Il secolo galante/La signora d'Epinay e la contessa d'Houdetot
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LA SIGNORA D’ÉPINAY
E LA CONTESSA D’HOUDETOT
Nella via di Sant’Onorato, poco lungi dalla casa della signora Geoffrin, sorgeva intorno al 1745 la casa dei signori La Live d’Épinay, piccola nobiltà ma vistoso patrimonio. Il giovane d’Épinay, scapato, leggero, volubile, giuocatore, vi aveva allora condotta in moglie una cuginetta povera e sentimentale, della quale credeva in buona fede di essere innamorato. La cuginetta povera apparteneva ad una antica e nobilissima famiglia normanna; si chiamava Luisa Tardieu d’Esclavelles. Senza padre e senza dote, allevata austeramente da una madre religiosa, non molto bella, dovette ritenere somma ventura un matrimonio di inclinazione, che era anche per lei, caso raro, un matrimonio di interesse, ma l’illusione durò pochi mesi. A vent’anni la signora d’Epinay portava già nel cuore il lutto del suo primo amore, e se questa è una condizione sempre pericolosa per una donna, coi costumi e cogli esempi d’allora, doveva quasi necessariamente condurre alla ricerca di un sistema di compensazione a cui ben poche sapevano resistere, nè fra di esse possiamo annoverare la signora d’Épinay.
Moglie senza marito, madre di un bambino che teneva ancora troppo poco posto nella sua vita, avendo ella stessa una madre la di cui austerità era fatta più per incutere rispetto che per ispirare fiducia, Luisa trovavasi sola, troppo sola nel suo palazzo della via di Sant’Onorato e più ancora nello splendido e signorilmente triste soggiorno La Chevrette nella valle di Monmorency, dalle cui ampie finestre il verde cupo dei boschi sembrava una cortina distesa fra lei e la felicità, quando, nei lunghi pomeriggi estivi Luisa, ingenua e sensibile, esalava in vani sospiri il dolore dell’abbandono, l’umiliazione delle rivali, la vergogna degli scandali che il marito non si dava nemmeno la pena di nascondere. Naturalmente onesta, allevata con saggezza, di indole affettuosa e vivace, se Luisa avesse trovato un compagno più degno, sarebbe stata certamente una buona moglie; ma essa era sopratutto debole, incerta, vera canna che piega all’ondeggiar del vento. Il ritratto che di lei si conserva nella galleria di Ginevra, dovuto al pennello di Liotard e tanto lodato da Ingres, la rappresenta sul tramonto della giovinezza e ci dà la impressione esatta della sua psiche: un misto di sensibilità e di leggerezza, di rettitudine e insieme di curiosità mondana, con uno spizzico di vanità femminile, di pettegolezzo, di cincischiatura che va dall’abito alla posa, che unisce in un tratto solo caratteristico la mano scarna a sostegno del mento, il sorriso languido ed i complicati arzigogoli del busto. Nè meno interessante per le stesse conclusioni è un altro ritratto che noi conosciamo appena per la descrizione che ne fece Diderot in una delle sue lettere a madamigella Voland datata dalla villeggiatura del barone d’Holbach, il noto Grandval: «Stanno dipingendo la signora d’Épinay in ricambio di sguardi con me; è appoggiata a un tavolino colle braccia mollemente incrociate, la testa piegata, i suoi lunghi capelli neri trattenuti da un nastro azzurro che le cinge la fronte; qualche ciocca sfugge dal nastro e si sparge parte sul petto denudato, parte sulle spalle delle quali rialza il candore; la boccia è semiaperta, ella respira; i suoi occhi sono carichi di languore. È l’immagine della tenerezza e della voluttà».
Con minor ingegno e minor ardore della Lespinasse, senza lo spirito della Du Deffant ed assolutamente priva del rigoroso criterio della Geoffrin, la signora d’Épinay rappresenta nella società del secolo XVIII una simpatica mediocrità o meglio uno di quei tipi essenzialmente fragili che, al pari di certi graziosi ninnoli, non si sa se più ammirare o temere. Mancante ella stessa di una linea di condotta, non seppe imprimere intorno a sè orma profonda; ebbe degli amori, non una passione; dei difetti e non delle colpe; fu buona, ma non virtuosa. Tuttavia ella è così mischiata alla vita dei principali uomini del suo tempo che non sarebbe possibile dimenticarla, nè giusto, non tosse altro per le sue nobili qualità d’amica.
Le tendenze affettuose del suo cuore si esplicarono anzitutto in famiglia, avendo ella amato sinceramente le sue cognate, una delle quali morì presto; ma l'altra, la vivace Mimì, il raggio di sole della famiglia, creatura di fascini e di capricci, che a dodici anni componeva versi e a diciotto venne così male maritata al conte d’Houdetôt, le fu sempre unita con vincoli di tenerezza sincera. Trascorsero le loro esistenze come due ruscelli paralleli e in molti punti somiglianti, non intorbidati mai dalla gelosia o dall’invidia, all’ombra dei medesimi alberi, più felice certo la d’Houdetôt che potè cogliere almeno il fiore raro di un vero amore e scusarne la irregolarità con mezzo secolo di costanza.
L’amore grande, ardente, l’amore bello e profondo che giustifica tutto, che sparge un raggio di idealità anche sul peccato, la signora d’Épinay non lo conobbe. Svanite, non certo per colpa sua, tutte le illusioni che si era potuta formare sul cugino marito, accolse a poco a poco un sentimento di simpatia per un uomo già messo alla moda dai successi galanti e che, appoggiato alla bellezza, all’eleganza, ad una educazione squisita, a un tatto perfetto, ad ognuno di quei talenti graziosi che sono tanto apprezzati in società, non dovette durare molta fatica a vincere gli scrupoli di una donnina che il marito trascurava in un modo ignominioso e che non aveva in se stessa la resistenza di una Penelope. Fu alla Chevrette, recitando insieme, ripassando musica, contemplando i boschi, dissertando sull’amore, timido dapprima e rispettoso, gradatamente audace e sempre perfetto gentiluomo, che il signor Dupin Francueil1 riuscì a prendere completo possesso di quel povero essere debole e infranto. Ma il signor Francueil era fatuo, donnaiuolo; aveva moglie e doveva poi, rimasto vedovo, prenderne una seconda a sessantanni suonati, ciò senza pregiudizio delle amanti. Luisa tenne nelle sue conquiste, un posto numerico e nulla più. Quantunque da tale relazione nascesse un figlio, il vagheggino effimero, preso da novella esca, dopo tre anni si stancò della d’Épinay, ed ella rimpianse forse l'inutile sacrificio della sua onestà di moglie, trovandosi come prima abbandonata e certamente meno compianta.
Ma innanzi di continuare la narrazione dei casi della d’Épinay parmi interessante conoscere un poco quella contessa d’Houdetót che le visse quasi sempre vicina. Cugine e cognate, giovani entrambe, intelligenti, buone, la simpatia che doveva nascere fra loro da una certa somiglianza negli infortuni coniugali era stata preceduta da una più profonda e naturale simpatia di temperamento. Se non doveva essere difficile l’andare d’accordo colla d’Épinay, appare addirittura impossibile un malinteso colla d’Houdetót di carattere più franco, più deciso, e tanto gaia, sicura dell’effetto che ella produceva su quanti la avvicinavano. Seducente più che bella, il suo volto portava le tracce del vaiuolo, al quale tuttavia dovevano essere allora abituati, poiché non ne furono esenti le donne più celebri e più amate; la signora Geni» dice anche che era losca; dal ritratto non appare; ma tutto ciò, se mai, non guastava il fascino della sua fisionomia dolce e carezzevole, della foresta di capelli neri che nelle mosse giovanilmente impetuose le si scomponevano cadendole inanellate ai piedi, del corpo grazioso e fine. Questa donna, che aveva preso per motto: «Godete, è la saggezza; fate godere, è la virtù,» visse ottantatrè anni in discreto accordo con un marito noioso, felice in un unico amore, adorata dagli amici, serena fino alla più tarda vecchiaia e così calma dinanzi alla morte che fu paragonata ad una allieva di Platone. L’età, al pari degli avvenimenti esterni, non aveva presa su di lei. A diciotto anni, quando la chiamavano ancora Mimi, non si oppose alle nozze col conte d’Houdetót, che era bruttissimo, volgare, giocatore, e già legato ad un’altra donna con un vincolo di affetto che durò tutta la vita, poiché è un particolare curiosissimo questo della fedeltà nel settecento; la fedeltà esisteva, solamente esisteva fuori del matrimonio!
È innegabile che, per quante cattive unioni vi possano essere al giorno d’oggi, non si saprebbe più immaginare un matrimonio concluso nelle condizioni di quello. Le famiglie si conoscevano appena; i futuri sposi niente affatto; un pranzo in comune bastò perchè fosse deciso il contratto, e Mimi che ne sapeva meno di tutti gli altri, si alzò di tavola fidanzata. Naturalmente ella non amò mai suo marito, ma lo tollerò con sufficiente filosofia, consolandosi a scrivere versi, per il quale innocente esercizio ella aveva una speciale passione esente da velleità letterarie che le rendeva tuttavia piacevole la compagnia dei letterati. Scrivere versi per quelle signore non implicava affatto l’idea di stamparli e di darli in pascolo alla folla. Sofia d’Hodetòt si accontentava di leggerli agli amici, come fece al Grandval, una sera in cui, avendo bevuto un certo vino bianco molto buono ne recitò parecchi al suo vicino di tavola che si trovava essere Diderot, il quale ne fece la confidenza alla sua intima amica madamigella Voland, assicurandola che scintillavano di fuoco, di calore e di immagini, e pare anche che vi fosse tra essi una specie di Inno ad una bellezza femminile, certo molto apprezzata ma difficile a nominarsi, per cui Diderot, che pure non soffriva di scrupoli soverchi, aggiunse: «Se potrò averlo, ve lo manderò; ma quantunque ella abbia avuto il coraggio di mostrarmelo, io non ebbi ancora quello di domandarglielo».
Era forse l’aria del Grandvai che, insieme al vino bianco, aveva montata un po’ troppo la testa all’allegra signora, perchè i suoi biografi che si accordano a chiamarla buona, dolce, semplice, sincera, aggiungono anche l’aggettivo decente. Comunque sia, accettiamolo, questo aggettivo, per il valore che poteva avere nel secolo XVIII e vediamo quali erano gli amici delle due cugine quasi vedove, coloro che riempivano il vuoto forzato delle loro giovinezze.
A Diderot, a d’Alembert, a Condorcet, a Voltaire, che già abbiamo incontrati tante volte nel corso di queste pagine, bisogna aggregare un bizzarro personaggio e fargli anzi un posto a parte, perchè egli si conservò tra i più fedeli amici della signora d’Épinay. È questi l’abate Galiani, «il più grazioso Arlecchino che abbia prodotto l’Italia, alto poco più di un metro, ma sulle cui spalle stava la testa di un Macchiavelli». Quando egli entrava nel salotto della d’Épinay, entravano con lui la gaiezza, l’immaginazione, lo spirito, la follia, lo scherzo e tutto ciò che può far dimenticare le pene della vita. Egli doveva essere senza dubbio un alleato prezioso agli svaghi delle due signore, provvisto come era di aneddoti e di storielle che sapeva raccontare in un modo piccante e tutto suo, accompagnato dalla vivace mimica napoletana che quelle eleganti parigine comprendevano a meraviglia. Doveva ridere la contessa d’Houdetôt!... Ma pure ridendo alle facezie dell’abate non passava inavvertito al suo fianco il marchese di Saint-Lambert, gentiluomo lorenese, del quale si era incominciato a parlare alla morte della marchesa di Châtelet, disgraziato epilogo di una relazione più galante che amorosa. Egli aveva molto ingegno, molto buon gusto, una distinzione rara anche fra delle persone distinte, e quantunque un po’ freddo e contegnoso, o forse in ragione appunto del contrasto, piacque subito a Mimì. Il loro amore fu un colpo di fulmine, ma un fulmine che colpisce giusto e non lascia più sorgere nulla dove posa. La passione dei versi contribuì forse ad unirli, perchè Saint-Lambert era buon verseggiatore, ma non poeta nel significato sacro della parola.
A questo proposito si legge negli Annali letterari del secolo il seguente dialogo: «Converrete che Saint-Lambert è culto?» — «Ne convengo.» — «Conosce la lingua.» — «A meraviglia.» — «Egli pensa?» — «Molto.» — «Sente?» — «Certo.» — «Possiede la tecnica del verso?» — «Come pochi.» — «È armonioso?» — «Sempre.» — «Che cosa gli manca dunque per essere poeta?» «L’anima.» E questo è un severo ammonimento per i poeti di tutti i tempi.
Ma se pure mancava al marchese di Saint-Lambert il suggello del genio, egli aveva tante corde al suo arco da non temere rivali, e nel suo amore per la d’Houdetôt diede prova di di costanza e di serietà. Anche lei, la folleggiante Mimì, gli si affezionò per il resto de’ suoi giorni che non furono nè pochi nè esenti da tentazioni. Un legame fedele, pur fuori del matrimonio, appariva nobile ai moralisti filosofi, era accettato dovunque, riconosciuto come un diritto, e la contessa d’Houdetôt, al pari delle sue coetanee, diceva e scriveva candidamente «mon amant» con una disinvoltura che noi non comprendiamo più e senza arrossire menomamente di sotto al leggiadro belletto. Nè l’amore doveva farle dimenticare la poesia, che anzi nell’occasione di un viaggio di Saint-Lambert, sotto la commozione dell’addio, ella compose questi versi graziosi che rispecchiano perfettamente nella loro tenerezza più dolce che ardente, più delicata che profonda, il sentimento doloroso quale era concepito a quei tempi:
L’amant que j’adore |
E noi la vediamo, la seducente signora, un po’ commossa, ma non troppo, sotto il toupet incipriato e negli svolazzi rosei de’ suoi falpalas concedere furtivamente l’ultimo bacio dietro un paravento.
Un altro uomo intanto, una figura triste e di cattivo augurio che lasciava sempre dietro a sè, come la seppia, una striscia torbida nella quale tentava di occultare i bassi istinti, entrò a prendere da una parte di primo ordine fra Luisa d’Épinay e Sofia d’Houdetôt. Il figlio dell’orologiaio di Ginevra, il compiacente amante della signora De Warens, Rousseau, già legato alla sua serva Teresa Levasseur, era stato da Francueil presentato alla signora d’Épinay che non gli fece nessunissima impressione (de la gorge comme sur ma main è il giudizio delicato che egli ne dà). Ma Luisa era così gentile, premurosa, quasi bisognosa d’affetto, e si prese tanto a cuore la condizione miserabile di lui che egli dovette restarne alla sua maniera impressionato, se non riconoscente, ed accettò la generosa offerta ch’ella gli fece di abitare una casetta di sua proprietà, prossima alla Chevrette, all’entrata della foresta di Montmorency che per il luogo deserto e per la tradizione di chi l’aveva abitata una volta si chiamava l’Eremitaggio. Deliziosi mesi trascorse quivi l’odiatore degl’uomini, colui che per una sgraziata piega dell’animo mutava in fiele le più dolci ambrosie. Fu quì che incominciò a vagheggiare l’idea di un grande romanzo sentimentale dove la sua sete d’amore potesse sfogarsi in un mare di retorica, fu quì che nacque La Nuova Eloisa. Quanti, ora, avrebbero la pazienza di leggere le seicentocinquanta pagine fitte che narrano gli amori di Saint-Preux con Giulia d’Étange? Le nostre nonne pertanto vi sparsero sopra tenere lagrime e tutti sapevano che in Giulia d’Étange l’autore aveva idealizzata la contessa d’Houdetôt.
Quando si dice che una persona reale ha ispirato un’opera d’arte, è solo il volgo ignorante che sulla traccia visibile vuole e pretende rifare la verità. L’opera d’arte più vitale, più palpitante di sentimenti sinceri, proverà pur sempre il bisogno di ammantarsi in un velo. L’uomo di genio, che è l’amatore per eccellenza, acconsente ad aprire il suo cuore al pubblico, ma a condizione che vi sia un tabernacolo per accoglierle ed un mistero per difenderlo. Rousseau disse tutta la verità nelle Confessioni e non fece opera d’arte; disse la verità necessaria nella Nuova Eloisa e salì un gradino più alto. Quest’uomo, poco felice nella scelta de’ suoi amori e molto volgare nella estrinsecazione di essi, versò nella Nuova Eloisa quella aspirazione d’idealità che era in lui e che trovavasi a disagio quando si trattava di metterla d’accordo col suo cattivo carattere. Il tipo di Giulia d’Étange era forse già latente nel suo pensiero il giorno in cui la contessa d’Houdetót venne a sorprenderlo all’Eremitaggio e lo scombuiò tutto accendendogli nel sangue l’amore. La vivace signora che si annoiava in campagna, durante una assenza di Saint-Lambert, aveva immaginato di attraversare il bosco a cavallo vestita da uomo per andare a trovare l’orso nella sua tana. (Era la signora d’Épinay che lo chiamava l’orso, forse vagheggiando il trionfo di addomesticarlo e senza pensare che gli orsi mordono.)
A quella prima visita altre ne succedettero, ed altre ancora, che Rousseau si affrettava a rendere, infiammandosi sempre più di Sofia e di Giulia, confondendole in una sola aspirazione, così ardente e poetica da fargli scrivere i primi capitoli della Nuova Eloisa sopra fogli di carta rasata, tenuti insieme da un nastro color di cielo, e spargendoli di una fine sabbia d’argento.
La contessa si divertiva mollissimo al giuoco; ma le lunghe passeggiate, le soste romantiche nei boschetti mentre cantava l’usignuolo, gli interminabili colloqui che ella non si curava affatto di nascondere perchè non nascondeva mai nulla della sua vita, diedero facile pretesto alla mormorazione. All’Eremitaggio abitavano con Rousseau le due Levasseur, madre e figlia, naturalmente pettegole e gelose; la contessa aveva dei domestici; il bosco, per quanto bosco, era pure tratto tratto attraversato da qualcuno, e chi vide, chi ascoltò, chi suppose.... Tutto questo giunse all’orecchio di Saint-Lambert, che non mostrossi punto disposto ad imitare la rassegnazione del conte d’Houdetót. Sofia lo amava veramente e rinunciò subito alla capricciosa avventura affrettandosi a far avere a Rousseau un congedo in piena regola. Così tutto finì lì, almeno per la contessa, non per Rousseau, il quale si diede subito ad immaginare che fosse stata la signora d’Épinay a denunciarlo. La signora d’Èpinay, che lo aveva raccolto, alloggiato, circondato di cure fraterne! Lei, l’amica, la benefattrice! Da questo sospetto, tanto ignobile quanto ingiusto, Rousseau prese le mosse per una vera guerra di calunnie e di ingiurie, ignobili troppo perchè valga la pena di soffermarvisi.
Luisa d’Épinay si mostrò in tale circostanza di una grande nobiltà d’animo. Si trovava già al suo fianco, è vero, la persona che doveva dominale la seconda metà della sua esistenza dirigendola a più seri propositi, e non è improbabile ch’ella avesse una parte di collaborazione, almeno spirituale, nelle lettere che la d’Épinay scrisse allora: all’ingrato amico e che sono un modello di dignità e di fermezza; ma comunque, approntare della lezione vuol sempre dire esser degni del maestro, e se la d’Épinay fu debole, leggera, artificiosa, vana, ebbe pure la grande, la rara qualità del perfezionamento, che le concesse di prepararsi per la vecchiaia un rifugio sicuro nella stima degli amici, sempre disposti a perdonare gli errori quando si appoggiano ad un verace desiderio di redenzione.
Dopo l’abbandono di Francueil la signora d’Épinay, non legata ad un salotto celebre, ma che riceveva in casa sua alcuni uomini di valore e che frequentava la società per quanto glielo permettevano le sostanze dissestate dai disordini del marito, trovò certamente ancora delle ore buone nella compagnia di Galiani e della cara Mimi, e sperò di trovarne con Rousseau, che le era stato presentato da Francueil, ma che le fu occasione di grandi dolori. La signora Geoffrin, sua vicina di casa, avrebbe potuto offrirle buona compagnia e ottimi consigli, ma non vi fu mai simpatia fra loro due e si capisce. Ella era invece amica della signora della Popelinière, la stessa forse che aveva levato gran rumore sotto la Reggenza per il caminetto mobile che si era scoperto nella sua camera confinante col palazzo del duca di Richelieu, e in casa di questa signora, le fu, da Rousseau questa volta, presentato il barone Grimm; un tedesco di Ratisbona, nobile senza mezzi di fortuna, ma provveduto di eccellenti studi e che era venuto a Parigi in qualità di precettore del conte di Schoenberg. Intelligenza fine, chiara, molto retta, di carattere chiuso e freddo, portato alla solitudine, inesperto della lingua francese che parlava col suo accento teutonico, egli non era fatto per brillare nelle società, ma per essere apprezzato piuttosto da un numero ristretto di amici. Si strinse subito infatti coi filosofi e scrittori della Enciclopedia, fra i quali ebbe amicissimi il barone d’Holbach, suo compatriota, e Diderot, che lo ammirava incondizionatamente.
Luisa confessa nelle sue Memorie di non avere ricevuto da Grimm una impressione molto favorevole la prima volta che lo vide; ma si sa, buona donna un po’ superficiale, facile all’inganno, incapace di conoscere il valore reale degli uomini, ella si lasciava andare a tentoni tanto nel bene quanto nel male, pregiudicando così se stessa e la sua fama, coll’apparenza di essere falsa e intrigante, mentre non era che debole, facendosi turlupinare da lutti, dal marito, dall’amante, dalle amiche e dagli amici, si chiamassero signorina d’Ette o signor Duclos. Pare invece che Grimrn la giudicasse subito dal suo lato migliore perchè, avendola appena conosciuta, sostenne generosamente le di lei parti in una sciocca e calunniosa istoria di carte trafugate per deviale in profitto proprio una eredità, ed ebbe in conseguenza di ciò un duello. Si trovarono più tardi le carte comprovanti la assoluta innocenza della signora d’Épinay, ma intanto la cavalleresca difesa del barone non poteva a meno di toccare profondamente il cuore sensibile di Luisa, che si affrettò ad invitarlo in casa appena guarito dalla ferita ricevuta per l’onor suo. Viveva ancora la madre di Luisa, la pia signora d’Esclavelles, tutta dedita alla religione ed alla preghiera, e si capisce quanta festa dovettero fare le povere donne avvezze ad essere ingannate a quel paladino delle virtù antiche, difensore dei deboli e degli oppressi. Egli si trovò ben presto arbitro e padrone in mezzo a loro, essendo sempre assente il padrone legittimo, il signor d’Épiuay e adolescenti ancora i figli...
H nuovo legame della signora d’Épinay giungeva in buon puntò (per quanto a tutta prima possa apparire una contraddizione) per salvarla da peggiori conoscenze. Ella, cedendo a Grimm e ricordandosi che non era la prima volta, fu bensì assalita da qualche scrupolo, ma in realtà poiché la sua sventura l’aveva privata del naturale sostegno e la sua debolezza non le permetteva di farne senza, a toglierla dai pettegolezzi che minacciavano di travolgerla Grimm era l’uomo veramente indicato. Per prima cosa la obbligò a sfrattare quel Francueil che non poteva più senza venir meno a un delicato sentimento di dignità mostrarsi ancora fra gli assidui; lo stesso fece per un certo Duclos, imbroglione della peggior specie; l’aveva pure sconsigliata dal ricevere Rousseau nella casetta dell’Eremitaggio, e se non fu ascoltato, i fatti gli diedero piena ragione. I biografi che accusano Grimm di dispotismo dimenticano il bene che da questo dispotismo ne venne ad una creatura buona ma traviata, che si rialzò sotto la guida ferrea di lui ad una vita, se non pura ed onesta, almeno più seria. Questo era già molto alla metà del secolo XVIII! Se Grimm imperava da padrone, assumevasi anche del padrone gli obblighi più gravi, dirigendo l’educazione dei due figli — o piuttosto della figlia, perchè il maschio messo dal nonno in collegio contro il desiderio di Luisa e dopo la morte del nonno ritornato in famiglia, si mostrò in tutto seguace dei disordini paterni. Sta bene all’alterezza di Grimm così il non avere tollerato la presenza di falsi amici che ne denigravano la fama come l’avere sempre protetta la donna che si fidava di lui. Non amore li univa nel significato ideale della parola, poichè l’intimità era venuta più per forza delle cose che per invincibile attrazione; eppure Luisa ebbe da questo affetto, comunque fosse, la fedeltà e il riposo che le erano mancati nell’amore propriamente detto.
L’acquietamento che provava nel sapersi amata e protetta le faceva scrivere a colui che solo fra tutti le fece del bene: «Ogni giorno che passa mi ispirate sempre più quella specie di sicurezza che il bambino trova sui ginocchi della madre». Ed ecco veramente l’amore che ci voleva per lei, la fragile canna, incapace di sostenere le lotte delle grandi passioni o l’eroismo dei grandi sacrifizi.
Dal canto suo Grimm, acuto conoscitore d’uomini come ebbe a definirlo il suo illustre corrispondente Federico II — e franco e di carattere indipendente, apprezzava senza dubbio questo genere di attaccamento che gli permetteva di edificare le sue qualità energiche e volontarie, spiccatamente virili. Tutto il male sparso da Rousseau e raccolto da alcuni biografi, cade davanti alla ragione dei fatti. Se Grimm fu qualche volta duro e dispotico, fu però sempre leale ed onesto; egli portava l’integrità in tutto. Diderot scrisse di lui: «Non vedo chiaro nella sua anima, ma non potrei sospettarla. Da due anni a questa parte è sempre in suo vantaggio che le faccende oscure si sono dilucidate. Egli sente bene che ha contro di sè le apparenze e il giudizio degli indifferenti, ma non se ne cura.» È in queste parole di un giudice intelligentissimo che appare il vero Grimm, non nelle pagine astiose delle Confessioni, dove si vorrebbe disconoscere anche il suo ingegno. La mente di Grimm, più lucida che calda, se gli negò la potenza creatrice, fece di lui uno dei migliori critici, e in un tempo in cui il giornale nasceva appena gli permise di raccogliere in un diario completo la storia particolareggiata di quanto accadeva nella città che si chiamava fin da allora il cervello del mondo. Del suo affetto poi per la signora d’Épinay e del suo nobile modo di amare è documento importante il colloquio con Diderot, quando Diderot, tratto in inganno dalle calunnie a cui la debolezza di Luisa prestava il fianco indifeso, volle tentare di aprirgli gli occhi, di fargli comprendere il suo errore e di persuaderlo che quella donna non meritava la sua attenzione. Le risposte di Grimm, dignitoso sempre e coerente, sono quelle di un perfetto gentiluomo, ma una è degna del più perfetto amatore: «Vi manca — aveva esclamato Diderot punto dagli elogi che l’altro faceva — vi manca da aggiungere che la d’Épinay non ebbe prima di voi alcun amante!»
E Grimm: «S’ella mi ama sarò il primo». Diderot infine dovette arrendersi, oltre che alle parole dell’amico, alla evidenza delle malignità che circondavano la signora d’Épinay e le divenne amico a sua volta, non ultimo dei vantaggi procuratile da Grimm.
Migliorato così il circolo delle persone fra cui viveva, la giovinezza di Luisa si preparava al tramonto affrettato da una salute molto cagionevole, che della sua parca bellezza non le lasciava oramai altro che gli occhi e i capelli; quei capelli che possedevano le famose cinque punte sulla fronte assai apprezzate nel gusto del tempo e che conferivano un non so che di piccante alla fisionomia, come si può vedere dal ritratto di Liotard. Ma oltre all’età ed alla salute, i disastri finanziari contribuirono a circondarla di pensieri più gravi, per cui i consigli di Grimm le riuscivano preziosi.
Rousseau, dopo il vergognoso pettegolezzo suscitato, continuando ad abitare l’Eremitaggio, aveva conservato colla d’Épinay i rapporti di una amicizia la cui base era irrimediabilmente scalzata; amicizia amara, piena di diffidenza e di rancori, sui quali la d’Épinay, sempre indulgente, versava il balsamo di un grande compatimento, giudicandolo più che perverso, ammalato, ed usandogli i riguardi di una persona sana verso un infermo. E doveva anche questa volta sbagliarsi; doveva riconoscere quanto fosse stata più saggia la d’Houdetót rompendo decisamente la relazione con un i uomo che aveva il triste privilegio di guastare tutte le sue amicizie a furia di diffidenze e di sospetti. Questi sospetti e queste diffidenze malamente sopite rinacquero a proposito di un viaggio che Luisa decise di fare a Ginevra per avere un consulto dal celebre dottor Tronchin ed in proposito i del quale ebbe la storditezza di invitarlo a compagno. Diderot, certo innocentemente, credette di appoggiare un tale progetto dimostrando a Gian Giacomo la gratitudine che egli doveva alla signora; ma da quel vero filosofo che egli era, pieno di dottrina e senza pratica del mondo, non sapeva che a parlai di gratitudine a Rousseau era come far vento sul fuoco. Rousseau in questa cosa così semplice vide subito un tranello e non gli parve vero di poter accusare contemporaneamente Diderot, Grimm e la signora d’Épinay di volerlo immolare ai loro interessi costringendolo a fare da angelo custode in occasione di un viaggio e di una malattia le cui origini dovevano essere di esclusiva competenza di Grimm.
A tale nuova malignità l’ottimismo della signora d’Épinay pai ve cedere. Ella scrisse a Rousseau: «Dopo avervi dato per molti anni tutte le prove possibili di amicizia e di stima non mi resta che compiangervi. Voi siete molto disgraziato. Desidero che la vostra coscienza sia così tranquilla come la mia. Poiché volevate e dovevate lasciare l’Eremitaggio, sono meravigliata che i vostri amici vi ci abbiano trattenuto. Quanto a me non consulto amici intorno all’adempimento de’ miei doveri e non ho più nulla da dirvi sui vostri.» Anche a voler intravedere in questa lettera Ispirazione alteramente sdegnosa di Grimm, bisogna lodare la signora d’Épinay per averla firmata. Il vantaggio; che ella ne ritrasse fu quello di liberarla finalmente da un uomo che ella aveva beneficato in tutti i modi raccogliendone sì amari frutti.
Il viaggio a Ginevra che la signora d’Épinay; compì insieme al proprio figlio non migliorò punto le sue condizioni. Fu in quella occasione che Liotard le fece il ritratto, dove ne appare tutta la i gracilità; ritornata a Parigi, la sua salute divenne sempre più cagionevole, lilla non apparteneva alla forte razza di quel secolo che contava tanti centenari; quando le donne se riuscivano a sorpassare le due crisi del vaiolo e del parto (pericolosa questa per l’ignoranza della cura antisettica che; favoriva le infezioni), raggiungevano facilmente la più tarda età, come fecero la marchesa Du Deffant, la signora Geoffrin, la contessa d’Houdetòt, la contessa di Genlis, ecc. Gli uomini poi arzilli, galanti, ci lasciarono aneddoti da far strabiliare; esempio Fontanelle, che negli ultimi giorni della sua vita, volendo esprimere ad una signora l’effetto che gli produceva la di lei bellezza, non si peritò ad esclamare: «Ah! se non avessi che ottant’anni!....»
Organicamente delicata, i dispiaceri nei quali fu sempre involta e la progressiva decadenza della sua famiglia ridussero invece Luisa a cinquantanni quasi inferma. Divisa legalmente dal marito, venduto dai creditori il palazzo della via Sant’Onorato, venduta pure la sontuosa villeggiatura della Chevrette, si ridusse a vivere modestamente in alloggi da affitto, fedelmente seguita da Grimm, che le fu sostegno, aiuto, conforto fino all’ultimo de’ suoi giorni; e questo affetto, nato da un cavalleresco sentimento di difesa, rimasto saldo fra le poche attrattive delle malattie continue, diede un carattere di serietà alla seconda parte della sua vita, dove ebbe pure una benefica influenza la figlia che, maritata al visconte di Belsunce, doveva rivelarle, conforto estremo della vecchiaia, le gioie dell’essere nonna. Per la figlia di sua figlia, per la piccola Emilia, la signora d’Épinay scrisse un libro, che venne premiato dell’Academia di Francia e che fu molto letto, molto lodato.
Dolcemente si spense così la signora d’Épinay, circondata dalla figlia, dalla nipotina, dall’amico Grimm e da Mimì, la gaia Mimì, oramai vecchia anche essa, ma sempre gaia, sempre affettuosa, e sempre innamorata di Saint-Lambert. Nè lei nè la d’Épinay furono donne superiori, non ebbero eccezionale talento, nè eccezionale virtù, ma tennero, nell’ambiente intellettuale in cui le pose il destino, l’ufficio eminentemente femminile del calice di fiore che riceve la rugiada e la trasforma in bellezza ed in profumo.
Precorrendo di un secolo il sistema applicato all’elettricità, queste amabili donne facevano da accumulatore dell’ingegno, alimentandone l’intima essenza col segreto che le donne sole possiedono e che è la loro parte di genio.
- ↑ Nonno di Aurora Lucilla Dupin, più conosciuta sotto il nome di Giorgio Sand.