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galanteria. L’aveva trattata da ragazzuccia: ora, con quanta piú amabilità poté, la fermò, e:

— No! per di qua, signorina... Se vuole darsi l’incomodo...

Fece anzi qualche passo innanzi a lei, la condusse a piè della scala ch’era a sinistra sotto la galleria, e giunto lí, la salutò sorridendo come sorrideva a tutte le donne:

— Giunta in cima, giri a sinistra... In faccia ci sono le manifatture.

Questa cortesia commosse profondamente Dionisia. Era quello un soccorso quasi fraterno.

Aveva alzati gli occhi e guardava l’Hutin; e ogni cosa di lui la commoveva: il viso grazioso, gli occhi che col loro sorriso la confortavano, la voce che le pareva dolcissima. Le si gonfiò il cuore di gratitudine; e nelle poche parole che riuscí a dire gli diede la sua amicizia:

— Non s’incomodi... Lei è troppo buono... mille grazie, signore!

E l’Hutin era già accanto al Favier e gli diceva con la sua voce cruda:

— Hai visto, eh? Non ha che la carcassa!

In cima, Dionisia cadde proprio in mezzo alla sezione delle manifatture. Era una stanza grande, circondata da alti armadi di quercia scolpita e con le vetrate su Via della Michodière. Cinque o sei donne, vestite di seta, civettescamente pettinate a riccioli, e con le crinoline ben rigonfie dietro, si movevano chiacchierando. Una, grande e sottile, con la testa troppo lunga e con un certo modo di fare da cavallo scappato, s’era appoggiata a un armadio, come se già, dalla stanchezza, non ne potesse piú.

— La signora Aurelia? — ripeté Dionisia.

La ragazza la guardò senza rispondere, con


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