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uno, piccolo e grazioso ma forte e roseo, cercava d’accozzare dei colori di seta per una mostra. Si chiamava Hutin; era figliuolo d’un caffettiere d’Yvetot, e in un anno e mezzo aveva saputo diventare uno dei piú bravi nel negozio per la sua dolcezza, la sua continua carezza adulatrice che nascondeva una bramosia furiosa di pigliar tutto per sé, di divorare anche senza fame, per puro divertimento.

— Sentite, Favier, io, nei panni vostri, vi do la parola d’onore che gli avrei appiccicato uno schiaffo! diceva a quell’altro; un giovinotto alto, bilioso, secco e giallo, ma vestito con un certo decoro.

Era nato a Besançon da una famiglia di tessitori, e sotto un aspetto freddo e sgarbato nascondeva una volontà ferrea.

- Uno schiaffo non rimedia nulla! — mormorò egli pacatamente. — È meglio aspettare.

Parlavano del Robineau che sorvegliava gl’impiegati ogni volta che il capo della sezione scendeva nei sotterranei.

L’Hutin scalzava sordamente il sostituto, di cui voleva il posto; macchinava per sommovergli contro tutta la sezione, e mandarlo via a forza di seccature e dispetti. E come la sapeva fare, con quel suo aspetto cortese! Sopra tutti, metteva su il Favier che era addetto alla vendita e sembrava disposto a secondarlo, ma con certe dure riserve, che accennavano com’egli, sotto sotto, volesse tirare l’acqua al suo mulino.

— Zitto, diciassette! — disse egli vivamente al compagno per avvertirlo con quel grido convenzionale che il Mouret e il Bourdoncle si avvicinavano.

Questi venivan davvero, continuando la loro


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