L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte I/Come stiamo a fatti?
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COME STIAMO A FATTI?
§. VII.
Mettere Dio a repentaglio con l'uomo è mala cosa. Legge mosaica condanna a morte i Bovi. Asino in Grecia mandato al supplizio. Leoni crocifissi in Africa, e Polibio ne dice la causa. Cani impalati a Roma e perchè. Le Oche e i censori romani. Invitatorio del Diavolo. Cani repubblicani impiccati in Iscozia. Cani di San Malò dannati a morte per ghiottoneria. Maiale di Utrecht messo alla gogna. Troia a Lilla decapitata per avere fatto colezione. Tirannide a che si conosca. Strage degl'innocenti. Cane e Gallo arsi vivi per istregoni in Iscozia, e a Basilea. Chiocciole, Topi e Bruchi banditi di Francia. Chussanée avvocato li difende e prima gli aveva perseguitati. I Tribunali di Magonza confinano le mosche. Cavallette bandite da Valenza; scomunicate in Avergna. Giullerie antiche. Progresso umano. Prove di progresso in Francia. Miracolo delle pere cotte. Untori a Parigi. Coniugali svisceratezze. Leggi contro le streghe in Inghilterra. Immani frutti delle assicurazioni della vita. Infamia di Preston. Dama bianca degli Hohenzollern. Fata Meleusina. Superstizioni slave. L'Austria ha scritto la storia della sua civiltà da se. Superstizioni scandinave. In Russia Dio conta meno dello Czar. Superstizioni spagnuole. Italia paragonata coll'Anguilla, e il paragone torna. Roma e Napoli. Superstizioni toscane. Giuoco del lotto. Considerazione sopra la Zecchinetta, e il Banco fallito. Bestie parenti dell'uomo. Nozze continue tra la razza umana e le altre razze. Elefanti innamorati delle donne. Oche innamorate. Infelici amori dell'Aquila di Sesto. Pasifae. Semiramide. Donne tessale. Apuleio. Asino d’oro. Luciade. Asino trasformato in uomo cacciato via. Indiani. Erodoto, e Mende becco santo. Centauro dello Imperatore Claudio. Satiro di Silla. Satiro di Apollonio. Satiro di Santo Antonio. Satiri di Santo Agostino. Uomini con una gamba sola; con la testa di cane; senza testa; di Uccelli di rapina, ed era simbolo di Re. Titolo di Re ai tempi di Omero. Uomo con testa di Asino. Fanciulla greca bellissima con le zampe di Asino. Asino nato dalla predica di un padre Gesuita. Virtù delle parole sul ventre delle donne. Cuvier presuntuoso. Natura canzona l’uomo. Ragione della spessezza dei metalli rispetto al calorico. Platino. Adamo. Terra rossa. Reliquie di Santa Caterina di Sisco. Forni da pulcini in Egitto. Uova di Leda. Capitolari di Carlo Magno. Atti dei Parlamenti di Francia. Esodo. Levitico. Codici Criminali di Europa. Leggi e palafitte sono tutto una. Asino stimato pari al vescovo di Arezzo; e al vescovo di Nocera. Asino stimato pari al re di Francia. Asino stimato pari al re d’Inghilterra; e ai Marchesi Fiorentini. Conclusione. Volgarizzamento di un verso di Virgilio.
Arzigogoli a monte, come stiamo a fatti? Qui giace Nocco. Veramente avrebbe a parere strano, che si cercassero fatti là dove Dio favellò: ed ho toccato di sopra, che s’egli avvertì le bestie a rispettare gli uomini, se no guai a loro, questo era certissimo segno, ch’egli sapeva averle provvedute con discorso di ragione. — Ma ormai l’ho visto a prova, sopra l’autorità non ci è da fare più caso: ai tempi miei si levavano le braccia dal posto per metterla su ritta lungo il muro come si costuma co’ bimbi, tanto che la paresse viva, ma sì, egli era, fiato perso: tanto valeva dare a cucire la nebbia. Non mettiamo pertanto il Signore a repentaglio con l’uomo, che questi è stummia da stare a tu per tu con esso lui, e rispondergli in faccia: se tu la intendi a lesso, ed a me garba arrosto, a cui non piace mi rincari il fitto. Diamo pertanto del buono per la pace, e leghiamo l’Asino dove vuole il padrone. Orsù domando io: figliuolo di Adamo, la tua stessa testimonianza ti basta? sì o no? Di’ l’ultima, che ti nasca il vermocane. Ti basta: ringraziato Domineddio. Allora incomincio da Moisè il quale dalla bocca propria di Tehova raccolse la divina parola, e la trasfuse calda bollente nelle leggi: odi un po’ quello che esse statuiscono: — se un Bove uccida uomo o donna di cornata, il padrone è innocente, ma il Bove sia lapidato, e non se ne mangi la carne1. In Grecia misero a morte un Asino mio antenato per omicidio; e iniquamente secondo il solito, però ch’egli non lo facesse a posta. I Cartaginesi conficcarono Leoni su le croci, e gli esposero lungo le strade maestre2. Se ti viene voglia di saperne la colpa cercala in Plinio, e troverai raccontato da Polibio3 che fu compagno di Scipione Emiliano nell’Africa, come i Leoni avendo gustata più volte carne umana dicessero fra loro: — è un po’ tigliosa, ma la può passare! — Quindi è, che fecero disegno di mandare ogni giorno, eccetto il venerdì, le quattro tempora, e gli altri giorni comandati, a procacciarsela al macello. Carne umana da vendere non ne mancava, anzi ce n’era di soperchio, ma non la poterono avere, perchè i Leoni non costumano altra moneta che gli ugnoli. Scandalizzati, com’è da credersi, dal rifiuto inurbano, posero l’assedio a parecchie terre, e fecero vista di volerle assaltare. Gli uomini, che bene erano lì per vendersi non già per donarsi, si difesero francamente, ed avendo rotto gli assalitori, quanti ne presero tanti ne crocifissero, per insegnare ai loro compagni le creanze di voler mangiare carne umana senza pagarla. Gl’Inglesi, e i Francesi ben mandarono carne umana a macellare in Oriente, o nell’Indie, ma prima l’apprezzavano, e pagavano, e però non si trovarono al brutto partito di vedersi crocifissi su le strade maestre per insegnamento altrui. — Voi altri sapete, che i Romani per colpa dei Cani stettero a un pelo di andare a filo di spada per opera dei Galli, ma voi ignorate com’essi se la legassero a dito ond’è che ogni anno come entrava il mese di Agosto, con un ramo di salcio impalassero qualcheduno fra i pronipoti di quelli4. Bella giustizia, proprio da Romani, che si vantavano nati per bandire leggi nel mondo, far portare ai nepoti la pena della colpa degli avi! Però non vo’ tacere, che la disgrazia de’ Cani fu la fortuna delle Oche, avvegnachè i Romani per rimunerarle della vigilanza la quale salvò il Campidoglio e Roma, statuissero, che la prima funzione dei Censori, quando entravano in ufficio, avesse ad essere quella di pattuire l’appalto del nutrimento delle Oche5.
Vuoi farti un’idea chiara dello invitatorio del Diavolo, il quale diceva così: de malo in peius venite, adoremus? Svolgi le storie degli uomini, e vedrai. Qui sopra li resi Cani impalati per colpa degli avi dei bisavi: adesso bada a questa altra: nella Scozia, quando quella baldracca della fortuna tornò a fare di occhietto ai monarchisti impiccarono Cani, per mala sorte nominati col nome dei più accesi zelatori della repubblica e così nè anche per colpa loro prossima o remota bensì di quei dessi che matti, e ribaldi gli manomisero6. I Cani guardiani di San Malò furono anche loro condannati a morte per aver mangiato le gambe a certo gentiluomo; e se lo meritarono; ci erano tanti villani da sfiorirsi, e senza costo! Vollero compiacere alla ghiottoneria di gustare carne di nobile, e la pagarono; bene sta, e tale accaschi sempre a cui cerca miglior pane, che di grano7. All’Aia, senza che se ne sappia la cagione, a capo di ogni anno legavano un Maiale alla gogna, e se non fosse stata la filoporcheria degli abitanti di Utrecht, o quale altro più giusto motivo gli muovesse, che fece smettere cotesta mala pratica, forse la durerebbe tuttora. Il proposto di Lilla con solenne giudicato condannò alle forche una Troia di vita onestissima, e di niente altro rea, che di avere voluto per una volta tanto rendere agli uomini la pariglia di quello che eglino praticavano quotidianamente con le carni del suo lignaggio, voglio dire, che un giorno le venne in testa di fare colezione con un putto di latte. Oh! non è curiosa questa? Piacevano agli uomini i lattanti della Troia cotti in forno, o perchè non avevano a gustare i figliuoli della donna alla Troia? Ancora in certo libro vecchissimo mi occorse leggere la ricevuta del mastro giustiziere, la quale specifica qualmente il Re di Francia, ed il Visconte di Falasia gli abbiano pagato dieci soldi, e dieci danari tornesi in conto della impiccatura di una Troia trienne, rea di avere cenato col nobil viso di Giannetto Masson. Gli uomini pratichi delle faccende del mondo, tra gli altri segni pei quali si viene a conoscere la tirannide, ci lasciarono questo; castigare in altrui i misfatti, ch’ella stessa commette; e senza prenderne vergogna; all’opposto sostenendo sfacciatamente, che secondo la qualità delle bestie, quello che in una si multa come reato, in altra si deve celebrare come virtù.
Veruna specie di bestie però ebbe tanto a patire delle persecuzioni umane quanto i Porci, a danno dei quali fu veduta rinnuovarsi la strage degl’Innocenti. Hai da come gl’incoli del regno d’Juda un bel dì venissero in gazzurro di torsi per Numi i Serpenti (così non avessero gli uomini avuto mai Dei migliori di questi, che pur troppo se gli sarebbero meritati;) ora accadde, che un Maiale essendosi imbattuto in parecchi serpenti si sentisse fame, e non si potendo nè anco per ombra immaginare, che l’uomo animale ragionevole se li fosse fatti Dii, bravamente se gl’ingollò. Indi il furore del popolo d’Juda, che armato di ferro e di fuoco non si rimase, finchè non ebbe disfatto la razza porcina del regno. Io non vo’ dissimulare il delitto, anzi, quante volte ci penso, mi sento per orrore dirizzare le orecchie sopra testa; che si canzona mangiarsi anche li Dei! Ma per altra parte, o come poteva la povera bestia supporre che cotesti matti andassero a scegliersi i Numi fra i Serpenti; e alla più trista, qual colpa era nelle consorti, e nei figli del malfattore? Gli altri Maiali come ci entravano eglino?
Andiamo oltre, che ne vedremo delle più leggiadre: correndo il secolo decimosesto nella Scozia (che a quanto pare fu paese classico in questa maniera d’imprese) arsero un Cane convinto di stregoneria: a Basilea un Gallo negromante, e per di più reo di avere covato un uovo, donde, come sapete, nasce il basilisco, mostro terribilissimo, che Dio ve lo dica per me, il quale col solo guardare la gente l’ammazza. Le Chiocciole, i Topi campagnuoli, Bruchi anch’essi rei del parricidio di mangiarsi le foglie di cavolo vennero sottoposti alla giustizia civile e criminale: e poichè le gretole per le quali eglino si schermivano dal comparire in giudizio non arrivavano mai a fine, un tale Chassanée, giureconsulto dei buoni, per levare il vino dai fiaschi dettò un solenne trattato di procedura, che gli ridusse a mettere capo a partito. Però, come per ordinario avviene con questi benedetti legisti, Messere Chassanée prima di essere Cane fu Lupo, avvegnachè difendendo i Topi della città di Autun non è da dire quanti mai garbugli ponesse in campo, ora intorno alle citazioni, ora circa la contumacia giustificata dalle urgenti insidie dei Gatti, ora per questa, ed ora per quell’altra causa, cosicchè se quel valentuomo del Vescovo giudice della lite non metteva la falce alla radice facendo citare i Topi dai pulpiti e otriando loro amplissima patente e salvocondotto perchè si presentassero sicuri, all’ora in cui siamo, sarebbe anche in piedi il processo. Quando al Chassanée poi fu mestieri difendere il merito, soddisfece al carico assunto da quell’omaccione, ch’egli era, e l’arringa profferita da lui in cotesta congiuntura fu reputata dagl’intendenti un capo d’opera, siccome potrai giudicare da per te stesso, se te ne piglia talento trovandosi stampata pei libri8. L’esito della lite fece fallo non dirò alla ragione (chè i Topi in coscienza non l’avevano), bensì alla facondia dell’oratore, imperciocchè venissero condannati a bando perpetuo, e a ristorare i danni commessi. Tanto almeno ci attesta il gravissimo presidente de Thou, che racconta il fatto. Magonza udì, correndo quindici secoli della salutifera Incarnazione, il piato famoso contro le Mosche. Gli uomini teneri dei sembianti della giustizia, quanto perduti a straziarne la sostanza, vollero ch’elleno avessero tutore per rappresentarle, o avvocato per difenderle. Giunterie prette! Prima s’iniziasse il giudizio si sapeva da tutti, che le avevano ad essere, come in vero furono, condannate. Una cosa però fecero buona cotesti Pilati, che largirono alle Mosche un territorio dove potessero ridursi a vivere in pace col santo timore di Dio lasciando di ora in avanti di passeggiare con inestimabile molestia sul naso dei cristiani. Le Cavallette furono nel 1585 intimate a comparire al cospetto del gran Vicario di Valenza, che le sfrattò dalla sua diocesi comminando loro terribilissime pene se si fossero attentate ricomparirvi da capo; e nel 1690 nell’Avergna il gran Vicario Burin, persa la pazienza, le scomunicò addirittura. Fortuna volle che si trovasse il giudice del luogo persona mansueta, il quale non potendo patire che le male capitate Cavallette si dessero alla disperazione, le relegò in certi luoghi salvatichi, secondo il costume dei Romani, e più tardi dei Russi, dei Francesi e degl’Inglesi, i quali confinarono i delinquenti alle isole, in Siberia, in Caienna, alla terra del Van—Diemen, e altrove9. Nè questo sarebbe tutto; però a me sia bello tenermi satisfatto di tanto, perchè nello stravincere ci è pericolo, e più perchè la temperanza vera accompagna sempre i gagliardi così nelle armi, come nelle ragioni ed in ogni altra cosa. Dallo esposto fin qui si viene a ricavare, che o gli uomini furono matti, o noi savi. Matti loro se reputandoci privi d’intendimento ci posero a tal croce; savi noi se capaci di buoni e rei pensieri sapemmo scerre tra questi, e ci ammonì il castigo altrui e la paura della infamia potè in noi più della paura della morte; avvegnadio, come nel caso della Troia, o per la mano del carnefice, o per quella del norcino tanto ella non poteva evitare la morte, e sopratutto poi se la minaccia delle pene eterne dello inferno ci comprese di salutifero terrore.
Novelle! esclama l’uomo: pochi fiori non fanno ghirlanda; nè possono invocarsi sfarfalloni a dimostrazione di verità. Tempi infelicissimi furono cotesti, e comechè i Greci e i Romani su molti punti ci appaiono eccellenti, e diremo quasi divini, nelle scienze morali non è così. Allora lo spirito umano gingillandosi sopra la soglia del tempio non aveva per anco contemplato la faccia augusta del Dio del progresso; allora le dita umane non avevano anche appreso a dipanare di su l’arcolaio della sapienza la Tenia10 del perfezionamento infinito.
I posteri hanno compianto le superstizioni e le follie degli avi, e se ne sono astenuti: così i pii figliuoli di Noè velarono le vergogne del padre ubbriaco, e non tornando a bere il liquore della vite, dei briachi al mondo non se ne vide più!
— Mi farebbe la finezza, replico io all’uomo, di sapermi dire quando e dove incominciò la magnifica scappata al suo perfezionamento? I passi umani, udii raccontare sovente, e’ fanno come le processioni, gira e rigira tornano colà donde prima si mossero; nè questo è il peggio: ma zitto a paroloni quando via? Pel secolo decimonono, — E dove? A Parigi: Bè! dove sta di casa il cervello del mondo? Adesso udite gli avanzi fatti dall’arguto popolo di Francia. Nella cella di certa beghina ridottasi a vivere in Convento trovano un giorno pere cotte; il giorno appresso pere cotte da capo, e il terzo giorno ancora pere cotte. Io Asino avrei ragionato così: coteste pere la femmina o si cuoce da se, o nella cucina del Convento se le fa cuocere, o belle e cotte le compra sul cantone della strada; ma per l’uomo, vecchio bambino, eternamente attaccato al capezzolo della Follia, apparve troppo piana cotesta spiegazione, e le vie piane presso di lui sono proibite peggio delle pistole corte; dunque indovinale un po’ che cosa diavolo andasse a ghiribizzare? Andò a fantasticare nelle pere cotte un miracolo, e il reverendo padre Debreyne trappista disse essere informato da buona sorgente, che alla beghina portavano le pere cotte Gesù Cristo, la beata Vergine, e san Giovambattista; ne si rimase a dirlo, ma eziandio lo scrisse, e lo stampò nell’anno di grazia 184311! Queste le lepide cose: veniamo alle truci. Il cholera immalignisce nelle Indie a cagione della fame del Bengala, opera immane del Governatore Hastinghs; la disperazione mette il flagello in mano alla tirannide, la quale lo regala a Niccolò I nel giorno anniversario della sua nascita: da questo poi si sguinzaglia contro la Polonia, che casca morta, e i moderati di allora dicono, fregandosi per contentezza le mani, ricomposta in pace. — Requiem aeternam dona ei, Domine! — Il flagello dai sepolcri pollacchi si avventa inveperito sopra tutta l’Europa, dove mentre i popoli tremando lo ravvisano castigo celeste, e non ultimo, e nè anche il peggiore al delitto dei potenti, che lasciarono agli artigli di tre Aquile grifagne spartirsi il cuore della Polonia messo da Dio a riparare l’Occidente dagli straripamenti dei boreali, i Francesi a Parigi, proprio in casa del cervello del mondo, ricominciando civilmente quello che da due secoli innanzi si era smesso in Italia come stupido e barbaro, lo reputano opera umana, e dato di piglio a certi tapini, che in cattivo arnese aggiravansi per vie remote, quelli spietatamente precipitano nei pozzi. Altra prova dello accostarsi, che fanno i Francesi al perfezionamento. Gaubinel marito di Giovanna ama Francesca moglie di Venaud: accordansi a disfarsi dei coniugi molesti. Cercano un prete per far dire una messa a San Sécarpi, la quale ha virtù di seccare le gambe alla gente secondo la intenzione di colui, che la fa celebrare; non trovato il sacerdote, ricorrono agli stregoni, che promettono Roma e Toma, ma allo stringere delle corde nulla attengono; allora mandano suppliche al Diavolo, che le respinge indietro agli Ordini, come si costumava in Toscana: disperati fanno capo allo speziale ed in bottega di lui rinvengono il demonio cercato invano nell’inferno. La moglie del Goubinel, e il marito della Venaud muoiono avvelenati; scoperto il delitto, nel 1851 vanno in galera12. E per quanto spetta alla Francia, parmi abbastanza.
Ma forse il palio del perfezionamento morale non era corso in Francia, bensì in Inghilterra, paese illustre pei palii: andiamo per tanto a vedere. Nel secolo decimonono vigevano ancora in cotesta contrada le leggi, che dannavano a morte gli stregoni, i fattucchieri, e gente altra siffatta: però a dirla giusta, gl’Inglesi ad abbruciare le streghe non isprecavano carbone fossile, avvegnachè in casa loro la superstizione avesse ceduto il campo alla cupidità. Questo è mostro nato dal ghiaccio come la superstizione dal fuoco; l’uno nudrito nello inferno, l’altro sulle nevaia del Dalavagivi; la cupidità, dalla faccia di marmo, dagli occhi senza palpebre, nelle vene della quale invece di sangue scorrono numeri algebrici. Ecco le sue prove. Davanti alla Corte d’Yorh, nell’anno 1847, era condannato un padre scelleratissimo trucidatore del proprio figliuolo. Cagione del delitto fu chiarito essere la cupidità di guadagnare cinquanta scellini, i quali valgono lire settacinque toscane, che la Compagnia di Assicurazione della vita avrebbe dovuto pagargli per la morte del figlio. Ad estremo di orrore un testimone comparso al giudizio con giuramento depose avergli detto il parricida avanzargli tre figliuoli, sopra i quali poteva avvantaggiarsi a tempo e a luogo, in virtù del medesimo giuoco, di lire dodici e mezza di sterlini; nè fu unico il caso; l’anno dopo la Inghilterra inorridita ascoltava una madre, che confessò liberamente avere, tratta dall’agonia di grancire per la medesima guisa poca moneta, ammazzato due figliuoli. Nella città di Preston sopra 80 mila anime si noverano meglio di 49 mila assicurazioni; di 100 fanciulli ne muoiono 80; e per 100 che ne caschino infermi, la cupidigia vinta dalla carità permette appena, che se ne curino tredici13. Bastavi questo in testimonio del progresso umano nella Inghilterra, o ne volete dell’altro? Se non fosse il pelo che lo cuopre, voi vedreste il mio muso di Asino rosso come brace accesa per la vergogna, che io sento per voi. — Passiamo in Germania. Costà a Berlino, a Darmstadt, Carlsruhe, e in parecchi altri paesi si credeva come, nel Santo Vangelo, che Berta di Rasenberg sposa di Giovanni di Lichtenstein, un bel giorno lasciato il marito, se ne andasse in Boemia, dove fabbricatosi un grande e forte castello, in questo si racchiudesse a vivere vita solitaria e romita: incerto reputarono per secoli, se fosse morta o viva, certissimo che nei palazzi di coteste città in forma di spettro comparisse di notte come di giorno ad annunziare qualche sventura, o la morte dei principi regnanti; con questa ragione, che se mostrava una mano sola coperta di guanto nero era segno di semplice disgrazia, o per dirla in lingua di Misericordia, di caso vivo; se poi le aveva ambedue co’ guanti neri, ella era spacciata, e ti potevi aspettare il caso morto. —
Non ricordo Jung Stilling, il quale nel suo libro della Teoria degli Spiriti ne parla come di fatto che non dà luogo a dubbio: annunzio più recenti avventure. Il Diario di Meklemburgo nel 10 Maggio 1850. raccontò, che lo spettro della Dama bianca apparito all’improvviso nel castello di Berlino durante la notte dal 10 Aprile, invece di spaventare la sentinella del reggimento dei granatieri imperatore Alessandro, le facesse venire la muffa al naso, ond’ella messo da parte ogni rispetto umano, dopo le tre chiamate non sentendo risposta, si precipitò con la baionetta in canna contro il fantasma, che traverso la muraglia vanì. Ora essendo accaduto, che nel 22 Maggio 1830 un soldato per nome Sefeloge scaricasse alla stazione della strada ferrata, che mena a Postdam, una pistola nel braccio al re Federigo Guglielmo; pensa tu, se il chiodo della superstizione dentro cotesti cervelli tedeschi si ribadisse più che mai. E come gli Hohenzollern avevano la Dama bianca, così i Lusignano avevano avuto la fata Meleusina, se non chè ai tempi miei non appariva più ad annunziare la morte di alcuno dei Lusignano, per la ragione che erano tutti morti14. Prima che andiamo più in su tiriamoci da parte, e consideriamo tra le popolazioni slava e greca avere corso in cotesti tempi fermissima la credenza, che taluni morti sconsacrati, i quali noi chiamavamo vampiri, ed essi vurcolachi, usciti fuori degli avelli vagolassero per la notte dintorno a succhiare il sangue di cui ne pigliava loro vaghezza; ed aggiungevano non avere trovato modo a fargli cessare più spediente, che conficcarli mercè un chiodo lungo due palmi in fondo della cassa avvertendo bene li trapassasse nel cuore; e che il rimedio sperimentassero infallibile, credo ancora io...15. Di Austria non parlo: ella dopo essersi composto certo suo inchiostro indelebile con sangue, lacrime e fuoco, ha scritto da sè gli annali della sua civiltà. Un capitolo ha nome Tarnow; un altro Buda; un terzo Brescia, e sfogliando il libro alla sfuggita ci ho letto anche il tuo, o mio Livorno, tanto, forse a torto levato a cielo un dì, ma tanto, certamente, a torto depresso nella stagione della sventura. Soffri, ed impara: acerba scuola è il dolore, e non pertanto l’unica palestra dove si avvalorino i reni dei forti. Impara, e taci: invece di contendere co’ tristi, che di te levarono i pezzi, supera i buoni, che acquisterai la fama, ch’è vita dell’anima, la quale altri da qui innanzi potrà più facilmente invidiarti, che toglierti.
Eccoci in Isvezia. È la notte del 27 Gennajo 1851. La piazza d’Ystad va ingombra di ogni qualità gente, massime donne; chi pesta i piedi, chi soffia nelle dita intirizzite, altri si percuote con le mani di colpo sotto le ascelle, i bambini guaiscono, i vecchi battono i denti in rota di cicogna, e le fanciulle tubano a mo’ di colombe: non pertanto stanno fermi. O che, non hanno tetto quei meschini? Le caverne, che la natura comparte alle bestie, dond’è che loro si neghino? Una notte di Gennajo anche a casa mia, ed io vengo dalle parti di Oriente, passata al sereno basterebbe ad assiderare una creatura umana, pensa un po’ nella Svezia dove pel freddo cascano le code ai Cani! Cotesta gente possiede bene, e meglio casa, e tetto, e perchè vengano lo vedrai domani. Ecco il sole sorge a Ystad giocondo come l’ultimo bacio impresso dal figliuolo sopra le labbra del padre prima di consegnarlo al becchino. La prigione apre la bocca e manda a guisa di buon giorno al patibolo due condannati, i quali salvatichi ed irti vengono tratti verso cotesto singulto di luce a spinte e a strettoni di corda; la turba dietro affannosa. — L’uomo è un macellaro, e la donna l’adultera di lui; il marito riuscito molesto fu ammazzato dal macellaro, che non pativa Mosche, sul naso. Egli ne aveva ammazzate tante delle bestie, che in buona fede non pensava, che una più o meno contasse, ed anche adesso per la nebbia della sua mente non sapeva capacitarsi, perchè la giustizia gli avesse lasciato scannare tanti Bovi, ed ora menasse ella grande scalpore per Niccola Nilsdolter marito della donna: forse egli abbacava, perchè i Bovi camminano con quattro gambe, e Niccola andò sempre con due; o forse perchè il Bove tracanna un bugliolo di acqua e Niccola ne mandava giù due di acquavite; o piuttosto sarà, perchè, il Bove si mangia, e Niccola no. Insomma io non capisco come non mi abbiano mai torto un capello, levando dal mondo tanti Bovi, bestie così parche, così operose e dabbene, e mi mandino a guastare adesso che ci ho levato un manigoldo, tre quarti del giorno ubriaco vagabondo e rissoso. Ma questi erano pensieri del Rosso, che andava alla forca e badava alle strade. I condannati non importa che capiscano, basta che si lascino tagliare. Dai capi mozzi sgorga sangue a bocca di barile; allora la moltitudine ribolle, e imperversando si rovescia di contro al patibolo; tanti non furono la pressa e il furore del popolo ebreo intorno al sasso donde Mosè fece scaturire le acque, refrigerio al tormento della sete; chi sporge bicchiere, chi tazza, chi pentola, o catinella, o laveggio a raccogliere di cotesto sangue; vi furono di quelli che v’intrisero i fazzoletti, altri se n’empirono il cavo delle mani se lo accostarono alle labbra e bebbero; i soldati, fatto gomitolo, a calciate di fucile, a colpi di baionetta rincacciano indietro la turba, ed ella si ritira brontolando come la marea; ripreso vigore, torna a imperversare più rabbiosa di prima, ingoia soldati allaga carnefici, patibolo e giustiziati; — finalmente si placa. Dove sono li cadaveri, ed ove il sangue? Tutto disparve: sbrizzati senza forma il popolo se li portò via quasi reliquie, imperciocchè vecchia superstizione persuada nella Svezia la gente, che sangue di giustiziato abbia virtù di guarire ogni maniera di malattie per altra guisa incurabili, le membra infievolite rinfranchi, e allunghi i giorni del fortunato che potè libarlo tepido tuttavia16. Poichè ci ha un passo tocchiamo la Russia. Ormai siamo tutti d’accordo, doversi questa contrada infamare barbarissima per eccellenza, così almeno non rifinivano di predicare i diarii francesi ed inglesi ai tempi miei. Ora vo’ che sappiate come a Pietroburgo catturassero un giovane poeta, e gli apponessero accusa suprema, la quale era di avere composto non so che canzone in contumelia dello czar Niccolò I, dove alla spiattellata lo chiamava: "figlio di un cane!" E’ pare, che in Russia sia cotesta una figura rettorica. Il temerario poeta stava per capitare male, quando preso da sdegno, che lo supponessero di tanta enormezza capace, chiarì il giudice, come l’oltraggio non si appropriasse punto al czar, bensì a Dio! — Oh! allora è un altro paro di maniche, disse il giudice; ed esaminata la scusa, e conosciutala vera, la menò buona al poeta17! E qui ti lascio, o Russia, imperciocchè borea soffiasse sempre agli Asini nemico, e fino dai tempi remotissimi, come esporrò in seguito, se a taluno di noi prese desio di visitare le tue lande, vi rinvenisse l’ospitalità, che la Tauride apprestava ad Oreste, il figlio di Agammennone; pertanto io torno alle terre del sole per confortarmi le membra assiderate. Eccomi a Cambo, a piè dei Pirenei: qui mentre io me ne vado a zonzo un passo dopo l’altro per un cammino vicinale, scorgo venirmi incontro una femmina di faccia onesta, che a quanto sembra affretta il passo, come persona che abbia faccende tra mano: allo svoltare di una siepe le saltano addosso due vecchie inviperite che la percuotono sul capo, la stramazzano, e cavato fuori il coltello, dopo averle avviluppate le gonnelle intorno la vita, le tagliano... Non vi rimescolate di grazia, che il caso è meno brutto di quello, che temeva ancora io; le tagliano un pezzo di camicia, il quale straccio applicato su lo stomaco ad una di coteste megere, la guarirà del mal di occhio, che da due anni a questa parte la travaglia; ed ella dubita che glielo abbia gittato addosso per astio la povera massaia18. Se ciò mi accade su i confini, pensa quello, che mi aspetta a Madrid; molto più, che armeggino quanto sanno, da cotesto paese l’aria muove sempre, impregnata del léppo, che uscì dai corpi arsi per opera del santo Officio; perciò faccio conto di voltare il groppone, e tornarmene a casa mia più che di passo.
In mezzo alla bruma rosata appariscono adesso le vette dei patrii monti tinte in bel colore mavì; dove ne posino le falde non è chiaro: se tu non li puoi dire cosa celeste, nè anco ti pare sostenere dirittamente, che sieno terrene; tagliamo in mezzo la differenza, ti venga concesso di figurarteli posto avanzato del paradiso messo là al confine dello emisfero a vigilare la terra. Italia! Italia!
«Bella Italia, io ti saluto,
Vi rivedo, antiche sponde,
L’alma trema e si confonde
Per l’eccesso del piacer19.»
E intanto, che sempre e vie più sempre mi accosto, vado rivolgendo nella mente la sentenza gravissima del Cosmopolita20, la quale il Byron scrisse a modo di epigrafe sopra la prima pagina del Pellegrinaggio del fanciullo Aroldo, e dichiara così: — l’universo è quasi un libro, di cui quegli che non si muove da casa legge una pagina sola; io ne ho squadernate parecchie, e le trovai una peggio dell’altra; però non senza profitto, avvegnachè prima non potessi soffrire la mia Patria, ed ora a cagione delle sguaiataggini notate nei varii popoli, fra i quali ho vissuto, mi sento riconciliato con lei. Quando non me ne fosse venuto altro in tasca, giudico di non avere buttato via la fatica e i quattrini. —
Dunque poniamo mano allo inventario. Da che parte incomincerò io? Da capo o da piedi? — Di mezzo o da parte? — Ahimè! Questo secolare spartimento attesta peggio che barbarie; egli è segno espresso di codardia. Pur troppo ecci una gente scema, che corrompere ed essere corrotto chiama civiltà! Dio la disperda col soffio, col quale disperderà i nemici nostri. Intanto finchè alla Italia soffre il cuore di sostenere nel mondo le parti di Anguilla, di avviamento al meglio non vo’ sentirne favellare nemmeno. E dico le parti di Anguilla, conciossiachè per molto cercare, che abbia fatto, non mi sia occorso paragone più puntuale di questo. Invero, l’Anguilla si compiace sguazzare nell’acqua; dall’Isonzo e dal Varo fino a Trapani allietano la Italia mia i mari Adriatico, e Jonio e Tirreno: l’Anguilla capitata in mano agli uomini è ridotta in tocchi; in pezzi contemplate anche l’Italia: i tocchi dell’Anguilla infilano nello spiedo; i frammenti d’Italia tiene insieme la catena degli Appennini, che lo serve come di schidione: perchè i tocchi dell’Anguilla stieno separati mettonvi framezzo foglie di salvia, e pane; onde le membra sparte della Italia non si riuniscano le si ficcano delle crepature tedeschi, francesi, ed anche spagnoli, oltre gli svizzeri, e l’altra gente, che la stessa Italia c’incastra di suo: i tocchi dell’Anguilla arrostiti a lento fuoco, pigliato che abbiano un bel colore tanè, s’imbandiscono in tavola e si mangiano: i pezzi della Italia... Oh! il più corto è rimasto da piedi: il paragone non va oltre, dacchè nessuno arrostisce, e molto meno divora la Italia. Che importa? Forse l’abate Cesarotti, in proposito della coscia di Menelao paragonata da Omero all’avorio tinto in rosso dalle donne di Caria, mancò d’informarci, non fare punto di bisogno, che le similitudini comechè classiche camminino con quattro gambe21? Intanto anche questa pongasi in sodo, che, tranne l’articolo di essere arrostita e divorata, gli altri punti del paragone fra l’Anguilla e la Italia non fanno né anco una grinza.
Ricercando la storia del perfezionamento umano in Italia dirò di Napoli o di Roma? Ahimè! Alla contemplazione di tanta miseria invano costringi sopra le labbra il riso; esse fanno greppo, e non chiamate le lacrime t’inondano la faccia. La Pietà in coteste contrade infelicissime diventata losca, e roca dal piangere, e dal pregare invano, poichè si accorse non restarle più voce da levare un grido, che arrivasse al cielo, ci volò da se, e quivi in ginocchio davanti al trono di Dio steso il dito, senza profferire parola, si raccomanda che guardi.
Guarda, Signore, e giudica se i nostri peccati furono scontati o se i peccati altrui superano i nostri!
Non è la Toscana il giardino d’Italia? Così affermano i Toscani, e i Fiorentini aggiungono Firenze, Atene della Toscana. Veramente ambedue compariscono dilette. Frughiamo in Toscana. A Barberino di Mugello in mezzo ad una selva di olivi hanno fatto un camposanto, la vite si è abbarbicata pei muri esterni di quello, e superatane la cima si rovescia nel chiuso, quasi intendesse inghirlandare la morte di pampini e farla ridere; su la porta, singolari custodi dei sepolcri, due fichi prodigano ombre e frutti a ricompensare la pietà di chi passa dando un fico in baratto di un de profundis; intanto l’ellera, stese le braccia lascive alla croce nera, s’ingegna vestire il segno austero della Redenzione con le gioconde foglie di Bacco, e ti rammenta Frine la folle, che tentò invano Senocrate. Un bel camposanto in fede di Dio, un camposanto da mettere l’uzzolo in corpo di morire per avere il gusto di trovarci sepolti là dentro. Adesso state attenti: guardate la mia lanterna magica: che figure vedete apparire? Un prete con la zappa, dopo lui un villano con la vanga, e dietro loro una femmina con l’accetta: ecco ora smuovono la terra di una fossa novella e cavano fuori un cadavere; la donna porge l’accetta; il prete tiene i capelli al morto e il villano di un colpo gli taglia la testa; poi rimessa ogni cosa in sesto, il prete, il villano e la donna con la testa mozza dentro un sacco, com’erano venuti se ne ritornano. Attenti sempre, che muto vedute: che figure vi vengono davanti? Una cucina, un fuoco come nell’Inferno non ce ne è più, e un paiolo dove l’acqua bollendo a scroscio butta all’aria sonagli. — Guardate tuttavia, che cosa vedete? Entrano il prete, il villano, e la massaia in cucina, e in un attimo rovesciano il sacco nel paiolo; ecco il capo mozzo rivoltolandosi si tuffa, viene a galla talora dalla parte della nuca, e tale altra da quella della faccia. Il Signore ci aiuti! Egli è un abbominevole spettacolo; cotesta povera testa con le labbra aperte e cenerine pare che dica: — rendetemi la cristiana sepoltura... — Basta. — Intanto notate che in Toscana nel bel mezzo del secolo decimonono un sepolcro fu violato, un sacrilegio commesso per ottenere dalla testa di morto bollita numeri buoni per mettere al giuoco del Lotto! E per via di corollario aggiungete alla nota anco questa, che in Roma caput mundi, ed in Toscana giardino d’Italia sotto pene severissime vietansi il Faraone, la Zecchinetta, il Bancofallito, la Rossa e la Nera, e giuochi altri siffatti dove impattando si perde intera o mezza la messa, mentre i Governi provocano al giuoco del Lotto, il quale di 120 casi di vincita, 80 ne dà a cui tiene il banco e 40 al giuocatore, o pochi più. Finalmente potete appuntare, che in Roma caput mundi, ed in Toscana giardino d’Italia, il Faraone, la Zecchinetta, e la Rossa e Nera erano proibiti perchè sperimentati peste del vivere vile, e morte espressa degli onesti costumi a riparare i quali danni serbavano in piedi il giuoco del Lotto.
Via! Fatti l’onore del sole di Luglio, o uomo confessa te come noi venuto al mondo per esservi sbattacchiato di sù, di giù, da questo lato, e da quell’altro tavola infelice in balìa dei marosi della fortuna. Perchè ci rinnegheresti? Tu non salisti mai in alto, nè mai tu fosti tuffato in Lete22 e vi fosti salito, avresti fatto mostra di poco cuore se ti lasciasti pigliare dal capogrillo. Rammenta, che molti fra noi ti sono parenti e cugini: qualcheduno fratello. Con quale non dirò consiglio, ma cuore vorrà la razza umana tenere a vile la razza nostra, mentr’ella di frequente, e troppo più spesso che non piacesse a noi, venne a cercarvi le sue mogli e i suoi mariti? Se taluno, o taluna dei nostri vi amò, innocentissimi amori furono quelli, non così i vostri. Se un Elefante si accese in Egitto dell’amica del grammatico Aristofano, e se Giuba racconta di un altro invaghito così di certa profumiera, che non rifiniva mai di stazzonarla, e quanta poteva raccogliere moneta tanta gliene donava, a nessuno cadde in mente di pensare a male23. Diavolo! Un Elefante.... delle Oche tenerissime per natura una si dilettò di Glaucia musica di Tolomeo, ed altra fu vista seguitare costantissima così nella prospera come nella contraria fortuna il filosofo Lacide; sopra tutti poi somministrò argomento di pietoso rammarichio l’Aquila di Sesto, che non potendo vivere dopo la morte della Vergine, che la ebbe in delizia, chiusi i vanni, si lasciò cadere di piombo sul rogo, che ardeva la salma amata, e le sue congiunse alle ceneri di lei24.
— Ma non furono onesti gli amori di Pasifae pel Toro, d’onde il tributo delle fanciulle ateniesi, e Teseo, e le altre storie degli annali Achei —...
— Ghiribizzi sono cotesti di Greci bugiardi; tu procedi peggio del mozzorecchio al cospetto del pretore di Campi.
— Semiramide che fece lecito ogni libito, accomunando la vergogna per adombrare la sua, testimone giuba, infuriò pei concubiti di un cavallo amato25;
— Giuba fu un Asino, e Plinio peggio di lui a raccogliere di questa sorta fandonie. — Le donne di Tessaglia andarono non so se io mi abbia a dire famose od infami per gli amori, co’ quali proseguirono i padri miei:
E il somaro terribile
Per lena e nel sembiante
Blando, nei chiusi talami
Fu ricercato amante26.
Narra Apuleio che, mutato in Asino, non trovò modo di far capire alla dama tessala, che gli Asini bisogna lasciarli stare: od alla più trista accostarcisi con garbo ed a convenevole distanza; anzi l’autore della Luciade arroge, che restituito alla primiera forma umana si presentò alla prelodata signora, la quale con lieta cera lo accolse, gli fu cortese di presenti, di ospizio e di cena; ma riscontrato poi il divario, che correda tra l’uomo convertito in Asino, e l’Asino convertito in uomo, a gran vergogna lo cacciò di casa27.
— Turpitudini furono queste di romanzieri osceni, le quali sarebbe stata onestà e sapienza di abolire nel mondo.
— Chi li parava di farlo? Ma soppresso il testimonio perdurava il fatto; e nè anche avrebbe servito tôrre via le testimonianze, imperciocchè cotesta non fosse opera di singoli, bensì di popoli interi, e per molto secolo continuata. Invero appresso i Duri, gente indiana, prevalse l’usanza di mescolarsi in amore con le Belve, tenendosi per bella e grata la semiferina prole28.
— Non fa prova Plinio, il quale se, come ebbe smania di raccogliere notizie, avesse avuto discernimento a cribrarle, non ci dorremmo adesso, che per lui andassero piuttosto deturpate, che promosse le scienze; avendo egli fatto di ogni erba fascio; chiamato rigattiere di spropositi, non filosofo.
— Erodoto padre della storia pellegrinando in Egitto ci riferisce essere stato spettatore del connubio di certa femmina egiziana col Becco sacro chiamato Mende29.
— Innanzi Tucidide non furono storie, ma congerie di errori e di follie. Forse direttamente sentirebbe colui, il quale affermasse la vera storia incominciare dal Guicciardino, e dal Machiavello30.
— Cotesto dissero i filosofi del secolo decimottavo, intollerantissimi settari della tolleranza, i quali dopo avere fabbricato uno staio della ragione umana sbertarono tutto quanto non capiva là dentro, e non solo delle cose future, ma eziandio delle passate. Illustri viaggiatori ricercando le contrade descritte dallo storico greco trovarono le vestigia tuttavia vive di molte cose riferite da lui, che l’arrogante ignoranza dei moderni aveva screditate per favole. Di questo tienti avvertito. E poi Erodoto non fu solo testimonio del fatto, chè da Plutarco lo vediamo confermato in prosa, e da Pindaro in versi31.
Anche questa ci toccherà a udire! Le fantasticherie dei poeti recate in campo per documento della verità.
— Certo ai giorni nostri la sede del poeta era passata fra il Pappagallo, e il Cane: non così presso gli antichi. Il Poeta allora cantò sovente quello, che fece in benefizio della Patria; egli legislatore; egli sacerdote. Solone dettò in versi le leggi di Atene; i piati dei popoli argivi talvolta furono decisi con l’allegazione di un verso di Omero. Non perfidiare, uomo; che adesso ti mostrerò tal libro, davanti al quale ti parrà ventura avere lasciato la lingua al beccaio. — E di cosiffatti connubii vennero al mondo non negati, ed innegabili parti. — Claudio Cesare imperante, nacque in Tessaglia un Centauro, che, vissuto non intero un giorno, morì, e Plinio con gli occhi proprii ne vide un altro in Roma concio nel mele portato al medesimo imperatore, il quale di simili novità maravigliosamente si dilettava32. Non ignoro come altri sospettasse di giunteria questo portento dichiarando il Centauro composto di due pezzi, uno di uomo e l’altro di Cavallo, con artificiosa industria uniti insieme, e il mele adoperato per cuoprire la saldatura. — Creda chi vuole, che Claudio curioso degli studii naturali, e Plinio, ed altri moltissimi fossero gabbati dal volgare ciurmatore, non io. Narra Filostrato nella vita di Apollonio Tianeo, come Apollonio trovandosi nelle parti d’Egitto incontrasse un Satiro, il quale apportava inestimabile molestia alle femmine del vicinato, e poichè a cagione della stupenda agilità sua non si poteva agguantare, il filosofo lasciò otri pieni di vino nei luoghi ove egli aveva usanza, ond’ei lo bevesse e si ubbriacasse. Il che venendogli fatto appunto come aveva divisato, l’ebbe a man salva: allora ammonitolo prima a comportarsi onestamente per lo avvenire, e quegli avendolo promesso, e giurato invocando il nome di Dio Santissimo, Apollonio gli dette di presente licenza, nè di lui s’intese favellare più mai. Filostrato arroge di suo, che avendo certo amico fidatissimo nell’isola di Lenno ritrasse dalla bocca di lui, che sua madre teneva pratica con un Satiro, e ciò non gli garbava33. Anche nelle contrade degl’Indi vissero Satiri, i quali, a dire di Plinio, meritavano troppo meglio di Achille il soprannome di piè veloce, o come, con la consueta leggiadria, scrisse il Salvini, lesto in gamba, così che non si potevano chiappare altro che infermi o vecchi34. Il Cuvier uccellando Plinio chiarisce, che avevano ad essere scimmioni. No signore; egli erano satiri, e san Girolamo nella vita di Santo Antonio taglia la testa al Toro accertandoci come nel deserto della Tebaide quel santo s’imbattesse in un Satiro, che gli donò datteri e non so quale altra roba, parlandogli con molto affetto di Dio creatore35. Rinforza l’argomento santo Agostino dandoci contezza non pure di Satiri, ma di Fauni altresì, e di Sirene, e di uomini, che venuti al mondo con una gamba sola sono obbligati, se vogliono camminare, di tenersi a braccetto due per due36. Anzi di più s’inoltra, e ci parla di uomini con la testa di Cane, e perfino di uomini senza testa37: la quale cosa dice anche Plinio, ed arroge, su la fede di Ctesia, che fanno là nei paesi dei Trogloditi, e vedono mercè gli occhi, che hanno nelle spalle38.
— In quanto a questo non ci è maraviglia; ne vedemmo anco noi...
— Che Dio ti benedica! Se concedi gli uomini senza testa, oh perchè contrasti quelli mezzo uomo, e mezzo Becco?
— Perchè uomini Becchi a mezzo io non ho visto mai...
— Dimmi vivendo fosti per avventura a Roma!
— Io non ci fui di vita mia.
— Or bene; e tu credevi nel papa?
— Se ci credeva! Ai tempi miei e’ si faceva sentire.
— Ergo come tu credesti al papa, senza contemplarne la faccia augusta, credi anche agli uomini mezzo becchi, o ai becchi mezzo uomini, che gli è tutta una minestra. Non mancarono uomini con testa di Girifalco, di Milvio e di Astore, ed i saputi che lessero corrente la scrittura dei geroglifici ci fecero sapere, che in lingua egiziana un uomo col corpo di Uccello di rapina significa re39; nella medesima guisa, con la quale Omero rammentando il nome di re ci aggiunge l’appellativo mangiapopolo, che ai tempi suoi egli era come dire oggi: Altezza reale.
E così la pensava Catone il censore, il quale, per quanto ci riferisce Plutarco nella vita di lui, guardava sottocchi il re Eumene quando andò a Roma, e più che poteva lo scansava: onde venendogli detto, che uomo dabbene egli era e amico ai Romani, egli rispose: il sia, ma però il re è per natura un animale carnivoro.
Ed io pure un bel giorno, quando me lo aspettava meno, mi trovai appiccato ad un corpo umano nella guisa, che narra Manuele File:
«D’uomo il volto, la chioma, il petto, il collo,
Tutto d’uomo esso avea perfino il ventre,
Mani pure avea d’uomo, e dita umane,
Di donna le mammelle, il dorso, e il fianco,
E il ventre, e i piedi di asinina forma
Gli diè natura40».
Un’altra volta la società fu la stessa; la messa diversa; perocchè il disotto comparisse umano, il disopra e la testa asinini. Ma cotesta società fu breve e infelice, e la Natura la sciolse a petizione nostra, non vostra. Comechè dalla calunnia massimamente rifugga, dubito forte, che in cotesta occasione da voi ci venissero attaccati certi vizii pei quali la prisca purità dei nostri costumi si trovò ad avere sofferto non mediocre alterazione. — Mette il suggello alla materia Aristotile meritamente salutato principe della filosofia raccontando, che Aristosseno greco, non mica volgare, ma sì di quelli che vanno per la maggiore, amò un’Asina, e n’ebbe una figlia chiamata dai Greci Onosceli, ed Empusa, imperciocchè comparendo la fanciulla in ogni parte del suo corpo per eccellenza formosa, solo della madre ritenne li zoccoli in luogo di piedi umani; di che la grulla invece di vantarsi menava infinito rammarichio41. L’Heine ci dà ad intendere come certa donna, sentendo la predica di un padre Gesuita, fece un Asino e ci ragguaglia del caso con queste parole: — nel suo occhio (capisci l’occhio del reverendo padre) stava soda una lacrima quasi impiombata; sopra le labbra dondolavasi, pari al bambolo dentro la culla, la panciuta sciocchezza; le sue parole nascevano tutte con le orecchie lunghe. Una donna, sentita ch’ebbe una sua predica, partorì un Asino42; ma l’Heine era mala lingua, e si piaceva di satire sconvenevoli affatto a persone gravi; però la metto in quarantina e protesto che non voglio credere, e non gli credo: quantunque grande riscontrammo a prova essere la virtù delle parole sussurrate su le ferite, e altrove specialmente poi sopra il ventre delle donne43. Piuttosto con auspici migliori mi varrebbe assai esporre la serie infinita delle trasformazioni della Bestia in uomo, ma questo ci serberemo a luogo più acconcio; qui valgami riportare una ultima trasformazione dell’uomo in Bestia. Narrasi nelle Cronache di Normandia, non si sa come, nè con quale intento, un uomo ottenne convertirsi in Asino, e da questa intrusione nella onorata famiglia ne scapitò assai la chiarezza del nostro linguaggio44. Il Cuvier non contrastando i concubiti nega i parti fondandosi sopra non so quale antipatia di umori, ed è cotesta presunzione umana, che si ripromette avere scoperto le leggi del creato. Ora la Natura, come il proteo della favola, ti scappa di sotto quando meno ci pensi, ed abbine testimonianza nello esempio, che ti adduco. I fisici, dopo considerato larga serie di fenomeni, pensarono potere con sicurezza stabilire, che quanto sono più i corpi compatti tanto meglio conducono il calore; quando ecco la Natura facendo loro ad un tratto la castagna sul naso gli mette davanti il platino, il quale comechè appaia compattissimo fra i metalli, non pertanto si trova all’effetto del fuoco più ritroso di tutti. Fuvvi un secolo, un giorno, un’ora nel mondo in cui l’uomo uscì fuori senza l’atto del maschio e della femmina, per la quale cosa, o tu ti accosti alla Genesi, come deve fare ogni buono ortodosso, e faccio io, crederai che Dio, presa alquanto di terra, rossa, creasse Adamo, di cui il nome in ebraico significa appunto terra rossa45; o se piuttosto pizzichi delle eresie dei filosofi ti garberà immaginare la terra in tempo pregna di certi germi, che fecondati dal sole partorirono l’uomo. Così nell’Egitto mettono in forno uova, e quivi tanto le lasciano scaldare che, toltone il coperchio, ne fuori migliaia pulcini; donde la mente vaga di speculare cose nuove trascorreva meditando sopra la favola simbolica di Giove mutato in Cigno, alle uova di Leda, e ai Dioscuri ritratti nelle antiche immagini con mezzo guscio in capo.
— Ora ch’è questo sghignazzamento, che mi si leva dintorno? Perchè tentenni il capo in atto di minaccia? È passato il tempo, in cui ti dilettavi a cantare alle mie costole le tue ragioni di sorbo: qui non ci hanno sassi, nè torsoli, nè buccie di cocomero; non ti vanno a fagiolo questi ragionamenti, eh! Vuoi tu ch’io te li baratti? To, prendi questi altri: nei Capitolari di Carlo Magno si comanda che le Asine, le Vacche, e le Capre, con le quali gli uomini avranno avuto commercio, sieno messe a morte; la carne buttisi ai Cani; la pelle no, che la si può conservare in buona coscienza46. Giustizia era ordinare alla rovescia; però degli uomini non avrebbe avuto pregio nè anche la pelle: ma non importa; coteste pene matte fanno prova tuttavia dei vostri ardori per noi. Prendi anche questa. Il Parlamento di Parigi, cervello del mondo, nel 1546 condanna Guyat Viride alla forca, e poi al fuoco con la Vacca concubina; nel 1566, a Chartres, di due Cagne vinte dalle seduzioni degli uomini, e dalla fragilità della carne una fu arsa in effetto, l’altra in effigie: di quelli poi, che le indussero a peccare ne’ verbum quidem, secondo il solito47. E poi quest’altra ancora; che qui ti aspettava: svolta il libro santo, metti il dito qui sopra; no lì più sotto; non farmi il tonto; leggi corrente, che la santa croce la sai, come ci dice? — Chiunque avrà giaciuto con Giumento perirà Esodo, C. XXII, v. 19. — Bada al Levitico, C. XVIII, v. 1 a 5: non avere commercio con Bestia nè contaminarti con lei: la donna non si sottometta ai Giumento ch’è abbominazione. — Inoltre, nel medesimo libro, C. XX; v. 15: chi si sarà mescolato con Giumento o con Vacca mora; anche la Bestia si ammazzi. — V. 16: la donna che si sottopose al Giumento mora con lui: il sangue loro sia sopra di loro. — Breve; mentre vissi nel mondo non mi capitò fra gli zoccoli il Codice penale, che comparisse scevro di acerbi castighi stabiliti in odio di siffatti connubi. Ora da’ retta, e rispondi ad una mia domanda. Se’ tu mai andato a diporto lungo le sponde dell’Arno? Be’, ci andasti le migliaia di volte. Adesso io vuo’ che tu mi dica qual era la parte del fiume dove tu vedevi conficcare le palefitte? Colà dove l’acque rodendo portavano via i colti ovvero colà dove soverchiando minacciavano di mandare in rovina i campi circostanti; non è egli vero? Le leggi, fa conto che nel consorzio umano tengano lo ufficio delle palafitte nei fiumi, essendo messe a difesa della parte più esposta agli impeti degli sfrenati appetiti, i quali caso mai superassero, andrebbe a catafascio ogni cosa. Come senza la messa non sarebbe il prete; così senza le colpe e i delitti non vedresti leggi, giudici, sbirri e carnefici con la scure, in alto, a mo’ di vetri rotti incalcinati sul comignolo dei muri delle ville, sbracciarsi da mattina a sera a tutelare i sonni tranquilli dei borghesi dabbene.
Se l’errore non levò la funga nel mio cervello, per me giudico che, se torna Pirrone, non porrà più in dubbio il punto, che ho definito con fatti ed argomenti, della parentezza fra l’uomo e la Bestia; in ispecie l’Asino: però siccome io mi trovo a possedere più giunchi, che tu ritortole, intendo riportare alcuni esempi bellissimi, dai quali sorgerà sempre più manifesto, che nella tua estimativa, quante volte ti tornò il conto, fummo reputati pari tuoi, e quasi dirò immagini, vicari e simboli di te. A tutto Signore tutto onore, avevano per costume di dire i Francesi. Però incomincio dalla Chiesa.
L’oste dei Fiorentini stando ad Arezzo, narrasi pel cronista Giovanni Villani, fecionvi correre il palio la festa di san Giovanni, e rizzativi parecchi arnesi, vi manganarono Asini con la mitra per dispetto del vescovo Ubaldino48. Dunque in cotesta occasione voi confessate, che una tal quale congruenza, o vogliamo dire analogia correva a senso vostro tra l’Asino e il vescovo, conciossiachè come in altra maniera l’Ubaldino sariasi tenuto vilipeso dal briccolamento della Bestia mitrata? Mi dorrebbe fino alla morte, se non fossi già morto, dove le mie parole giudicassero irriverenti, però che io abbia proceduto sempre col bilancino dei diamanti alla mano, e non mi sia permesso di mettere innanzi proposizione senza averla prima sperata scrupolosamente al lume di lucerna e al lume di sole. Infatti ecci tale perfino, che appella risoluto l’Asino prossimo di un vescovo! Ed ecco come sta la cosa: Paolo Giovio promosso da Leone X al vescovato di Nocera dettò, in vituperio di Pietro Aretino, l’epigramma notissimo:
«Qui giace l’aretin poeta tosco,
Di tutti disse mal fuorchè di Cristo
Scusandosi col dir: non lo conosco!»
Considerate, se quella forca di Pietraccio era uomo da starsene cheto! Di rimando rispose a monsignor vescovo di Nocera con quest’altro epigramma:
«Giovio riposa qui storico massimo,
Di tutti disse mal fuorchè dell’Asino,
Scusandosi col dire: egli è mio prossimo49».
Però egli è bene avvertire, che se l’Aretino fu lingua da disgradarne la campana del bargello, monsignor Giovio, nonostante la sua dignità di vescovo, possedeva tacche quanto Guccio Imbratta50, o poche meno.
Fra gli altri sollazzi regali che costumava l’anima buona di Carlo IX, quasi per addestrarsi a imprese maggiori, fu questo, che quante volte recavasi a caccia faceva la prova di mozzare netta di colpo la testa ad un Asino. — Ora certo giorno avvenne che un suo cortigiano lo sorprendesse nell’atto di sperimentare il giuoco sopra l’Asino suo mignone; ond’è che trattosi prestamente innanzi, con grave sembianza interrogò il re: — Sire, vi supplico a farmi sapere qual lite è insorta tra vostra maestà cristianissima, e l’Asino mio. — Dunque anche in simile congiuntura il cortigiano venne ad attestare la relazione che passa tra l’Asino e il re, avvegnadio salti agli occhi, che non può cadere disputa fra animali destituiti di discorso di ragione. Altro esempio di Asino che rappresenta un re. Gli assediati di Meaux, correndo gli anni del Signore 1421, imbaldanziti della presenza del prò bastardo di Vauro, che si era condotto a governarli, quasi in disfida del re d’Inghilterra, gli mostrarono dall’alto dei muri un Asino incoronato e poi lo bastonarono: e qui pure si fa manifesto, che il re doveva ravvisare la maestà sua resa nella persona dell’Asino, imperciocchè in altra maniera non sapremmo conoscere in che, e come gli avessero potuto arrecare oltraggio51.
Alfonso V re di Aragona cavalcando un dì in veste dimessa per certa città della Spagna, di cui non ricordo il nome, venne ad incontrarsi in un villano, che si affannava intorno al suo Asino stramazzato, nè per quanto annaspasse, gli riusciva raddrizzarlo su in piè; costui, appena visto il cavaliere, e pur l’aitante e complessa persona giudicandolo acconcissimo ai fatti suoi, lo supplicò a volere scendere, tanto da dargli una mano a rilevare l’Asino. Il re, che uomo soprammodo cortese e grande filosofo era, di leggieri glielo consente, e smontato, si pone ad aiutare il contadino. In questo ecco sopraggiungere i cortigiani, e quasi fosse miracolo vedere un re che solleva un Asino, presero a fare le stimate, ed esclamare pietosamente: — Gesù, Giuseppe e Maria! — Senonchè Alfonso, rivoltosi loro, con piacevole viso disse queste parole: — Riveriti padroni miei, qui non ci è materia da trasecolare; sollevo un Asino. Per avventura non fu scritto che il Cristiano, per quanto gli bastino le forze, deve sovvenire il prossimo suo?
A confessarla giusta, non mancarono saccenti, i quali gavillarono doversi le parole regie riferire non all’Asino, ma al villano: gretole espresse; dacchè nella orazione non occorrendo rammentato villano, non ci può neanco capire errore di sintassi; cotesto signore pertanto intendeva ragionare di me per grammatica, come ho detto; per filosofo, che lo guidava ad appuntarsi teco nella sentenza, che Bestie ed uomini formano tutta una pasta; finalmente per teologia, imperciocchè da un luminare qual fu re Alfonso, non poteva essere ignorato come Moisè fra i precetti capitali di non levare falso grido, non dire falso testimonio, non rendere sentenza in grazia dei potenti a danno dei deboli, ponesse quello di aiutare gli Asini cascati in terra, quantunque appartenessero ai nemici52.
Gli uomini illustri voglionsi imitare nei magnanimi gesti negli altri no; chè male si spera per altezza di ingegno adombrare le colpe, la quali perciò risaltano di luce miseramente più viva. Così, come io mi prefissi da una parte innamorato piuttosto che zelatore dell’Alighieri, e dall’altra mi sia tocco di rilevare sconce battiture da quegli strani umori dei Fiorentini, mi asterrò dal tenergli dietro negli obbrobrii, coi quali maledisse i suoi conterranei. Per me torrei a patto di vedere questa mia lingua di Asino inaridita, anzichè darle balia di svinalleggiare i fratelli. Imperciocchè se il popolo ti atterra in un giorno di pazzia, ti solleva in secolo di saviezza, e se ti ferisce ti lava eziandio le piaghe col pianto; e pei generosi l’offesa contiene in sè una tal quale soavità amara, come quella, che offerisce occasione di perdono, che a parere di un santissimo vescovo, è l’unica parola del linguaggio di Dio rimasta sopra la terra53. Però se mi passo dal dire contumelia, nè manco io vorrei piaggiare, avvegnadio le lusinghiere disconvengano agli Asini dabbene, e generino viltà così in colui che le largisce, come in quello che le riceve. Pur troppo il popolo ha mestieri di essere amato di amore virile, però non a modo dei cinedei. Quindi io non benedirò il popolo fiorentino cervello del mondo, che troppo vanto sarebbe cotesto, e poi abbiamo veduto che se lo sono pigliato i Francesi per se, pensando foraggiare per le terre della fama come su quelle dell’Algeria, quando predano il bestiame ai Beduini; lo saluterò piuttosto, e questa non parrà cosa incredibile nè forte, popolo lepidamente arguto, il giudicato del quale ha da pesare moltissimo nella bilancia degli Asini. Sia fatto pertanto manifesto, che dal popolo tutto di Firenze l’Asino venne appaiato ad un marchese, e la faccenda accadde proprio così. Il marchese nascendo pareva aversi spartito con Issacar la benedizione di Giacobbe54, tanto compariva in ogni suo membro gagliardo: ora, o lo martellasse la invidia, o altra più rea passione lo movesse, quante volte si recava in villa, e tante s’imbestiava contro certo Asino, specchio di tutto il vicinato, e tanto e tanto si accese in quel suo folle maltalento, che un giorno, tolto fuori di se dalla collera, gli sferrò alla sprovvista così solenne un pugno nel capo, che lo stese morto sul tiro. Allora per le terre tosche corse un grido di orrore, e l’universale rovello oppose meritamente al marchese il nomignolo di Caino55. Quale il vero nome del marchese si fosse, io non lo voglio dire, in grazia della stirpe onde usciva, e per altri rispetti; molto più, che lo sciagurato ebbe a pagarne le debite pene, conciossiachè le Erinni lo tormentassero con uno strano supplizio, il quale fu questo: s’egli, levandosi il sole, andava ad occidente, o se tramontando volgeva ad oriente, lunga gli si sprolungava un’ombra davanti, ma non la sua, bensì un’altra che aveva la forma di Asino; ond’egli immaginando di essere stato convertito nella Bestia uccisa, alzava senza posa le mani alle orecchie nel sospetto che gli fossero cresciute di Asino, o smaniante tastavasi per di dietro, pauroso, che dalle falde del vestito gli sbucasse fuori una coda di Asino. Per siffatta miserabile fantasticheria alla fine dette un tuffo nello scemo, di uomo, che sì savio era stimato prima, il consorzio umano fuggì, odiò la luce, che l’ombra dell’Asino sempre più, finchè visse, si aggravò sopra di lui; e come se ogni atomo possedesse favella, fitto fitto lo intronava un brulichìo, che gli mormorava nelle orecchie indefessamente Caino! — Ecci ancora chi arroge, che l’anima sua sul punto di partirsi dal corpo volendo sciogliere un sospiro, prorompesse in altissimo raglio, a cui quanti Asini si trovavano intorno pel giro di dieci miglia risposero ragliando; ond’ella si diede alla disperazione e andò dannata. La quale novella: io credo, che deva rigettarsi come temeraria, e al postutto falsa per la sentenza dell'Alighieri:
«Che la bontà divina ha sì gran braccia
Che prende ciò che si rivolge a lei;»
epperò anche un marchese che immagini essere stato trasformato in Asino.
Adesso vorrei per via di conclusione mettere qui un discorso con rifioriture e rabeschi da gratificarmi chi legge; ma la stanchezza mi ha preso, e faccio conto di finire col commiato che adoperano i Frati, quando licenziano gli scolari alle vacanze autunnali. Tanto più che valendomi della roba dei Frati, gli è come se adoperassi la mia, non avendo, per quanto io mi sappia, anche diviso tra noi; anzi neppure si può dire roba di Frati, che a posta loro l'hanno presa da Virgilio, e suona così
«Claudite iam rivos, pueri, sat prata bibere».
Del qual verso, per comodo di cui non sa il latino, metto una versione un po' libera, ma giusta, in lingua volgare:
«Via, tornate, ragazzi, a casa vostra,
Che per quest'anno asineggiaste assai.»
Note
- ↑ [p. 167 modifica]Esodo, c. 2, n. 28.
- ↑ [p. 167 modifica]Mémoir de l'Academie, T. 40, p. 83.
- ↑ [p. 167 modifica]Plin., op. cit. l. 8, c. 8.
- ↑ [p. 167 modifica]Plin., op. cit. l. 8, c. 14, riporta come non impalassero bensì crocifiggessero un Cane fra il tempio della Gioventù a porta Carmentale, e quello del Dio Summano.
- ↑ [p. 167 modifica]Plin., l. 10, c. 26.
- ↑ [p. 167 modifica]Ant. de S. Gervais, Hist. des anim., t. 1, p. 136.
- ↑ [p. 167 modifica]Chateaubriand, Mém. d'outre-tombe, t. 1, p. 57.
- ↑ [p. 167 modifica]Themis jurisconsulte, t. 1, p. 194.
- ↑ [p. 167 modifica]S. Gervais, op. cit. t. 1. e 2. Epopea delle Bestie.
- ↑ [p. 167 modifica]Tenia, baco solitario, malattia degli intestini.
- ↑ [p. 167 modifica]Trattato di Zeologia Morale rispetto alla Fisiologia ed alla medicina.
- ↑ [p. 167 modifica]Journal des Débats, 12 Sept. 1851.
- ↑ [p. 167 modifica]Lord Normanby, Discorso sopra la Riforma sanitaria letto nel 1847.
- ↑ [p. 167 modifica]Journal des Débats, 17 Mai 1850 Rivista Germanica del 1851.
- ↑ [p. 167 modifica]Il Vampiro, novella del Dott. Polidori, stampata in molte edizioni dell'opere di Lord Byron.
- ↑ [p. 167 modifica]G. Galignani's Messenger, 7 feb. 1851.
- ↑ [p. 167 modifica]Hertzen. Gli anni di prigione e di esilio di uno scrittore. Il poeta chiamava Sokolowsky.
- ↑ [p. 167 modifica]International Boyenne, 29 sept. 1851.
- ↑ [p. 167 modifica]Monti, Poesie.
- ↑ [p. 167 modifica]Cosmopolita di Montbom. Parigi, 1798.
- ↑ [p. 167 modifica]Omero, Volgar. litterale dell'Iliade del Cesarotti. Note al l. V.
- ↑ [p. 168 modifica]
. . . . . . . qualunque erge
Fortuna in alto, il tuffa prima in Lete.
Ariosto, S. 3. - ↑ [p. 168 modifica]PLIN., l. 8, c. 5.
- ↑ [p. 168 modifica]Ibid., l. 10, c. 6.
- ↑ [p. 168 modifica]Plin., l. 8. c. 64.
- ↑ [p. 168 modifica]Parini, Parodia dell’ode a Silvia.
- ↑ [p. 168 modifica]Luciade, Volg. di P. Couvier in fine. — Apuleio, Metamorp. 6. 10.
- ↑ [p. 168 modifica]Plin., l. 7, c. 2.
- ↑ [p. 168 modifica]Erodoto, Euterpe, § 49.
- ↑ [p. 168 modifica]Voltaire, Diction. Philosoph., article Erodoto e Diodoro Siculo.
- ↑ [p. 168 modifica]Plutarcus et Pindarus scol. Herodot. loc. cit., Euterpe §. 49.
- ↑ [p. 168 modifica]Plin., op. cit. l 7, c. 3.
- ↑ [p. 168 modifica]Filostrate, Vita di Apollonio Tianeo, p. 153.
- ↑ [p. 168 modifica]Plin, op. cit., l. 7. c. 3. PLUTARCH. in Silla, Aldovran. Ulis Historia monstrorum.
- ↑ [p. 168 modifica]S. Girolamo. Vita di S. Antonio eremita.
- ↑ [p. 168 modifica]S. AGOSTINO, opud Remusat, Des races humaines.
- ↑ [p. 168 modifica]Id., Aldovran, op. cit. c. 15.
- ↑ [p. 168 modifica]Plin. l. 7, c. 2. — Vincentio Specu. Hist. l. 32, c. 16.
- ↑ [p. 168 modifica]La figura d’uomo col capo di grifo occorre spesso nei geroglifici egiziani. L’Aldovrando nella Storia dei Mostri narra l’uomo nato col capo di Gru; e nella magnifica edizione dedicata a Ferdinando II dei Medici occorre la imagine stampata.
- ↑ [p. 168 modifica]Leopardi G., Errori popolari.
- ↑ [p. 168 modifica]Heinsio, De Laude Asini. Suida in Lexicon alla parola Onocele, parla di questa creatura come di un cacodemone, un diavolaccio; però che i Greci conoscessero i diavoli buoni, e i diavoli cattivi, appunto come noi; epperò il popolo costuma dire: egli è un buon diavolo.
- ↑ [p. 168 modifica]Heine Il libro di Lazzaro.
- ↑ [p. 168 modifica]C. Agrippa de occulta philosophia l. 1 c. 60, et possim — Plin., L. 28, C. 4, 5.
- ↑ [p. 169 modifica]Chateaubriand, Mém. d’outre—tombe, t. 2.
- ↑ [p. 169 modifica]Ecco l’inventario delle reliquie conservate in S. Caterina di Sisco, riportato nella Storia di Corsica dal Filippini, prete s’intende: L. 10, p. 398: — «Erano queste sante reliquie dentro un forzieretto tutto di ferro, e con mirabile magistero fatto, serrato con tre chiavi, in diversi bellissimi vasetti di avorio e cristallo, guarnite di argento, e con diverse altre gioie, per le quali senz’altro si potrebbe dare ferma credenza essere vere (ammira logica di prete romano.) Ma non ostante questo, vi sono ancora le loro scritture antiche, mediante le quali si ha piena notitia quali sieno i loro nomi, che sono questi. E primo due pezzetti delle trappe (verghe) di Moisè guarnite artificiosamente di fino argento; un poco di terra con la quale fu formato il nostro padre Adamo; vi è ancora il pelo della propria veste, che portava S. Giovambattista, ed un poco della pietra del sepolcro del Signore, ed un’altra del monte Calvario, con una del presepio di Cristo, ed un’altra ancora del pozzo ove parlò alla Samaritana; vi è una particella della canna con che egli fu percosso, e un pezzetto della mensa dove coi santi discepoli fece l’ultima cena, con un poco di cereo di quando dopo il suo parto verginale la Regina del cielo fu introdotta nel santo tempio, ed una pietra di quel luogo dove prima dall’angelo fu annunziata; e vi è la borsa che lei portava, con quella di S. Maria Magdalena, e quella di S. Caterina; una pietra del monte Sinai, ed un’altra dove Cristo fece la quarantena, vi è ancora la testa di S. Giovanni Grisostomo, con quasi mezzo palmo della costa di s. Barnaba, con un pezzetto della verga con la quale il beato Pietro fu battuto; ed inoltre vi è un poco del santo legno della croce del Salvatore, con alquanto filato della sua benedetta madre, e conseguentemente del suo proprio latte.» Di qui si conosce come la beata Vergine filasse, e questo avvertano le schizzinose madame di oggi, che altro non fanno, che tastare il cembalo. — Notisi altresì non essere questi i soli tesori religiosi posseduti dalla Corsica; i quali speriamo saranno [p. 170 modifica]messi in luce, ed illustrati dai reverendi padri Gesuiti che con tanto senno vi furono introdotti, e con tanto profitto delle anime vi si vanno diffondendo.
- ↑ [p. 170 modifica]Baluzio. Capitol. di Carlo Magno, t. 1, l. 5.
- ↑ [p. 170 modifica]Epopea degli Animali, p. 333.
- ↑ [p. 170 modifica]Giovanni Villani, Cronache, t. 1, l. 7.
- ↑ [p. 170 modifica]Bayle, Dict. Aretino.
- ↑ [p. 170 modifica]Boccaccio, Giornata VI, novella 10.
- ↑ [p. 170 modifica]Michelet, Hist. de France, t. 4, p. 393.
- ↑ [p. 170 modifica]S. Gervais op. cit., t. 1. 23, aneddoti di Carlo IX. e Alfonso V.
- ↑ [p. 170 modifica]Tegner Isaia, Poesie. — La prima Comunione.
- ↑ [p. 170 modifica]Issacar asinus fortis accubans inter termines. Genes., l. 49, n. 14.
- ↑ [p. 170 modifica]Questo è fatto vero e notissimo.