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il paradiso delle signore

quarantacinque anni. Era la signora Aurelia, un pezzo di donna, stretta nel vestito di seta nera, la cui vita, tesa sopra la rotondità massiccia delle spalle e del seno, luccicava come un’armatura. Sotto le bande di capelli nerissimi, aveva due occhioni immobili, la bocca severa, le gote larghe e un po’ cascanti: e nella maestà di direttrice il viso appariva gonfio come la maschera di gesso d’un Cesare.

— Signorina Vadon, diss’ella con voce stizzita — perché ieri non avete mandato al laboratorio il modello del mantello a vita?

— C’era una correzione da fare, signora, — rispose la ragazza — e l’ha la signora Frédéric.

Allora la Frédéric trasse da un armadio il modello, e le scuse seguitarono. Tutti piegavano la testa davanti alla signora Aurelia, ogni volta che ella credesse di avere a difendere la sua autorità. Vanitosissima al punto di non voler essere chiamata col cognome di Lhomme che le dava noia, e di rinnegare lo sgabuzzino del portinaio, autore dei suoi giorni, di cui parlava come d’un sarto che tenesse bottega, non era buona che con le ragazze le quali sapevano cedere a tempo e prostrarsi ammirandola. Anni innanzi, nel negozio di mode che aveva voluto mettere su per suo proprio conto, s’era inasprita, sotto i colpi della fortuna, furibonda di sentirsi nata per essere ricca e di non riescire a nulla: ed anche ora, per quanto nel Paradiso delle signore guadagnasse dodicimila franchi l’anno, pareva che ce l’avesse con tutti, ed era dura coi principianti, come la vita era stata dura, da principio, contro di lei.

— Basta, basta! disse seccamente. — Anche voi, signora Frédéric, siete come tutte le


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