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zola

gente ch’è a tavola e non vuole stringersi per far posto agli affamati. L’imbarazzo le crebbe Traversò a piccoli passi la stanza e si affacciò alla finestra, tanto per avere il tempo di rimettersi e non farsi scorgere. Di fronte, il Vecchio Elbeuf, con la facciata ingiallita e le vetrine morte, le parve cosí brutto, cosí sciagurato, visto a quel modo tra il lusso e la vita dove si trovava, che una specie di rimorso le strinse di piú il cuore.

— Avete visto che stivaletti ha? — sussurrava la grande Prunaire alla piccola Vadon.

— E che vestito! — mormorava l’altra.

Con gli occhi fissi sulla strada, Dionisia sentiva che se la divoravano, ma non ne fu offesa. L’una e l’altra le erano sembrate brutte, tanto quella grande col suo chignon di capelli rossi che le cadevano sul collo da cavallo, quanto quella piccola, col suo colore di latte cagliato, che le faceva ancora piú cascante la faccia schiacciata e quasi senza ossi. Clara Prunaire, figlia di uno zoccolaio dei boschi di Givet, corrotta dai camerieri nel castello di Mareuil quando la contessa la teneva in casa per i rammendi, era venuta da un magazzino di Langres e si vendicava a Parigi, sugli uomini, delle pedate con le quali il babbo l’aveva coperta di lividi. Margherita Vadon, nata a Grenoble, dove la sua famiglia commerciava in tele, aveva dovuto rifugiarsi nel Paradiso delle signore per nascondere un peccato di gioventú, un bambino natole per caso; e si portava benissimo, perché doveva tornare laggiú a dirigere la bottega dei genitori e sposare un cugino che l’aspettava.

— Uhm! — ripigliò a voce bassa Clara — quella lí non conterà molto qui!

Ma si chetarono: entrava una donna di circa


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