Il paradiso delle signore/3
Questo testo è completo. |
Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
◄ | 2 | 4 | ► |
III
Proprio quel sabato, mentre un servitore stava per farlo entrare nella sala grande, il Mouret vide nell’anticamera, per una porta socchiusa, la signora Desforges che traversava il salotto. S’era fermata scorgendolo; ed egli entrò e la salutò con aria cerimoniosa. Ma non appena il servitore ebbe chiuso l’uscio, prese vivamente la mano della signora e la baciò con amore.
— Bada! c’è gente! — diss’ella adagio, e additò la porta della sala. — Son venuta a cercare questo ventaglio per farlo vedere.
E con la punta del ventaglio gli diè allegramente un colpettino sul viso. Era bruna, forte della persona, con due grandi occhi gelosi. Ma il Mouret, tenendole sempre la mano, domandò:
— Verrà?
— Verrà. Me l’ha promesso.
Parlavano del barone Hartmann, direttore del Credito Fondiario.
La signora Desforges, figlia d’un consigliere di Stato, era vedova d’un giocatore di Borsa che le aveva lasciato un patrimonio, negato da alcuni, esagerato dagli altri. Anche quand’era vivo il marito, dicevano i maligni, s’era mostrata riconoscente al barone Hartmann che con i suoi consigli, da uomo pratico nelle cose della finanza, giovava assai alla sua casa; e dopo la morte del marito quell’amicizia era certo durata ancosenza uno scandalo. La signora Desforges non si ra, ma sempre discretamente, senza imprudenze, metteva mai in mostra, ed era ricevuta dappertutto nell’alta borghesia ov’era nata. Ed ora che l’amore del banchiere, uomo scettico e fine, non era quasi piú che un semplice affetto paterno, se ella si concedeva degli amanti, tollerati da lui, portava sempre in quelle passioncelle, in quei capricci, una prudenza e un’accortezza cosí delicate, che tutte le apparenze eran salve, e nessuno si sarebbe fatto lecito di mettere, a voce alta, in dubbio la sua onestà. Da principio, trovato ch’ebbe il Mouret in casa di amici comuni, le era sembrato antipaticissimo: poi gli s’era data, come trascinata dal brusco amore con cui l’assaliva; ed ora ch’egli almanaccava d’aver dalla sua, per mezzo di lei, il barone, a poco a poco si sentiva presa da un affetto vero e profondo, e gli voleva bene con l’impeto d’una donna di trentacinque anni, che ne confessa soltanto ventinove, disperata di sentirlo piú giovane di lei, e trepidante di perderlo.
— Lo sa come stan le cose? — riprese egli.
— No: gliele spiegherete da voi — rispose lei, smettendo di dargli del tu.
Lo guardava, e pensava che non doveva saper nulla se si serviva cosí di lei presso il barone, e affettava di reputarlo un vecchio amico soltanto. Ma lui seguitava a stringerle la mano, chiamandola «la sua buona Enrichetta», ed ella si sentiva intenerire il cuore. In silenzio, gli tese le labbra e le premé sulle sue; poi, a voce bassa:
— Zitto! m’aspettano... Entra dopo di me.
Dalla sala venivano voci leggiere, ammorzate dalle tende. Ella spinse la porta, che lasciò ta a due battenti, e porse il ventaglio a una delle quattro signore che stavan sedute in mezzo alla sala.
— Eccolo! — disse. — Non sapevo piú dove l’avevo messo; e la cameriera non avrebbe saputo ritrovarmelo.
E, volgendosi, soggiunse con la sua solita aria allegra:
— Entrate, entrate, signor Mouret. Passate dal salottino: sarà un ingresso meno trionfale.
Il Mouret salutò le signore, che conosceva di già. La sala, con i mobili alla Luigi XVI, di broccatello a mazzolini, con i bronzi dorati, le grandi piante verdi, aveva una dolce intimità, nonostante l’altezza del soffitto; e per le tre finestre si vedevano gl’ippocastani delle Tuileries, dei quali il vento d’ottobre spazzava via le foglie.
— Ma è bellino questo chantilly! — esclamò la signora Bourdelais, che aveva in mano il ventaglio.
Era una biondina di trent’anni, dal naso fine, dagli occhi vivi; amica dell’Enrichetta fin da quando stavano insieme in conservatorio, aveva sposato un caposezione del ministero delle finanze. Di vecchia famiglia borghese, tirava innanzi la casa e i suoi tre bambini, con un’operosità, una grazia, un senso squisito della vita pratica, da non si dire.
— E la trina l’hai pagata venticinque franchi? — riprese nell’esaminarla a maglia a maglia.
— No, non è caro... Ma anche per la montatura avrai speso qualcosa!
— Eh! sicuro — rispose la signora Desforges. — La montatura mi costa duecento franchi.
Allora la signora Bourdelais si mise a ridere. Questa Enrichetta la chiamava una «occasione ». Bella occasione, duecento franchi una semplice montatura d’avorio con una cifra! e per un pezzettino di chantilly che le aveva fatto risparmiare cinque franchi! Per centoventi si avevano gli stessi ventagli bell’e montati! E disse il nome di un magazzino, in Via Poissonnière.
Il ventaglio faceva intanto il giro, di mano in mano. La signora Guibal gli dette appena un’occhiata. Era una donna alta e sottile; di capelli rossi, con un viso che non diceva niente; ma sotto quell’aspetto muto, gli occhi grigi facevano di tanto in tanto scorgere la terribile cupidigia dell’egoismo. Non si faceva veder mai insieme col marito, ch’era un avvocato conosciuto per i tribunali, e che, dicevano, viveva liberamente dal canto suo, dandosi intero ai suoi affari e ai suoi piaceri.
— Oh! — mormorò passando il ventaglio alla signora De Boves — io in vita mia non credo d’averne comprati due... Di ventagli me ne regalano anche troppi!
La contessa rispose con sottile malignità:
— Come dovete essere contenta, cara, d’avere un marito cosí galante!
E chinandosi verso la figliuola, una grandigliona di vent’anni:
— Guarda, guarda la cifra, Bianca! Che bel lavorino! Dev’essere la cifra che ha fatto costare tanto la montatura!
Era una bella donna, di quarant’anni sonati, la signora De Boves: con un portamento da dea, faccia larga regolare, occhioni dormienti. Il marito, ispettore generale degli stalloni, l’aveva sposata per la bellezza. Sembrava ora tutta commossa dalla delicatezza di quei ghirigori della cifra, quasi presa da un desiderio che le velava la luce dello sguardo. E a un tratto:
— Che ve ne pare, signor Mouret? — chiese è troppo cara, duecento franchi, questa montatura?
Il Mouret era rimasto in piedi, tra le cinque signore, sorridendo e prendendo viva parte a ciò ch’esse dicevano. Si fece dare il ventaglio, l’esaminò, e stava per dir la sua quando il servitore aprí la porta annunziando:
— La signora Marty.
Entrò una signora magra, brutta, butterata dal vaiolo, vestita con un’eleganza complicata. Non si poteva dire che età avesse; i suoi trentacinque anni parevano quaranta o trenta, secondo la febbre nervosa che l’animava: le pendeva dalla destra una borsa di pelle rossa, che non aveva voluto lasciare nell’anticamera.
— Scusate, — diss’ella ad Enrichetta — se con questa borsa... Figuratevi che, mentre venivo da voi, sono entrata al Paradiso, ho fatta una delle mie solite pazzie, e la borsa non ho voluto lasciarla giú nel legno per paura me la rubassero.
Ma s’accorse che c’era il Mouret, e ridendo riprese:
— Ah! non l’ho detto mica per trovarvi avventori... non m’ero accorta ch’eravate qui... Al Paradiso ci avete ora delle trine che sono una delizia!
Non si occuparono piú del ventaglio; Mouret lo posò su un tavolino. Le signore non ne potevano piú dalla curiosità di vedere che mai si fosse comprato la Marty; sapevano tutte come avesse le mani bucate, e non potesse resistere a una tentazione: onestissima, incapace di cedere a un amante, cadeva subito senza resistenza dinanzi a uno straccio qualsiasi.
Era figliuola d’un impiegatuccio, e rovinava il marito, professore nel liceo Bonaparte, che doveva raddoppiare i seimila franchi dello stipendio con tante lezioni particolari, per far fronte alle spese sempre crescenti di casa sua. Ma lei non apriva la borsetta; la teneva sui ginocchi, e parlava con la sua figliuola Valentina, ch’era sui quattordici anni; una delle sue civetterie piú costose, perché la vestiva sempre come se stessa, con tutte le novità della moda cui non sapeva resistere.
— Avete visto? quest’inverno usano, per le signorine, certi vestiti con una trina... Ed io, naturalmente, a vedere una valencienne graziosissima...
E alla fine stava per aprire la borsa: e le signore allungavano il collo, quando, in quel silenzio, si sentí sonare il campanello di casa.
— Sarà mio marito! — esclamò la Marty tutta sossopra. — Deve venire a prendermi, quando esce dal liceo.
Richiuse subito la borsa, e con un moto istintivo la nascose sotto la poltrona. Tutte le signore diedero in una risata; ella allora arrossí di quella fretta, riprese sui ginocchi la borsa, e si mise a dimostrare come qualmente gli uomini non capissero nulla, e come, per conseguenza, non ci fosse bisogno d’andare spifferando a loro ogni cosa.
— Il signor De Boves, il signor De Vallagnosc — annunziò il servitore.
Si meravigliarono tutti.
La stessa signora De Boves non aspettava suo marito, il quale baciò la mano della signora Desforges che aveva conosciuta da ragazza. Era un bell’uomo; portava baffi e pizzo, e aveva quell’aspetto da militare e da gentiluomo che piaceva alle Tuileries. Si tirò subito da parte, perché il suo compagno, giovinotto d’un pallore aristocratico, potesse anch’egli salutare la padrona di casa. Ma subito che la conversazione ricominciò, si alzarono due gridi leggieri:
— To’, Paolo!
— Guarda! Ottavio!
Il Mouret e il Vallagnosc si strinsero la mano.
— Vi conoscete dunque? — chiese tutta sorpresa la signora Desforges.
Si conoscevano di sicuro! Erano cresciuti insieme nel collegio di Plassans; e proprio per un caso non s’erano imbattuti prima lí da lei.
E cosí, sempre per la mano, passarono scherzando nel salottino, mentre il servitore portava il tè, in un servizio cinese su un vassoio d’argento, e lo posava accanto alla signora Desforges sopra un tavolino di marmo con un sottile orlo di rame.
Le signore si strinsero insieme, discorrendo a voce piú alta, tutte attente alle parole che s’incrociavano; e il De Boves, dritto dietro di loro, si chinava ogni poco per dir la sua, con galanteria d’impiegato superiore, bell’uomo. La sala, già di per sé allegra, si rallegrava ancora piú in quel chiacchierío, interrotto da risate.
— Ah! Paolo, Paolo! — ripeteva il Mouret.
S’era messo a sedere accanto al Vallagnose sopra un canapè. E soli, in fondo al salotto, che era graziosamente tappezzato di seta a bottoncini d’oro, lontani dalle orecchie delle signore, che essi non scorgevano se non per la porta spalancata, si misero a sogghignare, guardandosi l’un l’altro, e dandosi colpettini sulle ginocchia.
Tutta la loro giovinezza si risvegliava: il vecchio collegio di Plassans, con le sue due classi, le camerate umide e il refettorio dove di mese in mese si mangiava tanto merluzzo, e il camerone dove i guanciali volavano da un letto all’altro, appena il prefetto russava. Paolo, ch’era d’una famiglia la quale aveva dati piú membri al parlamento, d’una nobiltà di mezza tacca, impoverita e stizzosa, era bravissimo nel comporre, sempre il primo, citato continuamente ad esempio degli altri dal professore, che gli prediceva il piú splendido avvenire; mentre Ottavio, sempre degli ultimi, se ne stava tra le bestie, grasso e contento, dandosi fuori del collegio alla violenza dei piaceri. Per quanto cosí dissimili d’indole, eran divenuti inseparabili; fino all’esame di licenza, che avevano preso, l’uno con lode, l’altro a scapaccione, dopo esservisi provato due volte. Poi erano stati travolti dalla vita, e si ritrovavano, dopo dieci anni, vecchi e mutati.
— Di’ un po’, — chiese il Mouret. — E ora che fai di bello?
— Nulla!
Il Vallagnosc, contento d’aver trovato l’amico, pur manteneva la sua aria stanca e delusa: e siccome il Mouret, un po’ meravigliato, insisteva dicendo:
— Ma, insomma, qualche cosa devi pur fare... Che fai?
— Nulla! — rispose da capo.
Ottavio si mise a ridere. Nulla, era troppo poco. A pezzi e bocconi riuscí a sapere la storia di Paolo, storia comune a tutti i giovani senza patrimonio che credono d’essere obbligati dall’origine loro a scegliersi una professione liberale, e poi si accasciano in una vanitosa mediocrità, abbastanza contenti se non crepano di fame, pure avendo i cassetti zeppi di diplomi. Aveva studiato legge per tradizione di famiglia; dopo era rimasto a carico della madre, vedova e già impensierita per due figliuole da accasare. Finalmente s’era vergognato, e, lasciando le tre donne tirare innanzi alla meglio con le briciole del patrimonio, s’era adattato a un posticino nel ministero dell’interno, e vi si teneva rannicchiato come una talpa nella sua buca.
— E quanto guadagni? — chiese il Mouret.
— Tremila franchi.
— Dio santo! Ah! povero figliuolo, mi dispiace per te... Ma come? un ragazzo, che ci metteva tutti nel sacco! E non ti danno che tremila franchi dopo averti incretinito per cinque anni? No, no; non è giusto.
S’interruppe: e, pensando a sé:
— Io poi, feci loro una bella riverenza... Lo sai, eh!, che cosa fo io...
— Sí, — disse il Vallagnosc. — M’han detto che fai il commerciante. Hai quel grande magazzino in Piazza Gaillon, non è vero?
— Sicuro... Fo il merciaio, figliuolo mio, il merciaio!
Il Mouret aveva alzata la testa, e diede di nuovo un colpo sul ginocchio dell’amico, ripetendo col riso d’uno che non si vergogna punto del mestiere che lo fa d’oro:
— Merciaio, proprio merciaio!... Te ne rammenti? io non ci capivo nulla in quei loro amminnicoli, per quanto in fondo in fondo non abbia mai creduto d’essere piú bestia degli altri. Quand’ebbi presa la licenza, tanto per contentare la famiglia, sarei potuto anch’io diventare benissimo o avvocato o medico come i miei compagni; ma quei mestieri mi fecero paura; sono in troppi a morire di fame... E allora, gettai alle ortiche la mia pelle d’asino, senza rimpianto veh!, e mi buttai a capofitto negli affari.
Il Vallagnosc sorrideva un po’ impicciato; alla fine mormorò:
— Eh! sicuro... la licenza liceale non ti deve esser molto utile per vendere tele...
— Basta — rispose allegramente Mouret — basta che non mi dia noia... E tu lo sai, quando s’è fatta la sciocchezza di ficcarsi quei bastoni tra le gambe, non è poi facile correre. Si cammina come tartarughe, mentre gli altri, quelli che sono sciolti, volano come il vento.
Poi, accorgendosi che l’amico pareva turbato, gli prese la mano, e seguitò:
— Via! via! non lo dico per angustiarti; ma devi confessare che i tuoi diplomi non t’hanno dato nulla di quanto desideravi tu... Sai che uno dei miei impiegati, il capo delle sete, quest’anno guadagnerà piú di dodicimila franchi? S’intende che è un giovanotto che ha la testa a segno; ma insomma..., non va piú in là dell’ortografia e delle prime quattro operazioni... Gli impiegati ordinari, da me, si beccano tremila o quattromila franchi piú di quanto guadagni tu stesso; e la loro istruzione non è costata mica come la tua, e non sono stati scaraventati nel mondo, costoro, con la promessa che l’avrebbero conquistato... Lo so; il danaro solo non basta: Sta bene. Ma tra i poveri diavoli impolverati di scienza che ingombrano le professioni libere, senza poter mangiare quanto n’han voglia, e i giovani pratici, pronti in arme per le battaglie della vita, che conoscono davvero il loro mestiere, io, in fede mia, non esito punto, e mi schiero con questi contro quelli; mi pare, che vuoi che ti dica?, che capiscano piú i tempi in cui son nati.
Diventava eloquente, s’era riscaldato, alzava la voce; Enrichetta, che serviva il tè, si voltò. Quando la vide sorridere in fondo alla sala, e s’accorse che due altre signore tendevano l’orecchio, fu il primo a ridere delle sue frasi:
— Insomma, amico mio, ogni merciaio che si mette al banco oggi, novantanove su cento, diventa milionario.
Il Vallagnosc si adagiava mollemente sul canapè. Aveva socchiusi gli occhi, in un atteggiamento tra l’affaticato e lo sprezzante, nel quale c’era un po’ di ostentazione, e un po’ dell’esaurimento vero della sua schiatta.
— Ah! mormorò — la vita non merita tanta fatica. Non c’è piú niente che diverta.
E vedendo il Mouret che lo guardava con una aria di profonda meraviglia, pronto a contraddirlo, soggiunse:
— Vivere in un modo o nell’altro, in fondo è lo stesso. Tanto vale starsene con le mani alla cintola.
E si diè a spiegare il suo pessimismo.
Una volta s’era messo in capo di fare il letterato, e dell’amicizia dei poeti non gli era rimasto in mente che una disperazione universale. Finiva sempre col concludere che ogni sforzo è inutile, che tutte le ore sono egualmente vuote e noiose, che il mondo va innanzi stupidamente senza uno scopo. I piaceri facevano cilecca! nemmeno a far del male c’era piú gusto.
— Ma tu, sii sincero, ti diverti, tu? — domandò alla fine.
Il Mouret era un po’ alla volta giunto a uno stupore sdegnato, e:
— Se mi diverto? — proruppe. — Ah! vuoi saper questo! povero figliuolo! Ma sicuro che mi diverto io; e mi diverto perfino quando le cose van male, perché allora m’arrabbio di vederle andar male. Io la vita non la piglio a quattro quattrini la calata, io ci prendo parte sempre e con passione! e per questo, forse, mi diverto.
Diè un’occhiata verso la sala, e aggiunse a bassa voce:
— Oh! delle donne che m’han dato noia, e di molto, ce ne sono, lo confesso. Ma quando n’ho presa una, ti giuro che non la lascio andare! E poi le donne contano sino a un certo punto: alla fin fine io me ne rido, delle donne. Quel che conta, vedi, è il volere e il fare; è il creare insomma... Tu hai un’idea; combatti per quella, la ficchi a furia di martellate nel capo alla gente, e la vedi sempre piú spandersi e trionfare. Ma sicuro, caro mio, che mi diverto!
Nelle sue parole vibrava tutta la gioia del lavoro, tutta l’allegria dell’esistenza. Ripeteva che era e si sentiva dei tempi suoi, e che bisognava essere davvero fatto male o avere il cervello e le membra malate per non lavorare quando il se99 colo era un secolo di foga operosa e di progresso. E canzonava i disperati, gli annoiati, i pessimisti, sciupati dalla scienza ancor balbettante, i quali prendono o l’aria piagnucolosa dei poeti o l’acre sorriso degli scettici, mentre intorno ferve l’immenso opificio. Bella parte starsene li sbadigliare innanzi all’operosità sapiente e feconda degli altri!
— Eppure il mio divertimento è proprio cotesto! — disse il Vallagnosc col suo freddo sorriso.
Il fuoco di Mouret si spense di botto. Ritornò affettuoso.
— Sempre lo stesso il mio Paolo! sempre con i suoi paradossi!... Ma già noi non ci siamo mica ritrovati qui per questionare. Ciascuno ha le sue idee, ed è bene che sia cosí. Poi ti farò vedere la mia macchina in moto e t’accorgerai che non è una cosa tanto stupida... Via, dammi un po’ qualche notizia. Tua madre sta bene? Le sorelle? Non ti dovevi ammogliare, sei mesi fa, a Plassans?
Un moto brusco del Vallagnosc lo interruppe; e vedendo che quegli aveva gittata nella sala una occhiata inquieta, si volse anche lui e si accorse che la signorina De Boves non levava loro gli occhi di dosso. Bianca, alta e forte, somigliava alla mamma, ma già diveniva troppo grassa, di un grasso bolso. Paolo rispose che non c’era nulla di fissato, ancora, e forse non n’avrebbero mai fatto nulla. Aveva conosciuta la signorina dalla Desforges, dove l’inverno passato era capitato spesso, ma ora ci veniva di rado, ed ecco perché non ce lo aveva trovato mai. Anche i De Boves lo ricevevano; e a lui piaceva sopra tutti il padre: uomo amabilissimo, bontempone, contento d’essere a riposo nella pubblica amministrazione.
Danari pochi o punti; la signora De Boves non aveva portato al marito che la sua bellezza da Giunone; e la famiglia tirava innanzi alla meglio con la rendita d’una fattoria, l’unica che fosse restata loro e piena d’ipoteche. Per fortuna c’era il rincalzo dei novemila franchi che il conte aveva come ispettore generale degli stalloni. E le signore, madre e figlia, tenute a secco da costui, che fuori aveva sempre, purtroppo, delle passioncelle, qualche volta erano ridotte a rifarsi da sé i vestiti.
— Ma allora perché la pigli?
— Dio buono! o prima o poi, tanto bisogna venirci! — disse il Vallagnosc, battendo con un moto stanco le palpebre. — E poi, delle speranze ce ne sono; aspettiamo che una zia si risolva ad andarsene.
Il Mouret, che non levava gli occhi dal De Boves seduto accanto alla signora Guibal tutto premuroso, col sorriso d’un uomo che comincia a fare la corte, si volse in quel mentre all’amico e strizzò l’occhio con un moto tanto espressivo, che questi aggiunse:
— No, non è lei... almeno per ora... La disgrazia è che i doveri dell’impiego lo fan correre in lungo e in largo tutta la Francia, e che cosí ha dei pretesti continui per andarsene. Il mese scorso, mentre la moglie credeva che fosse a Perpignano, lui se ne stava in un albergo con una maestra di pianoforte, in fondo a un quartiere fuor di mano.
Si chetarono. Poi il Vallagnosc, che a sua volta sorvegliava le galanterie del conte per la signora Guibal, riprese sommessamente:
— Hai ragione, perbacco!... Tanto piú che quella cara signora non è poi, a ciò che dicono, un fior di virtú. Mi han raccontato una certa storiella d’un ufficiale... Ma guardalo com’è grazioso, ora che si prova a magnetizzarla facendo l’occhio di triglia! La vecchia Francia, caro mio!... Io, a quell’uomo lí, gli voglio tanto be ne, che, se sposo la sua figliuola, potrà proprio dire che l’ho fatto per lui!
Il Mouret se la godeva, e rideva. Mosse del l’altre domande al Vallagnosc: e quando seppe che la prima idea di dargli la Bianca era venuta dalla signora Desforges, il fatto gli parve anche piú curioso. L’Enrichetta, buona com’era, da vedova provava un gran gusto matto a combinar matrimoni: e spesso, quando aveva pensato alle figliuole, le accadeva di permettere che i babbi si scegliessero delle amiche nella sua conversazione: ma tutto ciò naturalmente, con tanta buona grazia, che il mondo non ne traeva mai argomento di scandalo. E il Mouret, che le voleva bene da uomo il quale ha molto da fare ed ha furia, dimenticava allora ogni arte di seduzione, e sentiva per lei un’amicizia da buon compagno.
Proprio in quel punto, ella comparve sull’uscio del salottino, seguita da un vecchio di circa sessant’anni, che i due amici non avevano veduto entrare. Le signore alzavan di tanto in tanto le vocette acute alle quali faceva l’accompagnamento il tintinnío dei cucchiaini nelle tazze cinesi: e si sentiva ogni poco, tra un breve silenzio, il rumore di un piattino posato troppo forte sul marmo del tavolino.
A un tratto, un raggio di sole che, tramontando, era apparso in cima a un nuvolone, indorò le vette degl’ippocastani del giardino, ed entrò per le tre finestre con un polviscolo d’oro, che avvivava il broccatello e gli ornamenti dorati dei mobili.
— Di qui, caro barone! —
diceva la signora Desforges. — Vi presento il signor Ottavio Mouret, che ha vivissimo desiderio di attestarvi la sua grande ammirazione.
E, volgendosi ad Ottavio, aggiunse:
— Il barone Hartmann.
Un sorriso increspò argutamente le labbra del vecchio. Era un ometto rubizzo con una grossa testa alsaziana, e un viso paffuto che si accendeva per la fiamma dell’intelligenza al minimo increspar della bocca o batter degli occhi. Da quindici giorni si schermiva dall’Enrichetta che gli chiedeva quell’abboccamento; non perché sentisse una gran gelosia, rassegnato com’era, da uomo di spirito, alla parte di padre; ma perché era quello il terzo amico di cui l’Enrichetta gli faceva fare la conoscenza, e alla lunga temeva un po’ di diventare ridicolo. Per questo, dinanzi a Ottavio, prese il sorriso discreto d’un protettore ricco che, se consente a mostrarsi cortese, non vuole però essere gabbato.
— Oh! — diceva il Mouret col suo entusiasmo da provenzale che operazione è stata quest’ultima del Credito Fondiario! Non le posso dire quanto son contento e orgoglioso di stringerle la mano.
— Troppo buono, troppo buono! — badava a ripetere il barone, sempre sorridendo.
Enrichetta lo guardava con i suoi occhi limpidi; senza imbarazzo. Restava in mezzo a loro, alzava la testolina graziosa, andava dall’uno all’altro; e nella sua veste di trina, donde uscivano i polsi e il collo delicati, pareva fuor di sé dalla contentezza nel vedere cosí d’accordo quei due.
— Signori, — disse finalmente — vi lascio perché discorriate in pace.
Poi, volgendosi a Paolo che s’era alzato, riprese:
— Volete una tazza di tè, signor Vallagnosc?
— Volentieri, signora.
E rientrarono insieme nella sala.
Il Mouret riprese il suo posto sul canapè, accanto al barone. Allora, ricominciò a spandersi in elogi sulle operazioni del Credito Fondiario; e a mano a mano entrò nell’argomento che piú gli stava a cuore; parlò della strada nuova, del prolungamento di Via Réaumur di cui stavano per aprire una parte col nome di Via Dieci Dicembre, tra la Piazza della Borsa e quella dell’Opéra. L’espropriazione per pubblica utilità era stata decretata da un anno e mezzo, il giurí già nominato; e tutto il quartiere si appassionava per quell’apertura, disputando sul tempo in cui si sarebbero fatti i lavori, e sulle case da demolire.
Eran quasi tre anni che il Mouret aspettava quei lavori, da principio prevedendo un rialzo nel commercio, poi con ambiziose speranze di ingrandimenti che non osava neppur confessare ad alta voce, tanto il suo sogno si andava sempre ampliando. Poiché la Via Dieci Dicembre doveva tagliare la Via Choiseul e la Via della Michodière, gli pareva già di vedere il Paradiso delle signore invadere tutta l’isola formata da quelle due vie e da Via Nuova Sant’Agostino; e se l’immaginava di già con una facciata da palazzo sulla nuova strada, dominando, da signore assoluto, l’assoggettata città. Da ciò era nato il suo vivo desiderio di conoscere il barone Hartmann, subito che aveva saputo l’impegno preso dal Credito Fondiario con un contratto di tagliare e costruire Via Dieci Dicembre, a patto che gli fosse ceduta la proprietà dei terreni fabbricabili.
— Davvero? — ripeteva il Mouret cercando di darsi un’aria da ingenuo. -La strada la consegneranno bell’e finita, con le fogne, i marciapiedi, e i lampioni? E i terreni da fabbricare basteranno a compensarli? È una pensata curiosa, proprio curiosa!
Finalmente arrivò al punto delicato. Aveva saputo che il Credito Fondiario faceva di nascosto comprare le case dell’isolato dov’era il Paradiso delle signore, non soltanto quelle che era necessario demolire ma anche le altre che sarebbero rimaste. E subodorava in ciò il disegno di qualche futuro stabilimento, e gli dava noia il pensiero di potere un giorno, con i suoi ingrandimenti, dar di cozzo in una potente società, che non avrebbe certamente vendute le proprie case. Questa paura l’aveva fatto risolvere a cercare un vincolo che lo stringesse al barone, quel vincolo femminile che dura cosí saldo tra uomini per loro natura galanti. Avrebbe certamente potuto parlare col barone nello studio di lui, e discorrere con pace del grosso affare che aveva in animo di proporgli: ma si sentiva piú forte in casa d’Enrichetta, perché sapeva quanto il possesso comune di una donna ravvicini e addolcisca. In casa di lei, avvolti nel suo profumo, con lei pronta a convincerli con un sorriso solo, il buon successo gli sembrava sicuro.
— L’avete comprato il palazzo Duvillard, quella baracca che mi sta a ridosso? — chiese alla fine bruscamente.
e poi Il barone Hartmann esitò un istante, negò: ma guardandolo in faccia, il Mouret si mise a ridere: e da quel momento fece la parte d’un buon giovinotto che tratta gli affari, alla lesta, col cuore in mano.
— Guardi, signor barone! dacché ho avuto l’onore insperato di conoscerla, bisogna che mi confessi... Oh! non le domando i suoi segreti; voglio soltanto dirle i miei, persuaso di non poterli porre in mani piú esperte... E poi ho bisogno dei suoi consigli; da molto tempo volevo venire a trovare Lei, e non osavo.
Si confessò davvero; raccontò il principio della sua fortuna; non nascose nemmeno il pericolo che gli sovrastava ora in mezzo al trionfo. Disse tutto; gl’ingrandimenti, fatti l’un dopo l’altro, i guadagni sempre rinvestiti in quell’impresa, le somme dategli dagl’impiegati, il magazzino che rischiava di fallire ad ogni nuova apertura della vendita, perché tutto il capitale era ogni volta giocato sopra una carta sola. Eppure non chiedeva danaro; lui nella sua clientela si fidava da fanatico. Aveva un’ambizione piú alta; proponeva al barone una società: il Credito Fondiario mettesse da parte sua il palazzo sterminato ch’egli sognava, egli ci avrebbe messo il suo ingegno e il commercio già avviato. Poi si sarebbe computato ciò che ciascuna parte ci avesse messo: a lui pareva la cosa piú facile del mondo.
— Che ne vogliono fare dei loro terreni e dei loro immobili? — domandava con insistenza. — Una idea devono averla, qui non c’è dubbio. Ma io sono sicuro, sicurissimo che la mia è la migliore... Ci pensi un po’. Edifichiamo sui terreni una galleria, buttiamo giú o adattiamo le case e apriamo i magazzini piú grandi di Parigi, un bazar che incasserà milioni.
E lasciò sfuggire il grido che gli saliva dal cuore:
— Ah! se potessi farne a meno di loro!... Ma ora hanno tutto in mano loro. E poi non mi riuscirebbe mai trovare anticipazioni sufficienti... Via, bisogna che c’intendiamo: sarebbe un assassinio!...
— Adagio, adagio, caro signore! — si contentò di rispondere il barone. Che po’ po’ d’immaginazione!...
Scoteva la testa e continuava a sorridere, risoluto a non dir nulla. Il disegno del Credito Fondiario era di costruire in Via Dieci Dicembre un albergo rivale del Grand-Hôtel, un albergo di lusso nel centro della città, apposta per attirare i forestieri. D’altra parte l’albergo non doveva occupare che i terreni di fianco, e il barone avrebbe avute sempre le mani libere per trattare col Mouret quanto al resto delle case, rimasto sempre una bella superficie. Ma era già divenuto socio di due amanti d’Enrichetta, e si stancava di quel suo fasto da protettore compiacente. Inoltre, per quanto intraprendente egli fosse, e disposto ad aprire la sua borsa a tutti i giovani intelligenti e coraggiosi, la proposta del Mouret, cosí audace ed enorme, lo meravigliava piú di quel che gli piacesse. Quel magazzino smisurato non era un’impresa fantastica e imprudente? A forza di allargare in tal modo il commercio delle novità, non si andava forse incontro a una rovina sicura? Non ci credeva, e non ne voleva sapere.
— L’idea, non c’è dubbio, può allettare. Ma il male sta qui: che è un’idea da poeta... Dove li troverete gli avventori per empire una cattedrale di cotesta fatta?
Il Mouret lo guardò un po’, senza aprir bocca, quasi stupito del rifiuto. Come era possibile che un uomo di quell’acume, il quale fiutava il danaro nascosto a qualsiasi profondità, non capisse la cosa? E a un tratto ebbe un gesto d’alta eloquenza: tese il braccio e additò le signore nella sala, esclamando:
— Gli avventori? eccoli là, gli avventori!
Il sole veniva meno, il polviscolo d’oro acceso non era piú che un chiarore biondo, morente tra la seta delle tende e sulle stoffe dei mobili.
Nell’avvicinarsi del crepuscolo, una dolce intimità inondava la sala d’un molle tepore. Il signor De Boves e Paolo di Vallagnosc chiacchieravano nel vano d’una finestra, con lo sguardo vagante nel lontano orizzonte; le signore s’erano accostate l’una all’altra e facevano nel mezzo uno stretto cerchio di sottane donde salivano risa, parole bisbigliate, domande e risposte incrociantesi, tutta insomma la passione della donna per le spese e per i cenci. Discorrevano di vestiti; la signora De Boves descriveva un vestito da ballo.
— Sotto, un trasparente di seta mauve e poi sopra tante gale di trina antica d’Alençon, alta trenta centimetri...
— Davvero? — interruppe la signora Marty — ah! ci sono delle donne proprio felici a questo mondo!
Il barone Hartmann, che aveva seguito il gesto del Mouret, le guardava per la porta spalancata; e le ascoltava con un orecchio, mentre Ottavio, infiammato dal desiderio di convincere lui, gli si confidava anche piú apertamente, spiegandogli il meccanismo del nuovo commercio delle «novità». Il bandolo di questo commercio era uno solo: il giro continuo e rapido del capitale, che bisognava trasfondere in merci quante più volte in un anno fosse possibile. Quell’anno, per esempio, il suo capitale, ch’era di soli cinquecentomila franchi, aveva fatto il giro quattro volte, ed aveva cosí prodotto per due milioni: una inezia: doveva fruttare dieci volte di piú; perché affermava che era sicuro di fare tra poco tempo in modo che il capitale dovesse in certe sezioni rispendersi e rincassarsi quindici o venti volte.
— Lei capisce, signor barone, che tutto il meccanismo sta lí. E una cosa semplicissima ma bisognava inventarla. Non abbiamo bisogno di molto danaro; il nostro unico sforzo è di far presto a disfarci delle mercanzie comprate, per acquistarne delle altre. Cosí il capitale dà frutto tante volte quante è rinvestito, e noi possiamo contentarci d’un guadagno piccolissimo. Siccome le spese generali raggiungono l’enorme cifra del sedici per cento, e noi non prendiamo sugli oggetti che il venti per cento di guadagno, il frutto è soltanto del quattro. Ma saranno milioni, quando si tratterà d’una grande quantità di roba e la rinnoveremo continuamente... Mi spiego? È una cosa semplicissima.
Il barone tentennò di nuovo il capo. Lui che aveva protette le imprese piú ardite, e ch’era ancora famoso per la sua audacia nei primi tentativi della illuminazione a gas, restava duro e non persuaso.
— Capisco; — rispose — voi vendete a bonissimo prezzo per vendere molto. Ma bisogna vendere, però: ed io vi chiedo daccapo a chi venderete: come potete sperare di tener viva una vendita cosí enorme?
Uno scoppio di voci che venne dalla sala interruppe le spiegazioni del Mouret. Era la Guibal, la quale diceva che le gale di trina antica d’Alençon le sarebbero piaciute di piú messe soltanto a grembiale.
— Ma, cara mia, — diceva la De Boves — anche il davanti è tutto trine. Un vestito cosí ricco non l’ho visto mai.
— Oh! mi suggerite una cosa — ripigliava la Desforges. — Ho qualche metro di trina d’Alençon... Bisogna che ne compri dell’altra per fare una guarnizione.
E le voci si smorzarono in un tenue mormorio, nel quale sembrava passassero carezze tiepide e voluttuose. Ogni poco si sentiva: «costa tanto... costa meno»: pareva sfogliassero il dizionario dei magazzini: i desideri si aguzzavano; le signore compravano trine a piene mani.
— Eh! — disse finalmente il Mouret, quando poté parlare. — Pur di saper vendere, si vende quel che si vuole! La nostra vittoria sta lí.
Allora, col suo brio da meridionale, in frasi calde che suscitavano le immagini delle cose, mostrò il nuovo commercio nella furia del lavoro.
Disse dapprima della potenza decuplicata dal continuo rifornimento; tutte le mercanzie accumulate in un punto solo, sorreggendosi a vicenda e a vicenda raccomandandosi; non un momento di riposo, la roba di stagione sempre pronta; e da banco a banco la compratrice era presa, e qua voleva stoffa, piú in là filo, altrove mantello; si rivestiva; s’imbatteva in qualche cosa che non s’aspettava, e doveva cedere al bisogno dell’inutile e del grazioso. Poi esaltò i prezzi fissi. La grande rivoluzione delle novità dipendeva dal prezzo fisso. Il vecchio cio, il commercio minuto, dava l’ultimo respiro perché appunto non poteva sostenere la guerra dei prezzi bassi mossagli dal cartellino in numeri chiari e lampanti. La concorrenza avveniva sotto gli occhi stessi del pubblico; chiunque pas seggiasse davanti alle vetrine sapeva i prezzi della tal cosa o della tal altra: bisognava che tutti i magazzini ribassassero e si contentassero del guadagno piú piccolo possibile: nessun inganno, non piú retate preparate da tempo su una stoffa venduta al doppio di quanto vale, ma affari correnti, un tanto per cento fisso su tutte le merci: il guadagno posto nel buon procedere d’una larghissima vendita cui giovava l’esser fatta all’aperto, senza misteri.
Non era una stupenda invenzione? Metteva sossopra il mercato, trasformava Parigi, perché era fatta con la carne e col sangue della donna.
— Ho la donna, io! m’infischio del resto! — disse in una confessione brutale che gli fu strappata dal fervore col quale parlava.
A quel grido il barone Hartmann parve scosso. Il suo sorriso perdeva la sottil punta d’ironia: e vinto a poco a poco da quella fede, guardava il giovinotto, verso il quale cominciava a sentire affetto.
— Zitto! — gli sussurrò paternamente. — Se no, vi sentono.
Ma le signore parlavano tutt’assieme, e s’erano tanto infatuate che non stavano nemmeno a sentire. La signora De Boves finiva la descrizione d’un vestito da ballo; tunica di seta color malva, drappeggiata e sorretta da fiocchi di trina, vita molto scollata, fiocchi di trina anche sulle spalle.
— Vedrete, diceva — mi faccio fare una vita a quel modo, con un certo raso...
— Io, — interruppe la signora Bourdelais — ho comprato del velluto, un velluto, care mie... e l’ho pagato una miseria!...
La signora Marty chiese:
— Eh? quanto costa la seta?
E tutte le voci si confusero da capo. La Guibal, Enrichetta, perfino Bianca, misuravano, compravano, tagliavano, raccomandavano. Un saccheggio di stoffe, la devastazione dei magazzini; una frenesia di lusso che si spandeva in abiti, ragione di sogni e d’invidie; una tale e tanta felicità per loro quel sentirsi tra le stoffe, che vi vivevano dentro come nell’aria tiepida necessaria alla loro esistenza.
Il Mouret aveva frattanto gittata un’occhiata nella sala. E in poche frasi bisbigliate in un orecchio al barone, come se gli avesse fatta una di quelle confidenze di avventure amorose che gli uomini qualche volta arrischian fra loro, terminò di spiegargli il meccanismo del gran commercio moderno. Allora anche piú in alto, proprio in vetta, come fine ultimo, apparve lo sfruttamento della donna. Tutto andava a finir lí: il capitale rinnovato incessantemente, il sistema di ammucchiamento delle merci, la mostra che attrae, i prezzi fissi che impediscono ogni sospetto di frode. La donna era quella che i magaz zini si disputavano con la concorrenza, quella che pigliavano continuamente nel tranello delle loro «occasioni straordinarie», dopo averla stordita col lusso delle vetrine. Avevano svegliati in lei desideri nuovi, con una tentazione immensa cui essa soccombeva fatalmente, cedendo da principio alle compre necessarie, poi vinta dalla civetteria, poi divorata. Facendo dieci volte maggiore la vendita, democratizzando il lusso, divenivano un terribile incitamento alle spese: buttavano all’aria le famiglie, eccitavano la pazzia della moda, sempre più costosa. E se la donna nei magazzini regnava, adulata e accarezzata nelle sue debolezze, circondata di cortesie, era una dolce regina di cui i sudditi fan mercato e che paga con una goccia di sangue ciascuno dei capricci suoi. Dalla grazia della sua galanteria, il Mouret lasciava cosí trasparire le brutalità d’un mezzano che venda la donna a un tanto la libbra; le innalzava un tempio, la faceva incensare da una legione di commessi, inventava il rito d’un culto nuovo; non pensava che a lei, cercando, senza mai requie, seduzioni piú forti; e dopo, quando le aveva ben bene votate le tasche e sconquassati i nervi, era pieno del segreto disprezzo che l’uomo ha per un’amante quando lei ha fatta la sciocchezza di darglisi.
— Abbiate dalla vostra le donne, — disse con voce bassa al barone, ridendo audacemente — e venderete il mondo!
Oramai il barone aveva capito. Gli erano bastate poche frasi per indovinare il resto, e uno sfruttamento fatto con tanta galanteria lo infiammava e ravvivava in lui i suoi begli anni di epicureo. Strizzava gli occhi accennando di avere, come si dice, mangiato la foglia, e guardava ammirato l’inventore di quella macchina per divorare le donne. Era davvero una bella trovata! Nondimeno anch’egli, come il Bourdoncle, ebbe a concludere, per la sua vecchia esperienza:
— Badate che si vendicheranno.
Ma il Mouret alzò le spalle con un moto di schiacciante disprezzo. Gli appartenevano tutte, le donne erano roba sua, ed egli non era di nes suna. Non appena avesse spremuta da loro la sua ricchezza e i suoi piaceri, le gitterebbe in un mucchio sulla via a coloro che potessero spremerne ancora tanto da viverne: era un disprezzo ragionato, da meridionale e da speculatore.
Dunque, caro signore, — domandò per venire a una conclusione — volete accordarvi con me? L’affare dei terreni vi sembra possibile?
Il barone, per quanto fosse quasi convinto, non volle prendere impegni. In fondo alla simpatia che a mano a mano s’impossessava di lui, gli restava un dubbio. E stava per rispondere in modo evasivo, quando una frettolosa chiamata delle signore lo levò d’impaccio. Tra leggiere risate si sentiva ripetere:
— Signor Mouret! signor Mouret!
E siccome egli, indispettito d’essere cosí interrotto, fingeva non sentire, la signora De Boves, che s’era alzata in quel momento, venne fin sull’uscio del salottino:
— Abbiam bisogno di voi, signor Mouret. Bella cortesia ficcarsi cosí nei cantoni a discorrere di affari!
Allora dové risolversi, e si risolvette facendo vista di nulla, anzi fingendosi lietissimo di quel la chiamata; contegno di cui il barone ebbe a meravigliarsi.
Tutt’e due si alzarono e andarono nella sala.
— Ai vostri comandi, signore mie! — disse egli, nell’entrarvi sorridendo.
Fu accolto in trionfo. Dové farsi piú innanzi; le signore gli fecero posto tra loro.
Il sole era tramontato dietro gli alberi del giardino; cadeva il giorno; un’ombra leggiera invadeva a poco a poco la stanza. Era la tenera ora del crepuscolo; quel minuto di discreta voluttà che han gli appartamenti parigini tra la luce della via che vien meno e i lumi che già i servitori accendono nelle stanze di servizio. Il De Boves e il Vallagnosc, sempre ritti nel vano d’una finestra; il signor Marty, entrato zitto zitto in quel punto, mostrava il suo profilo magro, un paltoncino misero ma pulito, un viso fatto livido dal tanto insegnare, e sconvolto ora anche piú da quei discorsi che le signore facevano sui vestiti.
— Dunque, si apre proprio lunedi questa vendita? domandava appunto allora la signora Marty.
— Sicuro, signora — rispose il Mouret con voce flautata e da attore, come aveva quando parlava a donne.
L’Enrichetta ci mise bocca:
— Ci saremo tutte... dicono che prepariate cose meravigliose.
Meravigliose poi! — mormorò con aria — di modesta vanagloria — io non faccio che cercare in ogni maniera di meritarmi le vostre lodi.
Ma le signore lo incalzavano di domande. La Bourdelais, la Guibal, Bianca stessa, volevan saperne di piú.
— Via! dateci qualche particolare! ripeteva insistente la signora De Boves. — Non ci fate morire cosí!
E lo circondavano, quando l’Enrichetta osservò ch’egli non aveva preso nemmeno una tazza di tè. Fu un affare serio; si misero in quattro a servirlo: ma con la condizione che subito dopo avrebbe risposto.
L’Enrichetta mesceva, la Marty teneva la tazza; la De Boves e la Bourdelais si disputavano l’onore di metterci lo zucchero. Poi, quand’egli ebbe rifiutato di porsi a sedere, e cominciò a sorseggiare il tè, in mezzo a loro, tutte si avvicinarono di piú, stringendolo nel cerchio delle loro sottane. E gli sorridevano con la testa alzata, con gli occhi luccicanti.
— Parlateci un po’ della vostra seta, della «Parigi-Paradiso»: ne son pieni i giornali! — riprese la Marty impaziente.
Oh! rispose — è davvero una cosa straordinaria, una faille a grana grossa, morbida, forte... Vedrete da voi, signore. E non la troverete che li da noi, perché ne abbiamo comprata la proprietà esclusiva.
— Ma davvero! Una seta bella a cinque e sessanta? — esclamò la Bourdelais fuori di sé dalla gioia. Non si crederebbe nemmeno!
Fin da quando n’era cominciata la pubblicità, quella seta prendeva una parte non piccola nella loro vita di tutti i giorni. Ne discorrevano, parlavano già delle compre, tormentate dal desiderio e dal dubbio. E dalla ciarliera curiosità di cui opprimevano il Mouret, traspariva, nelle sfumature diverse dei caratteri, la comune bramosia di spendere.
La Marty, maniaca, che comprava tutto al Paradiso delle signore senza nemmeno scegliere, quel che vien viene; la Guibal che vi passeg giava su e giú per delle ore senza comprar nulla, abbastanza contenta dell’appagarsi la vista; la De Boves, stretta a danari, sempre tormentata da voglie troppo grosse, piena di rancore per la roba che non poteva portar via con sé; la Bourdelais che fiutava quando si vendeva davvero a buon prezzo, e, col suo istinto di borghese pratica, si serviva dei grandi magazzini con tale accorgimento di tranquilla massaia, da far valere la lira ventun soldi; l’Enrichetta, per ultimo, l’elegantissima Enrichetta, che vi comprava soltanto pochi oggetti, i guanti, le cuffie, e la biancheria andante.
— Abbiamo anche altre stoffe d’una bellezza e ad un prezzo da non potersi dire — continuava il Mouret con la sua voce carezzevole. — Vi raccomando, per esempio, la nostra «Pelle d’oro» ch’è un taffetas d’un lucido che non ce n’è altri... Nelle sete di fantasia ci son colori e disegni che l’impiegato addetto alle compre ha scelti tra mille; vedrete che collezione di velluti! Ce n’è d’ogni sorta... Guardate che quest’anno è di moda il panno. Ne abbiamo dei trapunti, dei felpati...
Non l’interrompevano piú; strette sempre piú intorno a lui, ascoltavano, con la bocca dischiusa da un sorriso, col viso proteso innanzi, come se tutto l’essere loro si lanciasse verso il tentatore.
Gli occhi si velavano, correva per le nuche un leggiero brivido. Ed egli, tra gli odori che salivano inebrianti dai loro capelli, restava composto nella sua calma da conquistatore. Tra una frase e l’altra, seguitava a sorseggiare a centellini il suo tè: e il profumo del tè faceva piú miti quei forti odori che avevano un po’ del selvatico. Nel veder quella seduzione cosí sicura di sé e tanto forte da scherzar con le donne senza mai pericolare, il barone, che teneva gli occhi sul Mouret, sentiva crescere l’ammirazione.
— Ah! dunque si porterà del panno? — riprese la Marty: e il viso butterato le si abbelliva di civetteria. — Bisognerà che dia un’occhiata anch’io.
La Bourdelais, senza perdere negli occhi la consueta limpidità, soggiunse:
— La vendita degli scampoli è il giovedí, non è vero?... Aspetterò: ci ho tutti i miei monelli da rivestire.
E volgendo la bionda testolina alla padrona di casa:
— Ti servi sempre della Sauveur?
— Mio Dio! — rispose l’Enrichetta. — La Sauveur è un po’ troppo cara, ma non c’è che lei, a Parigi, che sappia fare una vita... E poi, il signor Mouret ha un bel dire; ma è quella che ha i disegni piú graziosi; dei disegni che non si vedono da nessun’altra. Non posso soffrire, io, di vedere il vestito che ho io, addosso a tutte le altre.
Il Mouret sorrise da prima discretamente. Poi lasciò capire che la signora Sauveur comprava proprio da lui le stoffe: certo, prendeva anche direttamente, dai fabbricanti, qualche disegno di cui acquistava la proprietà; ma per tutte le sete nere, a dirne una, stava attenta alle occasioni del Paradiso delle signore, pigliava all’ingrosso, e rivendeva poi al minuto raddoppiando e triplicando i prezzi.
— Son sicuro che manderà gente a portarci via tutta la «Parigi-Paradiso». Perché volete che vada a pagar la seta alla fabbrica, per pagarla piú di quanto la vendiamo noi?... In parola d’onore, la vendiamo a scapito.
Fu il colpo di grazia. L’idea di aver le merci a men del costo, accendeva in tutte loro quanto c’è di avidità nelle donne, sempre contente quando credono rubare al negoziante. Il Mouret sapeva che sono incapaci di resistere al prezzo tenuto basso.
— Ma se la roba la diamo via per nulla! — esclamò egli allegramente, prendendo, di sul tavolino li dietro, il ventaglio della signora Desfor — Guardate! Questo ventaglio qui, quanto è costato?
— Venticinque franchi la trina, e duecento la montatura — disse l’Enrichetta.
La trina non è cara: eppure noi la diamo a diciotto franchi, tale e quale... Ma la montatura, cara signora, è proprio un furto, un furto schifoso. Non mi arrischierei a venderne uno egualissimo per piú di novanta franchi.
— Lo dicevo io! — esclamò la Bourdelais.
— Novanta franchi! — sussurrò la De Bourdelais. — bisogna proprio non avere un soldo in tasca per non comprare un ventaglio come codesto...
Aveva preso il ventaglio e di nuovo lo esaminava con la figliuola: e, sul suo viso regolare, nei suoi grandi occhi insonnoliti, saliva la voglia repressa e disperata del capriccio che non le era dato cavarsi. Il ventaglio fece un’altra volta il giro delle signore in mezzo a grandi esclamazioni e osservazioni. Il De Boves e il Vallagnose erano in quel mentre venuti via dalla finestra; il primo s’era posto da capo dietro alla Guibal e con lo sguardo le frugava il dorso, pur sempre conservando la sua aria da uomo che in società ci sa stare; l’altro s’inchinava verso Bianca tentando di trovare un complimento.
— È però un po’ troppo seria, non è vero, signorina, quella montatura bianca con la riga di trina nera?
— Oh! io, — rispose lei gravemente, senza che un po’ di rosso le colorasse il viso pienotto — ne ho visto uno di madreperla con le penne bianche. Una cosa proprio virginale!
Il De Boves, il quale s’era certamente accorto delle occhiate disperate che la moglie dava al ventaglio, mise alfine bocca nella conversazione:
— Si rompono subito quei gingilli lí.
— A chi lo dite!.... — aggiunse con una smorfia di bella dai capelli rossi la Guibal facendo la svogliata. — Mi sono stancata a forza di far raccomodare i miei.
Da qualche minuto, la Marty, eccitata per quei discorsi, volgeva e rivolgeva febbrilmente la borsetta di cuoio su i ginocchi. Non aveva potuto ancora fare ammirare le sue compre, e moriva dalla voglia, da un bisogno quasi sensuale di metterle in mostra. E a un tratto si scordò del marito, aprí la borsetta, e ne tirò fuori della trina sottile, ravvoltolata intorno a un pezzetto di cartone.
— Guardate un po’ questa trina per la mia figliuola: è alta tre centimetri, è proprio carina; non vi pare?... Un franco e novanta.
La trina passò da una mano all’altra. Tutte le signore davano in esclamazioni di meraviglia. Il Mouret giurò che quelle guarnizioncelle le vendevano a prezzo di fabbrica. La Marty intanto aveva chiusa la borsa come per nascondere delle cose che non si possono far vedere. Ma a quelle lodi non poté resistere; e tirò fuori un fazzoletto.
— C’era anche questo fazzoletto... Un’applicazione di Bruxelles... Venti franchi! Proprio per nulla!
E da quel momento la borsetta divenne inesauribile.
Lei arrossiva dal piacere; e un pudore quasi da donna che si spogli, la faceva graziosa insieme e imbarazzata, ogni volta che tirava fuori un nuovo oggetto. Prima una sciarpa di trina spagnuola che costava trenta franchi; lei non la voleva, da principio, ma il commesso le aveva giurato e spergiurato ch’era l’ultima e che il prezzo doveva crescere; dopo veniva un velo di chantilly: un po’ caro, a dir la verità, cinquanta franchi: se non lo portava lei, qualche cosa per la figliuola n’avrebbe fatto.
— Dio mio! son tanto graziose le trine! — badava a ripetere col suo sorriso nervoso. — Io, quando son lí dentro, comprerei tutto il magazzino.
— E questo qui? — le domandò la De Boves esaminando uno scampolo di merletto.
— Questo qui, rispose — è una bellezza... Ventisei metri: un franco il metro, capite?
— Ma che ne volete fare? — domandò la Bourdelais stupita.
— Non lo so mica... ma era tanto curioso il disegno!
In quel punto, alzando gli occhi, si vide, di faccia, il marito sgomentato. Era divenuto anche piú livido di prima, da tutta la persona esprimeva l’angoscia rassegnata d’un pover’uomo che assiste allo scialacquo dei suoi denari, guadagnati con tanta fatica. Ogni nuovo pezzettino di trina era per lui un disastro: amare giornate d’insegnamento inghiottite d’un colpo; le corse pel fango della città da una lezione all’altra, divorate in un tratto; lo sforzo continuo della vita che lo conduceva a segrete angustie, all’inferno d’una casa che si reggeva a stento. Mirando quello sguardo sempre atterrito, lei volle ripigliare il fazzoletto, la trina, il velo, la sciarpa; e gittava qua e là le mani febbrili, ripetendo con risatine sforzate:
— Mi farete gridare da mio marito... Ti giuro, amico mio, che ho avuto giudizio: c’era uno sciallino da cinquecento franchi, una meraviglia!
— Perché non l’avete comprato? — disse tranquillamente la Guibal. — Il signor Marty è il piú gentile degli uomini.
Il professore dové piegare il capo, dicendo che sua moglie era padrona padronissima di comprare quanto le piaceva. Ma ripensando al pericolo corso, un brivido freddo gli correva la schiena; e siccome il Mouret, proprio in quel momento, affermava che i nuovi magazzini aumentavano le comodità delle famiglie nella media borghesia, gli lanciò un’occhiata terribile, il lampo d’odio d’un timido che non osa strangolare la gente.
Le signore, d’altra parte, non avevano ancora posate le trine, e se ne inebriavano: i rotoli si sgomitolavano, andavano e venivano qua e là dall’una all’altra, ravvicinandole ancor piú e quasi stringendole insieme con sottili legami. Sui loro ginocchi stavano le trine mirabili per la finezza del tessuto, e le mani cedendo a quella carezza vi si indugiavano. E circondavano anche piú strettamente il Mouret tempestandolo di nuove domande. Il buio della sera s’inoltrava, ed egli doveva ogni poco chinar la testa, sfiorar con la barba i loro capelli, per esaminare una trina, indicare un disegno. Ma in quella molle voluttà del crepuscolo, in mezzo a quel profumo che saliva caldo dalle loro spalle, egli era sempre signore di sé e di tutte, sotto quell’aria d’ammirazione che sapeva fingere cosí bene. Pareva anch’egli una donna; e le donne si sentivano vinte e prese da quel senso delicato ch’egli aveva dell’intimo loro, e, sedotte, si abbandonavano. Certo di averle a sua posta, il Mouret spadroneggiava brutalmente, come se fosse un re dispotico degli stracci delle signore.
— Oh, signor Mouret! oh, signor Mouret! — balbettavano sommessamente le voci in fondo alle tenebre della sala.
L’ultimo chiarore del cielo si estingueva negli ornamenti dei mobili; soltanto le trine avevano ancora quasi un riflesso di neve sui ginocchi delle signore, che in un gruppo confuso, di cui Mouret era il centro, parevano altrettante devote inginocchiate dintorno a lui. Un po’ di luce splendeva ancora sul bricco, una luce corta e viva da lume da notte, ardente, in un’alcova resa tiepida dai profumi del tè. Ma il servitore entrò con due lumi, e l’incantesimo fu rotto. La sala apparve, lucente, gaia. La Marty riponeva le trine in fondo alla borsetta; la De Boves mangiava un biscottino, e l’Enrichetta, che s’era alzata, discorreva a voce bassa col barone nel vano d’una finestra.
— È simpatico disse il barone.
— Non è vero? — le scappò detto in un’esclamazione involontaria di donna innamorata.
Egli sorrise e la guardò con indulgenza paterna. Era la prima volta che la vedeva innamorata cosí, e non essendo uomo da aversene per male o da patirci, provava soltanto compassione per lei, che vedeva nelle mani d’un volpone tanto appassionato nei modi e tanto freddo nel cuore. Credé doverla ammonire, e in tono di scherzo mormorò:
— State attenta, piccina mia: vi mangerà, tutte quante siete!
Un lampo di gelosia illuminò a Enrichetta gli occhi belli.
Forse capí che il Mouret s’era servito di lei soltanto per far la conoscenza del barone; e giurò di farlo impazzare, quell’affaccendato che aveva negli amori suoi il fascino d’una canzone gittata ai venti.
— Oh! — rispose affettando di scherzare anch’essa è sempre l’agnello che prima o dopo mangia il lupo.
Il barone, ridendo, la incoraggiò con un cenno del capo. Forse era lei la donna che avrebbe vendicato tutte le altre.
Quando il Mouret, dopo aver novamente espresso al Vallagnosc il desiderio di mostrargli la sua macchina in moto, si fece innanzi per congedarsi, il barone lo fermò nel vano della finestra, in faccia al giardino già nero per le tenebre della notte. Cedeva finalmente alla tentazione: la fede gli era venuta nel vederlo in mezzo a quelle signore.
— Studierò l’affare — disse: — se l’apertura della vendita di lunedí va come dite voi, la cosa è bell’e fatta.
Si strinsero la mano; e il Mouret se n’andò tutto contento; se n’andò perché non gli riesciva desinare in pace se prima non aveva data un’occhiata all’incasso del Paradiso delle signore.