Il paradiso delle signore/2
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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II
La tramontana che tirava aveva già asciugato il lastrico. Da tutte le vie, illuminate da una mattinata scialba sotto un cielo cinereo, i commessi si affrettavano ora verso il Paradiso, col bavero del soprabito tirato su, con le mani in tasca, colti all’improvviso da quel primo brivido dell’inverno. I piú se ne venivano soli, infilavano l’uscio del magazzino e vi si perdevano senza dare un’occhiata ai compagni ai quali passavano accanto; altri, a due o a tre per volta, venivan ciarlando e occupavano il marciapiede quant’era largo; poi tutti, prima d’entrare, buttavano via col medesimo gesto la sigaretta o il sigaro.
Dionisia s’accorse che molti di quei signori, nel passare, la sbirciavano. Allora la timidità le si accrebbe: non si sentí piú la forza di andare dietro a loro; risolvé d’entrare quando fossero arrivati tutti, perché arrossiva al solo pensiero che, volere o no, avrebbe dovuto passare in mezzo a tutti quegli uomini. Intanto per sfuggire alle occhiate si mise a fare adagio adagio il giro della piazza. Quando l’ebbe compiuto, trovò dinanzi al magazzino un giovinotto alto, livido e dinoccolato, che da un quarto d’ora pareva aspettasse, come lei, d’entrare.
— Signorina, disse alla fine, e gli tremava la voce — dica un po’: lei è addetta alla vendita nel Paradiso?
Dionisia si turbò a sentirsi volgere la parola da un giovinotto che non conosceva, e non seppe lí per lí rispondere nulla.
— Si tratta, vede, — continuò l’altro imbrogliandosi sempre piú — che io vorrei tentare d’esservi ammesso, e le volevo domandare come si fa.
Era timido come lei, e osava parlarle soltanto perché s’era accorto ch’ella tremava come lui.
— Volentieri, s’immagini! — rispose Dionisia — ma io ne so quanto lei; son qui anch’io per presentarmi.
— Ah! benissimo! — disse l’altro sconcertato.
E diventarono tutt’e due rossi rossi, trovandosi, timidi com’erano, in faccia l’uno all’altra, commossi dalla fraterna somiglianza dei casi loro, e non osando nondimeno augurarsi il buon successo. Poi, non riescendo a dirsi piú nulla e imbarazzandosi sempre piú, si separarono goffamente, e ricominciarono ad aspettare, ciascuno per conto suo, lontani quattro o cinque passi.
I commessi continuavano ad arrivare: Dionisia ne sentiva gli scherzi quando le passavano accanto gettandole un’occhiata di traverso. Seccata di starsene in mostra, era sul punto d’andarsene a fare una passeggiata di mezz’ora per il quartiere, quando un giovane che veniva lesto lesto dalla Via Port-Mahon la fece restare lí un altro minuto. Doveva essere uno dei capi, perché tutti i commessi lo salutarono. Era alto, bianco di pelle, con la barba ben pettinata; e aveva certi occhi lucenti come oro vecchio che, nell’attraversare la piazza, fissò un momento su lei. Entrava già indifferente nel magazzino, e la fanciulla era lí sempre immobile, sconvolta da quell’occhiata che l’aveva turbata in un modo singolare, piú malessere che piacere. Impaurita sempre peggio, si mise a far lentamente Via Gaillon, poi Via San Rocco, per aspettare che le tornasse un po’ di coraggio.
Altro che uno dei capi! era Ottavio Mouret in persona. Quella notte non aveva dormito, perché nell’uscire da una festa in casa d’un agente di cambio era andato a cena con un amico e due donne raccattate tra le quinte d’un teatruccio. Il soprabito tutto abbottonato nascondeva la coda di rondine e la cravatta bianca. Salí frettoloso in camera sua, si lavò, si mutò i vestiti, e quando scese a sedersi nello scrittoio del mezzanino, stava benissimo, con l’occhio lucido, la pelle fresca, pronto al disbrigo delle faccende quasi avesse dormito nel suo letto dieci ore. La stanza, grande, coi mobili di quercia antica, e coi tendoni verdi, non aveva altro ornamento che un ritratto; quello della signora Hédouin di cui nel quartiere si seguitava a discorrere. Da quando era morta, Ottavio serbava di lei un dolce e caro ricordo, e si mostrava sempre riconoscente della ricchezza che ella sposandolo gli aveva donata. Difatti, prima di mettersi a firmare le cambiali poste sulla scrivania, volse al ritratto un sorriso d’uomo contento. Non tornava forse egli sempre innanzi a lei per lavorare, dopo le sue scappate di giovane vedovo, o all’uscire dalle alcove dove si smarriva talvolta in cerca del piacere?
Qualcuno picchiò: senza aspettare licenza, entrò un giovane alto e magro, con le labbra sottili, col naso a punta; del resto con aspetto da persona per bene, e i capelli lisci, già grigi qua e là.
Il Mouret aveva alzato gli occhi; poi seguitando a far le firme:
— Avete dormito bene, Bourdoncle?
— Benissimo, grazie! — rispose il giovane che camminava su e giú, come in casa sua.
Il Bourdoncle, figlio di un povero fattore dei dintorni di Limoges, era entrato al Paradiso delle signore, proprio insieme col Mouret, al tempo che il magazzino stava all’angolo di Piazza Gaillon. Intelligentissimo, pieno di energia, pareva dovesse, senza troppo darsi da fare, sostituire il suo compagno tanto meno serio di lui, con mille frasche pel capo, un’apparente scapataggine, e molti impicci amorosi. Ma non aveva l’ingegno pronto e audace di quel provenzale pieno di fuoco, né la sua grazia vittoriosa. D’altra parte, per un istinto di uomo savio, s’era piegato davanti a lui, obbediente fin dal primo momento e senza nessun combattimento con se stesso. Quando il Mouret aveva consigliato ai suoi commessi d’impiegare il loro danaro nel magazzino, il Bourdoncle era stato dei primi a dare il suo, affidandogli perfino l’eredità inaspettata d’una zia: e a un poco per volta, dopo essere salito per tutti i gradi, addetto alla vendita, poi aiuto, poi capo della sezione delle sete, era divenuto uno dei luogotenenti del padrone, il piú caro a lui e il piú ascoltato, uno dei sei azionisti che lo aiutavano a mandare innanzi il Paradiso delle signore; specie di Consiglio di ministri sotto un re assoluto. Ciascun di loro aveva il governo di una provincia; al Bourdoncle spettava il sorvegliarli tutti.
— E voi, — riprese egli familiarmente — avete dormito bene?
Quando il Mouret ebbe risposto che non era andato a letto, il Bourdoncle scrollò il capo mormorando:
— Cattivo sistema di vita.
— E perché? — disse l’altro allegramente. — Sono meno stanco di voi, caro mio, che avete gli occhi pieni di sonno; a forza di fare il sant’uomo, ingrassate troppo... Divertitevi, divertitevi e avrete la testa piú sveglia!
Era questa la loro consueta amichevole disputa. Il Bourdoncle da principio aveva picchiato le amanti perché, asseriva, non lo lasciavano dormire. Ora diceva di odiare le donne; ma aveva senza dubbio degli amoretti dei quali non diceva verbo, tanto poco posto prendevano nella sua vita; si contentava di fare spendere, lí nel magazzino, piú che potesse le clienti, con un vero disprezzo per la loro frivolità nel rovinarsi a furia di cenci. Il Mouret, invece, ostentava grandi ammirazioni, estasiandosi dinanzi alle donne, e passando, senza mettere tempo in mezzo, da un amore a un altro. Codeste passioncelle aiutavano, diffondevano il suo commercio; si sarebbe detto che carezzasse insieme tutte le donne per meglio sbalordirle e dominarle.
— Ho visto, stanotte al ballo, la signora Desforges: ah! come era bella!...
— E avete cenato insieme? — domandò il socio.
Il Mouret gli diè sulla voce:
— Ma vi pare? è onestissima, caro mio... No, no, ho cenato con Elisa, quella piccina delle Folies... è stupida, sí, ma tanto amena!
Prese un altro fascio di cambiali e continuò a firmare. Il Bourdoncle seguitava a passeggiare su e giú. Dalla vetrata della finestra gettò un’occhiata su Via Nuova di Sant’Agostino, poi tornò indietro e disse:
— Guardate che si vendicheranno.
— Chi? — domandò, pensando ad altro, il Mouret.
— Chi? le donne!
Allora, il Mouret diventò anche piú allegro e diè libero sfogo alla brutalità che sotto a quell’aria di sensuale adorazione aveva nel fondo dell’animo. Con un’alzata di spalle parve affermare che le avrebbe gittate tutte per terra, come sacchi vuoti, il giorno che non avesse avuto piú bisogno di loro per far fortuna.
Il Bourdoncle, cocciuto, ripeté con tono freddo:
— Si vendicheranno... Ce ne sarà una che le vendicherà tutte; o prima o poi deve finire cosí!
— Non aver paura — esclamò il Mouret, esagerando l’accento provenzale. — Quella non è ancora nata, caro mio. E se viene....
Aveva alzata la penna e la brandiva minacciosamente, come se avesse voluto trafiggere un cuore invisibile. Il socio ricominciò a passeggiare, inchinandosi, come faceva sempre dinanzi al padrone, che col suo ingegno e anche con le stravaganze lo metteva fuor di strada. La sua men te logica, fredda, calcolatrice, non aveva ancora capito quanto un po’ di lenocinio giovi al buon successo, né come Parigi cada spesso in braccio al piú ardito.
Stettero un po’ in silenzio. Non si sentiva altro che lo scricchiolio di penna, del Mouret. Poi, dietro le domande che egli fece in poche parole, il Bourdoncle diè notizie sulla grande apertura della vendita delle «novità invernali» che doveva cominciare il lunedí seguente. Era un affare grosso; il magazzino arrischiava la propria fortuna, perché nelle voci che correvano per il quartiere c’era un fondo di verità.
Il Mouret si buttava sventatamente in speculazioni, fastosamente, colossalmente, come se ogni ostacolo dovesse sgretolarsi sotto lui. Quel senso nuovo del commercio, quell’apparente fantasia fra l’aridità del dare e dell’avere, avean già dato, a suo tempo, un po’ di pensiero alla signora Hédouin, e, anch’oggi, per quanto fosse piú volte riuscito a bene, costernava di quando in quando gli azionisti. Si bucinava ch’era un’imprudenza andar lesti in quel modo; accusavano il padrone d’avere ingrandito con gran rischio i magazzini, prima di poter fare assegnamento sopra una clientela maggiore; tutti tremavano a vederlo, per cosí dire, giocar sopra una carta, ed empir le stanze di mucchi di mercanzie, senza tenersi in cassa un soldo di riserva. Cosí, per questa apertura della vendita, dopo le somme abbastanza notevoli pagate ai muratori, il capitale era impegnato tutto quanto: bisognava anche questa volta vincere o morire. Ma, in mezzo a quel turbamento, egli seguitava ad essere tranquillo e gaio, sicuro di far milioni, come un uomo adorato dalle donne e che non può essere tradito. Quando il Bourdoncle si fece lecito di esporre i propri timori per la troppa importanza data a certe sezioni che fruttavano poco, egli, con un bel sorriso pieno di fiducia, esclamò:
— State zitto! Il magazzino è troppo piccolo, invece; sia detto per regola vostra!
L’altro sembrò restasse intontito, preso da una paura che non cercava nemmeno piú di dissimulare. Il magazzino troppo piccolo? Troppo piccolo un magazzino dove c’erano diciannove sezioni e che non aveva meno di quattrocento impiegati?
— Già, già, — ripigliò il Mouret — troppo piccolo!... Non passerà un anno e mezzo e saremo costretti a ingrandirlo dell’altro... Io ci penso di già, e sul serio. Stanotte la signora Desforges m’ha promesso di farmi discorrere domani con una certa persona... ma se ne riparlerà quando l’idea sarà matura.
E, finito di firmar le cambiali, si alzò e andò a battere amichevolmente la mano su la spalla del socio, che non si rimetteva cosí alla lesta.
Questi timori della gente che aveva intorno lo divertivano. In uno degli sfoghi di rude schiettezza che rovesciava a volte sopra gl’intimi, dichiarò che in fondo in fondo egli era piú ebreo di tutti gli ebrei del mondo: tirava dal padre cui somigliava nel corpo e nell’anima, un volpone che sapeva quanto costa il denaro; e se dalla madre aveva ereditato quel po’ di fantasia nervosa, forse era questa la ragione piú vera della sua fortuna, perché egli sentiva che poteva osar tutto impunemente.
— Voi sapete che vi terremo dietro sino in fondo! — dové dire alla fine il Bourdoncle.
Allora, prima di scendere nel magazzino a dar la loro occhiata di tutte le mattine, si misero d’accordo su certi particolari. Esaminarono il campione di un registro da staccarne i fogli, che il Mouret aveva immaginato per le fatture. Osservato che le mercanzie uscite di moda, le calíe, si vendevano tanto piú rapidamente quanto piú alta era la regalia data ai commessi, aveva escogitato un nuovo modo di vendita. Su qualsiasi oggetto, qualsiasi pezzo di stoffa, fosse pure un nonnulla, dava loro un interesse; e cosí otteneva che gli addetti alla vendita se ne curassero sul serio. E con questa innovazione aveva accesa tra i commessi una lotta per l’esistenza, che arricchiva i padroni.
Del resto, la famosa lotta era il suo motto preferito, il principio d’organizzazione che non si stancava mai di esplicare. Sguinzagliava le cupidigie, metteva l’una forza contro l’altra, tollerava che i grossi mangiassero i piccini, e faceva di questa battaglia suo pro. Il campione del registro fu approvato: in alto, tanto sulla madre quanto sulle bollette da staccare, c’era il nome della sezione e il numero dell’addetto; poi, ripetute egualmente da tutt’e due le parti, venivano le colonne per le misure, per la designazione degli oggetti, e per i prezzi. L’addetto non faceva che firmarla prima di dare la nota al cassiere. A questo modo il riscontro era facilissimo; bastava riscontrare le liste che la cassa mandava all’ufficio di diffalco, con le madri rimaste in mano ai commessi. Settimana per settimana, avrebbero cosí il loro tanto per cento, senza mai pericolo di sbaglio.
— Ci ruberanno meno, — osservò il Bourdoncle tutto contento — è stata un’ottima trovata.
— Stanotte ho pensato anche a un’altra cosa aggiunse il Mouret. — Sí, caro mio, stanotte, a cena... Voglio dare agl’impiegati dell’ufficio di diffalco un premio per ogni errore che troveranno nelle fatture, via via che le riscontrano. Cosí potremo star sicuri che non ne lasceranno passare uno; piuttosto ne inventeranno!
Diè in una risata, mentre l’altro lo guardava ammirato. Questo nuovo modo di trarre partito dalla lotta per l’esistenza, lo mandava in sollucchero. Aveva il genio della meccanica amministrativa, e il suo sogno era di ordinare l’azienda in modo da servirsi sempre della avidità degli altri per contentare tranquillamente e pienamente la sua. Quando si vuole (diceva spesso) che la gente metta fuori tutte le sue forze e anche un po’ d’onestà, bisogna prima di tutto metterla alle prese con i suoi bisogni.
— Via, scendiamo! — ripigliò il Mouret. — Bisogna pensare a questa apertura... La seta è arrivata fin da ieri, e il Bouthemont dev’essere a riceverla.
Il Bourdoncle gli tenne dietro. L’ufficio degli arrivi era nei sotterranei, dalla parte di Via Nuova di Sant’Agostino. Là, sulla strada, s’apriva come una gabbia a vetriate, dove i carri scaricavano le mercanzie. Dopo pesate, scivolavano sopra un apparecchio del quale la quercia e le ferrature eran diventate lucide per lo strofinio continuo di fagotti e casse. Da quella botola spalancata entrava ogni sorta di merci: era un ingoiamento incessante, una caduta di stoffe che piovevano giú con fragore di fiume. Specialmente quando la vendita andava a vele gonfie, scivolavano senza mai riposo nel sotterraneo le sete di Lione, le lane inglesi, le tele fiamminghe, i cotoni d’Alsazia, le indiane di Rouen; e qualche vol ta i carri dovevano mettersi in fila e aspettare.
Quando avevan libera la via, i pacchi arrivando in fondo facevano il rumore sordo d’un sasso lanciato in un’acqua profonda.
Nel passare, il Mouret si fermò un istante dinanzi a quell’apparecchio. File intere di casse scivolavano da sole senza che si vedessero in alto le mani degli uomini che le avevan lasciate andare; pareva che precipitassero da sé, calassero come un ruscello da una sorgente piú alta.
Poi apparvero delle piccole balle, che s’aggiravano come sassi rotolati. Il Mouret guardava senza fiatare. Ma gli occhi chiari intanto lampeggiavano a veder quello scroscio di mercanzie che pioveva nel suo magazzino, quella fiumana che ad ogni minuto versava migliaia di lire. Non mai prima d’allora aveva avuta cosí intera la coscienza della battaglia in cui s’era impegnato.
Quel monte di mercanzie bisognava spanderlo ora ai quattro angoli di Parigi. Non aprí bocca, e continuò l’ispezione.
Nella mezza luce che veniva dai larghi spiragli, una mano d’uomini riceveva la roba, mentre altri schiodavano le casse e aprivano le balle dinanzi ai capi delle sezioni. In quel fondo di cantina c’era quasi movimento come in un cantiere; quel sotterraneo, di cui colonne di ghisa sorreggevan le volte, e che nelle nude muraglie non aveva segno d’umidità, brulicava e ferveva.
— Manca nulla, Bouthemont? — domandò il Mouret, avvicinandosi a un giovinotto dalle forti spalle, che stava verificando il contenuto d’una cassa.
— Ci dev’essere tutto; rispose costui ma mi toccherà stare tutta la mattina a contare.
Il capo dava un’occhiata alla fattura, ritto davanti a un banco grande, sul quale uno dei suoi addetti posava ad una ad una le pezze di seta che venivano fuori dalla cassa. Piú in là, in fila, altri banchi, carichi come quello di mercanzie che una moltitudine di commessi esaminavano. Era un continuo sballare, un’apparente confusione di stoffe, guardate, riguardate, poi segnate fra un gran brusío di voci.
Il Bouthemont, che diveniva celebre, come suol dirsi, «sulla piazza», aveva una faccia tonda da bontempone, con la barba d’un nero d’inchiostro, e begli occhi castagni. Nato a Montpellier, burlone e bisboccione, nella vendita non valeva molto; ma nelle compre non c’era uno che l’agguagliasse. Mandato a Parigi dal padre che aveva un magazzino di novità, non aveva voluto a nessun costo tornare a casa, quando quel povero uomo credeva che ne sapesse abbastanza per potergli succedere nel commercio; e fin d’allora tra babbo e figliuolo era nata e cresciuta una rivalità curiosa perché il vecchio, tutto intento al suo piccolo commercio di provincia, non si dava pace a vedere un semplice commesso guadagnare il triplo di ciò che guadagnava lui; ed il giovane lo canzonava ostentando, vantando i propri guadagni e mettendo sossopra, ogni volta che dava una corsa a casa, tutto il negozio. Come gli altri capi d’ufficio, guadagnava anche lui, oltre tremila franchi di stipendio, un tanto per cento sulla vendita. A Montpellier la meraviglia e il rispetto non avevano limiti; si diceva che il figliuolo del Bouthemont l’anno innanzi aveva intascato quasi quindicimila franchi; e non s’era che al principio! Alcuni, al padre che non ne poteva già piú, predicevano che in seguito il figliuolo avrebbe riscosso chi sa quanto mai!
Il Bourdoncle, intanto, presa una pezza di seta, ne esaminava il tessuto con attenzione da uomo che se ne intende. Era una faille col vivagno azzurro e argento, la famosa stoffa «Parigi-Paradiso» su cui il Mouret fondava grandi speranze.
— È proprio buona — mormorò il socio.
— Se fosse solamente buona! — disse il Bouthemont — ma, se Dio vuole, pare anche piú bella che non sia buona! Per farci di queste cose non ci è che il Dumonteil... Il Gaujean, quando mi ci ruppi l’ultima volta che andai a trovarlo, era disposto a metterci attorno cento telai, ma voleva venticinque centesimi di piú, al metro.
Quasi tutti i mesi, il Bouthemont dava cosí una corsa alle fabbriche, vivendo giornate intere a Lione; albergava nelle migliori locande, con l’ordine di trattare con i fabbricanti senza badare a prezzi. Godeva, d’altra parte, d’una libertà assoluta; comprava quando e come gli pareva, purché ogni anno aumentasse in una proporzione prestabilita la parte di commercio che gli spettava. Anche su questo aumento aveva il suo tanto per cento.
— Dunque è fissato; — riprese a dire — la mettiamo a franchi cinque e sessanta... quasi ciò ch’è costata a noi...
— Sí, sí, cinque e sessanta! — disse vivacemente il Mouret. — E se fossi solo, la venderei a scapito.
Il capo della sezione ruppe in uno scroscio di risa.
— Oh! per me ci sto!... Cosí la vendita si triplicherebbe, e siccome il mio interesse è d’incassar molto...
Ma il Bourdoncle stava serio, a labbra strette. Un tanto per cento toccava pur a lui, ma sull’utile totale; e non gli conveniva davvero ribassare i prezzi. Il suo compito consisteva appunto nel sorvegliare i conti delle fabbriche, perché il Bouthemont non vendesse a prezzo scadente con lucro troppo mite per crescere lo spaccio. Di piú, la inquietudine di dianzi gli rinasceva davanti a quel desiderio di vendere per vendere, tanto per crescere la fama del magazzino; in tutto questo almanacchio non ci vedeva chiaro, e osò palesare il suo malcontento dicendo:
— Se la diamo a cinque e sessanta, è come darla a scapito, perché bisogna contare le spese che non sono piccole... La venderebbero sette lire dappertutto.
Il Mouret a quelle parole s’indispettí. Diè della mano aperta sulla seta, e gridò nervosamente:
— Lo so, e per questo, proprio per questo, voglio regalarla alle signore!... Voi, mio caro, ve lo dico io, le donne non le capirete mai. Non vi riesce di capacitarvi che questa benedetta seta se la leticheranno l’una con l’altra?
— Sicuro! — interruppe il socio che s’incaponiva. — Ma piú se la leticheranno, e piú ci rimetteremo noi.
— Ci rimetteremo qualche centesimo, sta bene. Ma poi? Ci sarà da lamentarsi se si tirano qui tutte le donne, sedotte, affollate innanzi al mucchio delle nostre mercanzie, a votare il portamonete senza nemmeno fare i conti? Smuoverle bisogna, caro mio, quello è il punto! e per questo ci vuole qualcosa che lusinghi e, come si dice, faccia epoca. Per esempio: la nostra «Pelle d’oro», quel taffetas a sette e cinquanta che si vende dappertutto altrettanto, parrà un’occasione straordinaria, e basterà a colmar la perdita della «Parigi-Paradiso». Lasciate fare, e vedrete.
Diventava eloquente: — Lo capite sí o no? Voglio che fra otto giorni «Parigi-Paradiso» metta tutta la città sossopra. La nostra fortuna sta lí; sarà lei che ci salverà e ci darà l’aire. Non si parlerà che della «Parigi-Paradiso», il vivagno azzurro e argento sarà conosciuto da un capo all’altro della Francia... Vi accorgerete del colpo dalle smanie e dai lamenti di chi ci fa concorrenza! Il commercio minuto ne buscherà dell’altre! Al diavolo tutti questi venditorucci che crepano di reumatismi nelle loro cantine!
Intorno al padrone, i commessi, che riscontravano le merci, ascoltavano sorridendo. A lui piaceva discorrere e vedersi dare ragione. Il Bourdoncle anche questa volta cedé. La cassa intanto era stata votata, e due uomini ne schiodavano un’altra.
— Tutti bei discorsi, — disse il Bouthemont — ma i fabbricanti non ne vogliono sapere! A Lione son furiosi contro voi; non fanno altro che dire che il vostro buon prezzo li rovina... Il Gaujean me l’ha detto apertamente: dichiarazione di guerra. Già, ha giurato d’aprire quanti crediti vogliono ai piccoli commercianti, piuttosto che adattarsi ai prezzi miei.
Il Mouret alzò le spalle.
— Se il Gaujean non mette giudizio, rispose — se ne accorgerà... Di che si lamentano?
Noi li paghiamo subito, e prendiamo tutto quello che fabbricano; mi pare che possano lavorare per qualcosa di meno... Del resto, basta che ci guadagnino gli avventori.
Il commesso votava la seconda cassa, mentre Bouthemont s’era rimesso ad appuntare le pezze della seta consultando la fattura. Un altro commesso, in cima al banco, le segnava di cifre convenzionali; e, finito il riscontro, la fattura, firmata dal capo della sezione, doveva andare alla cassa centrale. Per un momento ancora il Mouret guardò quel lavorío, tutta quella operosità intorno alle merci che, sballate, minacciavano, ammucchiandosi, d’empire tutto il sotterraneo. Poi, senza aggiungere una parola, seguito dal Bourdoncle, se n’andò con l’aria d’un capitano soddisfatto dei suoi soldati.
Passo passo, traversarono il sotterraneo. Gli spiragli, ogni tanto, mandavano una luce pallida; e in fondo agli angoli neri, lungo i neri corridoi, i lumi a gas ardevano continuamente. In questi corridoi stavano le scorte: dei vani cinti da cancellate, dove le varie sezioni accumulavano il soverchio dei loro generi. Nel passare, il padrone diè un’occhiata al calorifero che doveva essere acceso il lunedí per la prima volta, al picchetto di pompieri ch’erano a guardia d’un contatore gigantesco, chiuso in una gabbia di ferro, ed alla cucina e ai refettori, piccole stanze rabberciate, per l’innanzi cantine, a sinistra verso l’angolo di Via Gaillon.
Finalmente giunse all’altro capo del sotterraneo, all’ufficio delle partenze. Gl’involti che le clienti non portavano via con sé, eran messi in ordine là, divisi su tavole in tanti scompartimenti, ciascuno dei quali rappresentava un quartiere di Parigi; poi, per uno scalone che sboccava proprio in faccia al Vecchio Elbeuf, li mettevano nelle vetture ferme accanto al marciapiede. Nell’ordinamento meccanico del Paradiso delle signore, quello scalone di Via Michodière scaricava senza mai posa le mercanzie scivolate giú per l’apparecchio di Via Nuova Sant’Agostino, dopo ch’erano passate in alto, per le ruote dentate delle sezioni.
— Campion, — disse bruscamente il Mouret al capo ch’era un antico sergente magro magro — perché sei paia di lenzuola comprate ieri da una signora alle due, non furono recapitate ieri sera?
— Dove sta questa signora? — domandò l’impiegato.
— In Via di Rivoli, sull’angolo di Via d’Algeri... La signora Desforges.
A quell’ora, le tavole erano vuote; negli scompartimenti non restavano che gl’involti del giorno innanzi. Mentre il Campion frugava fra quegl’involti, dopo aver data un’occhiata in un registro, il Bourdoncle guardava il Mouret, pensando che quel demonio sapeva tutto, s’occupava di tutto, perfino la notte, a tavola, in una trattoria o nell’alcova d’un’amante. Finalmente, il capo scopri com’era andata; la cassa aveva dato un numero sbagliato, e l’involto era tornato indietro.
— Che cassa è? — domandò il Mouret. — Eh? La decima?... — E volgendosi al socio: — La decima, è quella d’Alberto, non è vero?... Bisognerà dirgli due paroline.
Ma prima di fare un giro nel magazzino, volle salire all’ufficio delle spedizioni, che occupava parecchie stanze del secondo piano. Le ordinazioni dalla provincia e dall’estero arrivavano là; e tutte le mattine egli vi andava a leggere la posta. Da due anni, la posta cresceva ogni giorno piú. L’ufficio cui da principio era bastata una dozzina d’impiegati, ora non poteva far con meno di trenta. Alcuni aprivan le lettere, altri le leggevano, ai due capi di una stessa tavola; altri poi le ordinavano mettendo su ciascuna un numero d’ordine ch’era ripetuto sopra un casellario. Distribuite le lettere alle diverse sezioni, e saliti su dalle sezioni gli oggetti, questi eran disposti a mano a mano nel casellario seguendo il numero d’ordine. Non occorreva piú altro che riscontrare e imballare, in fondo a una stanza accanto, dove una schiera di operai non facevan dalla mattina alla sera che inchiodare e legare.
Il Mouret domandò al solito:
— Quante lettere, stamattina, Levasseur?
— Cinquecentotrentaquattro rispose il capo dell’ufficio. — Dopo l’apertura di lunedí, ho paura di non aver gente che basti. Ieri non so come facemmo a cavarcela!
Il Bourdoncle tentennò la testa tutto contento. Di martedí, cinquecentotrentaquattro lettere!
non se lo sarebbe mai figurato. Intanto alla tavola gli impiegati aprivano e leggevano con un fruscio continuo di carta sgualcita, mentre davanti al casellario cominciava l’andirivieni degli oggetti. Era quello uno degli uffici piú imbrogliati e piú importanti della casa: c’era la febbre, perché bisognava che le ordinazioni della mattina fossero via via spedite la sera stessa.
— Vi daremo quanta gente vorrete, Levasseur! — rispose finalmente il Mouret: con una occhiata aveva visto che le cose andavano regolarmente. — Quando c’è lavoro e c’è bisogno di uomini, non si dice mai di no.
A tetto, nelle stanzucce, dormivano le addette alla vendita. Ma egli ritornò giú, ed entrò nella cassa centrale, accanto al suo studio. Era una stanza chiusa da una invetriata con un usciolino, traverso cui si vedeva un’enorme cassaforte infissa nel muro. Due cassieri vi raccoglievano gli introiti che ogni sera portava il Lhomme, primo cassiere della vendita, e coi quali poi si provvedeva alle spese, si pagavano i fabbricanti, gli impiegati, quel piccolo mondo che campava sul gran magazzino. La cassa dava su un’altra stanza, tutta scatole verdi lungo le pareti, dove dieci impiegati riscontravano le fatture. Passò poi per un altro ufficio, quello del diffalco: sei giovani chinati su neri tavolini con dietro alle spalle intere collezioni di registri, vi segnavano i conti del tanto per cento dei commessi, raffrontando le fatture. L’ufficio era nuovo, e non andava ancora come avrebbe dovuto.
Il Mouret e il Bourdoncle avevano traversata la cassa e l’ufficio di riscontro. Quando passarono nell’altro ufficio, i giovani, che ridevano allegramente, ebbero un sussulto di sorpresa. Allora il Mouret, senza stare a sgridarli, spiegò il sistema del premio che aveva pensato di dar loro per ogni errore scoperto nelle fatture; e, subito che fu uscito, gl’impiegati, smettendo di ridere e pieni di buona voglia, si misero al lavoro, in cerca di sbagli.
A pianterreno nel magazzino, il Mouret andò difilato alla cassa numero 10, dove Alberto Lhomme, nell’aspettare avventori, si ripuliva le unghie. Da quando la signora Aurelia, ch’era la prima «nelle manifatture», dopo aver sospinto il marito al posto di primo cassiere, era riuscita a ottenere una delle casse minori pel figliuolo, giovinotto pallido e pieno di vizi, che non stava mai fermo in un luogo e che le dava molto da fare e da pensare, tutti dicevano: «la dinastia dei Lhomme». Ma il Mouret non volle far lui la strapazzata al giovinotto: gli seccava di compromettere la propria dignità in un mestiere da gendarme; un po’ per gusto, un po’ per furberia, gli piaceva di serbare un contegno da Nume benigno. E toccò leggermente del gomito il Bourdoncle, l’uomo senza macchia, l’uomo cifra, che di consueto egli adoperava per le partacce.
— Signor Alberto, — disse costui severamente — siamo alle solite, avete preso male un altro indirizzo; l’involto è tornato indietro... cosí non si va.
Il cassiere credé doversi difendere, e chiamò a testimone Giuseppe, il garzone che aveva fatto l’involto. Anch’egli era della dinastia dei Lhomme, perché fratello di latte d’Alberto, ed aveva ottenuto quel posto grazie all’autorità della signora Aurelia.
Siccome il giovane gli voleva far dire che dello sbaglio aveva colpa la cliente, Giuseppe cominciò a balbettare e a tirarsi quei pochi peli di barba che aveva, combattuto tra la coscienza di vecchio soldato e la gratitudine per i protettori.
— Non tirate in ballo Giuseppe! — disse alla fine il Bourdoncle — e smettete di rispondere... Buon per voi, che abbiamo dei riguardi a vostra madre.
- Ma in quel punto il Lhomme accorse. Dalla sua cassa, ch’era accanto all’uscio, vedeva quella del figliuolo nella sezione dei guanti. Già tutto bianco, imbolsito dalla vita sedentaria, aveva un aspetto cascante, senza espressione, quasi consunto pel riflesso del denaro che non finiva mai di contare.
Gli mancava un braccio; ma egli se la sbrigava come se li avesse tutt’e due; l’andavano, anzi, a vedere per curiosità quando riscontrava l’incasso: i fogli di banca, il danaro, scorrevano del pari rapidamente nella sua mano sinistra, la sola che gli restava. Figlio d’un esattore di Chablis, era venuto a Parigi a tenere i libri da un negoziante di vino; poi, in via Cuvier, aveva sposata la figlia del suo portinaio, un sartucolo alsaziano, e da quel giorno era rimasto sottomesso alla moglie che gl’incuteva rispetto, perché aveva tutti i requisiti della commerciante. Lei, alle manifatture, metteva da parte piú di diecimila franchi, e lui aveva soltanto quei cinquemila dello stipendio. E la sua deferenza per una donna che gli portava in casa ogni anno quel gruzzolo, s’irraggiava anche sul figliuolo, perché era figliuolo di lei.
— Come? — mormorò. — Alberto ha sbagliato? Allora, come faceva sempre, il Mouret rientrò in scena per farvi la parte del re clemente. Quando il Bourdoncle aveva minacciato, provvedeva lui alla propria popolarità.
— Una cosa da nulla! — rispose. — Caro Lhomme, bisognerebbe che questo sventato di Alberto pigliasse esempio dal babbo.
Poi, mutando discorso, e sempre piú affabilmente:
— E quel concerto, ieri l’altro?... Avevate un posto buono?
Un po’ di rosso colorò le gote pallide del vecchio cassiere. Non aveva che un vizio, la musica; un vizio segreto che appagava da sé solo, al teatro, ai concerti: la sera, per quanto gli mancasse un braccio, sonava il corno, con un certo apparecchio ingegnoso; siccome la signora Lhomme aveva in orrore il frastuono, egli ravvolgeva lo strumento in un panno, contento anche a quel modo dei suoni stranamente sordi che ne traeva. Chiusi lí tutto il giorno, lui, la moglie, il figliuo lo, si può dire ch’egli non avesse famiglia, o almeno nessuno dei conforti della famiglia, e se li cercava nella musica. La musica e il danaro: non conosceva, non sentiva altro; tranne, s’intende, il rispetto che aveva per la moglie.
— Oh! sí, un bonissimo posto... Troppo gentile! — rispose, e gli occhi gli luccicavano.
Il Mouret, che provava un gran piacere a soddisfare le passioni degli altri, regalava qualche volta al Lhomme i biglietti affibbiatigli dalle signore patronesse. E lo fece tutto suo quando gli disse:
— Ah! il Beethoven, ah! il Mozart... Che musica!
Senza aspettare la risposta, se n’andò, e raggiunse il Bourdoncle che stava già per fare il giro delle sezioni. In un cortile interno, chiuso a cristalli, c’era la seta. Tutt’e due seguirono da prima la galleria della Via Nuova di Sant’Agostino, che da un capo all’altro era piena di biancheria. Non videro nulla d’irregolare; passarono lentamente in mezzo ai commessi rispettosi. Poi s’inoltrarono tra le stoffe di Rouen e le cuffie e i berretti, dove l’ordine raggiungeva un grado da non si dire. Ma, nella sezione delle lane, lunla galleria che si prolungava perpendicolare a Via della Michodière, il Bourdoncle ripigliò la sua parte di gran giustiziere, quando vide un giovine seduto su un banco; rotto e sbalordito da una notte passata senza chiudere occhio. E quel giovane, che si chiamava Liénard, figlio di un ricco negoziante di Angers, chinò la testa alla sgridata, avendo una paura sola, nella sua vita d’ozio, di trascuraggine e di piaceri, d’essere richiamato in provincia dal padre.
Da allora le osservazioni fioccarono; sulla galleria di Via della Michodière si scaricò la tempesta: nella sezione delle stoffe, un commesso, di quelli ch’eran da poco nella Casa e vi dormivano, era tornato di fuori a mezzanotte sonata:
in quella delle mercerie, il secondo commesso era stato trovato nei sotterranei che fumava una sigaretta. Ma nella sezione dei guanti imperversò piú terribile la bufera, a rovesciarsi sul capo d’uno dei pochi parigini ch’erano nel Paradiso: il bel Mignot, come lo chiamavano, bastardo d’una maestra d’arpa, andato a finir là non si sa come. Il suo delitto era d’aver fatto scandalo nel refettorio, lagnandosi del vitto. Si facevano tre tavolate, una alle nove e mezzo, la seconda alle dieci e mezzo, la terza alle undici e mezzo, ed egli voleva spiegare che all’ultima, dov’era lui, toccavano sempre gli avanzi delle precedenti; roba intrugliata e rimpasticciata.
— Come! il vitto non è buono? — domandò il Mouret con un viso ingenuo, aprendo finalmente bocca.
Non passava al cuoco giornalmente che un franco e mezzo a testa: il cuoco, terribile alverniate, pur trovava il modo d’empirsi le tasche; e il vitto era davvero detestabile. Ma il Bourdoncle si strinse nelle spalle: un cuoco che doveva pensare a quattrocento colazioni e a quattrocento desinari, sebbene in tre volte, non poteva perdere il tempo coi manicaretti!
— Non importa!
- riprese il padrone affabilmente. — Voglio che tutti i nostri impiegati abbiano un vitto sano e abbondante; ne parlerò al cuoco.
E cosí il richiamo del Mignot fu gettato nel dimenticatoio. Allora, tornati là donde avevan prese le mosse, ritti accanto alla porta, in mezzo agli ombrelli e alle cravatte, il Mouret e il Bourdoncle ricevettero il rapporto dei quattro ispettori incaricati di sorvegliare il magazzino.
Il vecchio Jouve, capitano decorato a Costantina, bell’uomo ancora, col suo nasone sensuale e la sua calvizie maestosa, riferí loro d’un addetto alla vendita che, per un semplice rimprovero fattogli da lui, gli aveva dato del «rimbambito». E il venditore fu licenziato lí su due piedi.
Nel magazzino, intanto, nessun avventore. Solamente le massaie del quartiere traversavano le gallerie deserte. Sull’uscio, l’ispettore che segnava l’arrivo degl’impiegati aveva chiuso il registro e scriveva a parte i nomi di quelli in ritardo. Era l’ora che gli addetti si mettevano nelle sezioni spazzate e pulite dai garzoni fin dalle cinque. Ciascuno poneva da parte cappello e soprabito, soffocando uno sbadiglio, col viso ancora insonnolito. Chi nel chiacchierare si guardava attorno quasi per prepararsi alla nuova giornata di lavoro; chi adagio adagio scopriva le mercanzie che la sera innanzi aveva ben ripiegate e coperte d’un panno verde. E le stoffe apparivano disposte in simmetria; tutto il magazzino era lucido e bene in ordine, nell’allegrezza della mattina, finché il tumulto della vendita lo buttasse all’aria un’altra volta e lo ingombrasse d’un rovescio di tele, panni, sete, trine.
Sotto la luce viva della sala centrale, al banco delle sete, due commessi discorrevano fra loro; uno, piccolo e grazioso ma forte e roseo, cercava d’accozzare dei colori di seta per una mostra. Si chiamava Hutin; era figliuolo d’un caffettiere d’Yvetot, e in un anno e mezzo aveva saputo diventare uno dei piú bravi nel negozio per la sua dolcezza, la sua continua carezza adulatrice che nascondeva una bramosia furiosa di pigliar tutto per sé, di divorare anche senza fame, per puro divertimento.
— Sentite, Favier, io, nei panni vostri, vi do la parola d’onore che gli avrei appiccicato uno schiaffo! diceva a quell’altro; un giovinotto alto, bilioso, secco e giallo, ma vestito con un certo decoro.
Era nato a Besançon da una famiglia di tessitori, e sotto un aspetto freddo e sgarbato nascondeva una volontà ferrea.
- Uno schiaffo non rimedia nulla! — mormorò egli pacatamente. — È meglio aspettare.
Parlavano del Robineau che sorvegliava gl’impiegati ogni volta che il capo della sezione scendeva nei sotterranei.
L’Hutin scalzava sordamente il sostituto, di cui voleva il posto; macchinava per sommovergli contro tutta la sezione, e mandarlo via a forza di seccature e dispetti. E come la sapeva fare, con quel suo aspetto cortese! Sopra tutti, metteva su il Favier che era addetto alla vendita e sembrava disposto a secondarlo, ma con certe dure riserve, che accennavano com’egli, sotto sotto, volesse tirare l’acqua al suo mulino.
— Zitto, diciassette! — disse egli vivamente al compagno per avvertirlo con quel grido convenzionale che il Mouret e il Bourdoncle si avvicinavano.
Questi venivan davvero, continuando la loro ispezione; si fermarono, e domandarono al Robineau perché una partita di velluti stesse, una scatola sull’altra, in mezzo a una tavola. E avendo costui affermato che non c’era piú posto dove metterle:
— Ve lo dicevo io, — interruppe il Mouret sorridendo — ve lo dicevo io, Bourdoncle, che il magazzino è già troppo piccolo! Un giorno o l’altro bisognerà buttar giú i muri fino in Via Choiseul... Vedrete che lavoro, il lunedí che viene!
E intorno a questa vendita, alla quale si preparavano in tutte le sezioni, interrogò di nuovo il Robineau e gli diede ordini. Ma, pur seguitando a parlare, da qualche minuto stava attento a ciò che faceva l’Hutin che seguitava a mettere le sete azzurre accanto alle grige e alle gialle, e dava poi un passo indietro per meglio giudicare dell’armonia dei toni. Bruscamente il Mouret si volse a lui:
— Ma perché cercate di far piacere all’occhio? Non abbiate paura; accecateli... Cosí, rosso! verde! giallo!
Aveva preso la seta, e la svoltolava, la sgualciva, traendone lampi di luce. Ne convenivano tutti: il padrone era in tutta Parigi l’uomo che sapeva accomodare meglio una vetrina; in un modo tutto suo, dando addosso a tutte le tradizioni e istituendo la scuola del grottesco e dell’enorme nella scienza delle mostre. Voleva che le stoffe sembrassero cadute a caso dai cartoni sventrati; le voleva a monti, fiammeggianti dei colori piú vivi, ravvivantisi l’una con l’altra. Soleva dire che «quand’escono dal magazzino, i clienti devono aver male alla retina». L’Hutin, che era invece della scuola classica, simmetria e armonia cercate nelle gradazioni, lo stava a guardare, mentre in mezzo a una tavola s’accendeva quell’incendio di stoffe; senza farsi lecita una parola di critica, ma con le labbra contratte da una smorfia d’artista offeso nei suoi convinci menti da quell’orgia di colori. — Ecco fatto! — disse il Mouret quand’ebbe finito. — E lasciatelo stare... Vedrete lunedí se le donne a questo modo si afferrano, sí o no.
Proprio in quel punto, mentre stava per raggiungere il Bourdoncle e il Robineau, arrivò una donna che rimase lí ferma e stupita dinanzi alla mostra.
Era Dionisia.
Dopo avere esitato quasi un’ora nella strada, per un terribile assalto di timidità, s’era finalmente risolta. Ma aveva perso la testa, né le riusciva di capire le spiegazioni piú chiare. I commessi ai quali tremando chiedeva della signora Aurelia avevano un bell’indicare la scala del mezzanino; ringraziava, e poi, se le avevan detto di svoltar a destra, svoltava a sinistra, in modo che da dieci minuti non faceva che andare qua e là per il pianterreno, di sezione in sezione, tra la curiosità maligna e l’indifferenza scortese degli addetti, sentendo insieme una voglia di scappar via piangendo, e un gran bisogno d’ammirare. Si sentiva spersa, piccina com’era, in quel caos, in quella macchina non ancora in moto, tremando d’essere travolta dal movimento che faceva già fremere le muraglie. E il ricordo della bottega del Vecchio Elbeuf, nera e stretta, le faceva parere anche piú grande l’enorme magazzino; e glielo vestiva di luce, come una città, coi suoi monumenti, le piazze, le vie, dove non le sembrava possibile raccapezzare la strada.
Non aveva ancora osato d’arrischiarsi in mezzo alla sala delle sete, che con l’alta volta a cristalli, i banchi di lusso, l’aspetto di chiesa, le incuteva paura. Quando v’era finalmente entrata per sfuggire alle risate dei commessi della biancheria, si era imbattuta di primo acchito nella mostra del Mouret; e per quanto fosse sbalordita, l’istinto femminile s’era risvegliato in lei:
con le gote rosse, stava lí a guardare il fiammeggiar delle sete.
— To’! — disse crudamente l’Hutin all’orecchio del Favier — la ragazzuccia di Piazza Gaillon.
Il Mouret, mentre fingeva di dar retta al Bourdoncle e a Robineau, in fondo se la godeva di quella meraviglia d’una ragazza povera, nel modo stesso che una marchesa prova brutal desiderio per un barrocciaio che passa. Ma Dionisia aveva alzato gli occhi, e si turbò anche piú, riconoscendo il signore ch’ella aveva preso per uno dei capi commessi. Le parve, anzi, che le desse un’occhiataccia. Allora, come fare ad andarsene? Perse addirittura la testa, e si rivolse di nuovo al primo commesso che le capitò, al Favier, che le era vicino.
— Scusi, per andare dalla signora Aurelia?
Ma il Favier, sgarbato, si contentò di rispondere seccamente:
— Al mezzanino.
E Dionisia, smaniosa di sottrarsi agli sguardi di tutti quegli uomini, ringraziò e volgeva anche questa volta le spalle alla scala, quando il bell’Hutin cedé naturalmente al suo istinto di galanteria. L’aveva trattata da ragazzuccia: ora, con quanta piú amabilità poté, la fermò, e:
— No! per di qua, signorina... Se vuole darsi l’incomodo...
Fece anzi qualche passo innanzi a lei, la condusse a piè della scala ch’era a sinistra sotto la galleria, e giunto lí, la salutò sorridendo come sorrideva a tutte le donne:
— Giunta in cima, giri a sinistra... In faccia ci sono le manifatture.
Questa cortesia commosse profondamente Dionisia. Era quello un soccorso quasi fraterno.
Aveva alzati gli occhi e guardava l’Hutin; e ogni cosa di lui la commoveva: il viso grazioso, gli occhi che col loro sorriso la confortavano, la voce che le pareva dolcissima. Le si gonfiò il cuore di gratitudine; e nelle poche parole che riuscí a dire gli diede la sua amicizia:
— Non s’incomodi... Lei è troppo buono... mille grazie, signore!
E l’Hutin era già accanto al Favier e gli diceva con la sua voce cruda:
— Hai visto, eh? Non ha che la carcassa!
In cima, Dionisia cadde proprio in mezzo alla sezione delle manifatture. Era una stanza grande, circondata da alti armadi di quercia scolpita e con le vetrate su Via della Michodière. Cinque o sei donne, vestite di seta, civettescamente pettinate a riccioli, e con le crinoline ben rigonfie dietro, si movevano chiacchierando. Una, grande e sottile, con la testa troppo lunga e con un certo modo di fare da cavallo scappato, s’era appoggiata a un armadio, come se già, dalla stanchezza, non ne potesse piú.
— La signora Aurelia? — ripeté Dionisia.
La ragazza la guardò senza rispondere, con un’aria di disprezzo per quel suo aspetto povero; poi volgendosi a una delle compagne, piccola, con certe carnacce bianche e un viso insieme d’innocente e di annoiata, domandò:
— Signorina Margherita, sapete dove sia la signora Aurelia?
L’interpellata metteva in ordine dei mantelli secondo la lunghezza, e non si degnò nemmeno di alzare la testa.
— No, signorina Clara, non lo so — rispose a fior di labbro.
Poi tutti zitti. Dionisia stava lí ferma, e nessuno si occupava di lei. Aspettò un momento, e poi osò muovere un’altra domanda:
— Credono che la signora Aurelia starà molto a tornare?
Allora quella che ne faceva le veci, una donna magra e brutta, di cui ancora non s’era accorta, una vedova con le mascelle sporgenti e i capelli duri, le gridò da un armadio dove riscontrava i cartellini:
— Se volete parlare proprio alla signora Aurelia, bisogna che aspettiate.
E volgendosi a un’altra, aggiunse:
— Non è nel sotterraneo?
— No, signora, non credo — rispose la ragazza. — Non ha detto nulla; non può essere lontana.
Dionisia, rassegnata, rimase ritta; c’erano delle seggiole per le clienti, ma nessuno le diceva di sedersi, ed ella non osò prenderne una, per quanto fosse tanto turbata da durar fatica a reggersi in piedi. Quelle ragazze, si vedeva bene, avevan subito fiutata in lei una che chiedeva lavoro, e la sbirciavano con la coda dell’occhio, senza benevolenza, con la sorda inimicizia di gente ch’è a tavola e non vuole stringersi per far posto agli affamati. L’imbarazzo le crebbe Traversò a piccoli passi la stanza e si affacciò alla finestra, tanto per avere il tempo di rimettersi e non farsi scorgere. Di fronte, il Vecchio Elbeuf, con la facciata ingiallita e le vetrine morte, le parve cosí brutto, cosí sciagurato, visto a quel modo tra il lusso e la vita dove si trovava, che una specie di rimorso le strinse di piú il cuore.
— Avete visto che stivaletti ha? — sussurrava la grande Prunaire alla piccola Vadon.
— E che vestito! — mormorava l’altra.
Con gli occhi fissi sulla strada, Dionisia sentiva che se la divoravano, ma non ne fu offesa. L’una e l’altra le erano sembrate brutte, tanto quella grande col suo chignon di capelli rossi che le cadevano sul collo da cavallo, quanto quella piccola, col suo colore di latte cagliato, che le faceva ancora piú cascante la faccia schiacciata e quasi senza ossi. Clara Prunaire, figlia di uno zoccolaio dei boschi di Givet, corrotta dai camerieri nel castello di Mareuil quando la contessa la teneva in casa per i rammendi, era venuta da un magazzino di Langres e si vendicava a Parigi, sugli uomini, delle pedate con le quali il babbo l’aveva coperta di lividi. Margherita Vadon, nata a Grenoble, dove la sua famiglia commerciava in tele, aveva dovuto rifugiarsi nel Paradiso delle signore per nascondere un peccato di gioventú, un bambino natole per caso; e si portava benissimo, perché doveva tornare laggiú a dirigere la bottega dei genitori e sposare un cugino che l’aspettava.
— Uhm! — ripigliò a voce bassa Clara — quella lí non conterà molto qui!
Ma si chetarono: entrava una donna di circa quarantacinque anni. Era la signora Aurelia, un pezzo di donna, stretta nel vestito di seta nera, la cui vita, tesa sopra la rotondità massiccia delle spalle e del seno, luccicava come un’armatura. Sotto le bande di capelli nerissimi, aveva due occhioni immobili, la bocca severa, le gote larghe e un po’ cascanti: e nella maestà di direttrice il viso appariva gonfio come la maschera di gesso d’un Cesare.
— Signorina Vadon, diss’ella con voce stizzita — perché ieri non avete mandato al laboratorio il modello del mantello a vita?
— C’era una correzione da fare, signora, — rispose la ragazza — e l’ha la signora Frédéric.
Allora la Frédéric trasse da un armadio il modello, e le scuse seguitarono. Tutti piegavano la testa davanti alla signora Aurelia, ogni volta che ella credesse di avere a difendere la sua autorità. Vanitosissima al punto di non voler essere chiamata col cognome di Lhomme che le dava noia, e di rinnegare lo sgabuzzino del portinaio, autore dei suoi giorni, di cui parlava come d’un sarto che tenesse bottega, non era buona che con le ragazze le quali sapevano cedere a tempo e prostrarsi ammirandola. Anni innanzi, nel negozio di mode che aveva voluto mettere su per suo proprio conto, s’era inasprita, sotto i colpi della fortuna, furibonda di sentirsi nata per essere ricca e di non riescire a nulla: ed anche ora, per quanto nel Paradiso delle signore guadagnasse dodicimila franchi l’anno, pareva che ce l’avesse con tutti, ed era dura coi principianti, come la vita era stata dura, da principio, contro di lei.
— Basta, basta! disse seccamente. — Anche voi, signora Frédéric, siete come tutte le altre... Bisogna accomodarlo subito quel modello.
Durante la scena, Dionisia aveva smesso di guardare nella strada. Pensava che quella doveva essere la signora Aurelia; ma intimorita dalla sgridata, non osava muoversi ed aspettava sempre. Le ragazze, tutte contente di aver messo alle prese la direttrice e la sottodirettrice, eran tornate al loro lavoro, con un’aria di profonda indifferenza. Passò qualche altro minuto, e nessuna aveva ancora la carità di trarre la giovinetta dal suo imbarazzo. Fu la signora Aurelia che finalmente si accorse di lei, e che, meravigliandosi di vederla immobile, le domandò che volesse.
— Scusi; la signora Aurelia?
— Sono io.
Dionisia aveva la bocca asciutta, le mani fredde, presa da una di quelle paure che la coglievano da bambina quando si aspettava, tremando, d’essere picchiata. Balbettò la sua domanda per farsi capire, dové ripeterla. La signora Aurelia la guardava con gli occhi fissi, senza che una ruga della sua faccia da imperatore degnasse muoversi.
— Quanti anni avete?
— Venti, signora.
— Come venti? Non ne dimostrate nemmeno sedici!
Le ragazze alzavan di nuovo la testa: Dionisia si affrettò ad aggiungere:
— Oh! ma son robusta, io!
La signora Aurelia fece una spallucciata. Poi disse freddamente:
— Dio mio! Quanto a mettervi in nota, metterò. Già vi si metton tutte quelle che vengono; per cui... signorina Prunaire, datemi il registro.
Non lo trovarono subito; doveva essere nelle mani dell’ispettore Jouve. Mentre la grande Clara stava per andare a cercarlo, capitò il Mouret sempre seguito dal Bourdoncle. Compievano allora il giro delle sezioni del magazzino; avevano attraversato le trine, gli scialli, le pellicce, la mobilia, la biancheria, e finivano con le manifatture. La signora Aurelia si tirò da parte, chiacchierò un po’ con loro d’un’ordinazione di paltoncini che pensava di fare ad uno dei piú grossi fabbricanti di Parigi; quasi sempre comprava direttamente e sotto la sua responsabilità, ma, per le compre importanti, le pareva meglio consigliarsi con la direzione. Dopo, il Bourdoncle le raccontò la nuova scapataggine del figliuolo, Alberto, ed ella parve andare in smanie; quel ragazzo, o prima o poi l’avrebbe fatta crepare; almeno il marito, se non era mai stato un’aquila, aveva però un gran fondo di onestà e di serietà. Tutta quella dinastia dei Lhomme, di cui ella era il capo riverito, qualche volta le dava tanto da penare!
Il Mouret, sorpreso di ritrovare Dionisia, si voltò per domandare alla signora Aurelia come mai quella ragazza era lí: e quando l’altra ebbe risposto ch’era una per l’ammissione, il Bourdoncle, col suo solito disprezzo per le donne, parve sdegnato da quella pretesa.
— Via, via, questo è uno scherzo: è troppo brutta!
— Sí, è vero, non ha nulla di bello — rispose il Mouret non osando difenderla, per quanto ricordasse ancora con piacere l’estasi della fanciulla dinanzi alla mostra.
Ma arrivò il registro, e la signora Aurelia ritornò a Dionisia. L’impressione, per dir vero, non poteva essere buona. Costei era, sí, pulita nella sua vestuccia di lana nera, ma questo non significava nulla, perché c’era l’uso di passar «l’uniforme», un vestito di seta nera eguale per tutte: il male era che Dionisia pareva troppo gracile e aveva il viso triste; senza pretendere che tutte le ragazze addette alla vendita fossero occhi di sole, le volevano simpatiche. Intanto, sotto gli sguardi di quelle donne e di quei signori che la studiavano e la pesavano come una giumenta contrattata al mercato dei contadini, Dionisia non sapeva piú in che mondo si fosse.
— Come vi chiamate? — chiese la direttrice, con la penna in mano, pronta a scrivere, sull’angolo di un banco.
— Dionisia Baudu, signora.
— Quanti anni avete?
— Venti e quattro mesi.
E osando levar gli occhi sul Mouret, su quel signore che trovava dappertutto, e la cui presenza la turbava, ripeté:
— Non pare, ma sono molto robusta, io.
Sorrisero tutti. Il Bourdoncle si guardava le unghie in atto d’impazienza. Quelle parole furono accolte da un silenzio che prometteva male.
— In che negozio siete stata, a Parigi? — domandò la direttrice.
— Ma... signora, arrivo ora da Valognes!
Peggio che mai. Il Paradiso delle signore voleva, di solito, che le addette alla vendita fossero state prima almeno un anno nei piccoli negozi della città. Dionisia aveva perduta la speranza: e se non fosse stato per i ragazzi bisognevoli di lei per campare, se ne sarebbe andata, pur di non seguitare in quell’inutile interrogatorio.
— Da chi eravate a Valognes?
— Dal Cornaille.
— Lo conosco; buona casa quella del Cornaille! — si lasciò sfuggire di bocca il Mouret.
Non diceva mai nulla quando si presentava gente per essere impiegata; perché i capi delle sezioni erano responsabili del personale. Ma per il senso delicato che aveva della donna, indovinava in quella ragazzina una grazia nascosta, una forza di bontà e tenerezza, ch’ella stessa ignorava. Il buon nome della casa donde gl’impiegati venivano era di gran peso, e spesso si giudicava dei postulanti con questo criterio solo. La signora Aurelia continuò piú dolcemente:
— E perché siete venuta via dal Cornaille?
— Ragioni di famiglia — rispose Dionisia, arrossendo. — Ci è morto il babbo e la mamma, e ho dovuto seguire i miei fratelli... E poi ecco un certificato.
Il certificato era stupendo. Ricominciò a sperare, quando un’ultima dimanda la imbrogliò davvero.
— Avete a Parigi qualche conoscenza?... Dove state?...
— Dallo zio... — mormorò, esitando a nominarlo, per paura che non ne volessero sapere della nipote d’uno che faceva concorrenza al magazzino — dallo zio Baudu qui dirimpetto.
Il Mouret non poté piú trattenersi, e intervenne di nuovo.
— Come!... siete la nipote del Baudu?... E vi manda il Baudu?
— Oh, no, signore!
Le parve un’idea cosí curiosa, che non poté fare a meno di ridere. Sembrò si trasfigurasse. Era color di rosa, e il sorriso sulla bocca un po’ larga le irraggiava tutta la faccia. Gli occhi grigi s’illuminarono, le gote s’infossarono graziosamente, i capelli troppo chiari parve s’animassero anch’essi nell’allegrezza buona e coraggiosa di tutto l’essere suo.
— Ma sapete che è carina? — disse piano il Mouret al Bourdoncle.
Il socio non ne volle convenire, e fece un gesto da annoiato. Clara s’era morsa le labbra; Margherita volgeva le spalle. Soltanto la signora Aurelia parve vinta, e approvò il Mouret con un cenno della testa, quand’egli riprese a dire:
— Ha fatto male vostro zio a non condurvi egli stesso: bastava la sua raccomandazione... Dicono che con noi ce l’ha. Ma noi siamo d’idee piú larghe, e, se lui non può impiegare la nipote nel suo negozio, gli mostreremo che la sua nipote basta che bussi da noi per essere accolta... Ditegli che io gli voglio bene sempre; che non ce la deve avere con me, ma con le nuove condizioni in cui si trova il commercio. E ditegli che finirà col rovinarsi se si ostina a stare tra quel mucchio di anticaglie ammuffite.
Dionisia ridiventò pallida. Quello lí dunque era il Mouret in persona. Nessuno l’aveva nominato, ma s’era fatto conoscere da sé; ed ella ora capiva perché quel giovane le avesse fatta tanta impressione prima per istrada, poi nella sezione delle sete, ed ecco anche lí. Questa commozione, che non si poteva spiegare, gravava tuttavia sempre piú, fin troppo, sul cuore di lei; le tornava in mente tutto ciò che le aveva raccontato lo zio, e ingigantiva nell’animo suo il Mouret, circondandolo di una leggenda, e fa cendolo direttore della terribile macchina che fin dalla mattina le pareva dovesse trascinarla fra le sue ruote. Dietro quella testa graziosa, con la barba ravviata, ella vedeva la moglie morta, la signora Hédouin, che aveva col suo sangue cementate le pietre del magazzino. Allora fu ripresa dal freddo della sera innanzi, e credé di non sentire altro che paura di lui.
La signora Aurelia intanto aveva chiuso il registro. Non aveva bisogno che di una ragazza sola, e già c’erano dieci domande. Ma aveva troppa voglia di far piacere al padrone. Nondimeno la domanda doveva fare il suo corso regolare; l’ispettore Jouve avrebbe preso informazioni, e avrebbe poi fatto il rapporto; a lei spettava poi decidere.
— Sta bene, signorina, — diss’ella maestosamente per conservarsi intera l’autorità. — Vi scriveremo.
Per un altro momento Dionisia restò immobile, non sapendo come fare ad andarsene di mezzo a tutta quella gente. Finalmente ringraziò la signora Aurelia, e, quando dové passare davanti al Mouret e al Bourdoncle, li salutò. Quei due, del resto, non badavano piú a lei: non risposero nemmeno al saluto, tutti intenti nell’esaminare con la signora Frédéric il modello d’un mantello a vita. A Clara sfuggi un gesto di stizza, e diè un’occhiata a Margherita quasi per predire che l’intrusa non si sarebbe, li dentro, sdraiata sopra un letto di rose. E Dionisia indovinò certamente quella indifferenza e quel rancore, perché scese la scala con lo stesso turbamento di quando l’aveva salita, e con una strana angoscia, dimandandosi se doveva disperarsi o rallegrarsi d’esserci venuta.
L’avrebbe avuto il posto? Non arrivava nemmeno a capirlo, perché, impicciata a quel modo, non le era riuscito stare attenta. Di tutte le sue sensazioni, due persistevano, e a poco a poco cancellavano le altre: il turbamento, tanto forte da esser quasi paura, provato da lei nel vedere il Mouret; la cortesia dell’Hutin che era stata la sola gioia di tutta la mattinata, un ricordo di cara dolcezza che la riempiva di gratitudine. Quando traversò il magazzino per andarsene, guardò se c’era quel giovinotto, contenta nel proposito di ringraziarlo di nuovo con un’occhiata, e le dispiacque non vederlo.
— E cosí, signorina, sono andate bene le cose? — le domandò una voce commossa, quando ella si trovò finalmente sul marciapiede.
Si voltò, e riconobbe il giovinotto pallido e dinoccolato che la mattina le aveva rivolta la parola. Anche lui usciva dal Paradiso delle signore e pareva piú sbalordito di lei, ancora sossopra per le domande che gli erano state fatte.
— Dio mio! non ne so nulla, signore! — rispose.
— Come me, allora. Là dentro hanno una certa maniera di guardare e discorrono in un certo modo! Io ho domandato d’entrare nella sezione delle trine. Esco dal Crèvecoeur, in Via del Mail.
Eran di nuovo l’uno in faccia all’altra; e, non sapendo come fare a separarsi, diventarono rossi tutt’e due. Poi il giovane, tanto per dire qualche altra cosa nell’eccesso della sua timidità, osò domandare con quella sua aria maldestra e bonacciona:
- E lei, signorina, come si chiama?
— Dionisia Baudu.
— Ed io mi chiamo Enrico Deloche.
Sorrisero. Cederono alla somiglianza dei casi loro e si diedero la mano.
— Buona fortuna!
— Sí, buona fortuna!