo a Roma.
—— Non ti si trovava mai! — osservò Dorabella — ove stavi nascosta?
—— Prendevo congedo da un cortese signore che mi aveva fatto da cicerone durante la via... e poi... voi forse mi credevate in prima classe! In Germania, qualche volta, si viaggia anche in terza, ma qui la terza non c’è... tanto in treno non posso, nè voglio dormire.
I fratelli de’ Rosas scambiarono un furtivo sguardo, ma subito Malvina domandò:
— Sarai stanca dopo tante ore di ferrovia?
— Oh no! quando fuori faceva buio leggevo e pensavo. Dopo mi sono occupata del paesaggio. È così interessante! Ma ditemi, la zia, la cara zia? ho tanto desiderio di vederla!
— Ella pure ti aspetta con piacere; venite, venite, affrettiamoci! — disse Decio, mentre si dirigevano verso l’uscita.
I giovani salirono nell’elegante landau padronale considerandosi vicendevolmente con benevola curiosità, e i cavalli s’avviavano a un trotto serrato verso la via Nazionale.
— E dunque, Anna, quando prenderai la laurea? — interrogò Dorabella.
— L’anno venturo soltanto. La morte del babbo ha interrotto i miei studî.
— Era molto buono lo zio, non è vero?
— Un’anima superiore — mormorò la fanciulla con un’improvvisa angoscia che tradiva lo spasimo interno del suo inassopito dolore.
Le tre manine di nuovo si strinsero con un certo trasporto e Dorabella riprese:
— Era d’accordo che tu studiassi medicina?
— L’ha desiderato egli stesso. Forse, io avrei preferito le scienze naturali, ma poi compresi che aveva ragione, come di consueto. Quando ripugna la solita carriera dell’insegnamento per la donna è ancor sempre la via da prescegliersi. Io mi dedicherò in particolar modo alla pediatria.
— Scusa, a...
— Alla cura dei bambini malati — spiegò subito Decio, arricciandosi i piccoli baffi neri, poi, per deviare il discorso, egli chiese:
— Hai viaggiato sola altre volte?
— Oh sì, ci sono avvezza. È una triste necessità quando non si ha più nessuno.
— Adesso non dirai più così — continuò il giovane, amorevolmente — che cosa faresti lassù fra quelle nebbie?
— Grazie! il vostro gentile invito mi ha commossa. Avevo tanto bisogno di conforto! Del resto, l’occupazione non mi manca. Ho ancora molto da lavorare prima di raggiungere una certa libertà geniale nello studio. E poi... se non prossimi parenti, mi rimangono due tre cari amici a Berlino.
— Amici o amiche? — domandò Decio, sorpreso.
— Amici. Mio padre aveva delle sicure affezioni. Oh le donne! scusate, cugine mie, esse sono eccezionalmente fedeli nell’amicizia.
Una bimba dagli occhioni neri, approfittando d’una breve sosta nella circolazione, era salita sulla predella, aveva gettato un mazzolino di mammole alla forestiera. Decio ne acquistò alcuni e glieli offerse.
— La buona opinione che hai degli uomini mi lusinga assai! — diss’egli sorridendo.
— Te ne supplico, non fraintendermi Decio! In certe cose... vi mostrate anche troppo perversi! — ribatte Anna in tono di scherzo — ma non parliamo di questo nel momento in cui mi doni le prime viole di Roma. Roma! non mi par vero d’esservi finalmente arrivata!
E passando, ella nominava con sicurezza i monumenti e le vie.
— Tu la conosci meglio di noi! — esclamò Malvina con grande meraviglia.
— Il babbo me ne ha molto parlato, me ne parlava sempre. Roma aveva per lui i ricordi più cari. Egli me ne metteva spesso sott’occhio la pianta a ciò mi rendessi familiare con la città ov’è nata mia madre, con la mia seconda patria. E io ho tanto amato queste cose belle ch’esse hanno ancora per me l’incertezza paurosa del sogno.
Era un pomeriggio luminoso di marzo e la primavera si gloriava dei suoi fiori nella città dei ricordi e della bellezza. Canestri di primole e di violette, rami leggiadri di pesco dai boccioli ancor chiusi, mazzi di candide camelie, fasci di tulipani, ovunque una poetica esultanza di colori e di profumi. Anna de’ Wittov si sentì compenetrare dall’estasi ineffabile di quella prima visione.
La carrozza già infilava il Corso ed entrò poco appresso nell’atrio del palazzo de’ Rosas in fondo al quale s’intravvedeva, da un’elegante cancellata, il piccolo giardino interno tutto fiorito di azalee gialle.
La viaggiatrice saltò a terra e salì rapidamente le scale per raggiungere Ortensia de’ Rosas, la sorella di sua madre che l’aspettava sul pianerottolo. Un nodo la stringeva alla gola per quell’incontro con la zia quasi sconosciuta. Difatti ella si trovò fra le braccia matronali d’una signora grave, alta, impettita che subito allentò, con compassate parole, quella stretta poco spontanea e dopo i primi brevi istanti di repressa effusione, Anna un po’ turbata chiese il permesso di ritirarsi, esprimendo il desiderio di prendere un bagno freddo. Le sue cugine la seguirono con amorevole sollecitudine e Decio rimase presso la madre a scambiare le impressioni sulla nuova venuta.
— Bella non è davvero! — osservò donna Ortensia.
— Non è bella, ma è molto piacente. Ha un tipo fino, più anglosassone di tedesco, e poi... sembra che le rifulga l’anima dal volto.
— Avrà dell’ingegno, non lo nego, ma anche la sua buona dose di stravaganza — riprese donna Ortensia — l’originalità di suo padre era nota.
— È una fanciulla moderna, di questo ne convengo — mormorò Decio.
— Molto moderna. Lo presentivo e d’altronde l’avevo capito anche dalle sue lettere. Non so quale vantaggio ne trarranno le tue sorelle. Sei tu, col tuo sentimentalismo che l’hai voluta! Dopo tutto è mia nipote e, all’occorrenza, non mi farò riguardo di parlar chiaro.
Decio non insistette perchè sapeva che non era facile compito il lottare con sua madre. D’altronde era un po’ sconcertato egli stesso dalle idee di Anna.
Quando, dopo un’ora, la fanciulla riapparve nel salotto al braccio di Malvina, ogni più lieve traccia del viaggio era in lei svanita; tutta la persona spirava un’aria di fresca e balda salute giovanile, una tranquilla coscienza di sè, non priva d’alterezza, ma scevra di spavalderia. Il suo vestito nero da sera, d’una semplicità signorile, rivelava l’eleganza un po’ nordica, un po’ rigida e molto pura delle forme, i capelli biondi, abbondanti avevano dei riflessi d’oro come se li lambisse un raggio di sole.
— Vieni qua, cara fanciulla, lascia che ti guardi meglio! — disse donna Ortensia, attraendo a sè, con studiata amorevolezza, la nipote — non somigli affatto a Irene, sei l’immagine di tuo padre!
— La mamma mia era molto bella... la ricordo, sebbene avessi soltanto tre anni quando la perdetti! rammento d’aver veduto anche lei, zia, al suo letto di morte...
— Dopo, non vi siete più incontrate — deplorò Decio, con una certa amarezza.
— Sì, sono ventidue anni, ma che vuoi, la zia ha molto sofferto anch’ella e le combinazioni della vita si frappongono spesso in più allettanti propositi — soggiunse gentilmente la fanciulla, vedendo che il dialogo rischiava di farsi un po’ scabroso.
Figlie d’un patrizio romano, che più del censo poteva vantare il nome illustre, Irene e Ortensia erano cresciute d’indole opposta e così diverso era stato il loro destino. Irene, la minore, intelligente, generosa, un po’ fantastica, s’era invaghita di Arnoldo de’ Wittov, un giovane annoverese di passaggio a Roma per certi suoi studi di filologia, e a superare, dopo lunga, aspra prova, le difficoltà che la famiglia opponeva al matrimonio, più dell’invincibile amore aveva giovato la sua salute da quel contrasto in modo assai grave compromessa.
Positiva, calcolatrice, forse non del tutto sprovvista d’ingegno, ma molto arida di cuore, Ortensia, soffocando il nativo orgoglio, era andata sposa a un ricco industriale. Rimasta vedova, in capo a pochi anni ed erede d’una parte del vistoso patrimonio de’ Rosas, che il marito s’era compiaciuto d’affidarle, ella aveva assunto con mani tenaci la direzione della casa.
Irene, già debole e malaticcia, soggiaceva intanto, dopo breve ma ineffabile contentezza, al rigido clima di Berlino ove de’ Wittov era stato chiamato ad assumere una cattedra importante dal suo Governo.
Il momentaneo riavvicinamento delle due famiglie, colpite a breve distanza da diverso dolore, fu seguito da una grande freddezza, poi da un reciproco oblio. Il professore, immerso nel suo lutto e nel raddoppiato affetto che lo legava alla figlia, non degnò più di curare i parenti altezzosi della moglie adorata e perduta. Quand’egli morì alla sua volta, giovanissimo ancora e di male improvviso, lasciando Anna indifesa e sola al mondo, Decio si commosse al ricordo vago della zia esulata per sempre in terra straniera, al pensiero di quella cugina derelitta a cui avrebbe bramato offrire fraternamente la sua casa e dei confortevoli affetti. Ma la sua insistenza non aveva ottenuto da donna Ortensia che la semplice grazia d’un invito a tempo indeterminato al quale, dopo breve scambio di lettere Anna, riconoscente, s’era fatta premura d’aderire.
— Molte cose tristi sono trascorse, per tutti — sospirò ella — ma eccomi a godere una grande dolcezza nella vostra affettuosa ospitalità.
— Decio m’ha assicurata che persisti nell’intenzione di dedicarti alla medicina?
— Senz’altro, zia.
— Non temi le malattie contagiose? — continuò donna Ortensia ch’era molto apprensiva.
— No, affatto. Il continuo pericolo ci rende immuni, e alla paura non ci si pensa mai.
— E... ti sei già occupata di sezioni anatomiche?
— Molte volte. È indispensabile.
— Brr!... non provavi ribrezzo?
— Alla prima ebbi una tormentosa ripugnanza, poi la vinsi per l’ardente desiderio di apprendere. Adesso non mi turbo più, ho raggiunto l’impassibilità.
Un sorriso strano errava sulle labbra di Decio, ma Anna non vi pose mente, lontana com’era dal supporre che il giovane la disapprovasse. Se n’accorse invece Malvina, e per interrompere esclamò:
— Come conosci bene l’italiano! Sarei felice di potermi esprimere così correttamente nella tua lingua!
— Il babbo lo sapeva a perfezione ed esigeva che lo parlassi spesso, per una deferenza verso la mamma mia. Soltanto col mio nome non volle transigere... mi chiamò sempre Hannele.
— Hannele! è carino... ma a me piace molto più l’altro vostro diminutivo Aennchen — disse Decio — anzi, se non ti rincresce, io ti chiamerò così...
— Accetto, grazie! — rispose con trasporto la fanciulla, sentendosi rincorata da quell’affettuosa familiarità.
Poco appresso un cameriere aperse le porte della piccola, elegante sala da pranzo, ed ella provò un senso di piacevole benessere intorno alla tavola adorna con gusto perfetto di nastri verdi e di ramoscelli di medeola, respirando il silvestre olezzo di pino che sfuggiva da un’antica coppa di cristallo colma di acqua aromatizzata e guarnita di fiori.
*
* *
Decio de’ Rosas si coricò quella sera con un’immagine fissa nel pensiero. Gli stava sempre dinanzi quella fanciulla così diversa dalle donne che aveva fino allora incontrate e ammirate, anche delle più intellettuali, così inquietante nell’assoluta e pur vereconda sicurezza dei suoi limpidi occhi azzurri; sentiva ancora sulle guancie il contatto tranquillo di quelle labbra fresche e profumate. Impressioni contraddicenti di simpatia impetuosa e di sorda ostilità gli si alternavano nell’animo, suscitandovi una specie di tumulto.
Le sue sorelle erano cresciute sotto una direzione all’apparenza piuttosto rigida e fra abitudini alquanto mondane. Esse frequentavano con lo stesso ardore gli uffizi sacri e tutti quei pubblici ritrovi ove la presenza d’una signorina per bene non può dar luogo a critiche spiacevoli, passando con disinvoltura da una riunione filantropica ad un ballo, dalla chiesa, in cui predica in forma poetica l’oratore in voga, alla cavalcata, alle corse, al teatro, parlando con la stessa importanza d’una funzione religiosa e d’un vestito di Manby, d’una visita di carità e d’una garden-party in qualche sontuosa villa della capitale.
Quel singolare miscuglio di elementi mistici e profani aveva fatto di Malvina e Dorabella de’ Rosas due creature ibride che dominava nondimeno la folle manìa di tutto ciò ch’è moda, lusso, piacere. Corredate da una brillante ma superficiale infarinatura di lingue e di musica, esse non accarezzavano alcun ideale nella loro frivola vita, se non quello di divertirsi aspettando fra svariati ammiratori l’uomo che offrisse le più solide garanzie d’una positiva felicità nel matrimonio.
Per l’educazione di suo figlio, donna Ortensia aveva manifestato più larghi e saggi intendimenti. I gravi studî in Italia e all’estero, i viaggi frequenti, la giusta libertà d’azione non potevano a meno d’assecondare lo sviluppo d’una tempra eccezionalmente favorita dalla natura. Decio aveva ereditato dal padre un facile e limpido intelletto, dalla stirpe materna, con la gentilezza latina, una grande distinzione signorile, e quella cortesia, ora molto in disuso, delle forme che impone la nobiltà del contegno, la misura nella parola, la deferenza verso la donna. Ma questa specie di cavalleresco omaggio derivava in lui sovrattutto dal convincimento della inferiorità muliebre che commuove il cuore di molti uomini d’una tenerezza protettrice verso la creatura bella e pur deficente che loro malgrado li affascina.
Aristocratico del pensiero, egli mal consentiva alle idee moderne e fin dalla prima giovinezza si era adoperato ad eliminare dalla casa i ricordi per lui ripugnanti d’ogni attività commerciale. Ciò non toglie che sorvegliasse con acume gli amministratori d’una ricchezza eccezionalmente onesta. Egli caldeggiava d’altronde le istituzioni pie, prestando, oltre il soccorso, l’efficace opera manuale, sportman moderato, era un cultore appassionatissimo del buon gusto, della lettura, delle arti e non menava vanto del suo sapere, integro e fermo nel carattere, virile nell’aspetto e nei propositi rappresentava il tipo del gentiluomo d’una volta con le sue belle qualità antiche e con qualche antico pregiudizio.
Il giovane rimase un po’ sorpreso quando, due giorni dopo, a colazione, Anna gli domandò:
— E tu che cosa fai? non hai un’occupazione fissa?
— S’occupa sempre! — rispose per lui donna Ortensia un po’ piccata — intanto accudisce ai propri interessi, poi fa parte di molte società, anche di beneficenza; non gli mancano che gli anni per esser deputato.
— Capisco. Svaghi da signore. Io sono avvezza a trovarmi in mezzo a della gente che deve guadagnarsi il pane e che sostiene un’aspra lotta per la vita. Perdona, Decio, alla mia indiscreta domanda.
— Ti pare Aennchen!— dice il giovane con la più schietta amabilità. — Il lavoro è una bella cosa sotto qualunque forma.
— È la migliore nobiltà umana. Non ti pare? — esclamò la fanciulla, guardandolo serenamente coi limpidi occhi azzurri ove rifulgeva qualche volta una specie di bagliore verde.
— Più nobile della carità? — disse donna Ortensia.
— La carità sarà sublime finchè la considereremo come una Virtù.
— Non cesserà mai di esserlo!
— Potrebbe darsi che col tempo diventasse un dovere e rispettivamente un diritto.
— Un dovere privo di poesia... e un diritto pieno di arroganza — disse Decio.
— Poco importa! tu ammetterai, credo, che il domandare l’elemosina e il riceverla sia una umiliazione che irrita il povero e alla lunga lo corrompe...
— Cara Aennchen, tu hai delle idee molto singolari...
E come la fanciulla, meravigliata, non rispose, un momentaneo silenzio si fece, come accade quando vi è qualcuno che parla una lingua incompresa.
*
* *
Il giorno appresso Decio volle che sua cugina vedesse Roma dall’alto e condusse di buon mattino le tre fanciulle sul monte Mario. Egli nominava i campanili, le torri, i monumenti e Anna, seduta in un prato verdeggiante, lasciava errare lo sguardo estatico su quel paesaggio unico al mondo, sulla magnifica semplicità della campagna brulla che il sole inondava di splendori nella classica purezza del cielo primaverile.
Il suo volto tradiva una commozione deliziosa.
— Mi sembri un’acuta osservatrice! disse il giovine, vedendola così intensamente assorta e chinandosi sovra di lei.
— Non so... ciò dipende forse dalla vita interna — rispose la fanciulla, senza dare a quelle parole il valore d’un complimento — sento che questa divina visione mi farebbe diventare contemplativa. Qui, l’ozio stesso è fecondo!
Vi era nella voce di Anna un ardore represso, nella sua mobile fisonomia una straordinaria vivacità intellettuale.
— Hai una natura ricca che tutto afferra e comprende! ti interessano perfino questi piccoli fiori — continuò Decio, più tardi, mentre ella osservava con attenzione le erbe del prato.
— Le cose hanno anch’esse un’anima che ci parla, e tutto concorre all’armonia del creato, non ti pare? — diss’ella con semplicità.
Il giovane annuì. Gli sembrava realmente che in quel giorno il mondo per lui si avvalorasse d’una speciale attrattiva.
Poco appresso, Dorabella propose di scendere a San Pietro, perchè era domenica.
— Assisti alla messa, sei dunque credente? — chiese Anna, con franchezza, a suo cugino, mentre attraversavano insieme la piazza meravigliosa.
— Quale strana domanda! — mormorò Decio, piano, a ciò non sentissero le sue sorelle — certe abitudini si contraggono anche in forza d’un principio.
— Non ti sembra un’ipocrisia?
— No. La società ha le sue esigenze, sovrattutto in tempi di rivoluzione come quelli che stiamo attraversando.
— Di evoluzione, intenderai dire! — esclamò la fanciulla.
— Come vuoi, Aennchen. Del resto, il dubitare delle cose soprannaturali può essere anche un meschino orgoglio.
— Io studio medicina, lo sai. Ciò non impedisce che tutto quello che v’ha di grande, di puro, di nobile nella morale cristiana non m’affascini e m’esalti. Soltanto il mistero è per me più un desiderio che una sicura fede.
Era la festa degli ulivi. I fanciulli vendevano in piazza i glauchi ramoscelli e i fiori fantastici intrecciati colle foglie di chamaerops, che vengono dalla Riviera ligure; molti fedeli salivano la gradinata portando seco il dolce simbolo di pace. Anna s’era voltata a contemplare le chiome iridescenti delle fontane che ondeggiavano al vento. Decio le offerse un piccolo trifoglio di palma.
— Pace, nella comunanza di quel desiderio! — diss’egli.
La fanciulla sorrise al dono gentile. Mai ella aveva sentito parlare così e ne provò un compiacimento strano come se il loro incontro nella vita fosse illuminato di alta poesia.
Quando entrarono nella basilica Anna ebbe l’impressione di dilagare in una imperiosa grandezza. Ella s’inoltrò con crescente meraviglia nel tempio mondiale in cui le folle sembrano disperdersi, volle avvicinarsi alla Confessione, ove ardono le lampade perpetue dinanzi alle tombe degli apostoli, custodite da Pio VI genuflesso, si confuse col popolo orante, coi devoti pellegrini, colle suore estasiate e i forestieri impassibili che assistono al rito come a uno spettacolo qualunque. Quel rito era più solenne che mistico. Mentre sfilava il corteo dei sacerdoti disposti in ordine di rango e a norma di esso recanti in mano l’emblema più o meno ricco della festa, dalle umili frasche d’ulivo ai complicati trofei di palma, una luce azzurrina inondava i biancori dorati della basilica nella sua imponenza sovrana, i mirabili putti del Fiammingo sembravano sorridere sul tabernacolo del Bernini e in alto, nella tribuna fiammeggiava, fra i sepolcri dei papi, circondata da una gloria di angeli, sul suo fondo trasparente, l’immagine del Paracleto.
— Questo tempio è così stupefacente nel suo complesso — disse Anna più tardi, sortendo dall’atrio — che la prima volta non si potrebbe discendere a una minuta analisi delle cose. Io tornerò a San Pietro sola per passarvi delle ore, ma che volete, prima avrei bisogno di vedere una piccola, antica chiesa cristiana...
— San Clemente — suggerì Malvina.
— O la cappella di Santa Cecilia nelle Catacombe — proseguì Decio.
— Le Catacombe! con quel puzzo di rinchiuso, con quell’incubo di rimanervi sepolti vivi! — esclamò Dorabella.
— Rassicurati! a titolo di compenso ti mostreremo l’esposizione di mode di miss Ethel White! — concluse Decio, ridendo.
— Ti prendo in parola, e mi farai un bel regalo!
*
* *
I giovani andarono peregrinando alcuni giorni dalle chiese ai musei, dalle ville alle rovine. Decio era un sicuro e piacevole cicerone e trovava nella sua cugina una colta ed intelligente ascoltatrice, ma Dorabella e Malvina non tardarono a stancarsi di quella vita così poco conforme alle loro aspirazioni e Anna, che non voleva tediare i compagni, finì coll’escire spesso sola, di buon mattino. Ella conobbe così, a poco a poco, la bellezza di Roma e molte mirabili cose le divennero in breve tempo familiari. Nondimeno ella si sentì richiamata con insistenza da quadri e statue meno noti, da brani d’architettura nascosti nell’ombra, da certe visioni di paesaggi singolari che avevano destato nel suo animo gioie soggettive, entusiasmi ignorati dalla folla dei forestieri convenzionali.
La Pasqua solenne era trascorsa e dopo la dolce melanconia dei cantici sacri, la fanciulla gustava tutta la serenità festosa dell’aprile romano, nel cielo incomparabile d’Italia, nella freschezza trasparente del verde novello che si fa di smeraldo fra le masse cupe del verde perenne. Se le tragiche rovine dell’epoca pagana avevano attratto con dolorosa stupefazione il suo pensiero, la poesia dei primi tempi del cristianesimo che sopravvive in semplici, pietosi ricordi, la compenetrava di soavità, l’eleganza suprema del Rinascimento, le opulenze pittoresche del barocchismo le davano vivi piaceri estetici e artistici, le linee classiche degli alberi sugli sfondi fulgidi commozioni profonde, ma in mezzo a tanta ricchezza d’immagini una brama acuta la premeva, un bisogno irresistibile dello spirito e dei sensi: la musica. Senza essere musicista ella sentiva dentro di sè quella necessità dei suoni che suscita in molti il piacere delle arti imitative, come se la loro essenza più sottile dovesse tradursi ed esalarsi in arcane armonie. Ammiratrice sincera, ma punto esclusiva di Wagner, ella anelava alla musica teatrale italiana quale la si eseguisce in Italia e come in quei giorni era andata in scena al Costanzi la Traviata con cantanti celebri, non esitò a palesare il suo ardente desiderio.
— Volentieri! ci procureremo subito un palco — disse donna Ortensia.
— Gira zie, zia, preferirei di gran lunga gli scanni... sono in lutto e il teatro per sè stesso non mi desta uno speciale interesse... non potresti accompagnarmi tu? — riprese Anna, rivolgendosi a Decio.
— Con tutto il cuore, ma...
— Qui non usa che una signorina bennata vada in giro sola con un giovane, nemmeno col pretesto dello stretto vincolo di parentela — disse donna Ortensia, freddamente.
— Ah sì, zia mia! non ricordavo! queste cose non me le rammento mai! ma io sono forestiera e poco monta. Posso andarvi anche da per me e prendere una botte per il ritorno.
In seguito a questa risposta stupefacente e a scanso di maggiori guai, il caso fu meditato e discusso e dopo qualche incertezza si votò per le poltroncine e si stabilì che Decio fungerebbe da guida e Miss Sutton, una maestra d’inglese piuttosta anziana e molto distinta, da accompagnatrice. Non parve vero alla fanciulla d’aver superate finalmente tante incomprensibili difficoltà.
La platea del Costanzi era gremita di gente. La fanciulla accordò appena uno sguardo ai palchi che si andavano popolando, sebbene Miss Sutton, che conosceva tutta Roma, si desse una gran pena di fargliene l’illustrazione. Era assorta dal pensiero dell’intenso godimento che l’aspettava.
Avvezza alla fredda perfezione delle orchestre tedesche e alla impassibilità degli artisti nordici, ella si sentì fremere da capo a piedi per la foga di certi ritmi ardenti, di certi impeti passionali e la sua gioia crebbe di mano in mano coll’incalzare del dramma. Era un rapimento.
— Vedi — diss’ella una volta a Decio — Wagner ci trasporta fuori di noi stessi, in regioni superiori. Questa musica profondamente umana, questo strazio di terreno dolore a cui tutto l’essere nostro corrisponde ci fa rientrare nella nostra piccola individualità e sembra ricercarvi qualche cosa di latente, di occulto che vi giaccia.
— È vero, è una dolce sofferenza, come quella che danno tutte le alte cose dello spirito — rispose il giovane a cui pareva di non essere mai stato così sensibile alla musica.
— Ma dimmi, non ti muovi? non hai delle visite da fare? — ripigliò Anna.
— Ti pare, Aennchen! — mormorò egli — ti ho dedicato con tanto piacere questa serata!
Miss Sutton si credette in obbligo di fornire nuovi schiarimenti sulle persone illustri che si trovavano in teatro e mentre de’ Rosas si scostava per parlare con un amico, ella disse piano:
— Signor Decio va spesso nel palco della marchesa d’Origo... vede, a destra, in seconda fila, quella signora bruna con una signorina dai capelli rossi? sono madre e figlia, ma sembrano sorelle. Io ho dato lezione due anni a miss Simonetta. Un angelo! quest’inverno si parlava molto di matrimonio.
— Con mio cugino?
— Oh sì! bellissimo matrimonio!
Il giovane ricomparve con delle rose.
— Come sei gentile! quale fragranza! — esclamò la fanciulla dividendo i fiori con miss Sutton e puntandosi due pallide Marie Van Houtte sul seno che un poco ansava.
Quando cominciò il terz’atto il suo entusiasmo le parve commisto d’un senso d’ambascia.
— E bello, ma terribile. Tu pure ti commuovi, Decio?
— Sì, Aennchen. Mi sembra ancor più toccante del solito.
Essi ascoltarono insieme fino all’ultimo la musica dolorosa, associati da una strana comunanza di percezioni, da un sottile e arguto spirito di critica.
— Ho veduto una volta una povera tisica finire così — balbettò Anna, dopo la morte mirabile di Violetta — anche quella era stata abbandonata...
— Una signorina?
— Ah no, Decio! una peccatrice che l’amore poteva redimere...
Egli la guardò con una certa meraviglia ma non rispose.
Finitolo spettacolo, i due giovani accompagnarono miss Sutton alla sua dimora in via Condotti, poi decisero di comune accordo di rimandare i cavalli e di fare a piedi i pochi passi fino al palazzo de’ Rosas.
— Ecco una piccola deliziosa trasgressione! — disse Decio mentre si avviavano lentamente verso casa.
Era un fulgore di luce bianca sulle facciate pittoresche dei palazzi barocchi nel Corso quasi deserto. Essi camminavano sempre adagio e in silenzio, sorridendosi di tratto in tratto come se la parola fosse loro d’inciampo al pensiero, nell’ebbrezza delle anime rischiarate da una specie di segreta rivelazione interna. Soltanto prima di lasciare Anna sulla porta dell’appartamento, il giovane le disse, con una certa gravità:
— Ti ringrazio di ciò che m’hai fatto godere stasera, non avevo mai diviso una emozione d’arte così intensamente con nessuno.
— Grazie a te della tua premura, Decio.
— Comandami ove posso!
— Tu esci ancora?...
— Vado dalla marchesa d’Origo, che riceve sempre dopo il teatro.
— Ah!
Una stretta di mano più lunga dell’usato e il giovane s’allontanò. Anna stette ascoltando il rumore dei suoi passi sulla scala finchè si disperse.
Le sue cugine non si erano ancora coricate e la tempestarono di domande sul pubblico del Costanzi e sui vestiti delle signore, alle quali non fu in grado di rispondere.
Solo nel silenzio della sua camera, sotto il padiglioncino del piccolo letto bianco e oro le parve trovare la pace di cui abbisognava, ma il sonno fu tardo a giungere e ella rimase gran parte della notte cogli occhi spalancati nel buio. Di tratto in tratto le veniva, dalle rose che aveva messe nell’acqua, una lieve ondata di profumo, come una dolce, casta carezza, e ogni volta il suo petto si sollevava con un profondo, trepidante sospiro.
*
* *
Malvina e Dorabella, invitate a un ballo per gli sponsali d’una amica, stavano preparandosi nel piccolo appartamento che Anna soleva chiamare il gineceo e si rincorrevano da una camera all’altra come bambine, coi capelli sciolti, nei lunghi accappatoi di lana bianca.
Spesso, in quelle stanze, nascevano discussioni interminabili fra le sorelle de’ Rosas, sul valore delle persone, sulle mode, su certe usanze, durante le quali Anna si rincantucciava, taciturna, con qualche libro.
— Aennchen, Aennchen! parla dunque, sentiamo il responso dell’oracolo! — disse quella sera Dorabella, durante un grave dibattito — fra i due chi sceglieresti tu per marito, un giovane bello, povero... per modo di dire! — ventimila lire di rendita — con suocera, o un brutt’omo, un po’ anziano, straricco, senza suocera?...
— Nessuno davvero — rispose Anna ridendo.
— Ecco la saggia Minerva! — esclamò Malvina chinandosi sovra di lei con una impetuosa carezza — saggia e... romantica come il fratello nostro.
— Bel romanticismo quello di Decio! — ripigliò Dorabella, sono certa ch’egli finirà per sposare Simonetta d’Origo... bella, buona, ricca e di nobiltà patrizia, scusate s’è poco!...
— Fino adesso — disse Malvina — egli ha sempre sostenuto che Simonetta ha troppi quattrini... che non vi è nessuna poesia!...
— Già, gliene vengono, tratto tratto, di queste aberrazioni, ma sono cose che passano. Per mio conto, garantisco, mi piglierò il fortunato che ne ha di più... Che cosa leggi con quell’attenzione, Anna? sempre immersa nei tuoi libracci! Telepatia!... Radium!... La psiche nei fenomeni della vita!... auff! che noia! non vieni a assistermi col tuo consiglio per questa pettinatura?
Anna si prestò a dare un tocco sapiente alla toilette delle sue cugine, puntando uno spillo, correggendo la posa d’un fiore. Le sue piccole mani agili di lavoratrice si movevano con destrezza anche fra le gale e le trine, fra le folte ciocche dei capelli. Quelli di Malvina nerissimi, flessuosi, erano disposti in lente ondulazioni. Dorabella, la bionda, li portava sollevati sulla fronte, all’antica.
— Sono curiosa di vedere se vi sarà Giordano Ardore — mormorò Malvina, infilandosi i lunghi guanti nelle bellissime e candide braccia — sai, è un ufficiale che giorni sono all’ambasciata di Francia mi regalò un giglio semichiuso, in fondo al quale stava nascosto un sonetto... scritto minutissimo, così minuto che- mi ci vollero le lenti per decifrarlo... Se mia madre lo sapesse, povera me!
— Io sonetti proprio no... — interruppe Dorabella — ma la telegrafia senza fili sì e guai a chi se n’accorgesse!...
— Io non avrei potuto far nulla che mio padre ignorasse... D’altronde me l’avrebbe letto in viso, perchè ero solita di confidargli i miei più intimi pensieri — disse Anna con tristezza.
Dorabella si strinse un po’ nelle spalle e si mise a ballare in tondo per la stanza.
— Senza rimorso! — cantarellò ella ridendo, su una nota aria d’operetta — e dunque Aennchen — riprese poi con una graziosa smorfia — tu che vesti bene senza saperlo, per adempiere a ciò che chiami un dovere estetico, a me che sono bionda conviene meglio il rosa o l’azzurro?
— Il rosa, Dorabella, il rosa, senz’altro. È un biondo tenero e mite il tuo che ha bisogno di circondarsi di tinte gioconde come le illusioni...
— Che peccato! se avessi potuto venire anche tu! — lamentò Malvina poco appresso, mentre s’avviavano con donna Ortensia.
— A Berlino, ove tutti ballano con frenesia, una volta, da giovinetta, mi ci divertivo. Quando si ha molto sofferto, certi diletti ripugnano... e a Roma, forse, non sarei stata capace di ballare mai. Non compiangetemi! si sta così bene a casa!
Dopo aver accompagnate le sue eleganti cugine fino alla scala, Anna rientrò nel piccolo salotto del gineceo, ove, essendo stato giorno di bufera, ardeva il fuoco in onor suo, accostò freddolosa un tavolino al caminetto e dopo aver raccomandato alla cameriera che aspettava, di coricarsi fino all’arrivo delle padroncine, si dispose alla veglia solitaria.
La sera donna Ortensia riceveva sempre, oppure usciva colle figliole, deplorando che sua nipote avesse così poca inclinazione per andare nel mondo. La fanciulla sentiva il bisogno di raccogliersi, di riordinare le sue memorie, di corredarle d’appunti e di note storiche. Una sol volta ella aveva accondisceso di accompagnarle da donna Lavinia Collalto, una delle signore più intellettuali di Roma, le cui sale accoglievano giornalmente il fiore dell’intelligenza e della celebrità. Illustre ella stessa per le sue dotte pubblicazioni, l’eletta signora amava di nascondere il proprio merito nell’ombra e non diffondeva intorno a sè che una viva luce di dolcezza e di cortesia. Nella folla cosmopolita che le passava dinanzi ella sapeva subito discernere con fine accorgimento quegli esseri che, non per l’ingegno, la coltura, la genialità, ma per l’elevatezza nativa dell’animo si rendevano superiori, sapeva anche attrarli e incatenarli con un fascino speciale. Quando Anna le fu presentata, ella le vide tosto in fronte l’insolito raggio e glielo disse e Anna provò la commozione ineffabile che dà la presenza d’una persona che con un solo sguardo ci compenetra e c’intende.
La stessa attrattiva di quell’appartamento adorno di mirabili opere d’arte in cui non v’era oggetto che non portasse il suggello del buon gusto, quell’atmosfera satura d’idee alte e suggestive non potevano a meno di lasciare nell’animo della fanciulla un’indelebile ricordanza. Ma donna Ortensia che, del resto, vi aveva trovato buon accetto soltanto in virtù di suo figlio, non amava di farvi che delle rare comparse, tanto per appagare la sua vanità.
Quella sera Anna gradiva in modo particolare il silenzio e il raccoglimento, perchè il suo animo era travagliato da una specie d’ambascia. Nondimeno s’impose il lavoro con quella ferma volontà ch’era addestrata a ben altre prove. Lesse alcuni pensieri di Marco Aurelio, un brano della storia del medio evo di Noma del Gregorovius, sfogliò un giornale di medicina, rivide le correzioni di alcune bozze di stampa.
Era così intensamente occupata che più non si accorse del tempo che passava.
Avevano già suonato le due del mattino, quando un rumore di passi la destò dalla sua concentrazione, e poco appresso Malvina comparve al braccio del fratello. Si era sentita male per una forte emicrania, diceva, ma non volendo turbare la festa a Dorabella, che tanto si divertiva, aveva pregato Decio di ricondurla a casa.
— Tu qui, ancora! — esclamò entrando il giovane sorpreso.
— Io sono avvezza a passare notti intere al letto degl’infermi! — disse Anna — questa non è una veglia! — poi s’incaricò subito della fanciulla sofferente, l’accompagnò al suo letto, la svestì, la fece coricare ella stessa, e quando l’ebbe composta sui guanciali, pervenne in pochi minuti a addormentarla, mediante un massaggio razionale.
— È cosa già passata — mormorò ella rientrando nel salottino, ove Decio l’aspettava prima di tornarsene al ballo — un po’ di stanchezza di nervi, null’altro. Dillo alla zia acciò si rassicuri. Io aspetterò fino al vostro ritorno.
— Grazie, piccola fata! — rispose Decio, con un sorriso di ammirazione — vado, ma ne ho poca voglia.
E invece d’avviarsi sedette vicino a lei, dinanzi alle ultime brace morenti.
Anna era vestita come sempre di nero, d’una stoffa morbida e tutta pieghettata, ma quella sera portava anche un candido grembiulino guernito di ricami e puntato alla camicetta con due ciocche di nastrini. Un largo merletto increspato le custodiva la lieve scollatura, donde la testa espressiva, adorna alla nuca da un i largo nastro spiegato si ergeva con l’alterezza gentile d’un fiore raro. Un simile ornamento finiva le maniche, donde uscivano con lo stesso garbo le piccole, magre, agili mani. L’oro dei capelli sembrava un raggio di luce.
— Non ti diverti? — domandò ella guardando attentamente, alla sua volta, quella snella figura di giovane, a cui la marsina inglese, di taglio perfetto, dava una suprema eleganza.
— No, Anna, non mi diverto affatto. In mezzo a quel ballo provo una strana impressione di solitudine... mi manca un dolce sorriso che io cerco con immenso desiderio!
— Non vi hai trovato la dama del tuo cuore? — osò domandare la fanciulla.
— No, Anna, non l’ho trovata — rispose il giovane con una speciale intonazione nella voce — ma è pur necessario ch’io vada! — ripigliò dopo un minuto di delizioso silenzio. — E tu che fai intanto?
— Leggo, Decio, o studio...
— Quanti libri gravi!... Non v’era nulla che t’allettasse nella biblioteca delle ragazze?
— Malvina mi ha prestato delle novelle... ma ti confesso che non mi è mai riescito d’affrontare nessuna pubblicazione ad usum delphini, nessun volume, diciamo così, d’amena lettura che non sia un’opera d’arte sincera, nè di finire un libro da cui trapeli lo spirito di parte, d’opportunismo o d’interesse. Leggerei alla lunga senza capire... ciò mi ha distolta anche dai romanzi naturalisti.
— Conosci Zola?
— Sì. Qualcuno dei suoi primi lavori mi era molto piaciuto.
Ho letto anche un libro di D’Annunzio, e ne apprezzo la forma come una musica. Il babbo non volle impormi restrizioni nella lettura. Egli diceva che anche noi donne dobbiamo avvezzarci presto a distinguere il bene dal male, formandoci un criterio sano e proprio sulle miserie e sulle colpe della vita umana. Era d’avviso che una fanciulla, la quale divaga in sogni incerti e fallaci, acquista un concetto falso delle cose di quaggiù, e soffrendo poi troppo al contatto della prosaica e volgare realtà rimane un essere incompleto e male agguerrito al necessario esercizio del dovere.
— È una teoria pericolosa! — disse il giovane — non vorrei adottarla!
— Dipende dai temperamenti e dai principi educativi — mormorò Anna, con un lieve sorriso, pensando che quei giorni Malvina leggeva di nascosto “Une page d’amour.„
— E questo che cos’è? — interruppe il giovane, scorgendo sotto una rivista medica i foglietti delle bozze.
— Un mio lavoruccio.
— Da pubblicarsi?
— Sì, una novella.
— Non sapevo che tu scrivessi! — esclamò Decio che si era oscurato in volto.
— Non mi pareva che valesse la pena di parlarne. Da bambina composi dei piccoli racconti che non dispiacquero. Più tardi tentai di mandare un bozzetto a un giornale letterario, che non lo rifiutò. Dopo ho sempre continuato. Mio padre n’era contento e m’incoraggiava.
— Dunque non solo dottoressa in medicina, ma anche scrittrice! — continuò il giovane, tentando indarno di dissimulare una certa amarezza.
— Oh! nè dottoressa, nè scrittrice ancora. Spero che lo diverrò col tempo. Se queste mie Spitalgeschichten, che un editore di Lipsia pubblicherà fra breve, incontreranno il favore del pubblico, allora... chissà! — disse la fanciulla con un raggio nello sguardo.
— E noi leggeremo! — disse il giovane, studiandosi di reprimere la propria contrarietà e di apparire disinvolto, mentre la sua faccia tradiva, oltre un certo imbarazzo, una specie di accoramento. — Mi dispiace, ma devo scappare... addio Aennchen! — concluse egli accomiatandosi.
Infatuata dalle sue speranze d’arte, che prima supponeva egli potesse condividere, Anna s’accorse soltanto allora, da quel breve, frettoloso saluto, che Decio, in fondo, la biasimava, e stette immobile, seguendolo con gli occhi colmi di meraviglia. Poi fece una risoluzione improvvisa, e preso un foglietto di carta da lettere scrisse rapidamente, coll’impeto d’uno sfogo da lungo tempo represso:
Carissimo amico,
Sono trascorse sei settimane... giorni brevi e lunghi insieme in cui ho sofferto e goduto come in una vita intera. Non indarno Stendhal scrisse che chi non ha conosciuto il dolore, non può comprendere Roma. A me essa ha fatto provare delle estasi dolorose; ho sentito che nelle mie vene scorre un po’ di quel sangue latino, che sussulta al solo suo nome. L’Italia è una terra così incantevole che noi, venuti dalle brume del nord, ci viviamo sempre come in un sogno. Il buon senso straordinario degl’Italiani, in mezzo a tanta poesia, mi desta una continua meraviglia. Io mi sono come perduta in questo mare di memorie, fra questa folla bianca di statue, che dice tante cose nel suo perenne silenzio, in questa campagna sterminata, che sembra un altipiano alpestre, ch’è così degna, così signorile cornice d’una capitale unica sulla terra. Ho sentito vibrare entro di me l’armonia antica del paesaggio, l’armonia della lingua dolcissima, la gentilezza d’un popolo ov’è tanta naturale civiltà e genialità artistica e così poca vanagloria. Il mio piccolo io, la mia stessa afflizione hanno naufragato nell’assorbente melanconia di tante cose passate, nelle rovine d’una grandezza scomparsa per sempre dal mondo. Ma un giorno mi sono destata all’improvviso con un palpito nuovo da questo singolare e pur delizioso abbattimento dello spirito, da questa perfetta abolizione d’ogni cura soggettiva. Ho sentito rinnovarsi tutto l’essere mio con una specie di gioia intellettuale. Avevo sempre pensato che se io dovessi amare, l’amore sarebbe per me una crudele sventura. Oggi, pur restando sotto l’impero di quella gioia, me ne sono convinta più che mai. Caro amico! Le avevo promesso di scriverle tutto... eccomi dunque dinanzi a Lei come una penitente, aperta, sincera.
Conosco un giovane che si potrebbe facilmente assomigliare a una gemma chiusa entro un vaso elegante d’argilla. Per disgrazia è nato signore e non ha alcun bisogno di valersi dei doni eccezionali che la natura gli ha concessi. Amo tutto ciò che v’ha di latente nella sua indole, non dissimile da quella degli altri rari gentiluomini del suo tempo, amo il tesoro di energia che si nasconde nel suo cervello, già così bene allenato dallo studio, amo sovrattutto la nobiltà di sentimento che non di rado tradisce il suo cuore... Nel tempo stesso la sua avvenenza ha qualche volta turbato il mio pensiero, poichè bello è veramente. Nei nostri paesi, confessiamolo pure, non s’incontrano di questi tipi estetici che riflettono tanta virilità e tanta dolcezza insieme. Ho avuto paura dell’imperioso fascino della forma, ma non è la linea un po’ sdegnosa della sua bocca, non è il colore variabile degli occhi castani, ora velati, ora scintillanti, che mi piace, è la fina espressione un po’ sarcastica di quella bocca, è la profonda perspicacia di quegli occhi. Con tutto ciò, ottimo professore, io sento nell’intimo della mia anima che tutto finirà con la separazione. Troppe barriere ci dividono, troppe seduzioni ha il mondo... egli non può amarmi di quell’amore che vince ogni cosa.
Non si metta in allarme, carissimo amico. Il coraggio non mi manca. Saprò essere forte a tutto!
La mia vita qui Ella la immagina... è una vita attiva dello spirito, fra le cose belle, alternata con piacevoli riposi, in mezzo a una famiglia ospitale, fra abitudini di lusso e d’eleganza che mi erano ignote e che non mi seducono.
Non ho però dimenticato i miei bimbi, e mercè le di Lei preziose raccomandazioni, ho visto operare un idrocefalo e rifare a nuovo una gamba... Non ne parlai nemmeno qui in casa, perchè non sono cose ammesse da mia zia.
Presto tornerò alla solita modesta vita di studio e di lavoro.
È necessario per molte ragioni. Ella intanto mi scriva, le sue parole agiscono come un tonico sul mio pensiero. E si ricordi sempre della sua piccola, fida, riconoscente amica
Hannele.
Aveva appena finito l’indirizzo: “Professor Otto Heinselt, psichiatra — Berlino„ quando una voce flebile la chiamò più volte. Ella accorse al letto di Malvina, la trovò agitata, piangente.
— È partito Decio?... siedi qui, Aennchen, ascoltami... — mormorò la fanciulla — sentivo un po’ d’emicrania, è vero, ma non ci avrei badato... fu un pretesto per andarmene... vi era al ballo quell’ufficiale, lo sai... gli avevo mostrato una certa preferenza... si doveva ballare ancora... mamma mi fece delle osservazioni molto forti, mi ordinò di dire che ero stanca, che mi abbisognava un po’ di riposo... piuttosto di accondiscendere a questo, ho risolto di venirmene a casa... Poi, in carrozza, Decio mi ha sfoderata una predica... non sai quanto è rigido e noioso Decio! Vorrebbe ridurci come due automi!
— Non credevo che tu aspirassi a un simile matrimonio, dopo ciò che hai dichiarato iersera — disse Anna, ingenuamente.
— Un simile matrimonio?... ma io non ho mai pensato di sposarlo, Aennchen! — esclamò Malvina ridendo, suo malgrado, fra le lagrime — mi ci diverto, ecco! sarebbe un affare serio se si pigliasse tutto al tragico. Mi contenterei che non mi seccassero!
— E lui che cosa dirà? che ti giuochi della sua fiducia?
— Chi lui? Giordano Ardore? Sa che cosa è un flirt anche se non conosce l’inglese. Gli amori disperati valgono per i trafiletti dei giornali. E poi vi è un altro perchè... Due mesi fa Eva Salla mi aveva raccontato che Giordano era invaghito d’una bella signora e mi vantava il suo cuore fedele a tutta prova... Io risi di quel sentimentalismo e feci con lei l’ardita scommessa che in poche settimane sarebbe innamorato di me... Uno scherzo che ho finito per prendere sul serio. Se restavo al ballo potevo compromettere ogni cosa: ho preferito partire. E vero che avevo già vinto, ma per disgrazia Eva Salla non c’era...
— Prima hai dunque finto di dormire? — chiese, Anna con un certo disgusto.
— No, no. Le tue mani magnetiche mi avevano proprio addormentata. Ho sognato che quella bella signora se l’era ripreso e ciò m’irritava... Ora fingo di dormire per davvero. Sento che tornano e non voglio parlare con nessuno.
— Dunque, la tua amica non c’era — mormorò Anna — ma non ci sarà stata nemmeno Simonetta d’Origo? — soggiunse con attenzione improvvisa.
— Nemmeno, nemmeno... Scappa! Grazie! buona notte — disse Malvina cacciando la testa sotto le lenzuola.
Anna si ritirò con l’animo triste. E una mortale incertezza la torturava.
*
* *
La settimana seguente, un pomeriggio, donna Ortensia, essendo uscita in carrozza con le figliuole per fare un giro di visite, Anna rimase sola, per caso, con Decio nella veranda interna del palazzo. Sdraiata su una sedia a dondolo con un piede un po’ scoperto, un piede fino, ma solidamente calzato, la fanciulla gustava con delizie una sigaretta egiziana. Il giovane fumava anch’egli, appoggiato a una colonna, accarezzando di tratto in tratto con uno sguardo profondo l’elegante e un poco rigida figurina. Dal giardino fiorito saliva un acuto profumo d’iris.
— Aennchen! — disse il giovane — parlami di te, dimmi ciò che vi è nel libro chiuso del tuo cuore...
— Nulla, Decio. Io non sono che una solitaria viaggiatrice che cammina diritta per la sua via.
— La via dello studio?
— E del lavoro... e del pane quotidiano.
— Non potresti imbatterti per avventura in qualche sentiero traverso, più attraente, più facile?
— Non saprei... fin qui non ci ho aspirato. Amo la mia via.
— Sei diversa anche in questo dalle altre fanciulle.
— Perchè?
— Se la tua sensibilità esterna ti tradisce, in fondo... ti credo scettica all’amore.
— Può darsi... non vi è nessun rapporto fra l’immaginazione e la realtà; ma ciò non toglie che l’amore mi sembri una cosa divina — disse Anna impallidendo.
— Sognasti dunque?
— No, non sono una sognatrice. Non ho che meditato qualche volta come dovrebbe essere l’amico leale e fedele della mia anima.
— Mi ammetti nella confidenza?
— Oh Dio... non vorrei disgustarti... mi hai attribuito altre volte delle idee singolari!
— Sono pronto a tutto e ascolto...
— Io credo che sia molto difficile di trovare un vero amico per tutta la vita. In massima, ben pochi mariti lo sono... Non parlo degli uomini deboli, privi d’ogni alterezza, che si lasciano sopraffare dalla donna e che portano la catena d’un umile servaggio. Parlo di quelli che hanno sempre presente la loro superiorità.
— Non ti par giusto che conservino la coscienza di sè, dinanzi agli esseri gentili che sono chiamati a proteggere?
— Sai tu a che cosa serve loro, in massima, questa coscienza? sai che cosa cercano quasi tutti in noi?... ma forse ti dispiaccio con la mia franchezza...
— Parla, parla!
— Cercano un bel visuccio che sappia sorridere quando rincasano stanchi dopo il lavoro... o dopo... il diletto della giornata; una figurina che si muova con garbo, che vesta bene e lusinghi i loro occhi e la loro vanità, senza troppo compromettere la borsa; una brava massaia pratica di ordine e di gastronomia, o un’esperta padrona di casa che governi con arte il suo regno e faccia onore al casato; una testina ragionevole e limitata nelle sue aspirazioni, che non li infastidisca con vani sogni, ma sappia distrarli e divertirli all’occorrenza con le graziose e puerili sue ciarle...
— C’è dell’iperbole, ma in fondo... — disse il giovane sorridendo.
— Ti pare che basti? ah no, Decio, secondo me non basta. Essi dimenticano una cosa sola, ma essenziale! l’anima nostra che avrebbe bisogno d’una eletta fraternità di sentimento. L’egoismo maschile, non consentendo, in genere, alla donna che una frivola e incompleta educazione, l’ha abbassata a un così meschino livello intellettuale, ch’ella non ne comprende nemmeno la tristezza. Ben altro ci sarebbe da sfruttare nell’anima femminile, ma l’unico istinto che l’uomo ama realmente di coltivare in noi, la fatale mania di piacere, atrofizza spesse volte gli stessi germi della nostra dignità. Così egli affida, con incredibile leggerezza, a delle pupattole il suo nome, il suo onore, la sacra custodia dei suoi figli...
— Tu attribuisci all’emancipazione della donna un potere moralizzante? — disse il giovane, che continuava a sorridere con amabilità a quella sfuriata, come se assistesse a un fuggevole temporale.
— La libertà a lungo andare ha sempre nobilitato le creature umane.
— E pure, la virtù della donna è proprio la dolce soggezione, la tenera inferiorità dell’ingegno, l’angelica rinunzia di sè allo sposo prescelto.
— Al padrone e signore, vuoi dire?
— Anna tu esageri! la soave femminilità ha un fascino potente su di noi e molto più efficace d’ogni valore intellettuale.
— Non esagero. Chi non si ritiene eguale in questo caso si reputa superiore. L’innalzare la compagna della vita al sacro ufficio di amica, di alleata, di confidente è un conforto che rare volte sorride a quell’orgoglio che ha l’abitudine d’una supremazia ingenerosa. L’ideale dovrebbe essere un’armonia perfetta dinanzi a Dio, l’unità di due forze equivalenti che si coalizzano contro il dolore. Si vedono invece persone sciocche e nulle destare passioni rovinose per il fallace incanto della loro bellezza e donne elettissime, a cui non arrisero in quella misura le grazie, rimanere inosservate nell’ombra, sperdute per il bene sociale.
— Certi istinti derivano dalla legge di selezione.
— Ne convengo, ma ogni istinto umano ammette una disciplina, e voi non ne consentite alcuna alle vostre inclinazioni. Ho conosciuto a Berlino un professore di scienze naturali, un uomo insigne. Egli aveva sposato una fanciulla avvenente e di assai scarso intelletto, e se ne dichiarava felicissimo. “È immersa nelle sue cure di famiglia„ mi disse una volta ridendo„ e non mi disturba mai.„ Il suo concetto della contentezza domestica non andava al di là di un servizio legale, bene disimpegnato da una graziosa donnina. E che cosa ne dici tu di quel noto materialista, che esigeva dalla moglie un’assoluta convinzione dei dogmi religiosi? non ti pare un colmo? Aveva bisogno della garanzia di quella fede!
— Tu sei una ribelle, cara Anna! — ribattè Decio, sempre sereno.
— Certamente. Non cesserò mai di ribellarmi ai pregiudizi! — rispose la fanciulla con impeto — gli uomini hanno il culto dei propri istinti! Per buona sorte queste regole contano qualche rara, nobile eccezione. Nei centri intellettuali (ciò avverrà dunque anche a Roma) l’amore associa qualche volta uomini e donne per un alto fine comune d’arte, di scienza, di filantropia, d’educazione. Essi riescono a realizzare l’unica vera felicità di quaggiù, la profonda unione di due creature nella gara ardente di sfruttare le proprie forze a vantaggio del bello e del buono, essi conseguiscono la tenera e quasi sovrumana fedeltà degli affetti miranti a uno scopo superiore.
— L’ingegno non è sempre disgiunto dalla grazia, mi pare! — disse il giovane con intenzione, sentendo vibrare, dopo tutto, una corda latente in fondo al suo cuore, poi, dopo un breve silenzio, soggiunse:
— Ammiro l’alto concetto che tu hai dell’amore e credo che in quanto a certe prevenzioni... ostili, l’amore solo potrebbe fartele dimenticare.
— Oh! dimenticare, mai! Ho meditato molto quello che dico e ne sono convinta. Potrebbe trasformarmi forse... l’affetto sempre trasforma. Certe irrefrenabili passioni assoggettano qualche volta il nostro pensiero fino alla schiavitù. Ma per noi donne, non è sempre un’umiliazione, può essere anche una grandezza. In ogni modo sarebbe un impulso nostro, violento, non il preteso diritto d’un altro.
— Tu ammetti dunque questa completa dedizione che può tanto lusingare chi n’è l’oggetto?
— L’ammetto... senza desiderarla.
— La ragione è così fredda, Aennchen!
— No, Decio, non sempre. Io credo che soltanto l’amore che si spiega colla ragione possa essere immutabile.
Quel momento i loro sguardi s’incontrarono un po’ smarriti, quasi contenessero una mutua intensa domanda.
Anna si sentì turbata, s’alzò per accostarsi al parapetto della veranda, colse macchinalmente un gelsomino giallo che vi fioriva. Poi, odorandolo, disse piano:
— Tu hai voluto una specie di confessione da me... sarei autorizzata a chiedere il ricambio.
— Interroga, sono pronto a soddisfarti! — rispose il giovane, con dolcezza, studiandosi di apparire tranquillo.
Non gli era mai accaduto di sostenere una conversazione simile con una fanciulla e ne provava un senso di strana inquietudine sempre oscillante fra il dispetto e il compiacimento.
— No, no ti faccio grazia — riprese Anna — ho scherzato. La vostra vita è troppo complessa e complicata per poterla analizzare con efficacia. Quello che si può sapere, l’hai già involontariamente rivelato... e te lo dico io... Tu ameresti molto... l’abnegazione della donna.
— È vero. Ne convengo.
— Forse... l’hai già trovata...
— Ah! non credo, Anna!
La fanciulla lo scrutò profondamente e stavolta i loro occhi arsero col fuoco cupo di due volontà in sorda lotta. Anna, che qualche cosa di doloroso nell’intimo esasperava, fu sul punto di nominare Simonetta d’Origo, ma una fierezza istintiva la trattenne e subito mutò discorso e si mise a parlare volubilmente d’una statua del Vaticano che aveva gli occhi di gemme, d’una felce che cresceva nelle Terme di Tito, d’una visita al Policlinico ove s’era incontrata con un suo giovane collega di Berlino.
Decio s’irritava entro di sè per certi particolari poco conformi al suo concetto della vita femminile e pur sentiva che quel colloquio strano e così diverso dai soliti gli aveva destato un vivo interesse.
Quando le sue sorelle ritornarono con la madre, i loro frivoli apprezzamenti, i loro futili racconti sul giro fatto in città, sulle più o meno benevole notizie raccolte nei salotti e da Ronzi e Singer, gli parvero inutili e scialbi in confronto alle insolenti parole di quella piccola ribelle. Sempre presso a lei il tempo gli trascorreva veloce, la sua presenza gli abbelliva tutte le cose, gli procurava diletti sconosciuti nella natura, nella storia, nell’arte. Qualche volta gli pareva che la sua anima fosse uscita da una profonda quasi inconsapevole solitudine che datasse da un’epoca molto lontana, forse dalla stessa infanzia, per deliziarsi in un arcano, inaspettato convegno. Alcuni mesi addietro egli aveva provato per la bella e buona Simonetta d’Origo una serena, tranquilla simpatia, ma la comparsa di Anna era venuta a dissiparla come una nuvola rosea su un limpido cielo.
Adesso egli non trovava pace, si sentiva sempre inquieto e spesso turbato dal singolare desiderio di soffocare fra le sue braccia e coi suoi baci la rivolta di quella creatura superba, come se da una tale imperiosa e prepotente vittoria dovesse divampare la più intensa delle passioni.
*
* *
Quella sera giunse un invito di Simonetta d’Origo per le sorelle de Rosas ch’ella pregava di condur seco anche la loro cara ospite. Trattatasi d’un girl tea in giardino.
— Come? punti signori? — domandò Dorabella.
— Ti pare? dice ch’è una piccola riunione intima — rispose Malvina — non saremo che in sei o sette al più, forse per un cortese riguardo al lutto di Aennchen... in quanto ai signori, per una volta, se non ci sono tanto meglio! ci divertiremo a parlare di loro.
Anna tentò indarno di schermirsi. Dovette subire la necessaria visita in casa d’Origo e intervenne due giorni dopo, con le sue cugine, al thè delle cinque.
La fulva Simonetta, un fiore di fanciulla sui vent’anni, le accolse in un padiglioncino rivestito di kud-giù dalle larghe foglie e presentò ad Anna le altre amiche ch’erano già arrivate, le biondissime Félicité e Regina La Haye, due francesi residenti da molto tempo a Roma, e la marchesina Isotta Bruzzo, una piccola napoletana, affascinante e maliziosa, tutta occhi e vivacità.
Le fanciulle, tolta Simonetta che portava un vestito d’un languido color di viola, erano in bianco e quasi tutte snelle e attillate nei corpetti semplici, sorridenti sotto l’aureola dei grandi cappelli scuri. Parve ad Anna d’essere una nota lugubre in tutta quella femminile allegrezza. Ma subito Simonetta s’appoggiò al suo braccio per mostrarle il giardino fiorito di licnidi rosa e di nemofile azzurre dall’occhio nero. Dorabella e Isotta, le più giovani, si cercarono per formare una seconda coppia, mentre le due sorelle La Haye si dileguavano con Malvina in un viale fiancheggiato da arbusti in fiore che mandavano fino a terra la loro pioggia di candide umbelle.
Bella d’una bellezza soave e punto vanitosa, Simonetta era una di quelle creature investite di grazia che sembrano nate per amare, per farsi amare e per render lieta la vita agli altri col benefizio d’una sincera, indulgente bontà. Alla scarsezza dell’ingegno ella suppliva con un limpido buon senso, parlava poco, ma era sempre molto cortese con tutti. Verso di Anna si dimostrò particolarmente affettuosa, trovando modo di fare anche un cenno delicato alla sua recente sventura.
“Miss Sutton ha ragione„ — pensò Anna mentre passeggiavano e parlavano con amabilità di cose insignificanti — “vi è in questa creatura la dolcezza angelica che si va sempre più perdendo nella donna. Mi sembra il sogno di Decio fatto vivo.„ Dopo alcuni giri, attratte da un richiamo di risa squillanti, esse raggiunsero Malvina che stava ascoltando col massimo interesse le confidenze delle sorelle La Haye, all’ombra d’un piccolo palmizio.
— Ho preso una buona lezione sull’arte di trovare un marito di proprio genio! — disse la fanciulla — credo che possiate fare dei rallegramenti. Fra pochi giorni Félicité sarà fidanzata.
— Adagio, adagio... non vi è ancor nulla di stabilito, ma si spera! — corresse Félicité — in ogni modo è un bel giovane e d’una eleganza!...
— Bello veramente non mi sembra! — osservò Regina — si vede che ha molto vissuto, ecco!
— Sei proprio tu quella che si occupa degli scolarucci!
— Dunque... innamorata? — fece Simonetta con un dolce sorriso.
— Questo poi no! come corri!... vedendolo, ho pensato: “ecco un uomo che farebbe per te„ e da ragazza saggia e positiva, mi sono messa all’opera per raggiungere lo scopo. Il mio ideale sarebbe un yacht... oh, le crociere!
— Quello lo avrà Regina dal suo americano se riescirà a conquistarla! — disse Isotta sbucando da un sentiero con Dorabella.
— Come sai? chi te l’ha detto? — domandò ansiosamente Regina.
— Curiosa! uno che lo può sapere.
— È un po’... anziano, ma infine anche i milioni valgono qualche cosa... — continuò la fanciulla.
E il tuo cuore? — chiese anche stavolta Simonetta.
— Darling! chi volesse consultare il cuore a questi lumi di luna! i matrimoni d’amore non sono più di moda... hanno qualche cosa di terre à terre... Del resto, dura così poco l’amore!
Tutte risero, fuori di Anna e Simonetta che si guardarono con atto involontario.
— Se questi signori sapessero ciò che andate dicendo! — esclamò Isotta allegramente.
— Ma che!... fidanzati e mariti non sanno mai nulla!
Una cameriera elegante venne ad avvertire che il thè era servito nel padiglioncino e Simonetta s’affrettò a fare gli onori della scelta imbandigione. Le sorelle de Rosas dichiararono la loro passione per i muffins, Regina per i crostini di caviale e di tartufi, Félicité era ghiotta della marmellata d’arancio; la piccola Isotta si sforzava di bere il thè senza zucchero, senza crema, senza cognac, fingendo di trovarlo eccellente; tutte si deliziavano con una scatola di confetti e l’intimità sembrava crescere di minuto in minuto.
Simonetta intratteneva Anna intorno a un suo recente viaggio in Germania e a un certo quadro d’Alberto Duro che aveva veduto, non ricordava più se a Norimberga o a Monaco.
— Fa parlare nostra cugina, ti raccomando! — esclamò Dorabella — altrimenti ci studia tutte per introdurci in qualche novella!
— Ah, come? lei scrive? me ne rallegro!
Fu un coro di esclamazioni che morì subito nel silenzio. Tutte quelle fanciulle, tranne forse la buona Simonetta, sentivano il pregiudizio che pesa nella società aristocratica sulle scrittrici, e nemmeno avrebbero alluso apertamente alla carriera di Anna, mentre ne parlavano in segreto come d’un frutto proibito.
— Io pensavo a tutt’altro che a una novella — mormorò Anna.
— Il tipo più interessante lo troverebbe in Simonetta — disse Isotta — è senza confronto la migliore di noi tutte, sentimentale, dolce, fedele... è fra quelle che dicono: “o lui o la morte!„ non è vero?... come ti compiango darling!
— Pazzarella! — esclamò Simonetta che s’era fatta di fiamma, accarezzandola per nascondere il suo turbamento, mentre Anna la guardava con intensità.
— Avrai anche tu il tuo romanzo, Isotta! — disse, ridendo, Malvina.
— No, davvero. Libera come l’aria!... Ma vorrei sposarmi soltanto per non dover sempre fingere di non capire le cose un po’... leste che si sentono in società. L’ipocrisia mi ripugna in un modo! E poi, il fare la bambina è una grande umiliazione. Vorrei poter assistere a tutte le produzioni, e leggere tutti i libri, e andare una volta, almeno una volta, in un café-chantant...
— Tuo cugino è ancora in Inghilterra? — domandò Dorahella.
— Sempre fra le nebbie... Fino alla morte di quello zio che gli ha promesso di lasciargli il suo patrimonio, egli non può pensare a mettere famiglia...
— Dev’essere terribile questo calcolo — scattò a un tratto Anna, senza volerlo — se si pensa a quanto dolore è sempre congiunto il conseguimento della ricchezza!
— Ah sì certamente, terribile, ma chi pensa adesso al dolore? si dice per dire. Chi può evitare i calcoli della vita? di solo affetto non si campa. E i bisogni sono tanti ora!... potete mai immaginare un’esistenza borghese all’ombra delle domestiche mura, fra la lista del bucato, le ricette economiche ma saporite per aggradire il nostro signore e consorte e gl’ingrati marmocchi da allevare con inesauribile sacrifizio?
— I marmocchi mi piacerebbero — disse Regina — però non più di due o tre.
— A me sembrano un curioso impiccio!
E piano, a bassa voce, fra le risa discrete di Félicité e di Dorabella che le sedevano daccanto, Isotta si mise a enumerare comicamente le pene della maternità.
— Non ridete d’una cosa sacra! — disse Simonetta, mentre sul suo volto bello e puro una vampa saliva — almeno per amore delle vostre madri!
Anna le strinse la mano, senza accorgersi, le altre fanciulle la colmarono di carezze.
— Che il Signore te ne conceda una dozzina, cara, quando s’avvera il tuo lieto sogno! — disse la terribile Isotta — ma bada che non cresca qualche pianta esotica nel tuo giardino!...
Le ultime parole furono proferite come un murmure, ma Anna che pur le aveva intese, vide che Simonetta, stavolta, senza penetrarne il significato, s’era fatta smorta in viso; intuì, con un senso d’angoscia, quant’era grande il suo amore per Decio.
La comparsa della marchesa d’Origo richiamò le allegre fanciulle alla gravità del contegno, e mentre Simonetta coglieva per ciascuna un diverso mazzolino di fiori, esse divennero per un quarto d’ora delle signorine inappuntabili, alle quali non si avrebbero attribuiti che i più alti e nobili pensieri.
*
* *
Un pomeriggio, uscendo dalla basilica di San Giovanni in Laterano, i fratelli de Rosas si dilungarono con Anna, a piedi, sulla via d’Albano, verso le camere sepolcrali. Il cielo era grigio e l’orizzonte appariva velato da fitti vapori; una cupa melanconia pesava sul verde piano deserto della campagna. Mentre Malvina e Dorabella coglievano le pratoline fiorenti nel luogo incolto, Anna visitò le tombe, si trattenne dinanzi un sarcofago del basso impero, sul quale un rozzo scalpello aveva raffigurato un uomo e una donna giacenti insieme. L’iscrizione, dettata dal marito, nel desiderio della comune sepoltura, diceva che quella donna per tanti anni e tanti mesi aveva sempre bene vissuto con lui.
— Ecco la nostra latinista! — disse Decio, raggiungendola.
— E un latino che lo capiscono tutti... a me interessa questo ricordo d’affetto perduto in mezzo alla campagna, nel silenzio dei secoli. Mi fa bene quando riesco a convincermi che due creature umane si sono fedelmente amate nella morte.
— Non è un caso raro, Anna.
— A me sembra rarissimo. Quanti amori terribili si trasformarono in indifferenza per non dire in avversione! Quanti amori dolorosi languirono privi di corrispondenza! Credilo, vi è una sorda lotta di diritti fra l’uomo e la donna, che data da tempo immemore e in cui ella in massima soccombette. In fondo alla coppa dell’amore vi è il fiele dell’odio.
— Il sentimento non si può analizzare come si anatomizzano i corpi umani, Anna! Le minute indagini a cui sei avvezza ti costringono a sviscerare certi misteri della psiche che dovrebbero rimanere circonfusi dalla luce rosea delle illusioni.
— L’analisi sincera fa scaturire la verità.
— Anna perchè sei sempre così invincibile nel tuo pensiero! — esclamò il giovane che tanto amava la deferenza consenziente della donna.
Ella sorrise con una certa tristezza.
— L’inganno mi fa paura — mormorò — amo di guardare in faccia alle cose.
I due giovani erano usciti all’aperto, discorrendo. Anna si era seduta su un rudere. Il suo profilo delicato e caratteristico, la linea flessuosa e pur casta della persona ben raccolta nell’elegante vestito di panno nero rivelavano una squisita raffinatezza morale.
— Se tu sapessi quale turbamento io provo! — proruppe Decio, quasi soccombendo a un irresistibile impulso — quando mi sei lontana soffro come se mi mancasse un elemento vitale, vicino a te sento un’ambascia che non posso definire.
Ella sollevò i limpidi occhi, impallidendo.
— E meglio ch’io parta — mormorò — sono alcuni giorni che ci penso!
— Oh, Dio! non parlare di questo! — implorò il giovane, prendendole una mano e stringendola contro il suo petto palpitante — io vorrei che tu restassi sempre con noi!
Anna ritrasse la mano con un certo sgomento. Malvina e Dorabella tornavano e subito le sparsero sulle ginocchia i piccoli fiori bianchi e rosa ond’ella, più paziente, ne formasse dei mazzolini. Ma la fanciulla stava con gli occhi perduti come in un’interna visione e solo a stento riesci a vincersi e a soddisfarle.
— Non partire, te ne supplico, non partire! — insistette ancora Decio a bassa voce, mentre s’avviavano verso porta San Giovanni ove la carrozza li stava aspettando.
Ella gli rivolse un sorriso appassionato, in cui era insieme all’ardente trasporto dell’anima un’ombra grave di arcano dolore.
*
* *
Quella sera donna Ortensia si mostrò concentrata e taciturna al desinare. Ella osservava furtivamente i due giovani e le pareva di riscontrare nel loro contegno, nei loro sguardi, nelle attenzioni speciali di Decio la conferma d’un sospetto strano che da più giorni la veniva tormentando. Se le circostanze finanziarie della sua famiglia l’avevano costretta ad accettare la mano d’un ricco industriale, ella esigeva che Decio ne rinnovasse con cospicue nozze il prestigio.
Mai prima le era balenato alla mente, colle idee che professava, che potesse invaghirsi di sua cugina, della figlia d’un professore tedesco, per giunta medichessa e scrittrice. Ora il solo dubbio di quel pericolo le dava la febbre, la rendeva fredda e quasi dura colla nipote. Però non era donna da lasciarsi intimorire dagli ostacoli, anzi ella aveva subito e chiaramente meditato un piano di battaglia. L’esperienza fatta sulla propria sorella le aveva insegnato che la contraddizione rinfiamma il sentimento. Stimò quindi inopportuno l’assalire Decio di fronte, ma, conoscendone i principi e la suscettibilità, stabilì di ricorrere al mezzo subdolo e preventivo della demolizione e d’insistere nelle critiche acerbe che fin dai primi giorni le erano sfuggite su certe abitudini virili e sulla carriera di Anna.
Con la fanciulla si riservava di parare il colpo direttamente, all’ora propizia.
I fratelli de’ Rosas avevano fissato di fare il giorno seguente una gita in automobile ai castelli con la loro cugina e con miss Sutton, ma donna Ortensia, all’insaputa di Decio, s’era data premura a ciò vi prendessero parte anche il marchese D’Origo con la famiglia, un paio di giovinotti e due o tre signore inglesi venute a godere un po’ di primavera a Roma. Ella sperava che questa combinazione inaspettata, procurando a suo figlio un ritrovo prolungato con Simonetta, favorisse indirettamente i suoi desideri.
Così avvenne che Decio, per un naturale riguardo, dovesse invitare la fanciulla a prender posto con la madre nella propria vettura, e Anna, Dorabella e miss Sutton salissero in quella del marchese D’Origo, mentre il resto della brigata li precedeva in una grande Panhard.
Sebbene la compiacenza di Anna fosse in gran parte scemata per un sì crudele disappunto, ella non potè a meno di subire l’incanto di quei luoghi ammirevoli. A Frascati era uno splendore di sole e di verde. Nelle ville antiche, un po’ abbandonate, le rose novelle mettevano un festoso ricordo di giovinezza. Il viale dei cent’olmi parve alla fanciulla un sogno fantastico di leggenda. Soltanto a Grotta Ferrata, quando le signore vollero visitare il convento dei monaci basiliani per ammirarvi i begli affreschi che vi dipinse il Domenichino esiliato, ella potè parlare con Decio. In quel minuto fuggevole, insieme lessero sul portale antico la severa scritta: “O tu che entri, lascia fuori il grave tumulto dei pensieri onde tu possa presentarti degnamente al giudice che vi sta.„
— Io non posso lasciar fuori il tumulto dei miei pensieri, lo porto sempre con me.... — disse il giovane mentre ella gli passava dinanzi.
La comitiva si raccolse tutta in un bosco presso Marino, la città pittoresca per eccellenza, onde gustarvi una ricercata colazione alla quale ciascuno aveva voluto offrire il proprio contributo.
Mentre i chauffeurs s’affaccendavano a stendere le tovaglie sull’erba, a disporre i seggiolini, a vuotare i canestri, e miss Sutton, assistita da Dorabella e da un giovanottino imberbe, presiedeva ai preparativi, Anna, non vista, s’allontanò nel fitto della boscaglia. Ella doveva studiare il passo per non calpestare le pervinche, le viole, gli anemoni. I gorgheggi delle capinere e degli usignuoli sembravano cascate di perle cristalline. La pace era profonda e armoniosa. A un tratto il suo nome echeggiò da lontano:
— Anna, Anna ove sei? Aennchen, perchè ti nascondi così?...
Quella voce aveva ima speciale tenerezza che la fece sussultare, come se una mano l’accarezzasse.
— Vi è tanta gente, Decio!... la società mondana toglie alla natura la sua serenità confortatrice. Ho cercato la solitudine.
— Torneremo qui un’altra volta noi soli ad ascoltare le voci del creato... Vieni, Aennchen — continuò il giovane — ti ho preparato un cuscino di muschio, vi sono tutti fiori intorno...
Anna lo seguì con una certa riluttanza. Si sentiva sempre un po’ isolata, le pareva anche che qualcuno la guardasse con una certa curiosità, persino la marchesa D’Origo, che aveva riservato a Decio un pliant accanto al suo.
— La signorina s’occupa di scienze naturali? — domandò Lucio Sandri, un giovinotto stecchito nel suo enorme solino, osservando un mazzo di ranunculacee che la fanciulla aveva portato dal bosco.
— Studia medicina — corresse miss Sutton, che gli offriva in quel momento una fetta di corned beef.
— Davvero? — esclamò il marchese D’Origo, con un enigmatico sorriso — e quando comincierà a esercitare?
— L’anno venturo, a maggio.
— In qualche piccola città della Germania, suppongo?
— A Berlino, signore.
— Ma ella farà nascere in molti il desiderio di ammalare! — riprese Lucio Sandri, che stava corteggiando Dorabella.
— Avrò un posto d’assistente nella clinica per l’infanzia abbandonata, che istituì da poco l’imperatrice — disse Anna, con tranquillità, senza badargli.
— Peccato, peccato! — continuò il giovane, dividendo un piccolo baba colla sua vicina.
Decio, un po’ pallido, cercò di deviare il discorso, ma Simonetta, che non capiva, credendo essere gentile, insistette alla sua volta:
— La signorina de Wittov è anche scrittrice...
— Di medicina? — domandò Sandri.
Alcuni risero, d’un riso involontario, discreto.
— Ma che! — mormorò Decio infastidito. — S’occupa di letteratura.
— Dev’essere divertente! — osservò una delle signore inglesi, senza malizia, mentre Sandri bisbigliava un “enciclopedica davvero!„ che pochi udirono.
— Divertente? non saprei... non è un divertimento, è un bisogno dello spirito — rispose Anna, diventando sempre più impassibile.
— Quale fortuna avere il bisogno di scrivere! — esclamò il giovanottino imberbe. — Se devo rispondere soltanto a una lettera io mi sento perduto!...
La conversazione s’accalorò sulle noie e sui, piaceri della corrispondenza epistolare, sui soggetti inesauribili dello sport e della vita mondana, con qualche allusione coperta, per riguardo alle ragazze, del resto informatissime, sui piccoli scandali eleganti del giorno.
Simonetta parlava molto con Decio, e la sua casta e dolce bellezza, avvalorata dalle linee sobrie del vestito grigio, che proveniva da uno dei primi sarti di Parigi, e da un semplicissimo cappello di paglia, sembrava rifulgere, coi suoi toni fulvi e rosei, sullo sfondo verde.
Anna s’era raccolta nei suoi pensieri. Ella esultò quando la marchesa D’Origo propose di riprendere la via, perchè anelava di sottrarsi a un’impressione intollerabile. Porse la verità le si era in quel giorno chiaramente rivelata, forse ella sentiva entro sè stessa, nella inevitabile compiacenza dello spirituale trionfo, l’appassionato trasporto di Decio, ma, dinanzi a quel trasporto istintivo, Simonetta rappresentava la serena ragione, l’opportunità sorridente, la femminilità vittoriosa.
Un senso d’angoscia acuì ai suoi occhi l’incanto del paesaggio da Marino a Castel Gandolfo, sulla via tutta fiorita di asfodilli, che bramò indarno raccogliere, perchè nessuno se ne curava. Ella vide dall’alto, nella sua conca un po’ tenebrosa fra i boschi di castagni e di quercie, lo specchio tranquillo del lago d’Albano, su cui erra il tragico ricordo d’una fanciulla straniera, e vide la villa abbandonata dei papi, col suo bastione che la isola dal mondo, e giù nel vastissimo piano, il mare che taglia l’orizzonte con una fascia d’argento, la campagna d’un forte colore d’indaco, screziato di verde malachite, e provò nell’anima la gioia quasi spasmodica delle compiacenze indimenticabili. Ma quella visione fu assai fugace: le automobili correvano verso Genzano, l’ultima tappa. Le verdi gallerie di elci, il mirabile ponte dell’Ariccia, sparirono anch’essi troppo rapidamente, e Anna fu lieta di poter mirare con quiete, dal parco delizioso della villa Cesarini, quella turchese caduta dal cielo ch’è il lago di Nemi, e godere all’ombra placida dei viali che scendono sino alla sponda, tra i fiori silvestri e le felci frastagliate, la giocondità della poesia campestre nel trepido silenzio del suo cuore.
L’automobile di Decio avendo subito più tardi, presso Albano, un guasto alla macchina, il giovane propose alle sue sorelle e ad Anna di tornarsene a Roma col treno che doveva passare da lì a poco. Così Anna, all’ultim’ora, si trovò seduta inaspettatamente accanto a suo cugino. Il compartimento era pieno di forestieri, già annottava, e un senso di molle, soddisfatta stanchezza pareva scendere sulla gente, dopo le lunghe, deliziose escursioni. I fiori delicati che la fanciulla portava in mano, avvizzendosi, esalavano un acre profumo.
— Oggi tu hai sempre cercato la solitudine, Aennchen, — disse il giovane con la consueta, profonda tenerezza nella voce, mentre guardavano insieme, dal finestrino, nel buio crescente.
— E vero, mi trovavo un po’ sperduta.
— E io ho tanto sofferto di non poter dividere, come al solito, il tuo entusiasmo; mi sono sentito solo anch’io, perchè costretto da obblighi sociali a starmene lontano da te... Il caso mi consente almeno questi brevi istanti...
— Grazie, Decio.
— Com’è acuto l’olezzo di quei tuoi fiori!
— Vuoi? — diss’ella, porgendogli un ramoscello di timo — gli altri sono già avvizziti, tutto passa...
— Non tutto, Anna! — rispose il giovane, chiudendo con gran cura l’erba odorosa nel suo portafogli.
Poi continuò a parlare piano con lei delle cose vedute, con una foga repressa, che tradiva un imperioso bisogno di quella effusione. Di quando in quando, anche egli la cercava nella penombra, con uno sguardo penetrante, e Anna sentiva degl’impeti d’ebbrezza come se dovesse svenire.
Quella sera stessa i due giovani si trovarono un minuto affatto soli, nel salotto di donna Ortensia. A un tratto, Decio prese le mani della fanciulla e le disse piano come un soffio, ma con ardore veemente:
— Anna, Anna! quanto ho sentito d’amarti!
Ella arrossì, poi si fece smorta smorta, e più delle sue vaghe parole rispose quel grande pallore di passione.
Donna Ortensia, rientrando li vide coi volti trasfigurati, e come Malvina le aveva riferite le più favorevoli notizie sul contegno di Decio, provò per quella sorpresa penosa un nuovo, inaspettato allarme. Ma, pur pensando ch’era giunto il tempo di agire, seppe dissimulare al momento le sue angustie, e solo il giorno seguente si procurò l’occasione di stare mezz’ora a tu per tu con Anna e di riparlarle della gita e di Simonetta.
— È molto bella — disse Anna sinceramente — e la sua bellezza s’illumina con la bontà.
— Mi compiaccio di questi tuoi apprezzamenti, perchè... hai mai inteso dir nulla?
— Miss Sutton mi raccontò una volta che si parlava del suo matrimonio con Decio — disse la fanciulla, in cui la nativa alterezza subito s’era ridestata.
— Appunto. Ah! te l’ha detto? Se ne parla ancora, anzi ieri, mentre eravate fuori, una signora mi assicurò ch’ella è proprio invaghita di mio figlio. Decio non può restare insensibile a questa così lusinghiera preferenza. Figurati quale splendido matrimonio! figlia unica e di antico casato!
Anna si sentì rabbrividire, ma riesci a vincersi e mormorò:
— Certo zia. Quando vi è un sicuro affetto e l’unità nelle idee, non manca più nulla, il resto è cosa secondaria.
— Chi non amerebbe quella splendida creatura? chi non andrebbe con lei d’accordo? Qualche volta, te lo confesso, ho temuto che a Decio pigliasse la malinconia di fare una scelta di capriccio... del suo cuore è sempre stato geloso, e poi ha un tale disprezzo per il denaro! ma dopo tutto devo fare assegnamento sul suo buon senso... egli sa che una simile sciocchezza non gliela perdonerei mai, mai. Anche Irene... scusa sai, non è per far torto a tuo padre, un perfetto galantuomo... anche Irene quanti disgusti fece nascere in famiglia!
Anna si drizzò come se l’avesse punta un insetto velenoso.
— Desidererei che si rispettasse la memoria della mia mamma! — esclamò ella con impeto.
— Non fraintendermi, Anna — continuò donna Ortensia, senza scomporsi — e sovrattutto non parlare di questo con Decio, te ne prego. Sono confidenze che faccio a te, per la profonda stima che m’ispirano il tuo carattere, la tua prudenza, la tua squisita delicatezza...
Il cameriere annunziò una visita, e Anna fu felice di potersi ritirare. Le sue cugine erano uscite, ella si chiuse in stanza ed ebbe uno sfogo amaro di pianto. Ma la sua ragione fu pronta a ridestarsi con un’impetuosa rivolta contro l’ingiustizia delle cose.
“Se Decio mi ama, chi ci può separare?„ pensava nella sua semplice logica. Se la zia non è d’accordo, non potremo andarcene lontani, cercando una comune attività? Ella mi conosce, ella vuol trovare nel mio amor proprio un alleato contro me stessa. Ma l’amore di Decio non avrà la forza di difendersi da qualunque pericolo? non si renderà superiore a qualsiasi ostacolo?„
Sebbene fidasse nell’amato, il suo orgoglio nativo finì col prevalere. La partenza le parve più che mai necessaria e fissò di parlarne alla prima occasione con suo cugino.
Decio prevenne involontariamente il suo desiderio, raggiungendola quella stessa mattina nel piccolo salotto che serviva di biblioteca, e ov’ella s’era recata per riporre un volume di versi.
Erano soli e Anna sentì che il momento decisivo era giunto.
— Aennchen! — cominciò il giovane con la solita voce soffocata e ardente — dimmi la cagione della tua mestizia.
— Ho risolto di partire.
— Sempre questa dolorosa minaccia! Anna, Anna, tu hai avuto qualche spiacevole impressione...
— Mi sono accorta che non dovevo abusare più a lungo della vostra cortesia, mi sono destata all’improvviso, come da un sogno, Decio. Devo tornare alla vita reale.
— Ti hanno turbata le mie parole? non sei contenta di me?
Ieri sono stato forse un po’ strano, ma che vuoi... non amo di rivelare al pubblico i miei sentimenti.
— Hai ragione.
— Dopo, ti ho parlato con un certo impeto... fummo interrotti subito e non potei rivederti...
— Io non ho nulla, Decio, rassicurati.
— Comunque sia, io sono venuto per tranquillarti e per aprirti schiettamente l’animo mio... hai diritto a questa confessione. Dal giorno che ti conobbi, Anna... devi essertene accorta! io fui turbato nel mio profondo da gioie e angoscie che nessuna donna mi aveva mai fatto provare. Vi è forse nell’intimo delle anime nostre un arcano vincolo di simpatia... E pure, non te lo nascondo, vi sono anche nella tua individualità così spiccata degli elementi che contraddicono alla mia natura e che mi fanno molto soffrire. Quante notti insonni ho passate! Non so perchè io desideri con tale veemenza la tua anima, e soffra nel tempo stesso di questo invincibile turbamento!
— È l’eterno conflitto del quale io già ti parlai, Decio. Hai letto il Moebius? Egli dice delle verità, se vuoi, ma con evidente spirito di parte. In fondo ad ogni uomo vi è un po’ di questa coscienza virile offesa e irritata.
— Io non ho letto il Moebius, Anna, io ascolto soltanto la voce interna che mi costringe, per un debito di lealtà, a confidarmi teco... Vorrei che tu fossi la mia donna, la mia cara donna, ad un tempo la dama del mio cuore e la signora della mia casa. Vorrei che tu governassi questo piccolo regno con la forza del tuo intelletto e con la virtù del tuo sentimento, abbandonando ogni altra esterna aspirazione. Per soddisfare l’istinto umanitario, vi è sempre la carità e i mezzi non ti mancherebbero; per appagare i bisogni dello spirito vi sono fonti inesauribili: i libri, i teatri, la corrispondenza epistolare, i viaggi...
— Ebbene... non riesco a comprenderti — disse Anna, pallidissima. — In poche parole... io desidererei che tu rinunziassi a certe cose... vedi... saresti, non so come spiegarmi... saresti più donna, più conforme alla missione che la natura e Dio ti hanno assegnata... Anche ieri, hai sentito... con quella velata ironia... era una cosa penosa!
Gli occhi di Anna si erano dilatati straordinariamente, come fosse presa da uno stupore profondo. Ella non rispose.
— Lo vedo — continuò il giovane con la più insinuante tenerezza — forse adesso non puoi comprendermi... ti sembro un grande egoista! ma più tardi senza fallo mi daresti ragione, e il tuo sacrifizio sarebbe compensato da un amore senza limiti, da una perenne adorazione...
— Rinunziare... a scrivere? — domandò finalmente Anna, con voce strozzata.
— Sì, cara Anna, ma di più ancora... di più.
— Alla mia professione? ma non sai che ci tengo come alla vita stessa! — esclamò la fanciulla, scattando.
— E se te ne pregassi?
— Perchè? ma perchè, perchè? — insistette ella, con angoscia.
— Perchè... sono geloso di tutto, perchè vorrei che tu fossi mia, tutta mia...
— E non credi tu che una nobile occupazione, il trasporto per un’arte non possano elevare e rinvigorire l’affetto?...
— No Aennchen. La famiglia non ci consente di divagare in troppe cose, e certe posizioni sociali hanno anch’esse i loro doveri e diritti...
— I diritti e i doveri della società sono basati in gran parte sul falso! — disse la fanciulla scuotendo la testa.
— Allora, permetti che mi spieghi meglio. Io non potrei tollerare che queste manine si occupassero di sezioni anatomiche... non potrei tollerare che la mia diletta compagna avesse dei rapporti cogli editori, si esponesse al giudizio volgare del pubblico e alle censure spesso insolenti dei critici.
Il volto della fanciulla s’era fatto quasi livido. Ella balbettò:
— Dunque, al tuo amore tu metti una condizione?
— Oh Dio! una condizione! non è la parola... te l’ho detto, si tratta d’una preghiera.
— S’io consentissi, sai tu quante lotte, quanti terribili ostacoli dovresti affrontare?
— Non lo so — disse il giovane con un atto di sdegno —: sento che per l’affetto avrei il coraggio di affrontare il mondo.
— Strano! e hai tanta paura delle mie... inclinazioni! E s’io mi rifiutassi?
— Direi che l’amor tuo non è completo, Anna.
— E se questa preghiera, come la chiami e che resta pur sempre una condizione, mi facesse pensare lo stesso di te?
— Il caso è diverso.
— Perchè sei un uomo? perchè ti attribuisci il diritto di esigere?
— Anna, tu ragioni troppo. Il sentimento deve spaziare in un campo più ideale. Credilo, gl’istinti virili aboliscono la grazia della donna e la vostra grazia è una cosa divina! Essa governa il mondo!
La voce del giovane prendeva sempre più quell’accento carezzevole e insinuante che alla donna sembra una dolcezza, ma che è in fondo un irresistibile impero.
La fanciulla sollevò i limpidi occhi azzurri ed essi incontrarono uno di quei sorrisi profondi che sembrano affermare l’interna corrispondenza delle anime e che le rendono obliose del momento che passa. Il sordo antagonismo di quelle due tempre s’arrestò dinanzi alla voce prepotente insieme e pietosa della natura.
Egli attrasse con atto invincibile sul suo petto la testina bionda, lumeggiata d’oro, che vi posò alcuni secondi come smarrita nell’amorosa languidezza d’un involontario abbandono. Anna sentì un fremito di fuoco sulle labbra tremanti e tremando rispose. Ma fu come un lampo. Balzò in piedi, atterrita dal pensiero di perdere la ragione, non turbata da quel bacio che le pareva sacro.
— Non mi dici nulla? sei così incerta ancora? Anna, Anna! — insistette il giovane con violenza vedendo che la fanciulla tornava a chiudersi fieramente in sè stessa.
— Oggi non posso Decio, domani... domani risponderò.
— Perchè non adesso? è così difficile?... Anna tu non mi vuoi bene!
— Molto più di quanto tu possa sapere e credere, Decio. Ora va, te ne supplico... va!...
*
* *
Ella rimase gran tempo colla testa fra le mani, sperduta.
Si sentiva soffocare, un cerchio di ferro la stringeva alle tempie. Le pareva che qualche cosa si sprofondasse entro di lei, ohe il suo cuore si vuotasse tutto, restando esulcerato.
Il suo amore era come ferito a morte, ma si rinfiammava per quella stessa ferita. All’amore di lui non poteva più credere: dinanzi una fiamma sì luminosa e pura esso le sembrava un gretto, oscillante lumicino. Pensava u che cosa ha amato in me se la parte mia migliore gli è repulsiva? se vuole che rinunzi in certo modo a me stessa per diventare un’altra? Tutti i miei ideali dovrebbero disperdersi in un’oziosa realtà. Chi sarei io? che cosa diverrei? l’oggetto passivo d’un amore che mi umilia, una signora alla moda che passa metà della giornata a studiare come si divertirà nell’altra metà, che si fa allevare da altri i figliuoli per bene adempiere a degli obblighi sociali molto discutibili, che sottrae una piccola parte del superfluo nel suo budget per darlo ai poveri che non conosce, una bambola foggiata secondo il criterio dell’uomo, un piccolo cuore da sfruttare finchè si spezza, un intelletto così soffocato da ridursi anche nella necessità incapace alla rivolta! E poi... la zia non vuole, me lo ha fatto capire chiaramente, non vuole. Varrebbe la pena che per un affetto così ligio ai pregiudizi io esponessi la mia dignità all’umiliazione di quest’angoscioso ostacolo? Ma dunque, non lo amo? Oh Dio santo, quanto, quanto lo amo!„
E all’improvviso, dinanzi all’impulso indomabile della passione, ogni difficoltà scompariva fra le più contraddicenti idee. Ella sentiva ancora la soavità infinita di quel bacio, l’unico che avesse mai dato, l’unico che nella sua austerità di creatura esclusiva le pareva di poter dare nella vita, se il destino la separava da Decio, e tutto quel tesoro di tenerezza e d’abnegazione che è nel fondo dell’anima femminile veniva a un tratto a galla col miraggio tentatore d’una sovrumana felicità. L’immaginazione, esaltandosi, le rappresentava al vivo le compiacenze d’una vita invidiata dal mondo, nel benessere d’un home signorile, comodo, elegante, al fianco d’un bel giovane geniale e innamorato, in quella città unica al mondo ch’è Roma.
Ma Anna aveva già sofferto troppo per non conoscere sè stessa e non poteva soggiacere a lungo all’inganno di quelle lusinghe. Ella sapeva che nulla poteva sostituire per lei le gioie del lavoro umanitario e dell’arte. Nel grave dibattito, ancora una volta, la sua forte tempra prevalse. E per mettersi al sicuro da ogni tentazione ella risolse d’affrettare la partenza e di comunicarne subito la notizia a donna Ortensia.
Il colloquio con Decio non era sfuggito alla vigilanza della madre premurosa, e all’apparire di Anna, incapace di frenare il proprio dispetto, ella disse subito:
— Mio figlio era poc’anzi con te nella biblioteca.
— Sì zia.
— Non capisco lo scopo di questi segreti colloqui. Aveva qualche cosa a confidarti?
— Può darsi. Del resto, ciò è avvenuto rare volte e non per mia volontà. A me non sembra sconveniente. In Germania le usanze sono diverse.
— Sarà, ma noi, grazie a Dio, siamo in Italia. Me ne rincresce per Dorabella e Malvina.
Anna pensò alle confidenze delle sue cugine e alla loro dubbia riservatezza e un vago sorriso le sfiorò le smorte labbra. Nondimeno rispose con calma:
— È giusto ch’io non abusi della sua cortese ospitalità, trasgredendo a un sì espresso desiderio.
— Parai molto bene, Anna.
Poche, per sè insignificanti parole, ma sature di veleno. La fanciulla non vi badò e riprese con apparente pacatezza:
— Ho deciso di partire fra due giorni. Venivo appunto a parteciparle questo mio divisamento.
— Parti? — esclamò donna Ortensia, mutando viso e accento — perchè?
— Il lavoro m’aspetta e troppo tempo ho indugiato, senza accorgermi. I miei amici stessi mi esortano al ritorno.
— Me ne rincresce assai, cara figliola...; d’altronde se la tua carriera lo esige, non so che dire... — rispose donna Ortensia per non rivelare, nè compromettere la sua immensa soddisfazione.
— Dispiace anche a me, zia, ma mi rimangono dei ricordi indelebili, oh quanti diversi ricordi! — disse Anna senza reprimere la propria amarezza.
— Sono stata un po’... subitanea con te poc’anzi e lo deploro... — concluse donna Ortensia, che quella felice soluzione rendeva perfino suscettibile al pentimento.
La fanciulla non rispose, ma s’occupò di Malvina ch’era sopravvenuta e che si scioglieva in lagrime al pensiero di separarsi da lei.
Poi, com’era giorno di ricevimento per casa de’ Kosas, Anna espresse il desiderio d’uscire.. Aveva bisogno di respirare inosservata, di raccogliere le proprie forze nella solitudine.
Le pareva ancor sempre che Decio dovesse cercarla, dovesse dirle con quella voce calda, fremente di passione: io vivevo nell’errore, lo vedo; l’amor mio era chiuso in una rete di vecchie idee e si è liberato. Io desidero che tu assecondi le tue invinci bili aspirazioni, che tu consenta al tuo intelletto una vita energica e piena; io non voglio cercare in te un elemento esteticodi piacere, bensì un’alleata fedele dello spirito che nelle inevitabili controversie di quaggiù, quando si sfatano le illusioni, quando si spegne la bellezza, mi dia il sicuro conforto della sua amicizia, d’un legame superiore a ogni umana miseria.
Fu con questo folle barlume di speranza ch’ella s’avviò a casa e per l’ultima volta verso i luoghi prediletti. Errò alcun tempo in piazza di Spagna completando la sua raccolta di fotografie. Comperò da un bambino una ciocca di rose e se la puntò macchinalmente alla cintura, poi salì per istinto la bella gradinata ove solevano raggrupparsi una volta i modelli convenzionali. Un suono vago l’attrasse nella chiesa della Trinità dei Monti. Le monache cantavano un coro soave e triste, accompagnato dall’organo; il quadra di Daniele da Volterra era già immerso nell’ombra. Ella si fermò per ascoltare e un’onda soffocante di lagrime le salì dal cuore agli occhi. Quando uscì di nuovo all’aperto per appoggiarsi un’ultima volta al parapetto ove aveva fatto sì lunghe, deliziose soste nei giorni trascorsi, Roma si disegnava colla cupola di Michelangelo sullo sfondo sfolgorante del cielo, nell’ora vespertina. Un rumore confuso saliva dalle vie sottoposte; dietro a lei passavano i ciclisti, le carrozze, le frotte di bimbi, i forestieri che tornano dal Pincio. Era nell’aria mite di primavera, nel paesaggio caldo, nella gente serena come una placida contentezza delle cose. Anna ripensò molte gioie trascorse, rivide in una volubile fantasmagoria dei gruppi di cipressi ergentisi nella cupezza quasi tragica del verde, delle file caratteristiche di pini sugli orizzonti di fiamma, e memorabili vie antiche seminate di sepolcri, e brani d’acquedotti dispersi nella campagna vaporosa, rivide le dee impassibili dei marmi greci e la dolcissima Madonna di Raffaello nelle camere al Vaticano, la statua di Marco Aurelio e la Santa Cecilia del Maderno e uno struggimento la prese per quella città della bellezza, un orgoglioso trasporto figliale, quale Roma sola lo consente.
Prima di tornare a casa ella volle contemplare ancora una volta i ruderi giganteschi del Palatino, ove vegetavano una volta presso agli agave gli acanti degli orti farnesiani, volle immergere la sua manina tremante nelle fresche acque della fontana di Trevi e ascoltarne lo scroscio armonioso e raccogliere nella mente visioni estreme di linee e di colori.
Al desinare vi era gente. Subito dopo, donna Ortensia che doveva condurre le figliuole al teatro insistette onde Anna le accompagnasse. Decio prese un pretesto per allontanarsi. Era cupo, concentrato e il silenzio della fanciulla e i suoi propositi di partenza evidentemente lo irritavano.
Solo una volta passandole accanto egli mormorò:
— Sei crudele, Aennchen.
Ella non potè rispondere. Sentiva che il cozzo delle loro due volontà era invincibile.
*
* *
La notte fu grave per entrambi. Anna era ancora in camera quando le portarono la posta. Insieme a parecchie lettere vi era un fascio di bozze di stampa. Il direttore della Gartenlaube, cosa affatto eccezionale, mandandole egli stesso le prove delle Kinderszenen, l’ultimo lavoro in cui ella aveva raccolto con forma geniale i suoi studi sulle anime dei bambini sofferenti in un ospedale di Berlino, aggiungeva una parola di schietta lode per la verità di quei bozzetti della vita infantile, augurando che il plauso del mondo letterario la rendesse presto celebre come meritava. Anna sentì un brivido strano in tutta la persona, baciò con trasporto quella lettera, poi discese portandola seco come un talismano. Ella pensava, con un senso di tristezza, che Decio non le aveva mai realmente chiesto di leggere alcunchè di suo.
Sperò nondimeno di trovarlo nella sala da pranzo e di potergli in qualche modo parlare, ma, presago forse della risposta e risoluto di non transigere, il giovane alla colazione non si fece vedere.
Anna comprese allora d’aver tardato anche troppo, tornò nel gineceo e fatta una rapida risoluzione gli scrisse:
- “Caro cugino,
“Ho molto meditato e ho risolto. Ti sono riconoscente dell’affezione che hai voluto dimostrarmi e la cui dolcezza non dimenticherò mai, ma sento che io non saprei in alcun modo corrispondere all’ideale che ti sei fatto della donna, nè acconsentire alle restrizioni che tu domandi. La mia coscienza mi costringe di rinunziare a un sogno che poteva essere divino e che un fatale ostacolo disperde. Ti conceda la vita ogni più eletta felicità. Questo è il primo, l’ardente voto della tua
“Aff.ma cugina |
La fanciulla trovò modo, passando dinanzi al piccolo appartamento di Decio, di porre, non vista, la busta suggellata su un vassoio in anticamera, poi scrisse un biglietto al prof. Heinselt in cui gli annunziava il suo ritorno col cuore sanguinante, ma pieno di coraggio; da ultimo pensò con calma a riporre nelle valigie la roba sua.
Decio comparve soltanto al desinare. Aveva il viso sconvolto, ma sul suo visibile accoramento prevaleva l’esasperazione del ferito orgoglio virile.
Anna sofferse di quella latente ostilità. Mentre donna Ortensia e le figliuole andavano a gara a colmarla di attenzioni, il giovane, molto concentrato in sè stesso si limitava alla sua solita cavalleresca cortesia che in quell’ora suprema aveva qualche cosa di glaciale.
Più tardi, mentre ella passava da un gabinetto per scendere dalla scala interna nel piccolo giardino ove le sue cugine l’aspettavano, il giovane la raggiunse, le disse con affettata freddezza:
— Dunque domani...
— Sì Decio.
— Inesorabilmente... — continuò egli, scrutandone il volto scolorato.
— Non è questa la parola. Lo vuole la necessità.
— Perchè?
— Non domandarmi Decio, è meglio assai.
— Tu persisti in ciò che m’hai scritto?
— Sì, Decio, sono costretta a persistere. Vi è nelle nostre anime una grande affinità primitiva, manca invece l’unità d’elezione.
Tu saresti divenuto, senza volerlo, un po’... assoluto, io avrei finito col ribellarmi. V’è un punto grave in cui non potremmo intenderci mai. Altre creature più dolci, più miti, più sottomesse devono allettare il tuo sguardo, amico mio. Per te la mia rinunzia dolorosa è un benefizio.
— Oh!
— Lo vedrai più tardi. Soltanto ricorda, ti prego, ch’io ti ho molto, molto amato e che... probabilmente t’amerò sempre!
Le parole di Anna avevano qualche cosa di semplice insieme e di solenne.
Il giovane si lasciò cadere su un divano, colla testa fra le mani. Un impeto improvviso di dolore lo colse, gli strinse la gola con un singhiozzo. Nell’urto di quelle due tempre risolute a non cedere nemmeno alle angoscie della passione, l’istinto ebbe ancora un momento fuggevole di prevalenza. Anna si commosse, s’avvi cinò a lui, gli fece una vaga carezza sui capelli neri, poi lo lasciò impetuosamente, scendendo a precipizio le scale.
Calava la notte e un olezzo di caprifoglio veniva dal cortile interno del palazzo. Il piccolo giardino era tutto fiorito di gigli che parevano chiazze bianche tra il cupo fogliame. Una fontanina in un angolo cantava col suo zampillo una monotona melodia.
Dorabella rincorreva spensieratamente Malvina per metterle delle lucciole nei capelli che sembravano adorni di gemme. Nessuno vide nell’ombra il mortale pallore sulla faccia di Anna. Ella si contenne e parlò con tranquillità del prossimo viaggio.
*
* *
L’indomani, come l’avevano accolta il giorno dell’arrivo, i tre giovani de’ Rosas andarono ad accompagnare Anna de’ Wittov alla stazione. Nulla turbava l’effusione sinceramente triste di Malvina e Dorabella nell’ora dolente dell’addio. Decio, pallidissimo, non aveva parole. Più forte di lui la viaggiatrice si reggeva con la volontà. Mentr’ella stava per salire in treno, una cosa strana accadde: Simonetta d’Origo comparve con miss Sutton.
Tutta vestita di rosa, pareva un raggio di sole, e portava per la partente un mazzo incantevole d’orchidee, un ricordo del loro breve incontro. Le due fanciulle si baciarono e nella bella faccia dolce di Simonetta, lontana da ogni sospetto, vi fu un sincero accoramento per il distacco della creatura per lei singolare che un legame di parentela vincolava all’uomo amato. I suoi begli occhi si velarono di lagrime. Anna, pur essendo riconoscente, rimase impassibile. Ella entrò nel compartimento portando con sè il fascio di fiori strani, e sebbene fosse pieno, trovò modo di affacciarsi al finestrino fra due americane. Il suo sguardo cercò quello di Decio a cui Simonetta si era per un atto involontario avvicinata e gli diede in silenzio l’estremo saluto con quell’angosciosa visione dinanzi. Il treno si mosse, un fazzoletto sventolò alcuni secondi, poi tutto scomparve nel fumo.
Jacopo Turco.