Il paradiso delle signore/1
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Traduzione dal francese di Ferdinando Martini, Guido Mazzoni (1936)
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I
— Oh! — disse — guarda, guarda, Gianni!
E restarono lí fermi, stretti insieme: tutt’e tre vestiti di nero, perché portavano ancora i vestiti che s’eran fatti per il bruno del padre loro. Lei, troppo gracile per i suoi venti anni, con un’aria di miseria, portava un fagottino; dall’altra parte le si aggrappava al braccio il fratello minore, che non aveva piú di cinque anni; e il maggiore, fiorente nei suoi sedici, stava lí diritto, dietro le spalle di lei, con le mani penzoloni.
— Oh, bello! — riprese dopo un momento,
— Questo sí che è un magazzino!
Era, nell’incrocio della Via della Michodière con la Via Nuova di Sant’Agostino, un negozio di novità; e le vetrine ne splendevano chiassosamente in quella dolce e pallida giornata d’ottobre.
Sonavano le otto a San Rocco; sui marciapiedi poca gente; quella che ha l’obbligo d’alzarsi presto; impiegati che s’avviavano all’ufficio, buone massaie che si affrettavano di bottega in bottega, Dinanzi alla porta, due commessi, su di uno scaleo, finivano d’attaccare le flanelle, mentre, in una vetrina della Via Nuova di Sant’Agostino, un altro, inginocchiato e volgendo le spalle, faceva con garbo le pieghe a una pezza di seta azzurra. Il negozio, ancor vuoto d’avventori, in quel primo arrivare dei garzoni, ronzava dentro come un alveare che si svegli.
— Perbacco! — disse Gianni. — Altro che Valognes!... Il tuo non gli lega le scarpe!
Dionisia scrollò la testa. Era stata due anni laggiú, dal Cornaille, il primo negoziante di novità che ci fosse: e quel magazzino, nel quale s’imbatteva cosí ad un tratto, quella casa enorme, le gonfiava il cuore, la teneva lí ferma, commossa, curiosa, dimentica del resto. Nella cantonata che dava sulla piazza Gaillon, la porta tutta a cristalli saliva fino al mezzanino, tra un cumulo di ornati carichi di dorature. Due statuette allegoriche, due donne sorridenti, col petto nudo in fuori, svolgevano l’insegna: Il Paradiso delle signore. E di là partivano le vetrine, lungo la Via della Michodière e Via Nuova Sant’Agostino, dove occupavano, oltre la casa d’angolo, altre quattro case, due a destra, due a sinistra, comprate e ridotte di fresco. Quelle vetrine, con le mostre a pianterreno e i cristalli diafani del mezzanino, dietro i quali si scorgeva tutta la vita interna del negozio, le parevano, per effetto di prospettiva, interminate. Lassú, una ragazza, vestita di seta, temperava un lapis, mentre, dietro di lei, due altre spiegavano dei mantelli di velluto.
— Il Paradiso delle signore! — lesse Gianni col suo dolce sorriso di adolescente, che già aveva avuto un amoretto a Valognes. — Mi garba! Qui sí, che ce ne deve venire della gente!
Ma Dionisia restava tutta assorta dinanzi alla mostra della porta di mezzo. Lí, proprio all’aperto, perfino sul marciapiede, c’era un monte di mercanzie a buon prezzo, la tentazione della porta, le occasioni che fermavano le donne nel loro passare. La roba scendeva dall’alto: stoffe e lane, merini e vigogne, cadevano dal mezzanino, sventolanti come bandiere, e con certe mezze tinte grige color lavagna, o azzurro marino, o verde oliva, che erano tramezzate dai cartellini dei prezzi. Accanto, quasi a inquadrare la soglia, pendevano egualmente strisce di pelliccia, guarnizioni, la sottil cenere dei dorsi di vaio, la neve pura dei ventri di cigno, il pelo di coniglio, divenuto falsa martora e falso ermellino.
Poi, giú, in iscaffali, su tavole, in mezzo a colonne di scampoli, sovrabbondavano berrette è berrettine che si davano per niente, guanti e fisciú di lana fatti a maglia, cappucci e corpetti, tutta una mostra invernale dai mille colori, intrecciati, rigati, con macchie a sprazzi sanguigni. Dionisia vide della tarlatana a quarantacinque centesimi, delle strisce di martora d’America a un franco, e dei mezzi guanti a cinque soldi. Un immenso ammucchiamento da fiera, come se il magazzino scoppiasse e gettasse il suo soverchio sulla strada.
Dello zio Baudu se n’erano bell’e scordati. Beppino stesso, che non lasciava la mano della sorella, spalancava gli occhi. Una carrozza li obbligò tutt’e tre a tirarsi da parte e uscire di mezzo alla piazza; e senza pensarci, presero la Via Nuova di Sant’Agostino, lungo le vetrine, fermandosi ad ogni passo.
Sul bel principio furono attratti da un ingegnoso apparato; in cima, degli ombrelli, disposti obliquamente, sembrava formassero un tetto da capanna rustica; sotto, delle calze di seta pendenti giú da ferri, mostravano il profilo curvo dei polpacci, alcune punteggiate da mazzolini di rose, altre di tutte le sfumature: le nere traforate, le rosse ricamate ai lati, quelle color carne cosí molli da aver la dolcezza della pelle d’una bionda; finalmente, nel fondo, gittati in simmetria, dei guanti, coi loro diti allungati, il palmo stretto da vergine bizantina, e con quella grazia stecchita e quasi adolescente che ha la veste delle donne prima che sia portata. Ma l’ultima vetrina li trattenne piú delle altre. Una vera esposizione di sete, di rasi e di velluti, ostentava con una gradazione molle e vibrante i toni piú delicati dei fiori: in cima, i velluti d’un nero cupo, d’un bianco di latte accagliato; piú giú, i rasi color di rosa, azzurri, dai tratti vivaci, scolorantisi in pallori d’una dolcezza infinita; piú giú ancora, le sete, tutto il giro dell’arcobaleno, pezze rialzate a sbuffi, spiegate come attorno ad una vita slanciata, divenute vive sotto i diti esperti dei commessi: e tra un motivo e l’altro, tra una frase e l’altra dei colori della mostra, correva un accompagnamento discreto, un leggiero cordone a sbuffi di foulard color crema. Là, ai due capi, sorgevano, in catasta, le due sete delle quali la casa aveva la proprietà esclusiva, la «Paradiso» e la «Pelle d’oro». Roba simile non s’era vista mai: doveva metter sossopra tutto il commercio delle novità.
— Oh! quella seta lí a cinque franchi e sessanta! — mormorò Dionisia, meravigliata nel vedere la «Paradiso».
Gianni cominciava a seccarsi; fermò uno che passava:
— Scusi, dov’è Via della Michodière?
— La prima a destra.
E allora tutt’e tre tornarono sui passi loro, girando intorno al magazzino. Ma sull’entrare nella via, Dionisia fu di nuovo attratta da una vetrina, dov’erano esposte manifatture per signore. Dal Cornaille, a Valognes, era lei che si occupava specialmente delle manifatture. E non aveva mai vista una cosa simile; dall’ammirazione era come inchiodata sul marciapiede. In fondo, una grande sciarpa di trina di Bruges, d’un prezzo assai alto, s’allargava come un parato d’altar maggiore con due ali spiegate, d’una bianchezza carnicina; gale in punto d’Alençon pendevano giú in ghirlande; e da cima a fondo, quasi un fioccar di neve, trine d’ogni sorta, quelle di Malines, quelle di Valenciennes, le applicazioni di Bruxelles, i merletti di Venezia. A destra e sinistra, si alzavano stoffe in colonne cupe, e facevan parere piú lontano quello sfondo da tabernacolo. E le manifatture erano là, in quella cappella eretta al culto delle grazie muliebri; nel mezzo, una meraviglia, un mantello di velluto con guarnizione di volpe argentata; da parte una cappotta di seta, foderata di vaio; dall’altra un paltoncino di panno orlato di penne di gallo; finalmente mantiglie da teatro in casimirra bianca, in trapunto bianco, guarnito di cigno o di ciniglia. Ce n’era per tutti i capricci, dai mantelli a ventinove franchi fino a quello di velluto da milleottocento.
Il petto colmo dei modelli in legno gonfiava la stoffa, le anche rilevate esageravano la sottigliezza della vita: invece della testa c’era un cartellone col prezzo appuntato con uno spillo, nella felpa rossa del collo; e gli specchi, dai due lati della vetrina, con un effetto cercato apposta, li riflettevano e li moltiplicavano senza fine, popolando la via di quelle belle donne in vendita che avevano in grossi numeri il prezzo loro nel posto del capo.
— Che lavori! — mormorò Gianni che non trovò altre parole per esprimere la sua commozione.
Anch’egli era da capo, lí fermo, a bocca aperta. Tutto quel lusso donnesco lo faceva arrossire dal piacere. Era bello femminilmente d’una bellezza che pareva avesse rubata alla sorella; pelle che schizzava salute, capelli rossi e ben pettinati, labbra e occhi molli di dolcezza. Accanto a lui, nel suo stupore, Dionisia pareva anche piú gracile; con quel suo viso lungo, la bocca troppo grande, e la carnagione non piú fresca sotto i capelli d’un biondo troppo chiaro. E Beppino, biondo anch’egli, del biondo dell’infanzia, si stringeva sempre piú a lei, come assalito da un bisogno inquieto di carezze, turbato e fuor di sé per colpa di quelle belle signore delle vetrine.
Erano tanto curiosi e graziosi, lí sul lastrico, i tre biondini vestiti poveramente di nero, la giovinetta triste tra il biondino cosí grazioso e il ragazzo cosí florido, che i passeggieri si voltavano a guardarli sorridendo.
Da qualche minuto, un pezzo d’uomo coi capelli bianchi e col faccione giallo nella sua pienezza, dritto sulla soglia d’una bottega dall’altra parte della strada, li guardava. Stava là, con gli occhi rossi di sangue, la bocca contratta, furibondo per le vetrine del Paradiso delle signore, perché la vista della ragazza e dei suoi fratelli l’aveva stizzito anche piú. Che facevan quei tre grulli, là a bocca aperta dinanzi a quelle ciarlatanerie?
— E lo zio? — esclamò Dionisia, come svegliata all’improvviso.
— In Via della Michodière ci siamo — rispose Gianni. — Deve stare giú di qui.
Alzarono la testa, si voltarono. E proprio davanti a loro, sopra quell’omone, videro una insegna verde, con lettere gialle scolorite dalla pioggia: Il Vecchio Elbeuf, stoffe e flanelle, Baudu successore di Hauchecorne.
La casa, intonacata da un vecchio stucco ingiallito, bassa e volgare in mezzo ai grandi casamenti alla Luigi XIV lí accanto, non aveva che tre finestre di facciata: e a queste finestre, quadre, senza persiane, non c’era che una ringhierina di ferro, due sbarre in croce. Ma, in quella nudità, ciò che piú fece effetto su Dionisia, che aveva ancora negli occhi lo splendore delle vetrine del Paradiso delle signore, fu la bottega del pianterreno, bassa, con sopra un mezzanino bassissimo, e con certe finestrine da prigione, a mezzaluna. In una inquadratura di legno del color verdastro dell’insegna, cui il tempo aveva date sfumature di giallo e di bitume, si aprivano a destra e a sinistra due vetrine profonde, nere, polverose, dove si discernevano vagamente pezze di stoffa messe a casaccio. La porta spalancata pareva desse sulle tenebre umide d’una cantina.
— Sta lí — riprese a dire Gianni.
— E allora bisogna entrare! — concluse con sicurezza Dionisia. — Via, andiamo, Beppino.
Ma tutt’e tre erano commossi, presi da timidità. Quando era loro morto il babbo, ucciso dalla febbre stessa che aveva lor tolta la mamma un mese innanzi, lo zio Baudu, nella commozione di quel doppio lutto, aveva scritto alla nipote che per lei ci sarebbe stato sempre un posto nel suo negozio, quand’ella avesse voluto tentar la sorte a Parigi; ma la lettera era già vecchia quasi d’un anno; e la giovinetta si pentiva ora d’essere cosí venuta via da Valognes, per una risoluzione improvvisa, senza averne avvertito lo zio. Questi non li conosceva nemmeno, perché, da quando era partito giovanissimo per entrare come ragazzino di bottega nel negozio dell’Hauchecorne, di cui aveva poi sposata la figliuola, non era piú tornato laggiú.
— C’è il signor Baudu? — domandò Dionisia, risolvendosi finalmente a parlare a quell’omone che continuava a guardarli, non riuscendo a capire quel che volessero.
— Sono io — rispose.
Dionisia diventò rossa e balbettò:
— Ah! tanto meglio... Sono Dionisia, e questo è Gianni, e questo è Beppino... Eccoci, zio: siamo venuti.
Il Baudu parve colpito da stupore. Cominciò a stralunare i suoi occhioni rossi nella faccia gialla; le parole gli uscivano lente e confuse, tanto era col pensiero lontano da quella famiglia che gli cascava sulle spalle.
— Oh! Siete qui? Siete qui, voi? O come mai siete qui? Oh, se eri a Valognes!... Come mai non siete a Valognes?
Con la voce dolce e un po’ tremante ella gli dové spiegare la cosa. Dopo la morte del padre, che aveva consumato tutto il suo nella tintoria, era rimasta lei a far da mamma ai due bambini. Quanto guadagnava dal Cornaille non le bastava per dar da mangiare a tutt’e tre. Gianni, è vero, lavorava da un ebanista, un restauratore di mobili antichi; ma non buscava un soldo. Nel lavorare, aveva preso gusto a quelle anticaglie, e intagliava figurine in legno; un giorno, anzi, che aveva trovato un pezzetto d’avorio, s’era divertito a fare una testa che un signore, nel passare, aveva veduta; ed era proprio quel signore che li aveva fatti risolvere ad andarsene da Valognes, avendo trovato a Parigi un posto per Gianni da un tornitore di avori.
— Capite, zio, Gianni entrerà domattina subito a fare il tirocinio dal suo nuovo padrone.
Non mi chiedono nulla; gli daranno da mangiare e da dormire... Cosí ho pensato che Beppino ed io ce la caveremo sempre a ogni modo. Tanto, piú disgraziati che a Valognes, non si può essere.
Ma si guardò bene dal dire della birichinata amorosa di Gianni, delle lettere scritte ad una signorina nobile della città, dei baci scambiati di sopra a un muro, un vero e proprio scandalo che l’aveva spinta ad andarsene. In fondo, accompagnava il fratello a Parigi per vegliare su lui, presa da terrori materni per quel ragazzone cosí bello e allegro, che tutte le donne adoravano.
Lo zio Baudu non riusciva a raccapezzarsi. Ricominciava a interrogare. Con tutto ciò, quando l’ebbe sentita parlare a quel modo dei suoi fratelli, principiò a darle del tu.
— Ma tuo padre non vi ha lasciato nulla? Credevo che qualche soldo l’avesse ancora. Oh! quante volte gliel’ho scritto di non pigliare quella tintoria! Buon cuore, ma giudizio punto!... E tu sei restata con quei due fantocci sulle braccia, ed hai dovuto dar da mangiare a tutta questa gente?
La faccia biliosa gli s’era rasserenata; gli occhi non eran piú rossi come quando egli guardava il Paradiso delle signore. A un tratto si accorse che sbarrava, stando lí, la porta.
Via — disse, — entrate, dacché siete venuti... Entrate; sarà meglio che star qui a chiacchierare senza sugo.
E, rivolta alle vetrine di faccia un’ultima smorsia stizzosa, fece passare i ragazzi, ed entrò primo nella bottega, chiamando la moglie e la figliuola.
— Elisabetta, Genoveffa, via, leste! c’è gente che vi vuole!
Ma Dionisia ei ragazzi esitarono un po’ dinanzi al buio della bottega. Accecati dalla luce piena della strada, battevano le palpebre come sulla soglia d’un sotterraneo, tentando il suolo con i piedi per la paura istintiva di qualche scalino traditore. E stretti ancora piú da quel vago timore, stringendosi gli uni con gli altri, il monello attaccato sempre alle gonnelle della giovinetta, e quell’altro dietro, entrarono con una grazia sorridente ed inquieta. Il chiaro della mattina faceva risaltare il nero profilo del loro vestito a lutto, e una luce obliqua dorava i loro capelli biondi.
— Entrate, entrate! — ripeteva il Baudu.
Con poche parole, mise al corrente la moglie e la figliuola. La prima era una donnina consunta dall’anemia, bianca tutta; bianchi i capelli, bianchi gli occhi, bianche le labbra. Genoveffa, anche più debole della madre, aveva la gracilità e la pallidezza d’una pianta cresciuta all’ombra. Ma i capelli neri magnifici, folti e lunghi, nati come per miracolo da quelle carni esangui, le davano, nella sua tristezza, una grazia tutt’altro che spiacevole.
— Entrate! — dissero alla volta loro le donne. — Benvenuti!
E fecero sedere Dionisia dietro un banco. Beppino salí subito sui ginocchi della sorella; Gianni, appoggiato a uno scaffale, le stava accanto.
Andavano un po’ rimettendosi dal primo sbalordimento; guardavano la bottega, e i loro occhi si avvezzavano al buio. Vedevano ora com’era fatta, col soffitto basso e affumicato, con gli scrittoi di quercia lucidi dal lungo uso, con gli scaffali e i casellari decrepiti e pieni di ferrature; mucchi di merci che salivano cupi ai travicelli. L’odore delle stoffe e delle tinture, un odore acuto di robe da chimici, pareva reso piú intenso dall’umidità dell’impiantito. In fondo, due commessi e una ragazza mettevano in ordine flanelle bianche.
— Questo signorino vuol pigliare qualcosa? — disse la signora Baudu sorridendo a Beppino.
— No, grazie — rispose Dionisia. — S’è bevuta una tazza di latte in un caffè di faccia alla stazione. — E poiché Genoveffa guardava il fagottino che ella aveva posato in terra, aggiunse: — La valigetta l’ho lasciata là.
Arrossiva, capiva che non si casca a quel modo in casa d’altri. Già nel vagone, fin da quando il treno era partito da Valognes, le erano cominciati i rimpianti e la paura, e per questo aveva lasciata la valigia e fatto far colazione ai ragazzi.
— Guardiamo... — disse a un tratto il Baudu. — Discorriamo un po’ e discorriamo bene. Io ti scrissi, è vero; ma è già passato un anno, e vedi, figliuola mia, da un anno in qua gli affari non sono andati punto a modo mio...
Si fermò, soffocato da una commozione che non voleva mostrare. La signora Baudu e Genoveffa, con aria rassegnata, avevano abbassati gli occhi.
— Oh! — seguitò — è una crisi che passerà; di questo ne sono sicuro. Ma, vedi, ho dovuto mandar via della gente; non sono piú che in tre, e a questi lumi di luna... Insomma, povera figliuola, io non ti posso mica aiutare come t’avevo detto!
Dionisia ascoltava, sbigottita, pallida pallida.
Egli insisté, aggiungendo:
— Non ci si guadagnerebbe né tu né noi.
— Va bene, zio — disse ella alla fine, penosamente. — Cercherò di cavarmela da me sola.
I Baudu non erano cattivi; ma si lamentavano di non avere avuto mai fortuna. Quando il commercio andava bene, avevano dovuto tirar su cinque ragazzi; tre erano morti a venti anni; il quarto era riuscito tutt’altro da quel che volevano; il quinto era partito di recente per il Messico, come capitano. Non restava loro che Genoveffa. Ma tutta quella famiglia era costata cara, e il Baudu aveva finito di rovinarsi comprando a Rambouillet, il paese del suocero, un gran baraccone di casamento. E per questo, in quella sua lealtà maniaca di vecchio negoziante, era di giorno in giorno piú scontento e acre.
— Dio benedetto! prima di muoversi, si manda a dire qualche cosa! — riprese, stizzito sempre piú, dentro sé, della sua propria durezza. — Mi potevi scrivere; t’avrei risposto di restare dov’eri. Quando seppi la morte del tuo babbo, per Bacco! ti dissi quel che si dice sempre. Ma tu ci capiti senza dir nulla... E un bell’affare!
Alzava la voce e cosí si sfogava. La moglie e la figliuola stavan lí ferme con gli sguardi fissi a terra, da gente sottomessa che non osa interloquire. Gianni ci diventava verde; Dionisia s’era stretto al petto Beppino spaventato, e due grosse lacrime le caddero dagli occhi.
— Va bene, zio — rispose lei. — Ce n’andremo subito.
Ci fu un istante di silenzio; poi il Baudu ripigliò con un tono burbero:
— Non vi caccio mica via!... Dacché siete venuti, per stasera, diamine!, resterete a dormire qui. Dopo si vedrà.
Allora, la signora Baudu e Genoveffa capirono da un’occhiata che potevano accomodar tutto.
Fu presto fatto. Gianni entrava il giorno dopo a bottega, e questa era una faccenda bell’e sbrigata. Beppino starebbe benissimo dalla signora Gras, una vecchia che teneva a retta i bambini per quaranta franchi il mese. Dionisia disse che poteva pagare il primo mese. Non rimaneva dunque che da trovare un posto a lei stessa. Un posto, in tutto il quartiere, glielo avrebbero trovato!
— O il Vinçard non cercava una che sapesse stare al banco? — disse Genoveffa.
— Sí, è vero! — esclamò il Baudu. — Ci andremo dopo colazione. Il ferro bisogna batterlo mentre è caldo.
Non capitò nemmeno un avventore a interrompere quei discorsi. La bottega restava nera e vuota. Nel fondo i due commessi e la ragazza continuavano a lavorare, con un mormorio e brusio di parole. Alla fine comparvero tre signore: Dionisia rimase sola per un momento; e col cuore angustiato dal pensiero della separazione vicina si affrettò a baciare Beppino che, carezzevole come un gatto, nascondeva la testa e non diceva una parola. Quando la signora Baudu e Genoveffa tornarono, lo trovarono quatto quatto, e Dionisia disse che non si sentiva mai; stava zitto giornate intere, vivendo di carezze. Fino all’ora di colazione non fecero che parlare di bambini, delle faccende di casa, della vita a Parigi e in provincia, a frasi corte e vaghe, come fra parenti un po’ imbrogliati dal non conoscersi bene. Gianni era andato sull’uscio della bottega e stava lí fermo, tutto attento alla gente che passava, e sorrideva alle belle ragazze.
Alle dieci una serva comparve. Di solito la tavola era apparecchiata per il Baudu, Genoveffa e il primo commesso: alle undici c’era una seconda tavolata per la signora, l’altro commesso e la ragazza.
— A tavola! — esclamò il negoziante, volgendosi alla nipote.
E quando furono a sedere nel salottino da pranzo, dietro la bottega, chiamò il primo commesso che si faceva aspettare.
— Colomban!
Il giovane si scusò col dire che aveva voluto finire di mettere in ordine le flanelle. Era un pezzo di giovinotto di venticinque anni, grosso e colorito. Aveva una faccia onesta, bocca larga da buon diavolo, occhi furbi.
— Eh! santo Dio! c’è tempo per ogni cosa! — riprese il Baudu che, adagiandosi con tutti i suoi comodi, tagliava un pezzo di lesso freddo, con una prudenza e una bravura da padrone, pesando le fettine con un’occhiata, senza sbagliarle d’un grammo.
Serví tutti; affettò perfino il pane. Dionisia s’era messa accanto Beppino, perché mangiasse pulito e a modo. Ma quel salottino buio la turbava; lo guardava e si sentiva stringere il cuore, avvezza a quegli stanzoni, cosí nudi e cosí pieni d’aria e di luce, della sua provincia. Non c’era che una finestra; dava su un cortile interno in comunicazione con la strada per un andito buio; e quel cortile umido e fetido sembrava il fondo d’un pozzo dove cadesse un cerchio di luce pallida. L’inverno bisognava che nel salottino da pranzo tenessero acceso il gas dalla mattina alla sera. Quando il tempo permetteva di non accenderlo, era anche piú triste. Ci volle un po’ perché gli occhi di Dionisia si avvezzassero a distinguere abbastanza i bocconi nel piatto.
— Questo davvero non soffre di disappetenza! disse il Baudu, quando vide che Gianni aveva finita la carne. — Se lavora quanto mangia, diventerà un... Ma tu, figliuola mia, non mangi... E dimmi un po’, ora che si può parlare, o perché non hai preso marito?...
Dionisia posò il bicchiere che stava per mettersi alle labbra.
— Oh, zio! maritarmi?... e allora i ragazzi?
Finí col dare in una risata, tanto quell’idea curiosa. E poi chi avrebbe mai voluto saperne di lei, cosí senza un soldo, piccina come un uccellino, e per di piú brutta com’era? No, no, non voleva marito; n’aveva abbastanza di quei due bambini!
— Sbagli! Sbagli! — ripeteva lo zio — una donna ha sempre bisogno d’un uomo. Se tu ti fossi inciampata in un bravo ragazzo, non vi trovereste sul lastrico di Parigi, tu e i tuoi fratelli, come gli zingari.
S’interruppe per fare un’altra volta le parti, con una parsimonia piena di giustizia, d’un vassoio di patate cotte col lardo, che la serva aveva portato.
Poi indicò col cucchiaio Genoveffa e il Colomban:
Vedi! — riprese a dire — quei due lí, se la stagione d’inverno andrà bene, saranno marito e moglie a primavera.
Era quella la consuetudine patriarcale della casa. Il fondatore del negozio, Aristide Finet, aveva data la sua figliuola Desiderata al primo commesso, Hauchecorne, e lui Baudu, venuto in via Michodière con sette franchi in tasca, s’era sposata la figliuola dell’Hauchecorne, Elisabetta.
Ed ora, subito che gli affari fossero andati un po’ meglio, voleva dare la figliuola e il negozio al Colomban. Se ritardava cosí un matrimonio fissato da tre anni, era per uno scrupolo, per una cocciutaggine di probità: gli avevan data la casa in florido stato, a lui; e non voleva lasciarla al genero con meno avventori e affari imbrogliati.
Il Baudu seguitò, presentò il Colomban che era nato a Rambouillet come il suocero, anzi erano cugini alla lontana. Disse che era un gran lavoratore, che da dieci anni andava su e giú per la bottega, e che la fortuna se l’era meritata davvero. E poi non era mica il primo venuto; aveva per babbo un veterinario famoso in tutta la regione di Senna e Oise, un vero artista nel suo genere, ma tanto ghiottone, che finiva col mangiarsi tutto per sé.
— Grazie a Dio, — disse il negoziante a mo’ di conclusione — se il padre beve e corre la cavallina, il figliuolo almeno ha imparato qui ciò che costano i quattrini!
Mentre egli parlava, Dionisia guardava il Colomban e Genoveffa. Stavano accanto, ma tranquilli tranquilli, senza mai arrossire, senza mai sorridere: Fin dal giorno ch’era entrato nel negozio, il giovinotto aveva fatto assegnamento su quel matrimonio. Era salito su su da ragazzino di bottega a impiegato stabile, ed ammesso finalmente alle confidenze e ai piaceri della famiglia, sempre con una gran pazienza, regolato come un orologio, pensando che Genoveffa era un affare ottimo e onesto. La certezza di ottenerla gl’impediva di desiderarla. E la ragazza si era avvezzata anche lei a volergli bene, ma con la gravità dell’indole sua tutta chiusa, e con una passione profonda che, nella calma volgare e metodica della sua vita, ella stessa ignorava.
— Bella cosa, — credé dover dire Dionisia sorridendo per fare un complimento — bella cosa piacersi e potersi sposare!
— Già, allora le cose vanno per il loro verso! — rispose il Colomban che non aveva ancora siatato e masticava adagio adagio.
Genoveffa, dopo avergli gettata una lunga occhiata, disse alla sua volta:
— Tutto sta nell’intendersi; poi le cose vanno da sé.
Il loro amore era nato e cresciuto in quel pianterreno della vecchia Parigi. Era come un fior di cantina. Da dieci anni ella non conosceva che lui, viveva le giornate intere accanto a lui; dietro gli stessi mucchi di stoffe, in fondo al buio della bottega: e la mattina e la sera si trovavano accanto nel salottino da pranzo, fresco come un pozzo. In mezzo alla campagna, sotto il fogliame, non sarebbero stati piú nascosti e piú soli. Soltanto un sospetto, un timore di gelosia ch’ella s’era data doveva fare accorta la ragazza intera, per sempre, in mezzo a quell’ombra complice, per vuoto di cuore e noia di testa.
Dionisia non pertanto aveva creduto di scorgere un principio d’inquietudine nell’occhiata che Genoveffa aveva gettata al Colomban. E s’affrettò a rispondere garbatamente:
— Oh! quando due si vogliono bene, s’intendono sempre.
Intanto il Baudu sorvegliava la tavola con autorità. Aveva già fatte le parti di certe fettine di formaggio, e, per festeggiare i parenti, chiese dell’altra roba: un vasetto di conserva di ribes, magnificenza che parve stupire il Colomban.
Beppino che fin allora era stato bonissimo si fece scorgere quando vide la conserva. Gianni con gli orecchi tesi finché avevan parlato del matrimonio, guardava ora la cugina che gli pareva troppo gracile, troppo pallida, e che paragonava, dentro di sé, a un coniglino bianco con le orecchie nere e gli occhi rossi.
— Ora su! disse finalmente il Baudu. — S’è chiacchierato abbastanza, noi: posto agli altri! — E dette il segnale d’alzarsi da tavola. — Perché c’è qualche cosa di piú, non vuol dir mica che s’abbia ad abusare di tutto...
La signora, quell’altro commesso e la ragaz za, vennero a mettersi a tavola. Dionisia restò di nuovo sola a sedere accanto alla porta, aspettando che lo zio la potesse condurre dal Vinçard.
Beppino faceva il chiasso ai suoi piedi; Gianni era tornato sull’uscio a guardar la gente. Per un’ora ella prese parte a ciò che le avveniva intorno. Di tanto in tanto entrava qualcuno; una signora, poi due altre: la bottega aveva sempre quell’odore di vecchiume, e quella mezza luce dove pareva che tutto l’antico commercio, tanto semplice e alla buona, piangesse per l’abbandono. Ma dall’altra parte della via, il Paradiso delle signore le destava assai piú curiosità, perché, traverso l’uscio aperto della bottega, ne vedeva le vetrine. Il cielo era sempre coperto, ma, per quanto la stagione fosse avanzata, l’aria era come addolcita di pioggia; e in quella luce bianca, in che il sole si diffondeva a polviscolo, il grande magazzino viveva nella foga della vendita.
Allora a Dionisia parve di trovarsi davanti a una macchina ad alta pressione che desse fremiti perfino alle vetrine. Non erano vetrine fredde come quella mattina: sembravano, ora, scaldate e vibranti per l’interno trepidamento. C’era gente a guardarle; delle donne stavan lí ferme di contro ai cristalli; una folla intera, brutale di cupidigia. E le stoffe in quella passione che moveva dal marciapiede, vivevano; le trine avevan brividi e ricadevano nascondendo la profondità del magazzino con un’aria di mistero che turbava; le pezze stesse delle stoffe, pesanti e quadrate, respiravano con alito tentatore; gli abiti si drizzavano anche piú eleganti nelle curve loro su fantocci che se ne animavano, specialmente il gran mantello di velluto morbido e tiepido come se avvolgesse spalle di carne, con sussulti del petto e fremiti delle anche. Ma il calore da opificio, onde la casa ardeva, veniva soprattutto dalla vendita, dalla ressa nelle sale che si sentiva dietro i muri. Un rumore continuo di macchina, che cacciasse dentro gli avventori, li ammucchiasse dinanzi agli scaffali, li soffocasse sotto le merci, poi li gettasse alla cassa. E ciò, regolarmente, con un ordine rigoroso, quasi meccanico; un popolo intero di donne passava traverso la forza logicamente sicura delle ruote dentate.
Dionisia, fin dalla mattina, n’era tentata. Quel magazzino tanto grande per lei, nel quale ella vedeva in un’ora entrare piú gente che dal Cornaille in sei mesi, la stordiva e l’attirava; e nel desiderio di entrarvi era anche un po’ di paura mal distinta, ma che la seduceva anche piú. Nel tempo stesso la bottega dello zio le dava un senso di malessere. Sentiva uno sdegno quasi istintivo, una repugnanza naturale per quel gelido sotterraneo del vecchio commercio.
Tutto questo tumulto di sensazioni, l’accoglienza un po’ asprigna dei parenti, la colazione fatta tristamente in un buio da prigione, quell’aspettare in mezzo alla solitudine sonnacchiosa di quella vecchia casa agonizzante, si compendiavano in una cupa prostrazione, in un desiderio intenso di vita e di luce. Né, per quanto fosse buona di cuore, le riusciva mai di staccare gli occhi dal Paradiso delle signore, come se, avvezza a stare a banco, avesse ora bisogno di riscaldarsi in quell’ardore di negozi, in quello scambio continuo di danari e di merci.
— Quelli sí, che n’hanno degli avventori! — le scappò detto.
Ma vedendosi i Baudu accanto, le rincrebbe di essersi lasciata sfuggire quelle parole. La signora, che aveva finito di far colazione, stava lí dritta, bianca bianca, con gli occhi bianchi fissi sul mostro; e pur rassegnata, non poteva vederlo cosí dall’altra parte della strada senza che una muta disperazione le facesse gonsiare di lacrime gli occhi. Genoveffa intanto sorvegliava con inquietudine sempre maggiore il Colomban, che, non sapendo di essere spiato, stava in estasi con gli occhi fissi verso le ragazze che s’intravedevano, intente alla vendita, dietro i cristalli del mezzanino.
Il Baudu, pieno di bile, si contentò di dire:
— Non è tutt’oro quel che riluce! Pazienza!
La famiglia, si vedeva chiaramente, ringoiava l’ondata di rancori che le era salita alla gola.
Un pensiero d’amor proprio impediva che si mostrassero quali erano, a quei ragazzi arrivati proprio allora. Finalmente, il negoziante fece uno sforzo, e si rivoltò per togliersi alla vista della vendita di faccia.
— Bene, via! — riprese a dire — andiamo dal Vinçard; i posti sono braccati; domani, forse, non saremmo piú a tempo.
Ma, prima d’uscire, comandò al secondo commesso di andare alla stazione per la valigetta di Dionisia. Da parte sua la signora Baudu, cui la giovinetta affidava Beppino, risolvette di condurre allora il bambino dalla signora Gras, nel vicolo delle Ortiche, per discorrere un po’ e fissare tutto. Gianni promise alla sorella che non si sarebbe mosso dalla bottega.
— È un affare di due minuti — si mise a dire il Baudu alla nipote mentre facevano Via Gaillon. — Il Vinçard fabbrica certe sete che ancora gli vanno bene. Oh! anche a lui gli ci vuole giudizio; ma è un volpone che a forza d’avarizia riesce a mettere d’accordo il desinare con la cena... Credo per altro che voglia chiuder bottega, per via dei suoi reumatismi.
Il magazzino era in Via Nuova des Petits-Champs, vicino alla galleria Choiseul. Era alla moderna, pulito e allegro, ma troppo piccolo e povero di mercanzie. Il Baudu e Dionisia trovarono il Vinçard che discuteva caldamente con due signori.
— Non vi scomodate — disse forte il Baudu. — Non abbiamo furia; si aspetterà.
E tornando per discrezione verso l’uscio, aggiunse in un orecchio alla ragazza:
— Quello magro sta al Paradiso, ed è il secondo commesso per la seta; quello grasso è un fabbricante di Lione.
Dionisia capí che il Vinçard cercava di appioppare il suo magazzino al Robineau, il commesso del Paradiso.
A viso aperto, con un’aria tutta lealtà, dava la sua parola d’onore; si vedeva che i giuramenti gli costavano poco. A sentirlo, il suo negozio era un affare d’oro; e, grosso e grasso com’era, un fior di salute, ogni poco si interrompeva per piagnucolare, per lamentarsi di quei maledetti dolori che l’obbligavano a lasciar andare la Fortuna mentre l’aveva pei capelli. Ma il Robineau, nervoso e irrequieto, lo interrompeva: se ne intendeva lui del pericolo che le «novità» correvano, e diceva d’una qualità particolare di seta già deprezzata e tolta di mezzo dalla vicinanza del Paradiso.
Il Vinçard allora, tutto acceso, alzò la voce:
— Per Bacco! ma il fallimento di quel citrullo del Vabre doveva avvenire per forza. La moglie gli mangiava tutto!... E poi qui siamo lontani un mezzo miglio, mentre il Vabre era lí uscio a uscio.
Si mise allora di mezzo il Gaujean, il fabbricante di sete: e ricominciarono a discorrere a voce bassa.
Egli, la colpa della rovina delle fabbriche francesi la dava ai grandi magazzini: facevan loro le leggi, spadroneggiavano sul mercato; e lasciava capire che la sola maniera di combatterli era di favorire il commercio minuto, e soprattutto le «specialità». L’avvenire era delle specialità. Per questo apriva larghissimi crediti al Robineau.
— Il Paradiso s’è condotto molto male con voi! — badava a ripetere. — Non han tenuto nessun conto dei servizi resi, delle belle trovate per chiamar la gente!... Il posto di primo commesso toccava a voi, e ve l’avrebbero dovuto dare da un pezzo; ecco il Bouthemont che arriva di fuori, e di colpo vi fa una finestra sul tetto.
Di questa ingiustizia il Robineau non si sapeva dar pace, ma non arrischiava a metter negozio di suo, perché, diceva, i danari non eran suoi; sua moglie aveva ereditati sessantamila franchi; e lui si mostrava pieno di scrupoli per questa somma. Piuttosto, diceva, si sarebbe tagliate tutt’e due le mani che buttarla in affari poco sicuri.
— Abbiate pazienza, per ora... — conchiuse finalmente. — Lasciatemi il tempo di ripensarci su, e poi ne riparleremo.
— Padrone! — disse il Vinçard, nascondendo il dispetto sotto un’aria bonacciona. — A vendere non ci ho mica nessun interesse io! Eh! se non fossero i miei dolori...
E tornando in mezzo al magazzino domandò:
— Posso servirvi, in qualcosa, signor Baudu?
Il negoziante, che con un orecchio era stato attento, presentò Dionisia, raccontò di lei ciò che gli parve opportuno, e disse ch’ella aveva lavorato due anni in provincia.
— E siccome voi cercate una ragazza che sappia stare al banco, se è vero quel che m’han detto...
Il Vinçard finse una grande disperazione:
— Guarda che sfortuna! È vero; per otto giorni di seguito ho cercato una ragazza, ma non sono due ore che l’ho fissata.
Ci fu un momento di silenzio; Dionisia pareva costernata.
Allora il Robineau, che la guardava con curiosità, certo commosso dal povero aspetto di lei, si fece lecito di dare un consiglio.
— So che da noi hanno bisogno di qualcuna nella sezione delle manifatture.
Il Baudu non poté trattenere un grido che gli veniva dal cuore:
— Da voi? oh, questo poi no!
Si chetò a un tratto, impicciato. Dionisia s’era fatta rossa rossa: entrare in quel gran magazzino!
Il solo pensarci la invogliava.
— Ma perché? — rispose il Robineau meravigliato. — Sarebbe anzi una fortuna per la signorina... La consiglio di presentarsi domattina presto alla signora Aurelia, che è la direttrice. In fondo che ci rimette? Il peggio che le possa accadere è sentirsi dire di no.
Il negoziante, per nascondere la stizza che lo rodeva, si mise a far discorsi senza costrutto:
conosceva la signora Aurelia, o per lo meno il suo marito, il Lhomme, cassiere, un pezzo d’uomo che aveva perso un braccio sotto le ruote d’un omnibus. Poi tornando furbamente a Dionisia:
— D’altra parte è padrona lei... padrona di fare quel che le pare e piace.
E se n’andò, dopo aver salutato il Gaujean e il Robineau. Il Vinçard l’accompagnò fino all’uscio ripetendo:
— Quanto mi dispiace! ah, quanto mi dispiace! La ragazza era rimasta in mezzo al negozio, un po’ impaurita, un po’ smaniosa di avere dal commesso notizie piú compiute. Ma non osò domandarle, e salutò anch’essa dicendo soltanto:
— Grazie, signore!
Sul marciapiede il Baudu non volse la parola alla nipote. Camminava lesto lesto, costringendola a fare altrettanto, come immerso nei suoi pensieri. In via della Michodière stava per entrare in casa, quando un negoziante vicino, dritto sull’uscio della sua bottega, lo chiamò con un cenno. Dionisia si fermò per aspettarlo.
— Che c’è, babbo Bourras?... — domandò il Baudu.
Il Bourras era un bel vecchione, con una testa da profeta, coi capelli e la barba lunghi, con certi occhi che di sotto ai sopraccigli irti pareva bucassero. Aveva un negozio di mazze e di ombrelli; li accomodava, e ne scolpiva da sé i manichi, per modo che nel quartiere s’era acquistata fama di artista. Dionisia diè un’occhiata alle vetrine nelle quali gli ombrelli e le mazze stavano in file simmetriche; poi alzò gli occhi, e restò meravigliata guardando la casa, una casaccia stretta tra il Paradiso delle signore e un gran casamento alla Luigi XIV, venuta su non si poteva dir come, in quello strettoio, uove i suoi due piani restavano soffocati. Se non l’avessero cosí sorretta a destra e a sinistra, sarebbe rovinata, ché già le lavagne del tetto, tutte sossopra e infracidite, e la facciata a due finestre piene di crepacci, mandavano lunghe macchie di umido sul legno mezzo roso del cartello.
— Sapete che ha scritto al padrone per comprare la casa? — disse il Bourras guardando fisso fisso il negoziante con i suoi occhi di siamma.
L’altro diventò anche piú livido e si strinse nelle spalle. Ci fu una pausa: quei due restavano in faccia l’uno all’altro, guardandosi serii.
— Finché uno ha denti in bocca... bisogna aspettarsele tutte, caro mio! — mormorò alla fine.
Allora il Bourras s’infuriò e scosse i capelli e la barba ondeggiante.
— Se la compri la casa, la pagherà quattro volte quel che vale!... Ma ve lo giuro io, finché avrò siato non ne toccherà un mattone. La mia scritta dura ancora dodici anni... si vedrà, si vedrà!
Una vera dichiarazione di guerra. Il Bourras si voltava verso il Paradiso delle signore che nessuno dei due aveva nominato, stringeva i pugni, e giurava che non avrebbe ceduto il suo posto, neppure se dovesse stare un anno senza vendere un ombrello. Il Baudu zitto scosse il capo, e traversò la strada per tornarsene a casa con le gambe che gli si piegavano, e ripetendo:
— Ah! mio Dio!... ah! mio Dio!
Dionisia, che aveva sentito tutto, tenne dietro allo zio. La signora Baudu tornava anche lei con Beppino, e disse che la signora Gras lo avrebbe preso quando volessero. Ma Gianni non si vedeva piú; e fu un gran pensiero per la sorella. Quando tornò, col viso animato, parlando del boulevard con ardore, lei lo guardò con tanta tristezza, che lo fece arrossire. Era arrivata intanto la loro valigia; avrebbero dormito nelle soffitte.
— A proposito, e il Vinçard? — domandò ad un tratto la signora Baudu.
Il negoziante raccontò il suo tentativo inutile; poi aggiunse che alla nipote le avevan proposto qualche altra cosa, stese il braccio verso il Paradiso delle signore, e con un gesto di disprezzo disse rabbiosamente:
— Là dentro!
Tutta la famiglia ne fu punta sul vivo. La sera, la prima tavolata era alle cinque. Dionisia e i ragazzi ripresero i posti della mattina col Baudu, Genoveffa e Colomban. Una siammella di gas illuminava e scaldava il salottino dove s’addensava l’odore delle vivande. La signora Baudu, che non ne poteva piú, venne via dalla bottega e si mise a sedere dietro alla nipote. E allora la tempesta repressa fin dalla mattina scoppiò, e tutti, nel dare addosso al mostro, si sfogarono.
— Quest’è un affare tuo e ci hai da pensare tu... la padrona sei tu — badava a dire il Baudu. — Noi non vogliamo influenzarti... ma se tu la conoscessi quella casa lí!...
A frasi tronche raccontò la storia di quell’Ottavio Mouret. Tutte le fortune aveva avute! Giovinotto capitato a Parigi dal Mezzogiorno con la graziosa audacia dell’avventuriere; e appena giunto, pasticci di donne, un servirsi delle donne per andare innanzi, lo scandalo di un delitto flagrante, del quale si parlava ancora nel quartiere; poi la subita ed inesplicabile conquista della signora Hédouin che gli aveva portato in dote Il Paradiso delle signore.
— Povera Carolina! — interruppe la signora. — S’era un po’ parenti io e lei. Ah! se non fosse morta lei, le cose non sarebbero andate cosí. Lei non lascerebbe assassinare... E l’ha ammazzata lui! Già, quando faceva quei lavori di muratura! Una mattina andò a vederli e cadde in una buca. Tre giorni dopo morí. E non era stata malata mai; era tanto sana, tanto bella! C’è del sangue, c’è del sangue sotto le pietre di quella casa.
Attraverso i muri additava il gran magazzino con la mano pallida e tremante. Dionisia, che stava a sentire come si sta ad ascoltare una novella, ebbe un leggiero brivido. Chi sa che la paura donde era dalla mattina in poi turbata, l’attrattiva che il Paradiso esercitava su lei, non nascessero dal sangue di quella donna, che ora le pareva vedere rosseggiare nel pavimento?
— Par che gli porti fortuna! — aggiunse la Baudu, senza nominare il Mouret.
Ma il negoziante alzava le spalle sdegnando quei discorsi da comari. Ricominciò il suo racconto, e spiegò commercialmente lo stato delle cose. Il Paradiso delle signore era stato fondato nel 1822 dai fratelli Deleuze. Alla morte del maggiore, la figlia di lui, Carolina, s’era maritata con un figliuolo di un fabbricante di tele, Carlo Hédouin; e dopo, rimasta vedova, aveva sposato quel tale Mouret, portandogli cosí in dote la metà del magazzino. Non erano passati tre mesi che lo zio, il Deleuze, era morto anche lui, senza aver avuto figli. Cosí, quando Carolina aveva lasciate le ossa tra i calcinacci, il Mouret era rimasto erede di tutto, e padrone assoluto del Paradiso. Fortune su fortune!
— Un sognatore, un matto pericoloso che butterà all’aria il quartiere, se lo lascian fare... seguitò il Baudu. — Carolina, ch’era anche lei un po’ romanzesca, rimase presa ai disegni stravaganti di quel brav’uomo. Il fatto si è che le fece comprare la casa a sinistra e poi quella a destra; e ora che è rimasto solo, ne ha comprate altre due; e cosí il magazzino è cresciuto, è cresciuto tanto, che minaccia d’ingoiarci tutti.
Si rivolgeva a Dionisia, ma parlava per sé, rimangiandosi quella storia che non lo lasciava mai in pace. Fra i suoi era bilioso, smanioso, furioso, sempre coi pugni stretti. La signora si appartava, standosene immobile su di una sedia; Genoveffa e il Colomban, con gli occhi bassi, raccattavano e mangiavano distrattamente briciole di pane. Faceva tanto caldo in quell’afa della stanza, che Beppino s’era addormentato, appoggiato alla tavola, e a Gianni gli occhi si chiudevan da sé.
— Pazienza! — riprese il Baudu, invaso a un tratto dalla collera. — Gl’imbroglioni se ne andranno con le corna rotte! Già la gente onesta la vince sempre sulla canaglia, perché basta che stia ferma a guardare e aspettare il capitombolo!... Il Mouret non naviga mica in buone acque, lo so di sicuro. Tutto quel che aveva guadagnato lo ha speso nelle sue pazzie d’ingrandimenti e di pubblicità. Di piú, per trovar capitali, ha pensato di fare in modo che la maggior parte dei suoi impiegati mettano da lui a frutto quel poco che hanno. E ora non ha un soldo, e se non gli riesce di triplicare la vendita, come spera lui, vedrete che affare!... Non sono cattivo, io; ma quel giorno, vi dò la parola d’onore che metto i lumi alle finestre.
Seguitò con voce di vendicatore: pareva che la rovina del Paradiso delle signore dovesse rialzare la decaduta dignità del commercio; s’era mai vista una cosa simile? un negozio di «novità» dove si vendeva di tutto? Ma quello non era un negozio, era un bazar! E gl’impiegati? Carini!... Un mucchio di bellimbusti che lavoravano come se fossero in una stazione, e trattavan mercanzie e avventori come fagotti, piantando il padrone, quando il padrone non piantava loro, per una mezza parola: gente senza cuore, scostumata, ignorante. E lí per lí prese a testimone il Colomban: lui, il Colomban, educato secondo le buone regole, sapeva che, un po’ per volta, si arriva a saperle, tutte e bene, le arti e furberie del mestiere. Non si trattava mica di vender molto, si trattava di vender caro. E lui poteva dirlo com’era stato trattato, come era divenuto uno di casa; e come l’avevan curato quando era stato malato; e gli avevano lavata sempre la roba, gli avevano fatto i rammendi, e poi e poi... sorvegliato paternamente. Insomma gli avevan voluto bene come a un figliuolo. Ecco fatto! — Sicuro, sicuro! — ripeteva il Colomban ad ogni bercio del padrone.
— Ma tu sei l’ultimo, caro mio — concluse il Baudu commosso. — Eh, dopo te non ce ne sarà altri... Io non ho altra speranza che te, perché se chiamano commercio un fare agli spintoni in quel modo, allora io non ci capisco piú niente; è meglio uscirne una volta per sempre.
Genoveffa con la testa china su una spalla, come se i folti capelli neri le gravassero troppo la pallida fronte, guardava il commesso sorridendo, e nel suo sguardo si leggeva un sospetto, un desiderio di scorgere se il Colomban, preso da rimorso, arrossisse o no a sentire quelle lodi. Ma da uomo che le commedie del vecchio negozio le sapeva per filo e per segno, lui stava lí come se nulla fosse, con la sua aria bonacciona, e con le labbra chiuse per modo, che davano alla sua fisonomia un aspetto di singolare malizia.
Il Baudu seguitava intanto a vociare sempre piú forte, ed accusava quel continuo scarico di balle lí in faccia, quei selvaggi che si sgozzavano tra loro nella cosiddetta lotta per la vita, di arrivare perfino a distruggere la famiglia. Citava i loro vicini in campagna, i Lhomme, babbo, mamma e figlio, tutt’e tre impiegati in quella baracca; gente che non formava piú una famiglia, sempre fuori: non mangiavano in casa altro che la domenica: una vita, insomma, da tavola rotonda, da albergo. Sicuro, il suo salotto da pranzo non era grande; la luce e l’aria non v’abbondavano: ma almeno la sua vita era attaccata lí, dov’egli aveva vissuto nell’amore dei suoi. E mentre parlava, facendo con gli occhi il giro della stanza, gli venivano i sudori a questo pensiero, che non osava confessare: quei selvaggi, un giorno, se fossero riusciti a buttar giú il suo negozio, lo avrebbero potuto cacciar via da quella casina dove stava tanto bene, caldo caldo, tra la moglie e la figliuola. Per quanto nel profetare l’ultima rovina si mostrasse pieno di fede, in fondo era pieno di terrore; perché si accorgeva purtroppo che il quartiere poco era invaso, divorato.
— Tutto questo sia detto per la verità, non mica per dissuaderti, — ripigliò poi, cercando d’essere calmo. — Se ti pare d’andarci, sarò il primo a dire: vacci!
— Lo so, lo so, zio! — mormorò Dionisia, stordita da quei discorsi, e, per quello stesso appassionarsi dello zio, piú che mai desiderosa di entrare nel Paradiso delle signore.
Lo zio, con i gomiti sulla tavola, non le levava gli occhi d’addosso:
— Ma, guardiamo; tu te ne intendi; dimmi un po’ se ti pare cosa ragionevole che un semplice magazzino di novità si metta a vendere di tutto. Tempo fa, quando il commercio si faceva onestamente, le «novità» non erano che i tessuti, niente altro che i tessuti. Oggi le «novità» non fan che cacciarsi in quel dei vicini, e ingoiarsi tutto... Di questo si lamenta il quartiere, perché le botteghe piccole non sanno come fare a reggersi, cominciano a patire davvero. Quel Mouret le manda in rovina... Vedi, il Bédone e la sua sorella, che hanno una bottega di cuffie e berrette in Via Gaillon, han perduta di già la metà degli avventori. Dalla Tatin, che ha un negozio di biancheria nella galleria Choiseul, son costretti a ribassare i prezzi, a fare a chi dà la roba per meno. E le conseguenze di questo flagello, di questa peste, si fan sentire fino in Via Nuova des Petits-Champs, dove sento bucinare che i fratelli Vanpouille, pellicciai, tra poco faranno il capitombolo... I merciai che si mettono a vendere le pellicce! Siamo giusti, si va nel grottesco! E anche questa è un’altra idea del Mouret.
— E i guanti? disse la signora. — Non è una cosa mostruosa? Ha avuto il coraggio di mettere una sezione per i guanti... Ieri, mentre passavo per Via Nuova Sant’Agostino, il Quinette era sull’uscio con un viso tanto triste, che non stetti nemmeno a domandare se gli affari andavano bene.
— E gli ombrelli? — rispose il Baudu. Gli ombrelli poi passano il limite! Il Bourras è convinto che il Mouret lo fa apposta per rovinar lui: mi domando io, che c’entrano gli ombrelli con le stoffe? Ma il Bourras è uomo che non si lascerà sgozzare. Un giorno o l’altro, si avrà da ridere!
Si mise a parlare d’altri negozianti, passando in rassegna tutto il quartiere. E cosí gli sfuggivano delle confessioni: se il Vinçard voleva vendere, significava ch’era finita: bisognava fare le valigie e andarsene, perché il Vinçard faceva come i topi, che quando la casa sta per crollare, se la danno a gambe. Poi, da un momento all’altro, si contradiceva, e almanaccava una grande lega tra i negozianti al minuto per combattere il colosso. Era un po’ che si teneva, per non parlar di sé, con le mani convulse, con la bocca contratta da un movimento di nervi. Finalmente si risolvette:
— Per me, io fino a qui non ho da lamentarmi troppo. Sicuro, dei torti me n’ha fatti quel brigante! Ma per ora non tiene che le stoffe da signora, le stoffe leggiere per vestiti, e le stoffe più forti da mantelli. Vengono sempre qui per comprare i panni da uomo, i velluti da caccia, le livree: per le flanelle e le felpe, non ce l’hanno mica là un assortimento come il mio!... Ma tenta di fare un ridosso, mi vuol fare arrabbiare con quella sezione dei panni che ha piantato proprio di faccia all’uscio mio. Vi ficca sempre i piú belli oggetti di moda, e li inquadra fra un monte di pezze di stoffa, una vera mostra da ciarlatano fatta apposta per accalappiare le baldracche. In parola d’onore, mi vergognerei a servirmi di quelle armi! Il Vecchio Elbeuf è conosciuto da quasi cent’anni, e non ha bisogno di mettere sull’uscio trappole per i gonzi. Finché sarò vivo io, la bottega resterà come l’ho avuta io, con quattro stoffe in vetrina tanto per mostra, due a destra, due a sinistra, e n’avanza!
Si sentivano commossi tutti. Genoveffa si arrischiò, dopo un poco, a rompere il silenzio:
— I nostri avventori ci voglion bene, babbo. Bisogna sperare... Anche oggi la signora Desforges e la signora De Boves son venute, e aspetto la signora Marty per certe flanelle.
— Io, — dichiarò il Colomban — ho avuto ieri una ordinazione dalla signora Bourdelais; è vero però che m’ha parlato d’una casimirra inglese che di faccia è messa in vendita a cinquanta centesimi meno, e pare che sia compagna alla nostra...
— E dire, — mormorò la signora Baudu con la sua voce stanca — che noi quella casa là l’abbiam vista grande come un fazzoletto! Già, Dionisia mia, quando i Deleuze la fondarono, non aveva che una vetrina su Via Nuova di Sant’Agostino, un vero armadio dove due pezze d’indiana contendevano il posto a tre pezze di bordato. La bottega era tanto stretta, che non ci si poteva rigirare... Allora Il Vecchio Elbeuf, che aveva già sessant’anni di vita, era proprio come ora... Tutto è cambiato, tutto è cambiato!
Scoteva la testa, e le parole lente raccontavano il dramma della sua vita. Nata nel Vecchio Elbeuf, ne amava perfino le pietre umide, non viveva che di quello e per quello, e, superba un tempo della casa ch’era la piú solida ed accreditata del quartiere, aveva avuto il tormento continuo di vedere dirimpetto crescere a poco a poco la casa rivale, da principio non curata e spregiata, poi emula, poi straripante e minacciosa. Era per lei una piaga sempre aperta; quella povera donna languiva ogni giorno piú della rovina del Vecchio Elbeuf, vivacchiando ancora per forza d’impulso, come una macchina caricata, ma consapevole di questo, che l’agonia della bottega sarebbe la sua, ch’ella morrebbe il giorno e nel punto in cui si sarebbero serrati gli sportelli per sempre.
Rimasero tutti zitti; il Baudu batteva con le dita il tamburo sull’incerato della tavola. Si sentiva stanco e quasi rammaricato d’essersi sfogato un’altra volta. E in quell’accasciamento, tutta la famiglia seguitava, senza guardarsi l’un l’altro, a riandare col pensiero i dispiaceri sofferti. Non avevano avuto mai un po’ di buon vento. I figliuoli erano stati già tirati su ed educati, l’agiatezza veniva, ed ecco la concorrenza, cosí d’un tratto, a rovinarli. E c’era anche la casa di Rambouillet, la villa dove da dieci anni il Baudu pensava di ritirarsi; un buon affare, diceva lui, ma in verità una bicocca ch’egli non finiva mai di restaurare, e che aveva dovuto dare in affitto senza che gl’inquilini gli pagassero un soldo.
I suoi guadagni, da un pezzo, andavano a finirla.
Non s’era levato che questo capriccio, nella sua onestà scrupolosa, nella sua probità di negoziante incocciato negli usi dei vecchi.
— Via! — disse a un tratto — bisogna lasciare il posto agli altri. Abbiam ciarlato abbastanza!
Parve che si svegliassero. La fiammella del gas sibilava nell’aria morta e calda del salottino. Tutti si alzarono di soprassalto, rompendo quel triste silenzio. Beppino dormiva tanto profondamente, che lo stesero sopra alcune pezze di felpa: Gianni, che sbadigliava, era già sull’uscio.
— E, per conchiudere, tu devi fare quel che ti pare e piace — ripeté il Baudu alla nipote — noi ti diciamo come stanno le cose... ma gli affari tuoi riguardano te!
La guardava fisso, insistente; aspettando un sí o un no. Dionisia, che quelle storie non avevan punto distolta dal proposito d’entrare nel Paradiso, si serbava nell’aspetto tranquilla e dolce, cocciuta in fondo come una vera normanna. Si contentò di rispondere:
— Si vedrà, zio.
E disse che voleva andare a letto presto, coi bambini, perché tutt’e tre erano stanchi morti. Ma sonavano le sei proprio allora, e lei volle restare un altro po’ in bottega. Si faceva piú buio: e la strada la ritrovò nera nera, bagnata da una pioggia fine e fitta, cominciata sul tramonto.
Fu una sorpresa; in pochi minuti la via s’era fatta tutta pozzanghere: nel mezzo vi scorrevano rigagnoli d’acqua giallastra, e i marciapiedi erano tutti un piaccichiccio; sotto la pioggia, non si vedeva piú se non un passare confuso di ombrelli aperti, che si urtavano, grandi ali cupe, nelle tenebre. Dionisia diè indietro infreddolita, col cuore stretto anche di piú dalla bottega mezzo buia, lugubre a quell’ora. Un soffio umido, l’alito del vecchio quartiere, saliva su dalla strada: pareva che lo sgocciolio degli ombrelli s’infiltrasse perfino dentro il negozio, e che il selciato con la sua melma e le sue pozzanghere entrasse a finir d’imputridire il pianterreno bianco di salnitro. Intravedeva tutta l’antica Parigi cosí bagnata dall’acqua, e si sentiva rabbrividire, meravigliando dolorosamente di trovare la grande città tanto gelida e brutta.
Ma dall’altra parte della strada il Paradiso delle signore accendeva le lunghe file delle sue siammelle a gas; e Dionisia, attratta di nuovo e quasi riscaldata da quella fonte di luce ardente, vi si ravvicinò. La macchina andava sempre rumorosa, sbuffando il vapore con un ultimo mugghio, mentre gli addetti alla vendita ripiegavano le stoffe, e i cassieri contavano gl’incassi. Attraverso i vetri annebbiati si vedeva come un pullulare vago di luce, si scorgeva confusamente quasi l’interno di un opificio. Dietro il velo della pioggia che seguitava a cadere, quell’apparizione lontana, incerta, prendeva l’aspetto gigantesco di una officina, dove, sul fuoco rosso delle caldaie, passassero le ombre nere dei fochisti. Le vetrine sparivano anch’esse; non si distingueva altro che il bianco delle trine, fatto piú vivo dalle campane lucide di una fila di lumi a gas: e su quello sfondo da cappella le stoffe risaltavano: e il mantello di velluto, guarnito di volpe argentata, sembrava uno svelto profilo di donna senza testa che sotto la pioggia corresse a una festa, nell’ignoto delle tenebre di Parigi.
Dionisia, cedendo all’allettamento, s’era fatta sull’uscio, senza curarsi delle gocciole che la bagnavano rimbalzandole addosso. Il Paradiso delle signore, a quell’ora tarda, col suo splendore da fornace, la conquistava. Nella grande città, nera e muta sotto la pioggia, sembrava un faro, che unico ne conservasse la luce e la vita. Dionisia andava fantasticando del suo avvenire; desiderava lavoro, per tirare su i ragazzi: ed altre cose ancora, senza sapere né che né come, cose lontane che la facevan tremare di desiderio e di timore. Ripensò a quella donna morta nei fondamenti, ed ebbe paura; le parve che i lumi gemessero sangue; ma subito il candore delle trine la calmò, ed una speranza, una certezza di pace gioconda le saliva al cuore, mentre il polviscolo dell’acqua le rinfrescava le mani e calmava in lei la febbre del viaggio.
— Guarda il Bourras! — disse una voce dietro le sue spalle.
Si chinò innanzi, e vide il negoziante della mattina, immobile in capo alla strada, davanti la vetrina dove anch’essa aveva ammirata quella ingegnosa mostra di mazze e di ombrelli. Il vecchione dalla testa di profeta s’era chetamente inoltrato fin là, nell’ombra, per empiersi gli occhi di quell’apparato trionfale. Non sentiva neppure, tanto era afflitto, l’acqua che gli pioveva sul capo scoperto e che gli scorreva giú dai capelli bianchi.
— È una sciocchezza!, piglierà un malanno! — soggiunse la voce.
Allora, voltandosi, Dionisia si accorse che aveva ancora i Baudu accanto. Per quanto non volessero, anche loro, come il Bourras cui davano dello sciocco, tornavano sempre lí, innanzi a quella mostra che spezzava loro il cuore. Ci soffrivano; ma non ne potevano far a meno, di quel soffrire. Genoveffa, pallidissima, s’era convinta ormai che il Colomban guardava le ombre delle ragazze passare sui cristalli del magazzino, e mentre il Baudu soffocava dalla stizza repressa, gli occhi della signora Baudu s’erano, in silenzio, riempiti di lacrime.
— Quanto si scommette che domani ci vai? — domandò alla fine il Baudu, tormentato dal dubbio e sentendo bene, d’altra parte, che la nipote era anche lei bell’e presa come le altre.
Dionisia esitò; poi con dolcezza:
— Sí, zio mio; se proprio non vi fa troppo dispiacere.